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Autore: Il_Signore_Oscuro    22/01/2022    1 recensioni
"Nelle complesse fila che compongono la Trama e la storia del mondo, esiste un'unica costante che - col volgere delle epoche - si ripete, pur con esiti diversi.
L'Ikvalibriam, la battaglia dell'equilibrio, è lo scontro finale fra il Bene e il Male reincarnato. Una battaglia in cui regni, nazioni, imperi si schierani in favore dell'uno o dell'altro.
Nella notte che precede l'ultimo di questi Ikvalibriam, Kudai viene convocato dalla Sua Signora. E scoprirà di rivestire nella Trama un ruolo molto più importante di quanto non abbia mai creduto..."
Se siete alla ricerca di un'epica saga fantasy d'ampio respiro, questa è la storia che fa per voi. Epiche battaglie, personaggi complessi e ricchi di fascino, ambientazioni magiche. Se per un attimo vuoi evadere dal mondo e dalle sue brutture, dammi la mano e segui con me questo viaggio...
[Aggiornamento: ogni domenica]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO V


 
Uscirono dal groviglio del mercato con le mani cariche di sacchi di iuta, in cui erano state infilate le mercanzie acquistate nel giro di un’ora. Ad attenderli, nei pressi di un pozzo, c’era un castrato dal manto color sabbia: i garetti e il crine erano pallidi come fieno al sole. L’animale era tenuto alla briglia dal galoppino di Moris. Un giovane dinoccolato, dai denti sporgenti e il viso infestato dai brufoli di una pubertà ai suoi esordi.    
Il ragazzo portava abiti di almeno una taglia più grande di lui. Una camicia color della pergamena e un paio di calzoni tenuti su’ da bretelle incrociate dietro la schiena.
«Timwul, ragazzo» lo richiamò Moris, alzando il braccio quel tanto che gli era consentito dai suoi fardelli «porta questa roba a casa di Mastro Avel e porgi a Donna Roma i miei saluti.»     
Affidati alle braccia del giovane i sacchi, Moris ebbe cura di foderargli le tasche con tre bei pezzi d’argento. Sussurrandogli,        con aria di intesa «se ti ci scappa uno spuntino in locanda, non fare complimenti.» Chiosò il suggerimento con un occhiolino.
Timwul, ali ai piedi, corse a svolgere il suo incarico: prima avesse finito, prima avrebbe potuto approfittare della gentile offerta del suo signore.          
«Grazie di tutto Moris. Per esserti offerto di pagare e per il facchinaggio.»
Disse Astoria, con un bel sorriso stampato in volto. 
«Adesso, però, sarà meglio che torni a casa. Mia madre mi vorrà di ritorno per l’ora di pranzo.» Ma nonostante le sue parole, non accennò a muovere un passo.
«Aspetta un po’, Astoria» le disse lui. «Perché non ci facciamo una passeggiata, io e te?»
«Mia madre si preoccuperà, non vedendomi tornare» rispose prontamente, inarcando un sopracciglio.    
«Sono certo Donna Roma non si darà pensiero, sapendoti con il sottoscritto.» Ribatté a tono Moris, prendendo una briglia e avvicinandole la cavalcatura.
Astoria infilò il piede nella staffa, issandosi.
«Oh, fossi in lei sarei terrorizzata, invece. Che il signor Moris sia uno sciupafemmine è risaputo in ogni angolo di Fonderadici.»
A quel punto salì sull’arcione anche lui.
«Non so chi vi abbia detto di queste sciocchezze,» rispose, continuando quel frivolo gioco «ma da quel che so io, che il signor Moris lo conosco bene da una vita, lui le donne non le sciupa affatto. Tutt’altro! Pare ne corteggi una che ne vale mille e più.»
Ciò detto, mandò il castrato al passo.
Astoria strinse le braccia intorno ai suoi fianchi, assaporando a pieno respiro il suo profumo, irruvidito dal sudore che il sole gli aveva spremuto fuori dalla pelle. Al suo naso ogni fragranza della sua carne sapeva di buono. E la rinfrancava, come un elisir che desse ubriachezza.
Si allontanarono dai confini della piazza centrale, immettendosi nella via principale, che dalla zona mercato si inoltrava per le frontiere orientali del borgo. Sulla strada di acciottolato gli zoccoli del cavallo risuonavano con un secco clop-clop.
«Lo sapevi? Mio padre sta fabbricando una bambola per la tua sorellina Clotine. L’ho visto all’opera proprio stamane.» La buttò lì, Astoria.
«Una bambola?» Ripeté Moris, rispondendo al saluto di un alchimista birraio sulla via. «Ecco perché la mocciosa era così su di giri, ormai perseguita mio padre esigendo la sua principessa. Non avevo capito parlasse di un balocco.» Scosse appena il capo. «Comunque non preoccuparti. Ricorderò al mio vecchio di aprire il suo bel borsello e alleggerirlo per mastro Avel.»
Astoria gli diede una pacchetta sul ventre, contenta della sua risposta.
 
Il podestà di Fonderadici, ai più noto con il titolo di padron Ramès, era stato eletto a furor di popolo circa sette anni prima; e per altri tre, ancora, avrebbe svolto il proprio incarico di amministratore del borgo. Egli era di origini umili o, perlomeno, non era più nobile di qualsiasi altro suo compaesano.
Tuttavia, forse per uno scherzo tirato dal lustro del suo ruolo, o forse per la bella dimora assegnatagli d’ufficio, strani grilli avevano cominciato a saltargli in testa. E non era quindi raro, da qualche anno a quella parte, vedere padron Ramès procedere in sella impettito, con gran aria di importanza; se pochi occhi erano lì a guardare, si faceva baciar la mano prima di rivolgere la parola al proprio interlocutore o, più odioso fra i vizi, assumeva che l’importanza della sua persona fosse pagamento più che sufficiente allo svolgersi di un servizio.
Aveva, negli effetti, cominciato a considerare il proprio sangue più blu del cielo e dei zaffiri sepolti sotto la dura terra; ma se pur così fosse stato, ciò sarebbe valso ben poco nelle libere terre di Arcadia.
 
Nel mezzo che Astoria faceva di questi pensieri, il castrato aveva macinato già una buona manciata di miglia e, superato il centro abitato, avanzava mollemente fra i campi messi a coltura intorno al villaggio. Lì dove i contadini, cappelli di paglia in capo, setacciavano e seminavano la terra perché desse frutti.
Le spighe di grano rilucevano al sole e si ingobbivano alla brezza, con un unico inchino. Di lontano uno zappatore levò il suo copricapo in direzione di Moris, che ricambiò levando il braccio e distendendo le labbra in un sorriso di cortesia.
Astoria, che aveva presente ben pochi volti fra coloro che lavoravano la terra, si abbandonò alle fantasticherie. Cullata dallo scenario bucolico: immaginò una casupola estiva fra quei campi, Moris dalle fattezze più mature ma bello come era ora. Si immaginò tre pargoli scorrazzare fra le spighe e tediare i contadini con le domande più assurde.
Il più grande, Avel, nel suo sogno ad occhi aperti aveva già la prima peluria sopra al labbro e prometteva al padre baffi più folti e belli dei suoi.
Astoria fantasticò, su come fosse portarsi una vita dentro: sentirla prendere forma poco a poco, scalciare e – dopo abbastanza tempo – vederla venir fuori. Piccola e fragile. Come facesse sentire la consapevolezza che quel frugoletto per un bel tempo sarebbe dipeso soltanto dalle sue braccia, dai suoi seni gravidi di latte, dal suo calore.
Astoria aveva poche certezze sul suo divenire, ma una di queste era il fatto che un giorno sarebbe stata madre.
«Se vuoi, finita la passeggiata, ti porto in un bel posticino.» Esordì Moris, tirandola di forza fuori da quei pensieri. «L’ho scovato l’altro giorno andando a caccia col mio vecchio.»
«Che posto? Dì un po’.» Rispose la ragazza, stringendosi a lui.
Moris si irrigidì, ma quando parlò la sua voce non aveva perso scioltezza, né il tono spigliato di sempre.
«Non ti dico troppo, che ti rovino la sorpresa. È una grotticella, a sud-est della macchia. Lungo il corso del Garona. Parola mia, una meraviglia del genere non l’hai mai vista.»
Astoria emise un mugolio d’eccitazione all’idea.
«Facciamo presto, allora!»
Detto. Fatto.
Moris diede uno schiocco di lingua e a quel comando il castrato accelerò l’andatura, dal passo al trotto. Non ci volle molto perché si lasciassero alle spalle anche i contadini e i campi coltivati, inoltrandosi per le terre che a quel ciclo erano state lasciate al pascolo. Poco più in là, una lunga palizzata alta sui tre-quattro metri delimitava il confine orientale di Fonderadici.
Lì, fra una stazione di posta e una manciata di baracche malandate, avevano messo campo gli uomini del capitano Ygris. Intenti, chi ad una partita a dadi, chi alla pattuglia del confine, chi ancora a scambiare vettovaglie con una manica di elfi oscuri ambulanti.
Degli uomini in arme, ad Astoria saltò all’occhio il luogotenente, faccia nota presso la Casa del Ceppo: questi era un uomo corpulento, con formidabili basette gonfie come cumulonembi di tempesta.
Fu proprio lui a far loro cenno di fermarsi.
Moris non se lo fece ripetere due volte e diede un bello strattone di redini.
«Non sono qui per impedirvi il passaggio, miei signori.» Esordì il luogotenente, con voce grave. «Solo per avvertirvi: non conviene rimanere fuori oltre il tramonto. I miei uomini hanno avvistato più di qualche brutta faccia sul confine: Raggi piuttosto zelanti e dal temperamento nervoso. State accorti, ragazzi. Non si sa mai cosa può essere peccato a quei brutti occhiacci.» E ciò detto, rivolse loro un’occhiata eloquente, prima di far cenno ai suoi uomini di lasciarli passare.
I due ringraziarono e si inoltrarono per le lande selvagge di Arcadia.
Oltre la palizzata furono accolti da stralci di pianura che serpeggiavano fra gobbe di colline, come bisce fra le rocce. Sulle brevi alture qualche sparuto arboscello spiccava fra i cespugli ed i rovi. L’aria era fresca e rinfrancava i polmoni ad ogni respiro.
Volgendo lo sguardo ad est si scorgeva, opaca per la distanza, la Cintura delle Steppe: la catena montuosa che ad est separava Arcadia dalle Terre del Vento.
Tomu le aveva raccontato qualcosa di quella regione: una terra ostile dove orde di orchi e barbari conducevano una vita di sangue, saccheggi e notti all’addiaccio.
 
Quando le baracche furono ormai un punto a stento visibile alle loro spalle e il destriero curvava verso nord, in direzione della macchia di salici, Astoria rivolse una domanda al suo compagno.
«Non è la prima volta che li sento nominare, questi Raggi. Un mercante Ithiano me ne parlava proprio stamattina, al mercato. Si può sapere cosa e chi sono?»
Moris sembrò incupirsi.
«Ne so poco io stesso, Astoria. Ma è ormai qualche tempo che vagano per le strade e nei pressi del villaggio. Qualche volta hanno persino chiesto udienza al mio vecchio. Sembra che siano alla ricerca di qualcuno, forse un disertore, per conto del Circolo.»
«Il Circolo? Continuano a cercare quel tale? Aspetta, com’è che si chiamava? Ah, sì, Kudai.»
«Probabile… mio padre sembrava restio a parlarmene. Ma da quel che so, non sono soltanto alla ricerca del disertore.»
«E di chi altro, allora?» Incalzò Astoria, accigliata.
«Questo proprio non so dirtelo.» Rispose Moris, facendo spallucce. «Non sono riuscito a origliare poi molto e, come ti ho detto, mio padre mi ha raccontato ancora meno. Quel che so, di questi Raggi, è solo che smaniano per diventare membri del Circolo. Sono come dei garzoni di bottega, per intenderci, o degli apprendisti. E seguono a modo loro e con una certa libertà le regole dell’ordine.»
Astoria sbuffò, svuotata di ogni interesse.
«Se chiedessero la mia, è una scemenza bella e buona incaponirsi in questa caccia all’uomo. Quel Kudai ormai sarà nascosto chissà dove, dopo tutti questi anni; ammesso che non sia morto passando per le Terre del Vento.»
«Sono d’accordo con te.» Convenne Moris. «È uno spreco di tempo e di risorse bello e buono. Ma sai… il Circolo viene dall’est, e lì hanno un modo tutto loro di fare le cose.»
Intanto il Garona aveva preso a far sentire la propria voce: il fiume, che sotto i salici era poco più di un ruscello, a quell’altezza si era ingrossato per l’acqua dei molti affluenti e adesso – ormai largo dieci passi – discendeva placido verso sud, dove avrebbe attraversato i confini di Tenebria.
La sua voce era un mesto sciabordio, contro i massi sporgenti dal letto del fiume, così basso da riuscire a coprire a stento l’altezza di un polpaccio.
Al buon trotto risalirono fino a superare le colline gibbose e ad intravedere la macchia cara a Panaribu.
Giunti a quella vista, Astoria notò un’insenatura e – in seno a questa – la spelonca cui Moris aveva fatto cenno durante il cammino: era una cavità nella terra, tenuamente illuminata dal sole di passato-mezzodì.
Moris smontò agilmente e, mano sinistra alla briglia, offrì la destra ad Astoria, che accettò ben volentieri.
Assicurato il castrato ad un arbusto lì nei pressi, il giovane la condusse fino all’ingresso della grotticella, dove la ragazza finalmente vide la meraviglia che le era stata tanto caldamente promessa.
Al centro dell’alcova circolare che era la spelonca, si ergeva un albero di pietra, quindici passi per quindici passi di diametro. Il suo tronco si congiungeva in alto col soffitto e in basso affondava grosse e bitorzolute radici. Al cospetto dell’albero vi era una figura incappucciata, con la mano sinistra stretta intorno ad un nodoso bastone da viaggio e la destra levata, come ad accompagnare un discorso o, forse, un sermone. La figura aveva i palmi ed i piedi avvolti in fasce e i suoi abiti erano stati scolpiti per farlo apparire l’ultimo fra gli umili.
Tutto intorno al predicatore, a far capannello, vi era una dozzina di pellegrini prostrati in terra. C’erano uomini, c’erano donne e persino bambini. Qualcuno indossava le fasce ormai allentate di un turbante, qualcun altro lo aveva posato ancora integro ai propri piedi.
Aguzzando lo sguardo, Astoria notò che taluni – fra quei pellegrini – avevano tratti insolitamente aguzzi, orecchie puntute e lunghi capelli chiusi in trecce assai ricercate.
Il gruppo di statue era stato scolpito nella roccia stessa della spelonca. Da esse si emanava una tale aria di solennità da far vibrare il cuore di Astoria dentro il petto. Avvertì un groppo appesantirle la gola dinanzi a quei volti, al solo pensiero che un tempo dovevano esserci state persone con quelle stesse facce. Ridotti adesso a null’altro che polvere e dimenticati per sempre dalla memoria del mondo.
“È così triste… chi eri tu? E tu? Quali erano i vostri nomi?”
Le orecchie le fischiarono. Il battito del suo cuore le risalì fino ai timpani, dentro la testa. Ma la voce di Moris spezzò quel sortilegio di melanconia.
«Meraviglioso, non è vero?» La voce del ragazzo rimbalzò contro le pareti, in una eco. «Mi chiedo chi sia stato capace di scolpire una simile opera. E, soprattutto, perché abbia deciso di farlo in un posto dimenticato come questo.»
«Sono… senza… parole…» si rese conto, solo in quell’istante, di avere la voce rotta dalla commozione.
«Ehi-ehi» si ridestò Moris, prendendole il viso fra le mani «ti sarai mica commossa?»
Astoria tirò su col naso, mentre goccioloni tiepidi le rigavano le guance.
«Sei un vero idiota, Moris. Non prendermi in gi-» ma le sue parole morirono sulle labbra di lui.
Astoria si sentì attraversare da un brivido e a quel brivido si abbandonò, mentre le loro lingue si intrecciavano, e il corpo di lei bramava il contatto e il calore di quello di lui.
Gli cinse i fianchi, salì su’ per le spalle, segnandogli la tunica con le unghie. Erano spalle snelle e forti sotto i suoi palmi. Ma quel bacio non bastava più.
Astoria anelava di più: voleva di lui ogni brandello di pelle e di carne e di spirito.
«Allontanati da quell’abominio! Adesso!»
 

NdA: Esco per un attimo dal mio antro di scrittore senza volto per porgervi personalmente i miei saluti, sono Marco Ambrosini aka Il_Signore_Oscuro. Eccoci giunti al V Capitolo della Saga di Ikvalibriam, spero vivamente che questa storia fino ad adesso sia stata capace di intrattenervi come si deve. Del resto, un giorno mi piacerebbe pubblicarla con una CE (tempo, culo e ispirazione permettendo.) A tal proposito, ai lettori silenziosi fra voi chiederei una piccola cortesia: qui nella sezione recensioni o, se vi è più comodo, tramite messaggio mi dareste un piccolo feedback? Non parlo di una recensione, ma di un commento - anche breve - con le vostre considerazioni fino ad adesso (suggerimenti, critiche, impressioni, ecc.) Ve ne sarei enormemente grato ^-^

Un abbraccio,
Il_Signore_Oscuro
   
 
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