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Autore: Il_Signore_Oscuro    30/01/2022    1 recensioni
"Nelle complesse fila che compongono la Trama e la storia del mondo, esiste un'unica costante che - col volgere delle epoche - si ripete, pur con esiti diversi.
L'Ikvalibriam, la battaglia dell'equilibrio, è lo scontro finale fra il Bene e il Male reincarnato. Una battaglia in cui regni, nazioni, imperi si schierani in favore dell'uno o dell'altro.
Nella notte che precede l'ultimo di questi Ikvalibriam, Kudai viene convocato dalla Sua Signora. E scoprirà di rivestire nella Trama un ruolo molto più importante di quanto non abbia mai creduto..."
Se siete alla ricerca di un'epica saga fantasy d'ampio respiro, questa è la storia che fa per voi. Epiche battaglie, personaggi complessi e ricchi di fascino, ambientazioni magiche. Se per un attimo vuoi evadere dal mondo e dalle sue brutture, dammi la mano e segui con me questo viaggio...
[Aggiornamento: ogni domenica]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO VII


 
Quando ad un tratto rovinò a terra con un tonfo, mentre un fiotto caldo e viscoso bagnava la faccia di Astoria. La ragazza, ancora incredula, si passò le mani sul viso e scoprì i suoi palmi ricoperti di rosso.
Guardò al Raggio appena caduto e solo in quel momento notò che un’elsa sporgeva dalla sua nuca squartata.
Gli altri Raggi nel frattempo avevano interrotto la loro avanzata e guardavano all’ingresso della spelonca, mormorando imprecazioni.
Proprio lì uno sconosciuto aveva appena fatto la sua comparsa: il viso e il capo erano rasati di fresco, non indossava altro che un mucchio di stracci malandati. Aveva le mani giunte su una spada a singolo filo, brevemente ricurvo.
I tratti degli occhi e della faccia erano inconfondibilmente quelli di uno shinbu.
Il capo dei Raggi emise un gemito, indietreggiando pallido in volto.
«Il- Il traditore…»
«È tempo di mostrarvi, signori miei, il divario che separa una Sfera da voi Raggi. Piccoli, insignificanti dilettanti.» E così dicendo si mise in guardia.
Astoria ebbe un sussulto: il tono era più fermo e impostato del solito, ma quella voce. Sì. Quella voce era inconfondibile.
“Anidai! Che ci fa qui?”
Il mezz’uomo fu il primo a riaversi dalla sorpresa.
«Gilmorgen vi incenerisca, manica di pelandroni! Che aspettate?! Uccidetelo!»
I Raggi obbedirono, pur con qualche esitazione. Assalirono Anidai da ogni direzione, levando urla di guerra e preparandosi a colpire coi randelli. Fu con orrore che Astoria realizzò che, d’altra parte, il mezz’uomo veniva verso di lei.
Che senso aveva, ora, combattere per la propria vita? Se anche fosse riuscita a difendersi a mani nude dalla lama del piccolo uomo, Anidai prima o poi sarebbe stato sopraffatto – pur abile che fosse. Tuttavia, nonostante questi pensieri, il raziocinio aveva legacci assai deboli su un cuore e una mente insidiati dalla paura.
Quando il mezz’uomo le fu addosso, con la forza della disperazione lei gli afferrò i polsi. Tentò invano di torcerli. Il viso del suo aggressore era gonfio e rosso per lo sforzo, schiuma gli fuoriusciva dalle labbra, mentre latrava «muori dannata puttana!»
La lama, poco a poco, si avvicinava al suo petto, sotto il peso del mezz’uomo. Astoria sentì le dita intorpidirsi, il respiro bloccato in un groppo al centro dello gola, i muscoli delle braccia così contratti da minacciare di esplodere sottopelle.
A quel punto, in una reazione istintiva, piegò una gamba e ruotò su sé stessa. Con tutta la forza che aveva in corpo calciò il mezz’uomo e lo mandò a schiantarsi contro la figura prostrata di un pellegrino. L’aria ritornò a gran sorsate nella sua gola e ogni istante minacciava di lasciarla priva di sensi.
Minuscoli puntini neri sciamavano nel suo sguardo e sentiva la sua coscienza sul ciglio di un burrone.
Ma Astoria strinse i denti, sino a sentirli stridere. E mentre l’ometto si riprendeva dallo stordimento, lei afferrò il randello del Raggio ucciso da Anidai poco prima. Lo impugnò a due mani e lo calò con forza sulla nuca del mezz’uomo.
Questi ricadde al suolo con un singulto, sciogliendo finalmente la presa sulla daga.
 
Avrebbe potuto fermarsi lì. Lasciarlo privo di sensi, con un bernoccolo e un bel mal di testa al risveglio. Ma quel piccolo bastardo l’aveva pedinata. L’aveva accusata di essere un mostro della peggior specie. Aveva fatto sì che Moris rimanesse ferito. Aveva cercato di ucciderla, sordo ad ogni protesta… cieco alle sue lacrime e alla sua paura.
La furia le asciugò gli occhi.
La furia rinsaldò la presa sul randello.
E Astoria colpì un'altra volta quella faccia schifosa. Colpì, colpì, colpì fino a fargli esplodere le cartilagini, fino a ridurgli le labbra in una polpa rossa e carnosa, fino a far schizzare brecce di denti in ogni direzione. Fino a quando non intravide la materia grigia, far capolino sotto il cuoio capelluto e colare spappolata al suolo.
La bile risalì in un flusso acido sino alla sua bocca e Astoria vomitò, sul suolo roccioso. Mentre le forze la abbandonavano.
 
Nel frattempo Anidai, in barba all’inferiorità numerica, aveva passato a fil di spada anche l’ultimo dei Raggi e avanzava nella sua direzione: gli stracci lordi di sangue fresco e in viso un’espressione di mesto compatimento.
“Cosa mi farà ora?” Era una domanda sciocca, lo sapeva. In altri momenti se ne sarebbe accorta. Ma adesso la sua lucidità vacillava nel tormento di quegli ultimi minuti. Lo shinbu degnò di appena un’occhiata il mezz’uomo e il randello sbrecciato abbandonato ai suoi piedi.
Dopodiché guardò lei e con un movimento sciolto si inchinò al suo cospetto. La spada ancora lucida di rosso le veniva offerta con entrambe le mani.
Astoria lo guardò, senza capire. Avrebbe voluto porgli tante di quelle domande: che diamine ci facesse lì; da quando aveva imparato a combattere; dove avesse trovato una spada e perché adesso si inchinava ai suoi piedi.
Ma nessuno di questi quesiti trovò voce.
Fu Anidai a parlare per primo «finalmente, dopo diciassette anni di attesa posso rivelarmi a voi con il nome che mi fu dato da mio padre.» Chiuse gli occhi, chinò il capo, quasi fosse in preghiera. «Io sono Kudai, Alta Sfera della compianta Gilmorgen’Aniku. Mi prostro a voi come servo fedele, offrendo quale pegno la mia vita e la mia spada, Gilmorgen’Astoria.»
La ragazza trasalì, sgranando gli occhi. Per un attimo credette di star sognando: non poteva essere reale. Prima l’accusavano di essere la Nakhtife e adesso, un dannato barbone armato di spada si inchinava di fronte a lei rivelandole di essere, niente meno, che il Bene Reincarnato in persona.
«Vedo confusione nei vostri occhi. Non posso biasimarvi.» Continuò Kudai, di fronte al suo ostinato silenzio. «Ciò che la vostra predecessora aveva vaticinato, ahimè, si è infine compiuto: il più turpe fra i tradimenti, la più malvagia delle eresie. Dovete sapere, mia Signora, che in questo momento un falso Gilmorgern siede sul seggio del Tempio, che fu dei vostri predecessori. Costui è il primogenito del mio ex-confratello Gundera, il quale tira nell’ombra i fili di questo gioco perverso. Il ragazzo altri non è che il Nakhtife reincarnato. E ora, i servi del Bene braccano colei che invece dovrebbero servire e proteggere.»
“Questo è troppo, decisamente troppo! Tutta questa storia non ha il minimo senso!” Pensò Astoria, mentre la paura veniva dissipata dalla rabbia e dalla frustrazione.
«Voi, tutti voi siete una manica di sciroccati! Tu e quei bastardi che volevano farmi la pelle senza un dannato motivo che fosse uno. Apri bene le orecchie e stammi a sentire, Anidai… Kudai o come diamine ti chiami: io-non-sono-la-Gilmorgen, chiaro?! Sono una dannata cameriera, nata a Fonderadici, figlia di due bravi genitori. E prima di questo folle pomeriggio la mia vita era tranquilla e felice.» Si prese un attimo per riprendere fiato. «E adesso, se abbiamo finito con le stronzate, gradirei aiutare l’unica altra persona sana di mente in questa maledetta grotta.»
E così dicendo, ignorando la faccia piena di disappunto di Kudai, si avvicinò a Moris: il sangue sulla tempia si era seccato, ma lui non accennava a riaversi.
«Il ragazzo starà bene, mia Signora. È soltanto svenuto.»
Assicurò Kudai, pulendo la spada su uno dei bruti e riponendola nel fodero.
«Piantala di chiamarmi “mia Signora”!» Le disse Astoria, fra i denti. «Piuttosto, vai a chiamare i soccorsi, io starò qui con lui fino al loro arrivo.»
La ragazza prese un fazzoletto e tamponò delicatamente la ferita di Moris.
Kudai sospirò, sussurrando a mezza voce qualche imprecazione, o qualcosa del genere, nella sua lingua natale.
«Mia Signora, non posso farlo. Potrebbero esserci altri Raggi alla vostra ricerca nei dintorni e la mia priorità assoluta è proteggere voi.»
Astoria alzò gli occhi al cielo.
«Allora caricheremo Moris in sella e mi accompagnerai tu stesso a Fonderadici.»
Kudai denegò col capo.
«Non potete più tornare al villaggio, mia Signora.» Le spiegò. «La gente farà domande e le domande ne attirano sempre delle altre. Fonderadici non è più un posto sicuro per voi… le voci girano e se non ci sono già dei Raggi ad aspettarvi, arriveranno prima di quanto pensiate.»
«Stai dicendo che…» le lacrime le riempirono gli occhi «no! Non se ne parla! Non lascerò tutta la mia vita per una tua fantasia demenziale!»
«Mia Signora,» rispose prontamente Kudai, senza accennare a perdere la calma «poniamo che quanto vi dico non corrisponda al vero, va bene? Non potrete negare tuttavia ciò che avete di fronte ai vostri occhi, in questa grotta: questi uomini volevano assassinarvi, e voi e il vostro compagno ve la siete cavata per il rotto della cuffia. Pensate forse che queste persone» fece cenno ai cadaveri «si faranno scrupoli a ferire o uccidere i vostri cari, se il risultato finale sarà la morte di colei che ritengono il Male reincarnato? Ve lo dico io: no, non se ne faranno. Per un Raggio e ancor più per un mio ex-confratello, il fine giustifica sempre e comunque i mezzi.»
Astoria ammutolì, di fronte a quella logica stringente.
Abbassò lo sguardo su Moris: i suoi riccioli scuri le solleticavano le gambe, mentre il respiro usciva affannoso dal suo naso. Guardando quel viso pensò al burbero Tomu; alla maliziosa Marion; a Roma e le sue premure; ad Avel e la sua tenerezza. Quanti di loro sarebbero morti? Quanti di loro avrebbero sofferto a causa sua, se fosse rimasta facendo finta di nulla.
Guardò Moris, gli sfiorò le labbra morbide con le dita. La sua mente tornò a quella casa che aveva immaginato fra i campi… e stavolta se la figurò avvolta dalle fiamme. Non più risuonante delle risa dei bambini, ma delle loro grida: soffocate dal crepitio del fuoco e dall’esalare del fumo.
“Non posso lasciare che altri soffrano a causa mia. Devo solo aspettare che il malinteso venga chiarito. Se il Gilmorgen si è risvegliato allora presto o tardi lo farà anche il Nakhtife e se invece ha ragione Kudai sarà il Gilmorgen a spuntare fuori da qualche parte. Dopodiché saranno solo fattacci loro, e io… io potrò tornare alla mia vita di sempre.” Alzò lo sguardo all’ex-Alta Sfera “per ora seguirò questo sciroccato di uno shinbu, sarà anche pazzo ma ha dimostrato di potermi tenere al sicuro.”
Si umettò le labbra, prendendo un lungo respiro.
«Dove andremo?»   
   
 
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