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Autore: Il_Signore_Oscuro    15/01/2022    1 recensioni
"Nelle complesse fila che compongono la Trama e la storia del mondo, esiste un'unica costante che - col volgere delle epoche - si ripete, pur con esiti diversi.
L'Ikvalibriam, la battaglia dell'equilibrio, è lo scontro finale fra il Bene e il Male reincarnato. Una battaglia in cui regni, nazioni, imperi si schierani in favore dell'uno o dell'altro.
Nella notte che precede l'ultimo di questi Ikvalibriam, Kudai viene convocato dalla Sua Signora. E scoprirà di rivestire nella Trama un ruolo molto più importante di quanto non abbia mai creduto..."
Se siete alla ricerca di un'epica saga fantasy d'ampio respiro, questa è la storia che fa per voi. Epiche battaglie, personaggi complessi e ricchi di fascino, ambientazioni magiche. Se per un attimo vuoi evadere dal mondo e dalle sue brutture, dammi la mano e segui con me questo viaggio...
[Aggiornamento: ogni domenica]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO IV


 
Astoria bevve il succo di mirtillo in un singolo sorso. Il sapore asprigno della bevanda le pizzicò il palato, prima di scendere con un retrogusto stucchevole lungo la gola.
«Stamattina Anidai è passato a prendere la sua colazione. Certo ne sarà contento, anche se proprio non immagino dov’è che va a nascondersi per mangiarla, tutte le volte.» Disse Roma, togliendole il bicchiere appena vuotato e infilandolo in un catino ricolmo d’acqua.
Astoria fece spallucce, coprendo con la mano un lungo e profondo sbadiglio. Il sonno non l’aveva ancora lasciata del tutto, nonostante si fosse svegliata ben dopo l’alba. Si sarebbe volentieri rintanata fra le coperte, ma avrebbe voluto dire restare stordita per tutto il pomeriggio: qualcosa che non poteva permettersi, soprattutto in vista del servizio serale in locanda.        
Allungò una mano verso una delle focaccine, ancora fumanti sul bordo del tavolo, e se la infilò in bocca, mangiandola a gran bocconi.
Il sapore era fragrante, nessuno cucinava come sua madre in tutta Fonderadici.       
Roma – o per i più, Donna Roma – viaggiava ormai sulla quarantina. Come la gran parte della gente del villaggio, aveva in sé i tratti tipici di una Alicanti: pelle olivastra come brunita dal sole, lineamenti morbidi e intensi occhi scuri, che in giovinezza dovevano aver catturato lo sguardo di molti uomini. I capelli neri, striati dal primo grigio, erano raccolti sotto una cuffia di lino bianco.
«Tutto bene ieri sera?» Le chiese ad un tratto sua madre, con due piccole fossette a solcarle le guance.           
Astoria fece un pigro cenno d’assenso, deglutendo il boccone «serata impegnativa. C’era tanta di quella gente…» sbarrò gli occhi «oh, non crederai a cosa ho sentito: il Gilmorgen finalmente si è risvegliato!»
Roma chiuse le dita in un pugno, baciò indice e pollice, per poi levare appena la mano in un gesto di ossequio.        
«Sempre sia benedetto, che bella notizia!» Una breve ombra le corrugò la fronte «ora capisco, però, perché Ani sembrava così turbato. Dalle sue parti ci tengono parecchio. Oh, pover’uomo,» sospirò Roma «deve mancargli molto la sua terra.»      
Astoria fece un cenno d’assenso. Non era necessario parlare a sua madre della conversazione dell’altra sera, probabilmente l’avrebbe rimproverata per essere stata tanto invadente.  
«Non lo so, mi ha sempre dato l’impressione di avere ottimi motivi per stare lontano da casa… comunque, dov’è papà? Non l’ho visto in giro.»          
Roma si portò le mani ai fianchi.     
«Chiuso nel suo laboratorio come al solito. La figlioletta di Padron Ramès smaniava per un nuovo balocco e tuo padre si è ovviamente offerto di fabbricargliene uno.» Roma sospirò, scuotendo debolmente il capo. «Vorrei si dedicasse a qualcosa di più remunerativo: se tua nonna era ancora viva gliene diceva quattro. Ma a me, ahimè, non dà ascolto.»  
Astoria non riuscì a contenersi dal ridere.    
«Madre, lo sai che ha avuto sempre un debole per i bambini. Non appena vede un paio di occhioni tristi, non riesce a trattenersi. È più forte di lui.»       
«Non me lo dire. Sarà tuo padre, ma sono io ad averlo sposato. È una battaglia persa.» Replicò lei, alzando gli occhi al cielo e prendendo a pulire le stoviglie nel catino.         
Astoria strinse fra i denti un’altra focaccina e si alzò in piedi, pulendosi le mani sulla tunica da notte.  
«Dove vai, figlia mia?»        
«Esco per delle commissioni, madre. Oggi c’è il mercato. Serve qualcosa?»
 
Stava ancora ripetendo mentalmente le istruzioni di sua madre, quando fece capolino nel laboratorio di suo padre. Una piccola baracca discosta alcuni metri da casa, nel cortile. Quel luogo, quand’era bambina, era stato la fucina in cui veniva forgiata ogni meraviglia che la sua fantasia sapeva inventare. Sulle mensole alle pareti, ogni razza di volatile era stata riprodotta con fedeltà assoluta: il becco piccolo e ricurvo di un falco, l’ingobbirsi ombroso di un corvo, e la dolce irrilevanza di un pettirosso.     
Da bambina le era sufficiente parlare, perché ogni suo sogno divenisse una realtà di legno, pigmenti e giunture: un drago dalle scaglie in corteccia bianca e gli occhi di resina, che aveva popolato i suoi incubi infantili, giaceva impolverato in un angolo; fanciulle dal viso senza occhi, né bocca, né naso, vestite di fiori intagliati e col petto marcato di pigmenti rossi ed arancio, pendevano a mezz’aria su fili invisibili; possenti guerrieri dalle armature che parevano fatte con gusci di molluschi e crostacei innalzavano lance coperte di alghe e coralli.        
Ma il suo balocco preferito era lì: sul banco di lavoro a cui suo padre sedeva ricurvo. Astoria lo aveva veduto in un sogno e l’aveva descritto al genitore con la voce, con gli occhi, col cuore gonfio di meraviglia. Aveva usato parole che una bambina era difficile conoscesse.     
“Padre, il suo viso è un seme sbrecciato in alto e integro in basso; ha un unico occhio che luccica come fuoco di candela. Il suo petto è un groviglio di rovi neri. Le sue mani sono fronde e spine. Le sue gambe sono un intrico di radici.”   
Il mio cavaliere di spine.
Così l’aveva chiamato. Provò un piccolo tuffo al cuore nel rivederlo lì. Era ancora lucido e bello come lo ricordava.       
Suo padre ci aveva lavorato instancabilmente, per sette giorni e sette notti e lei non era mai stata così felice di un suo regalo.     
Astoria sorrise nel ricordare la faccia stanca del genitore, quando le aveva offerto il balocco e lei lo aveva abbracciato forte-forte con le sue braccia di bambina. Non si era neanche resa conto di sua madre che sbiancava, di fronte all’ennesimo orrore di cui non le riusciva di intendere il fascino.           
«Ti piace davvero quel coso?!» Aveva chiesto Roma, con la voce rauca per l’incredulità.      
Astoria le aveva tenuto il broncio per giorni. Nessuno doveva permettersi d’insultare il suo bellissimo Cavaliere di Spine!  
I ricordi le liberarono in petto una scarica di calore, che Astoria sfogò abbracciando suo padre dalle spalle. Gli baciò una guancia, morbida come cuoio invecchiato.   
Lui sussultò un poco “non si è neanche accorto che ero entrata.”
«Oh, ciao bambina mia.» Disse Avel, dissimulando lo spavento con una carezza sulla guancia, data di dorso per non impolverarla di segatura. 
Avel, come sua moglie Roma, aveva i tratti tipici Alicanti. Tuttavia i suoi lineamenti erano più affilati: il naso lungo, come il becco d’un avvoltoio, spiccava da zigomi evidenti, sotto la pelle tirata delle guance. I suoi occhi, sotto le folte sopracciglia arcuate e l’aggrinzita stempiatura, erano limpidi e guardavano lontano, castani come quelli della sua unica figlia.          
«A cosa lavori, padre?» Domandò Astoria, osservando la figurina di legno che prendeva forma sotto le mani esperte di Avel.  
«La dolce Clotine smaniava per una bambola unica nel suo genere. Proprio ieri il buon padron Ramès me ne parlava, poverello, non sapeva come far felice la figliola.» Si schiarì la voce, con un verso buffo. «E allora io gli ho detto: ci penso io, mio buon Ramès. Che la tua figliola una bambola come la mia non la vedrà mai altrove. E allora eccola qui, una damina elfica con un abito a balze di foglie; un occhio di resina e uno di ossidiana.»
«Sono certa se ne innamorerà al primo sguardo, padre.» Sorrise Astoria, provando a immaginare i tratti elfici in quell’ovale di legno alla prima bozza.     
«Lo spero, figlia mia… anche se nulla sarà mai bello come ciò che usciva fuori da quella tua testolina, che-che ne borbottava tua madre.»    
Astoria lo abbracciò forte, posandogli il mento sul capo.      
«Quando avrò dei bambini, non temere… vedrai che ti chiederanno balocchi ancora più assurdi dei miei.»        
Lui sollevò le sopracciglia «lo credo e ci spero! Ah, dovevi proprio diventar grande, bambina mia?»         
«Tocca a tutti, padre.» Gli stampò un altro bacio, sulla guancia soffice. «Adesso vado, ero passata solo a vedere che combinavi.»
«Salutami Moris.» Disse lui, sghignazzando poco dopo.       
«Padre!» Lo rimproverò lei, con l’imbarazzo a levarle di un tono la voce. Ma lui già fischiettava fra sé, come chi fatta la burla poi faccia finta di non saperne nulla.
 
Astoria uscì per le vie di Fonderadici, immergendosi nel groviglio di umanità che già dal primo mattino affollava il borgo. Famiglie di villici, nei loro abiti migliori, portavano offerte di viveri, legno ed argento presso le facciate laterali del municipio, unico edificio in pietra di tutto il villaggio.           
Lungo le pareti         erano scavate nicchie, nelle quali erano inseriti i simulacri di molte divinità, locali e straniere. C’era Panaribu, dalla pelle di corteccia e la barba di fronde, che vegliava sulla macchia di salici a nord di Fonderadici; Resima, la prosperosa fanciulla che sovrintendeva ad ogni affare d’amore, lecito o meno che fosse; Nakfe, il grigio viandante protettore di mercanti, pellegrini e viaggiatori.
Tutti loro e molti altri potevano essere liberamente venerati nelle terre di Arcadia. Anche Gilmorgen aveva la sua effige, a stento visibile dietro gli innumerevoli doni: una figurina di falso oro, con le fattezze d’uno smilzo shinbu dal capo glabro e l’espressione serafica.         
Ma non per fare offerte agli dei, Astoria aveva lasciato l’uscio di casa. Bensì per il mercato che al termine d’ogni settimana affollava la piazza principale di Fonderadici. C’erano banchi di legno, vecchi carrocci itineranti dai tendaggi di mille colori, tappeti dalle stravaganti fantasie, sui quali erano disposti i prodotti più disparati ed esotici.
Pesci dalle armature d’osso giacevano con occhi vacui in bacinelle sotto sale, mentre un uomo dalla pelle verde e gli occhi d’ossidiana strillava per attirare gli avventori; due nani dalle barbe intrecciate contrattavano ferocemente su gemme preziose e statuette intagliate in pietra traslucida, con tale animo che pareva ne valesse della loro vita; un cupo elfo dalla pelle nera e gli occhi rossi, come stille di sangue, cercava di rifilare una casacca di cuoio finemente conciata ad un massiccio boscaiolo locale.          
Odori, tanfi e profumi dei quattro angoli del mondo avvolsero Astoria, come un’aria musicale.           
Sin da piccola quella varietà le aveva fatto brillare gli occhi, esplodere la mente come un fiore.
Ricordava ancora quando sgattaiolava dalla presa di suo padre e scivolava fra la gente, e poi – trovato un mercante – lo riempiva delle domande più svariate. 
L’età e gli scapaccioni l’avevano fatta più discreta, ma certo non meno affascinata dal piccolo scrigno di meraviglie che era il mercato di Fonderadici.
 
Astoria era quasi a metà delle sue commissioni, quando con la coda dell’occhio assistette ad una scena piuttosto curiosa. In uno spazio vuoto fra le baracche, il capitano Ygris era intento a discutere animosamente con qualcuno. Astoria si sporse quel poco per vedere di chi si trattasse. 
Era un mezz’uomo, le pareva di averlo intravisto nella locanda proprio l’altra sera. Calzava un cappello piumato sopra i riccioli biondo-ramato, il naso grosso e schiacciato era tempestato di lentiggini e un ventre pienotto premeva contro il panciotto di velluto bruno. Oltre i lembi della giacca, verde come pianta di palude, Astoria vide sporgere il pomo sferico di una semplice daga – nulla di poi così strano, i viaggiatori dovevano pur badare a loro stessi. Il mezz’uomo forse apparteneva ad una Gilda o qualcosa del genere, poiché sul petto sinistro del suo panciotto baluginava al sole un spilla circolare.   
La ragazza tentò di ascoltare, ma il brusio e il baccano tutto intorno glielo impedì.  
Il mezz’uomo cominciò a battere i piedi, gonfi come zampogne, sul terreno, la sua faccia si fece rossa per il livore, mentre stralci di parole a voce sempre più alta facevano breccia oltre i rumori della folla. A quel punto Ygris contrasse la bocca in una smorfia dura e la mano, guantata di acciaio, scivolò sull’elsa della spada.
Il mezz’uomo, da rosso che era, si fece bianco come un cencio e alzò i tacchi senza dire una parola. 
“Non vorrà diventare un mezzo mezz’uomo.” Pensò la ragazza, grufolando una risata, fra sé e sé, per la pessima battuta. 
«Ne hai di che ridere signorina, che per buona giustizia hanno cacciato quel farabutto.» Le disse l’uomo dalla pelle verde, con la confidenza che solo i mercanti sapevano prendersi.     
Astoria lo guardò con aria interrogativa. L’omone aveva spalle larghe e braccia nude. Un pizzetto scuro gli incorniciava la bocca.
Addosso aveva l’odore del sale.        
L’uomo mandò un’occhiata circospetta a destra e a manca, quasi avesse timore d’essere ascoltato.        
«Non è la prima volta che capita, signorina. Arcadia è una terra libera, ma in altri luoghi o con meno occhi intorno, vi posso assicurare che un Raggio non esita mettere una lama in pancia ad un Ithiano.» Sputò in terra, borbottando fra sé. «Manica di bastardi.»
«E perché dovrebbe farlo?» Chiese Astoria, pur non avendo la minima idea di che fosse un Raggio.
L’Ithiano sorrise amaramente. «È una lunga storia, signorina. Diciamo solo che la regina dell’Arcipelago del Tartaro non riscuote simpatia, in gente come quel mezz’uomo.» A quel punto il mercante agitò una delle sue manone, come per scacciare l’aria cattiva delle sue stesse parole. «Ma bando alle ciance, sei qui per comprare qualcosa?»       
Astoria ebbe appena il tempo di schiudere le labbra. Avrebbe voluto chiedere tante di quelle cose all’Ithiano: chi fosse questa fantomatica regina, chi fossero i Raggi e il motivo di tanto risentimento. Ma fu a quel punto che una mano le si posò sulla spalla sinistra, mentre alla sua destra risuonò una voce familiare.       
Non aveva bisogno di voltarsi per sapere di chi si trattasse. Era sufficiente quel tocco: dolce e caldo come velluto scaldato al sole.
Quel profumo di buono, che solleticava la punta del naso e invitava lo sguardo a seguirne la scia.           
Occhi d’un nocciola uniforme e un sorriso da furfante, sotto baffi ben impomatati. 
«Qualunque cosa prenda la signorina, pago io!»       
«Moris!» Esclamò la ragazza, senza riuscire a frenare né il sorriso ebete, né il calore che istantaneamente le arroventò le guance.
   
 
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