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Autore: Imperfectworld01    07/01/2022    1 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Trentuno.


Restare a casa di Irene fu terapeutico molto più di quello che mi sarei aspettata. Fino a quel momento non avevamo avuto mai troppo tempo a disposizione da trascorrere insieme, ed era davvero ciò di cui avevo bisogno: staccare da tutto, scherzare e fare un po' la stupida, distrarmi.

Approfittando del fatto che quel pomeriggio sia i genitori di Irene, sia sua sorella e suo fratello non erano in casa, Irene prese da uno scaffale del salotto uno dei cento o più dischi in vinile di suo padre e lo inserì nel giradischi posizionato di fianco al televisore. Ne selezionò uno dei Beatles e regolò il volume al massimo.

Poi chiuse tutte le finestre e tirò giù le tapparelle, lasciando solo accesa un'abatjour dalla luce tenue e soffusa, in modo tale da dare l'impressione che ci trovassimo in una discoteca.

E infatti non appena iniziò il primo brano, iniziammo a scatenarci come delle pazze.

Poi domandai a Irene se le andasse di vedere la parte di coreografia che avevo imparato a danza qualche giorno prima e, anche se chiaramente il ritmo dolce e lento di Here Comes The Sun stonava parecchio con quello più incalzante e rapido della coreografia, ma al momento non importava a nessuna delle due.

A un certo punto inciampai sul tappeto del salotto mentre facevo una piroetta e scivolai a terra come una pera cotta, causando delle grassi risate in Irene.

Più tardi il resto dei familiari della mia amica tornò a casa, e Irene si affrettò subito a mettere subito il disco a posto con cura.

Suo padre, appassionato di musica di ogni tipo, teneva molto alla sua enorme collezione di dischi e aveva paura che la figlia li rovinasse maneggiandoli con poca premura. Del resto anche Irene non lasciava nessuno avvicinare al suo pianoforte, appoggiato alla parete di fianco al divano.

Era bello che padre e figlia condividessero la stessa passione.

Una cosa che io non avevo mai sperimentato né allora né avrei fatto in futuro.

Comunque i genitori di Irene si rivelarono molto gentili e ospitali, proprio come la figlia. Sua sorella, Letizia, era molto calma e protettiva con Irene, tutto il contrario di Benedetta; quanto a Stefano, suo fratello, sembrava molto timido e riservato, e mi ricordò un po' Vittorio.

A modo loro, riuscirono tutti a farmi sentire a mio agio e a cena, una volta superato lo scoglio iniziale di timidezza, non mi sentii in imbarazzo, bensì riuscii a dialogare con ciascuno di loro senza vergogna.

Erano una famiglia molto alla mano, ed era bello che fossero così uniti. Eppure una parte di me non riuscì a evitare di provare un poco d'invidia nei confronti di Irene e della sua splendida famiglia. Era la rappresentazione di ciò che avevo sempre desiderato e non avevo mai avuto.

Per un po' avevo pensato che il mio fosse solo un sogno irrealizzabile e che non esistesse davvero la famiglia del Mulino Bianco nella vita reale. Ed era vero, non esisteva, ma la famiglia di Irene ci si avvicinava parecchio, perciò non era neanche così impossibile.

Dopodiché io e Irene ci preparammo per andare a dormire. Mi prestò un suo pigiama, che mi stava un pochino corto e mi lasciava scoperte caviglie e polsi, ma era anche l'unica alternativa che avevo: come lei, anche sua sorella e sua madre erano di bassa statura, perciò anche se mi avesse prestato uno dei loro pigiami sarebbe cambiato ben poco.

Proprio come me e Benedetta, anche Irene divideva la cameretta con sua sorella maggiore, mentre Stefano aveva una stanza tutta sua. Tuttavia, quella sera il fratello di Irene sarebbe uscito a fare serata a Pavia insieme ai suoi amici e alla sua fidanzata, e sarebbe tornato ormai a mattina inoltrata. In questo modo, Letizia avrebbe dormito nella stanza del fratello, mentre io e Irene saremmo state insieme nella camera delle due sorelle "senza altre intromissioni", come disse la mia amica.

Infatti, se Letizia a me pareva come un'ottima sorella, premurosa e affettuosa con la più piccola della famiglia, Irene spesso la giudicava troppo appiccicosa e pressante, ed era lieta di poter avere un po' di tregua per una sera.

Io e Irene ci mettemmo a letto una volta dopo esserci sistemate per la notte, ma inutile dire che non chiudemmo occhio quasi per tutto il tempo, trascorrendo l'intera notte in bianco per parlare, ridere e spettegolare.

L'indomani mi svegliai distrutta, ma ne era valsa assolutamente la pena, perché non ero mai stata meglio come in quella giornata, non subito dopo essere stata così tanto male.

Per non disturbare ulteriormente Irene e i suoi, i quali non si erano lamentati ma certamente erano rimasti svegli a sentire i nostri schiamazzi durante tutta la notte, lasciai casa della mia amica il prima possibile dopo essermi svegliata, evitando perfino di fare colazione al contrario di ciò che mi ero prefissata il giorno precedente.

In fondo sarei arrivata in pochi minuti a casa e avrei potuto fare lì colazione con la mia famiglia, anche perché era il compleanno di mia sorella.

Ringraziai Irene e mi diressi a casa.

*

Non appena aprii la porta d'ingresso, quella palla di pelo arancione si diresse verso di me e iniziò a strusciarsi contro le mie caviglie. Se un tempo avrei voluto calciarlo e allontanarlo da me, quella volta mi chinai a terra per prenderlo in braccio. «Anche tu hai fame, vero, brutto bestione?» gli domandai, prima di dirigermi in cucina.

Nel mentre che metto la moka sul fuoco, gli darò da mangiare, mi dissi. I miei piani però subirono una variazione nel momento in cui in cucina, seduto al posto in cui di solito sedevo io, vidi il biondino, con la testa chinata sul tavolo e intento a bersi una tazza di tè.

Ci voleva poco affinché facessi cadere il gatto a terra per la sorpresa, ma fortunatamente riuscii a evitare che accadesse.

Non potevo fare a meno di chiedermi se Filippo fosse lì soltanto perché Vittorio l'aveva invitato oppure se si fosse presentato di sua iniziativa per via di suo padre.

Appoggiai il gatto a terra e poi mi schiarii la voce per farmi notare, dato che era così assorto nei suoi pensieri da non accorgersi della mia presenza.

Sussultò in un primo momento e poi sollevò il capo. Spalancai la bocca e rabbrividii non appena vidi che aveva il labbro spaccato e un livido sulla tempia. Non l'avevo mai visto ridotto così, e in realtà non avrei dovuto stupirmi, dato che era coerente con ciò che mi aveva raccontato... eppure una parte di me aveva sempre ingenuamente creduto che se non avessi mai visto le prove di quella immonda realtà in cui viveva, allora ciò l'avrebbe resa meno vera, meno reale.

«Ehilà, Mercoledì Addams» mi salutò, annunciandomi che in quei giorni in cui non ci eravamo visti, aveva a quanto pare trovato un altro soprannome da affibbiarmi.

Rimasi in silenzio a fissarlo, ancora terrorizzata per la scena che mi trovavo davanti.

«Allora?! Che è quella faccia da cadavere? Ti ci ha soprannominato Vittorio così, giuro, e in effetti un po' ti si addice. Dai, vieni a salutarmi» mi esortò con un sorriso che a me sembrò più che forzato, nascondendo tra l'altro una smorfia di dolore. Ma io non mossi un solo passo verso di lui. A quel punto, un po' spazientito, si alzò in piedi, girò l'angolo del tavolo e si posizionò davanti a me.

Il mio cuore non voleva smettere di battere all'impazzata, e inoltre non riuscivo a distogliere lo sguardo dalle sue ferite.

Aspettava che gli dessi un bacio sulla guancia, dato che non era ovviamente il caso che lo facesse lui e, dopo molti attimi di titubanza, alla fine mi avvicinai per accontentarlo, solo che sfiorai appena la sua pelle con le mie labbra, e mi ritrassi in fretta.

Corrucciò la fronte, probabilmente non capiva perché mi stessi comportando in modo più strano del normale, ma la verità era che non lo sapevo nemmeno io. Comunque dopo pochi attimi uscì dalla cucina e lo vidi sparire in camera di Vittorio, eppure a giudicare dalla tazza di tè ancora fumante e piena quasi fino all'orlo, non poteva aver già finito di fare colazione.

Nel frattempo che cercavo di capire cosa avesse in mente di fare, mi accorsi invece che a me la fame era passata, eppure sentivo lo stesso una specie di vuoto allo stomaco.

Dopo qualche secondo, Filippo ritornò in cucina con un sacchetto di carta marrone fra le mani, e me lo porse: «Un regalo per te, mia piccola Jo March» disse, e io lo fissai sempre più confusa. Storsi il naso, non cogliendo il riferimento, né capendo il motivo di tutti quei nomignoli.

Alla fine decisi di prendere il sacchetto e di tirarne fuori il contenuto. Era un libro piuttosto massiccio, un po' rovinato sui lati e dalla copertina sbiadita e un po' polverosa, dal titolo: "Piccole donne e piccole donne crescono". Tornai a guardare Filippo, nella speranza che mi desse dei chiarimenti.

«È un'edizione vecchissima, ora li vendono divisi in due volumi» spiegò.

«Non dovevi... ti rido i soldi» dissi prontamente, perché non potevo accettare che mi avesse comprato un libro, per di più un'edizione vecchia, che doveva quindi essere più rara e più costosa.

«Non ho speso un centesimo» mi rassicurò. «Ce l'avevo in soffitta, apparteneva a mia nonna, credo. E ho pensato che potesse piacerti, capirai il perché.»

«Comunque ho già letto piccole donne. Be', era una versione riadattata per l'infanzia perché l'ho letto a nove anni, ma qualcosa dovrei ricordarmi...»

«I classici riadattati per bambini fanno pena, lo sanno tutti» mi interruppe. «Questo l'avevo letto qualche anno fa, e ieri mentre mi nascondevo me lo sono trovato a portata di mano e subito mi sono ricordato e poi ho pensato a te.»

Rabbrividii nel sentire le parole «mentre mi nascondevo», specie a causa della tranquillità con cui lo disse.

«Grazie, grazie, veramente!» esclamai, ed ero davvero al settimo cielo. Avrei voluto ringraziarlo più che a parole, ma non avrei saputo in che altro modo ricambiare il favore.

Per me contava davvero tanto quel gesto.

Quella volta dopo il pomeriggio al Parco Sempione in cui ci eravamo fermati a parlare solo io e lui, gli avevo rivelato di quanto mi piacesse leggere sebbene non lo facessi tanto, e lui mi aveva ascoltata mentre gliene parlavo, ma ascoltata per davvero: mi aveva presa così alla lettera che alla prima occasione mi aveva portato un libro da leggere! E a quanto pare non l'aveva scelto in maniera casuale, ma appositamente per me.

Cioè, probabilmente ha pensato potesse piacermi per una delle sue goliardate e sarà quindi tutta una presa in giro, mi dissi in un primo momento per evitare di ingigantire tutto, in fondo era sempre Filippo e non dovevo aspettarmi chissà che da lui... ma era così serio mentre me l'aveva detto che in realtà forse era davvero così come diceva lui. Avrei solo dovuto leggerlo e terminarlo per scoprire la verità.

«E comunque dovevo trovare un modo per farmi perdonare per aver esagerato l'altra volta» disse a un certo punto.

Appoggiai per un momento il libro sul tavolo della cucina e incrociai le braccia al petto: «Ah, wow, finalmente ti scusi per qualcosa» gli feci notare, simulando un applauso.

«Quando sbaglio io mi scuso io. Ma tu, cara mia, pur essendo una donnina, sei quasi sempre nel torto quando si tratta di una questione fra me e te!» ribatté, battendomi un dito sulla fronte per un paio di volte, prima di prendere la sua tazza di tè e uscire di nuovo dalla cucina, privandomi della possibilità di rispondergli a tono.

In realtà avrei potuto inseguirlo e dirgli la mia, ma a quel punto sarebbe degenerato tutto in un'altra discussione, e io non ne avevo voglia.

Ero troppo di buon umore quella mattina per farmi rovinare la giornata da lui o da chiunque altro.

*

Filippo andò via dopo pranzo, sebbene sia Vittorio sia Claudio e mia madre insistettero per farlo rimanere più a lungo. E forse nemmeno a me sarebbe dispiaciuto più di tanto se avesse prolungato la sua presenza da noi. Tuttavia, lui insistette che doveva andare a fare la spesa e che inoltre non voleva disturbare durante il giorno del compleanno di mia sorella, senza sapere che in realtà era un giorno come gli altri.

A Benedetta infatti non importava nulla di festeggiare, da sempre era stato così; avrebbe voluto passare quel giorno insieme a Maurizio, ma ovviamente non era possibile, quindi si sarebbe dovuta accontentare della nostra compagnia.

Quella sera saremmo andati a cena al ristorante su proposta di mia madre, che non poteva accettare che sua figlia si rinchiudesse in casa il giorno del suo diciottesimo compleanno.

Mi chiesi che cosa stesse provando mia madre durante quella giornata. Chissà che cosa significava per lei vedere sua figlia, la sua primogenita, diventare maggiorenne. Continuava a dire che era accaduto troppo in fretta e che ogni volta che la guardava la vedeva gattonare in giro per la casa oppure mangiare le pappe (e lanciarle contro il muro perché difficilmente erano di suo gusto) oppure ancora, quando la vedeva sorridere, le pareva quasi di vedere tutti i denti mancanti a differenza dei due incisivi superiori.

Inoltre, per mia mamma suonava strano considerare Benedetta maggiorenne a soli diciotto anni: ai suoi tempi, e fino al 1975, si diveniva maggiorenni solo al compimento del ventunesimo anno di età. Era un bel cambiamento.

Mentre io e mia sorella ci ritirammo in camera dopo aver finito di lavare i piatti, trovai finalmente il coraggio di porle una domanda importante, e sapevo con certezza che lei avrebbe saputo rispondermi. «Benni» richiamai la sua attenzione, e lei si mise seduta sul bordo del letto, di fronte a me. «Tu lo sapevi? Che papà ha sempre tradito la mamma?» domandai, deglutendo subito dopo.

Benedetta rimase sorpresa in un primo momento, ma evitò comunque di chiedermi come lo avessi saputo. In fondo le avevo detto del mio piano di andare a trovare nostro padre, da lì non ci voleva molto a fare due più due. «Per questo ti avevo detto che non dovevi andarci» mi disse con tono di rimprovero, prima di sospirare e poi fornire maggiori dettagli: «Lo sai che dopo la strage di Piazza Fontana la mamma è stata tanto male, no? E che inoltre papà lavorava lì vicino, in Via Clemente? Ecco, la verità è che la mamma non è stata depressa per mesi e mesi per via del terrore di ciò che era avvenuto, ma per il fatto che papà, una volta tornato a casa, anche più tardi del solito, non ne avesse avuto alcuna notizia... e lui lavorava lì a due passi! E comunque tutti i telegiornali e le radio e qualsiasi altro mezzo di comunicazione non facevano che annunciarlo ovunque. Quindi, lui dov'era mentre succedeva?».

Da lì nostra madre iniziò a essere sempre più sospettosa e insofferente nei confronti di nostro padre, ci era stata malissimo, tanto da chiudersi in casa per mesi interi. Finché una sera, durante una discussione, nostro padre non ammise finalmente la verità, ovvero che c'era un'altra donna nella sua vita, e Benedetta sentì tutto origliando da dietro una porta.

«La mamma cadde in depressione, voleva lasciarlo dopo ciò che aveva fatto, ma nessuna legge lo consentiva e non sapeva dove andare né cosa fare; non aveva un lavoro; non poteva andare dai nonni perché avrebbero trovato il modo di dare la colpa a lei di tutto come sempre, e poi era frenata dal fatto che volesse il meglio per me e te, non voleva essere egoista pensando solo a se stessa e alla sua felicità. E noi stravedevamo per papà, forse più di quanto stravedevamo per lei.
Lo stesso in fondo valeva per papà, anche lui teneva a noi, o almeno così diceva, perciò decisero di riprovarci per qualche tempo, finché la mamma non scoprì che c'era anche un'altra figlia, che aveva avuto prima di te. E lì le cose si ruppero definitivamente fra i due.»

Avevo gli occhi lucidi ed ero a corto di fiato.
Per tutti quegli anni ero stata all'oscuro di quella verità, che mi era stata nascosta forse per proteggermi, ma in realtà mi aveva solo fatto stare peggio, perché non ero mai riuscita a darmi pace fino a quel momento.

Avrei voluto saperlo e avrei voluto saperlo da Benedetta e da mia madre, invece l'avevo scoperto nel peggiore dei modi: vedendo la realtà venirmi sbattuta crudelmente in faccia davanti ai miei occhi increduli.

E poi per mesi una parte di me aveva incolpato mia madre per essersi subito rifatta una vita una volta dopo aver conosciuto Claudio, fregandosene di me e Benedetta.

Ma le cose non erano andate affatto così: avrebbe potuto scappare molti anni prima, dopo aver scoperto il segreto di nostro padre, ma non l'aveva fatto a causa delle sue figlie. Aveva messo noi al primo posto, per anni e anni, finché finalmente un giorno, all'incirca quattro anni prima, aveva finalmente conosciuto un uomo degno di lei e gli aveva dato una possibilità, e adesso era felice.

Lo vedevo dalla luce che risplendeva nei suoi occhi verdi e cristallini, e che per diverso tempo erano stati bui e spenti.

Non sapevo come sentirmi in quel momento. Una parte di me stava ancora elaborando quelle informazioni, l'altra era quasi in lutto, un'altra ancora era in uno strano stato di pacifica serenità: finalmente avevo trovato il tassello mancante del puzzle, avevo tutte le risposte che per anni avevo cercato e che mi avevano fatta sentire incompleta.

Eppure perché mi sentivo ancora quella sensazione di vuoto allo stomaco? Perché dentro di me sentivo che mancasse ancora qualcosa?

 

   
 
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