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Autore: _Atlas_    25/01/2022    2 recensioni
1997.
Axel, Jake e Jenna vivono i loro vent’anni nella periferia di Mismar, ubriacandosi di concerti, risate e notti al sapore di Lucky Strikes. Ma la loro felicità è destinata a sgretolarsi il giorno in cui Jake viene trovato morto, spingendo gli altri nell’abisso di un’età adulta che non avrebbero mai voluto vivere.
Diciotto anni dopo, Axel è un affermato scrittore di graphic novel che fa ancora i conti col passato e con una storia di cui non riesce a scrivere la fine.
Ma come Dark Sirio ha bisogno del suo epilogo, così anche il passato richiede di essere risolto.
Genere: Generale, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo XI

 
 
 
 
 
 
La gomma dei tergicristalli scivolava sul parabrezza mostrando a intervalli regolari i profili degli edifici e le insegne di qualche negozio.
Axel recuperò la valigia e allungò una manciata di banconote all’autista prima di vederlo ripartire con il suo taxi. Lo seguì con lo sguardo finché la vista glielo consentì, poi iniziò a camminare sul marciapiede trovando poco a poco il coraggio di guardarsi intorno.
Stranamente l’agitazione si era placata e il buio e la pioggia gli diedero l’illusione di sentirsi invisibile, quasi protetto.
La pioggia aveva quell’effetto salvifico anche per Damon Rivera, era così che agiva Dark Sirio nelle sue scorribande notturne; non c’erano mantelli né armature corazzate, c’era solo il suo corpo, tormentato e avido di vendetta, che si addentrava con passo felpato in territorio nemico.
Liam Sullivan - “Procyon” negli ambienti mafiosi – giocava con lui quella subdola partita a nascondino, sfuggendo ai suoi proiettili per sputarne altri, in una avvilente e sanguinosa sfida tra gangster.
Lo stesso gioco d’astuzia, dove a nascondersi erano però le emozioni, Axel lo viveva dentro di sé ogni giorno, un’eterna guerra civile tra due fazioni incapaci di comunicare e su cui lui aveva da sempre rinunciato a prendere posizione.
 
Mentre camminava l’insegna di un negozio di smartphone attirò la sua attenzione, lampeggiando luminosa davanti ai suoi occhi. Era infinitamente piccolo se paragonato agli store di New York, poco curato e pubblicizzato, ma almeno non sprigionava la stessa ripugnante idea di consumismo e sfarzo. Scrutando la vetrina, Axel seguì il riflesso degli edifici alle sue spalle, riconoscendo i profili familiari dei balconi e delle finestre che aveva guardato con superficialità migliaia di volte e che per una curiosa coincidenza erano rimasti impressi nella sua memoria.
All’improvviso capì. Forse il suo inconscio aveva sperato di fregarlo, confondendogli le idee e camuffando le strade intorno a lui, eppure la consapevolezza non tardò ad arrivare: quello era il vecchio market di Earl, il negozio di alimentari dove aveva ottenuto il suo primo lavoro, dove aveva conosciuto Jake e Jenna e dove erano accadute un sacco di altre cose.
Axel provò a nascondersi da quella fitta di nostalgia che gli colpì il petto e provò a raccontarsi mille storie, su quanto per esempio fossero lunghi diciotto anni o su quanto fosse normale, per una realtà piccola come Mismar, che le cose cambiassero prima o poi. Si raccontò che la cosa non lo stupiva poi così tanto, che quasi se lo aspettava, e si raccontò altre migliaia di storie anche mentre le sue gambe ripresero a camminare a passo agitato, quasi stregate, trascinandolo fino all’ingresso del suo vecchio sottotetto.
La pioggia era sempre più fitta e Axel non ebbe altra scelta se non quella di arrendersi e infilare la chiave nella serratura.
Fece un lungo respiro.
 
«Va bene» mormorò aprendo la porta.
 
 
 
Non capì con certezza cosa notò per prima, se l’odore di una casa rimasta chiusa per diciotto anni, il caos in cui era immersa o il silenzio che vi albergava, rotto solo dal rumore della pioggia.
Si impose l’assoluta razionalità e cercò di non badare troppo a quel senso di vertigine che gli salì alla testa non appena si chiuse la porta alle spalle. Era una sensazione strana, caotica, gli sembrava quasi di essere arrivato con una macchina del tempo da un’epoca lontanissima e del tutto incompatibile con ciò che vedevano i suoi occhi.
Razionalità.
Era quello di cui aveva bisogno, insieme a una doccia calda e un sedativo per elefanti, tutte cose che al momento erano di difficile reperibilità. La caldaia, come si accorse poco dopo e come del resto era prevedibile, aveva bisogno di una sistemata, mentre per un sedativo così potente avrebbe dovuto scomodare qualche contatto oltreoceano che non era sicuro di voler risentire.
In quanto alla razionalità invece, tutto dipendeva da lui. Aveva la sensazione di camminare in mezzo a un campo minato, ma stando attento e controllando scrupolosamente ogni passo forse avrebbe evitato il peggio.
Tanto per cominciare avrebbe dovuto riguardare il programma delle conferenze alla C.A.M., prima di partire Loraine gli aveva allungato in tutta fretta un plico di fogli a cui ancora non aveva dato un’occhiata, e qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto farlo al più presto, se aveva intenzione di uscire indenne da quel convegno.
Loraine ebbe il tempismo di scrivergli proprio in quel momento, aiutandolo a trovare quella razionalità che cercava come ossigeno.
“Sei arrivato? Hai già visto il programma di domani?”
Giusto, rammentò, dopotutto quello era un viaggio di lavoro. L’idea di dover parlare davanti a un pubblico continuava a renderlo nervoso, eppure concentrarsi su quello sembrava ridimensionare lo stato emotivo in cui si trovava adesso.
“Arrivato. Sto ripassando le ultime cose.” Mentì.
Mise da parte il telefono e iniziò a guardare per la prima volta il programma inviato dalla C.A.M., ignorando con ostinazione tutto ciò che aveva intorno.
 
 

*
 

 
Si risvegliò all’alba, accovacciato sulla scrivania in una posizione innaturale. La schiena protestò dolorosamente non appena provò a mettersi ritto e ci volle più di una sessione di stretching per tornare in sesto.
Una tazza di caffè bollente avrebbe dato una svegliata anche al resto del corpo, ma preferì rimandare a più tardi la colazione e cercare di rendere più ospitale quelle quattro mura piene di polvere e ricordi.
Spalancò le finestre e lasciò entrare l’aria umida del mattino che ancora sapeva di pioggia, rassettò le stanze e raccolse in una busta tutte le cianfrusaglie che gli capitavano sottomano, tra cui una polaroid dove spiccavano radiosi il suo volto e quello di Jake. Non fu difficile mettere in scena quel teatrino intriso di apatia e razionalità, anzi, probabilmente la noncuranza con cui stava maneggiando  i ricordi sacri dei suoi vent’anni gli avrebbe presentato il conto più avanti, mozzandogli come sempre l’ossigeno nei polmoni, ma non gli importava.
Si scoprì ostinato a utilizzare quel meccanismo di difesa ed era persino convinto che potesse funzionare più di qualsiasi altro tipo di ansiolitico.
Quello che desiderava più di ogni altra cosa, e di questo era più che certo, era uscire indenne da quel convegno e tornare a New York il prima possibile.
 
 
La Comics Academy of Mismar era più o meno come la ricordava, salvo qualche modifica architettonica che le dava un aspetto un po’ più moderno. A dirla tutta, non aveva mai provato particolare entusiasmo a guardare la struttura dell’edificio e ora che attraversava il cortile d’ingresso dopo vent’anni si stupì a provare più o meno la stessa sensazione. Aveva l’aria di un liceo messo a nuovo, al passo coi tempi, che tuttavia portava il peso di essere la scuola di fumetti più rinomata del paese, forse perché l’unica esistente.
Non c’erano studenti nei dintorni, questo Axel lo notò gustandosi il suo giornaliero cocktail di emozioni discrepanti che stavolta abbracciavano il sollievo e un pizzico d’ansia. Erano davvero messi così male, alla C.A.M.?
Col passo incerto si avvicinò all’entrata, cercando di soffocare il ricordo dell’ultima volta in cui lo aveva fatto, il 10 giugno 1997, con il senso di colpa che già gravava sulle sue spalle e il dolore di una ferita che gli aveva squarciato il petto a metà. Accanto al portone, lì dove diciotto anni prima spiccavano le classifiche con i risultati dei partecipanti al concorso, adesso c’era un immenso cartellone pubblicitario occupato a metà dal volto di Dark Sirio. L’altra metà, appena più luminosa, non era altro che una gigantografia del suo stesso volto.
«Oddio…» mormorò con disgusto.
«Signor Newell?» lo chiamò qualcuno nello stesso momento.
Un agguato alle spalle, proprio come l’ultima volta. Axel non ebbe bisogno di voltarsi per scoprire chi fosse.
Lo ricordava come un uomo giovane, alto, con le spalle larghe e una chioma di capelli neri che spesso legava in un codino disordinato. Girava per le aule della C.A.M. con l’aria di essere un curioso visitatore, con l’espressione da nerd e un cipiglio decisamente poco austero, e invece non solo in quella scuola vi insegnava Teorie e pratiche dell’Illustrazione ma ne era persino diventato il dirigente. Gli anni lo avevano cambiato, ma a parte le rughe e i capelli argentati aveva ancora l’aria di essere un uomo che impazziva davanti a una pagina di fumetti.
«Professor Layton» balbettò Axel, sentendosi di nuovo un ragazzino.
«È bello vederti dal vivo, Axel. Direi finalmente» disse l’uomo con cordialità, aprendo il portone d’ingresso della scuola.
 
Aveva smesso di catalogare le emozioni che salivano a galla, sia perché la reputava una perdita di tempo, sia perché stava diventando pressoché impossibile farlo visto che si proponevano tutte allo stesso modo: gambe molli come gelatine, battiti del cuore impazziti, mani sudate, fiato corto e vertigini a intervalli più o meno regolari.
«Vuoi un caffè?» gli chiese il professor Layton entrando con lui in un’aula vuota.
«Assolutamente no» rispose precipitosamente, dando una fugace occhiata ai banchi vuoti. «Ma dove sono gli studenti?» chiese provando a smorzare la tensione.
«Oh, ti aspettano in auditorium. Li faremo attendere un po’» lo informò controllando l’orologio.
Axel si morse la lingua e poggiò la schiena contro un banco, ostentando una nonchalance che certamente non aveva e che di certo non avrebbe guadagnato ora che si stava immaginando davanti a chissà quanti studenti accomodati in un auditorium.
Il professor Layton dovette captare la sua tensione perché all’improvviso gli rivolse un’occhiata incuriosita.
«Axel rilassati, non siamo mica in tribunale» ridacchiò accomodandosi alla cattedra e continuando a guardarlo. Lui provò a sostenere il suo sguardo, ma alla fine abbassò la testa.
«Non è stato facile tornare qui» mormorò alla fine, sforzandosi di nuovo di sembrare disinvolto.
«Lo so bene, ce l’hai scritto in faccia» confermò l’uomo «E scommetto che non vedi l’ora di andartene.»
Axel annuì mesto, facendo spallucce.
«Lo capisco. Probabilmente anch’io mi sentirei così al tuo posto, per questo non intendo lamentarmi di tutti gli inviti che hai respinto in diciotto anni.»
Non provò a ribattere, si limitò ad accusare il colpo e a rendere un po’ più pesante il macigno che si portava a spasso sulle spalle da quasi un ventennio.
«Professor Layton, mi dispiace se…»
«Non devi giustificarti,» lo interruppe «ho detto che ti capisco. E non dobbiamo parlarne se non vuoi, voglio solo che tu sappia – perché questo non ho mai avuto modo di dirtelo – che la morte di Jake Steamons, all’epoca, segnò profondamente anche me. Solo che a differenza tua ho preferito fare carriera qui dentro e, non per vantarmi, ma gli studenti mi adorano» concluse con un sorriso divertito.
«Questa non è una novità, lo abbiamo sempre fatto» disse in fretta, riuscendo miracolosamente a non farsi coinvolgere troppo da quella rivelazione.
«Ti ringrazio, ma non farla sembrare una cosa scontata.»
Axel lo vide alzarsi e fargli cenno con la mano, così lo seguì in silenzio tra i corridoi della scuola fin quando non arrivarono davanti a un’enorme vetrata che affacciava in una stanza non troppo grande, ma abbastanza capiente da ospitare oltre un centinaio di studenti.
«Ecco l’auditorium. Loro» disse indicando gli studenti «sono tutti lì per te. Ti dirò, per una volta sono contento di cedere la mia cattedra a qualcun altro. Ma non farci troppo l’abitudine.»
Axel colse l’ironia nella sua voce e accennò un sorriso non troppo marcato. Non era sicuro di aver nascosto bene la sua insicurezza, ma considerava comunque un buon traguardo trovarsi a due passi dalla platea e non chiuso in un bagno a vomitare le viscere. Il professor Layton d’altra parte non era un ingenuo e in cuor suo sperava che capisse davvero quanto fosse difficile per lui trovarsi lì in quel momento.
  

*

  
Due ore dopo, col vento che gli scompigliava i capelli e il cuore un po’ più leggero abbandonò il cortile della C.A.M. incamminandosi verso casa.
Non era andata tanto male, pensò, sicuramente meglio della drammatica aspettativa che si era fatto negli ultimi giorni. L’atmosfera si era alleggerita parecchio quando qualche ragazzo si era spinto a chiedere curiosità su Dark Sirio e sebbene la cosa gli avesse ricordato le disastrose conferenze stampa a cui aveva preso parte negli ultimi tempi, aveva subito riconosciuto che farsi interrogare da uno studente era decisamente meglio che subire le angherie dei giornalisti. Questo gli aveva dato un po’ più di sicurezza e alla fine era riuscito a concludere quella prima conferenza incentrata sullo stile grafico di Dark Sirio senza subire troppi danni. Anche il professor Layton era sembrato soddisfatto, anche se era comunque rimasto perplesso quando, al termine delle due ore, lo aveva visto correre in bagno pallido come un cencio e con la camicia cosparsa di sudore. Poteva andare peggio, aveva pensato Axel tra un conato e l’altro.
“Fammi sapere com’è andata” gli aveva scritto Loraine poco dopo e solo adesso aveva ripreso in mano il telefono per visualizzare il messaggio.
Fu in procinto di risponderle, anche se a quel punto sarebbe stato meglio chiamarla, ma preferì rimandare in serata il resoconto della giornata. Adesso voleva solo godersi quel momento di spensieratezza, mangiare qualcosa e magari farsi una dormita una volta rientrato a casa.
Decise di fare a piedi la strada del ritorno, gustandosi la luce ambrata del tramonto e le vie quasi deserte della città. Era disturbante quel silenzio, eppure per Mismar aveva sempre rappresentato la quotidianità, nulla a che vedere col via vai frenetico di una metropoli come New York.
Un sorriso nostalgico gli fece socchiudere appena le labbra nel vedere le luci natalizie ancora appese in qualche via del centro, una svogliatezza che da sempre aveva contraddistinto gli abitanti del posto, i quali alla fine avevano iniziato a considerarla una specie di tradizione da portare avanti fino a Pasqua.
Conosceva bene quella strada e inconsciamente sapeva dove lo avrebbe portato se avesse proseguito diritto.
Era strano, ma quell’ansia che gli aveva divorato le viscere fino al suo arrivo in città continuava ad essere gestibile e solo appena fastidiosa; la cosa lo compiaceva particolarmente perché era frutto del suo impegno - o sarebbe stato meglio dire ostinazione - nel volere a tutti i costi rendersi impermeabile alla pioggia di sensazioni che sapeva gli sarebbe piombata addosso una volta tornato a Mismar.
Per questo percorrere quella via lo turbava ma senza scatenare il panico.
Continuò ad attraversarla fino a quando non arrivò a vedere chiaramente l’insegna luminosa del locale, identica a come l’aveva lasciata diciotto anni prima. Si avvicinò a passo lento raggiungendo la vetrina, chiedendosi se non stesse facendo una stupidaggine e se non fosse il caso di assecondare quella vocina che gli solleticava l’orecchio dicendogli di scappare da lì a gambe levate.
Non c’era molta clientela, giusto una coppia a cui era appena stata servita una fetta di torta di mele.
La sua schiena, grossa e un poco ricurva era inconfondibile, così come il grembiule che aveva legato al collo e i baffetti che contornavano le sue labbra. Spostò lo sguardo nel locale cercando il volto di Margaret, chiedendosi se anche a lei il tempo avesse lasciato nello sguardo la solita espressione gentile e premurosa del marito.
Non fece in tempo a trovarlo, perché adesso il signore di prima lo stava osservando dall’altra parte del vetro, guardandolo nello stesso modo in cui si guarderebbe un fantasma.
Se fosse stato in grado di ragionare lucidamente, avrebbe concluso che dare retta a quella vocina sarebbe stata la cosa più giusta da fare, invece rimase fermo a ricambiare lo sguardo di quell’uomo, accennando infine un saluto impacciato con la mano. Lo vide camminare verso la porta d’ingresso e anche quando rimase incantato a guardarlo sulla soglia gli occorse qualche secondo prima di aprire bocca. Quando lo fece, la voce gli si spezzò in un singulto.
«…Axel?»
Non rispose, né riuscì a fare un gesto con la testa. Rimase fermo a osservarlo a sua volta, fino a quando non riuscì a trovare il coraggio di parlare.
 
«Ciao Darryl.»

 
 


__________________


 

NdA
Arieccomi, con solo due mesi di attesa, wow!
E dunque, il nostro povero eroe è finalmente giunto in terra natìa riuscendo più o meno a non avere un attacco di panico ogni secondo, il che – in vista dei prossimi aggiornamenti – è un traguardo da non sottovalutare.
Rileggendo i vecchi capitoli ho sempre l’impressione che la narrazione avvenga in maniera un po’ troppo veloce e non so se anche a voi risulti questo; in effetti non ho mai scritto storie così complesse ed è probabile che ci sia qualche buco narrativo sparso qui e lì. Comunque è chiaro che una volta terminata la storia verrà ripresa interamente e sistemata dove ce n’è la necessità, spero solo che questo avvenga entro il 2075 :’)
 
Anyway, come sempre ringrazio Benni per l’ ultima recensione (a cui devo ancora rispondere perché sono una brutta bagarospa) <3
 
Un saluto e spero a presto,
 
_Atlas_

   
 
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