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Autore: Imperfectworld01    11/02/2022    1 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Trentasei.


Non riuscivo a crederci.

Non potevo... non volevo crederci.

Non era giusto.

Non era così che sarebbero dovute andare le cose.

Mi stavo innamorando di Filippo Cattaneo.

No, forse era troppo presto per parlare di innamoramento. O no? In fondo non ne sapevo nulla dell'amore. Non me ne ero mai interessata fino a fondo, dopotutto per tutti quegli anni mi ero impegnata a fondo solamente per riuscire a sfuggirgli.

E ci ero sempre riuscita, fino a che non mi ero ritrasferita a Milano. Quindi che cosa era andato storto? Che cosa avevo sbagliato?

Avevo abbassato le mie difese, così come avevo fatto con Vittorio e stavo cercando di fare anche con Irene... perché con Filippo la cosa aveva funzionato in maniera differente?

Non riuscivo proprio a capacitarmene, a trovare anche una sola motivazione valida. Eppure era ormai innegabile: nel momento in cui avevamo avuto quella conversazione, improvvisamente, mi era apparso tutto chiaro. Era come se nella mia mente, offuscata fino ad allora, tutto fosse stato rimesso a fuoco. E al tempo stesso avevo sentito il cuore battermi fortissimo, nel mentre che realizzavo di star cominciando a vedere Filippo in un modo del tutto nuovo.

In un primo momento avevo provato sollievo, mi ero sentita leggera, quasi spensierata.

Poi ero ritornata in me. La lucidità aveva recuperato il suo posto nella mia mente, e mi ero resa conto di quanto ciò fosse sbagliato. Non poteva capitare a me.

Io non volevo Filippo, non mi interessava avere una relazione con lui, del resto il più delle volte non lo apprezzavo nemmeno come persona! Era fastidioso, impertinente, logorroico, insistente, presuntuoso, bugiardo, infantile, permaloso, vanesio, superficiale, ignorante... avrei potuto andare avanti per ore a elencare i suoi difetti.

Eppure più me li ripetevo, sdraiata nel letto e incapace di prendere sonno, più mi rendevo conto che non stava servendo a nulla... non avrebbe cambiato il modo in cui mi sentivo nei suoi confronti, né il modo in cui mi faceva sentire quando eravamo insieme.

O anche quando non eravamo insieme.
Quante erano state le volte, in quei mesi, che avevo perso ore e ore a pensarlo, qualunque fosse la motivazione? Effettivamente era da un bel po' di tempo che mi era entrato in testa.

Era l'unica persona in grado di confondermi, l'unico a farmi mettere in discussione qualsiasi cosa, qualsiasi principio a cui mi ero sempre affidata ciecamente, l'unico che mi faceva sentire diversa dal solito.

Ero totalmente un'altra persona quando ero con lui. E lo odiavo, perché ero vulnerabile, eppure non riuscivo a farne a meno, non riuscivo a controllarlo, tanto che in un modo o nell'altro mi ritrovavo a cercare sempre di passare quanto più tempo possibile con lui.

Ma avrei dovuto smettere di farlo. Non potevo permettermelo... non potevo soffrire ancora.

In fondo era stato chiaro, non era più interessato a me.

E pensare che se non fossi stata così tanto dura con lui, forse le cose sarebbero andate in tutt'altro modo...
Avrei dovuto essere meno me stessa e essere più accondiscendente con lui, mostrare una maggiore apertura nonostante i miei pregiudizi e preconcetti.

Così non sarebbe successo quello che era successo.

Me lo meritavo in fondo, di non essere ricambiata. Mi sarebbe servito da lezione.

Mi dispiaceva solo che fosse andata così: che lui, una volta avermi conosciuta per quella che ero, aveva perso progressivamente interesse nei miei confronti, mentre io, conoscendolo meglio, avevo iniziato a provare dei sentimenti autentici per lui.

Se solo non avessi avuto quel carattere impossibile... non mi stupiva di certo il fatto che ci avesse rinunciato, né che si fosse stufato. Non potevo biasimarlo.

Dal momento che non riuscivo a chiudere occhio, ebbi l'impulso di alzarmi dal letto e andare in camera di Vittorio, ma mi trattenni dal farlo, in un primo momento.

Mi girai sull'altro fianco e richiusi gli occhi.

Durò poco, perché la tentazione si ripresentò, più insistente della prima volta.

Ancora un po' rintontita per via del sonno, mi alzai dal letto, uscii dalla mia stanza e mi diressi verso la sua. Aprii la porta e mi avvicinai frettolosamente al suo letto. Mi sedetti al capezzale e mi chinai in avanti per iniziare a scuotere il busto di Vittorio affinché si svegliasse.

«Mmh...» brontolò, prima di sdraiarsi prono e darmi le spalle.

«Vittorio, per favore» lo supplicai, afferrandolo per il braccio e iniziando a tirargli dei piccoli schiaffi sul viso con la sua stessa mano.

«...ono stanco... omani ne ri...rliamo» farfugliò, e io roteai gli occhi.

«Ti prego, Vittorio, svegliati e ascoltami» insistetti, prima di sdraiarmi di proposito sopra di lui, nella speranza che il mio peso su di lui senza preavviso lo ridestasse. «Posso dormire con te?» gli sussurrai all'orecchio.

Riaprì gli occhi ed ebbe un sussulto. Per un attimo ebbi l'impressione che mi avrebbe scaraventata a terra per lo spavento, invece non lo fece. Mi rialzai in piedi e lui sollevò il busto per mettersi seduto. Si stropicciò gli occhi con le dita e poi sbadigliò, senza premurarsi di mettersi la mano davanti alla bocca. «Che c'è, Nina?» chiese con tono serio ma non seccato.

Sebbene fosse stanco, non voleva liquidarmi, non senza sapere realmente ciò che mi stava succedendo.

«Non ce la faccio a dormire in camera da sola» ammisi, con voce rotta.

Quella notte erano i pensieri su Filippo a tenermi sveglia, ma le altre volte si trattava di Benedetta. Lei non c'era più. Per quindici anni ero stata abituata a dividere la stanza con lei e, anche se non lo avrei mai immaginato, sentivo la sua mancanza anche quando si trattava semplicemente di dormire. Quella stanza era vuota se occupata solo da me.

Vittorio sbadigliò ancora, poi senza dire niente mi fece cenno di mettermi a letto al suo fianco. Con un piccolo sorriso mi infilai sotto le coperte.

Sentii Vittorio rabbrividire e irrigidirsi non appena lo feci. «Dio, hai i piedi gelidi!» esclamò.

«Scusa» dissi, prima di toccare nuovamente i suoi piedi di proposito per infastidirlo ancora.

«Su, Nina! E poi mi fanno schifo i piedi, tienili alla larga!»

«Ma dai, i miei piedi sono bellissimi, mia mamma dice che ho i piedi da Cenerentola, porto il trentacinque di scarpe» spiegai con una piccola risata.

«Non puoi metterti delle calze?» chiese e io alzai gli occhi al cielo: «Ma fai sul serio? Solo per dei piedi?».

«Sono ghiacciati, e poi ti ripeto che provo un certo ribrezzo per i piedi. Anzi, peggio. È quasi una fobia» spiegò.

«Ok, e quando avrai una moglie e ci dormirai insieme ogni notte come affronterai la cosa?»

«Non farmici pensare» rispose serio, facendola più tragica di quello che era.

Poi si girò su un fianco e cercò il più possibile di distanziarsi da me per far sì che i nostri piedi non si toccassero nuovamente. A quel punto mi adoperai anch'io per trovare una posizione comoda, il che era più difficile di ciò che avevo pensato inizialmente.

Provai a girarmi sul fianco opposto rispetto a quello di Vittorio e chiusi gli occhi.

Dopo qualche istante, lo sentii girarsi e mi misi a strillare non appena appoggiò la testa, con tutto il peso, sui miei capelli. «Oddio, perdonami, perdonami» si scusò, sollevando la testa dal cuscino affinché potessi spostare i miei capelli.

Poi sentivo che mi si stava addormentando il braccio, così mi girai sull'altro fianco, appoggiando la testa vicino alla spalla di Vittorio e avvolgendo il braccio attorno al suo addome. «Non ci credo, mi stai abbracciando di tua spontanea volontà» bisbigliò divertito e io gli tappai la bocca con la mano.

«Fossi in te la leverei quella mano, a volte sbavo quando dormo» disse e io la ritrassi in fretta, con una smorfia di disgusto.

Dopodiché mi sdraiai supina, e lì mi resi conto che non ci stavamo in due in quel letto, non se eravamo entrambi sdraiati in quel modo. «Non puoi girarti sul fianco?» proposi.

«No, perché ora sono comodo così.»

«Ma non vedi che non ci stiamo?»

«E quindi cosa dovrei fare? Ti ricordo che è il mio letto!» esclamò stizzito.

«Uffa» mi lamentai.

Nonostante ciò che aveva detto, mi diede ascolto e si rigirò sul fianco, rivolto verso di me.

Chiusi gli occhi un'altra volta e provai seriamente ad addormentarmi. Sembrava la volta definitiva. Nessuno dei due cambiò posizione per diversi minuti né si lamentò di qualcosa. Sentivo che mi sarei finalmente addormentata, se solo... se solo...

«No, io così non ce la faccio» sbottai a un certo punto. «Respiri troppo forte, e mi aliti sul collo.»

«Nina, ti sto per sbattere fuori» mi avvertì.

Cercai allora di stare zitta e ferma per qualche secondo. Durò fino a che non sentii la porta, lasciata socchiusa, spalancarsi, seguita da un rumore di unghiette affilate che si scontravano sul pavimento nel mentre che lo percorrevano. Poi cessarono, e fu a quel punto che quel gatto insopportabile balzò sul letto. «No, Vittorio, portalo fuori e chiudi la porta. Non ci stiamo in tre, anche perché questo gatto è un terzo di me» mi lamentai, nel mentre che quella bestia pelosa cominciava a gironzolare nel letto fino a trovare il posto giusto per lui.

«Scordatelo. Giuseppe è abituato ad avere accesso alla mia camera ogni qualvolta ne abbia voglia. Se provo a chiudere la porta poi miagola tutta la notte e non lascia tregua a nessuno.»

Il felino si piazzò seduto sul mio ventre, cominciando a fare "la pasta", una pratica che consisteva nel continuare a schiacciare le sue zampe contro il mio stomaco in modo alternato: prima la zampetta sinistra, poi quella destra. Lo faceva sempre, prima di sdraiarsi a dormire su qualcuno.

«Almeno tienitelo tu» dissi, prendendolo in braccio e spostandolo verso Vittorio.

«È un gatto libero, decide lui dove stare, se ha scelto te, un motivo ci sarà... ecco, infatti» disse, nel mentre che Giuseppe prese a dirigersi di nuovo verso di me.

Sbuffai sonoramente. «Se poi almeno si sdraiasse invece che continuare a fare così! È davvero snervante.»

Poi il felino, forse percependo il mio astio, si assestò. Si sdraiò su di me, appoggiando le zampe anteriori sul mio petto e infilando la testa nell'incavo del mio collo. Dopo non molto cominciò a fare le fusa. Stranamente quelle vibrazioni non mi infastidirono, anzi: riuscirono quasi a rilassarmi.

Infatti, quel suono prodotto dal gatto dall'interno del suo corpicino, ripetuto sempre nello stesso modo quasi come una frequenza, in un modo o nell'altro riuscì a conciliarmi il sonno, dato che prima che potessi rendermene conto ero già caduta nelle braccia di Morfeo.

Quando mi svegliai l'indomani mattina, Giuseppe non era più sdraiato sopra di me, era del tutto uscito dalla stanza. Neanche Vittorio c'era.

In un primo momento provai confusione; in seguito provai angoscia, perché l'ultima volta che mi ero risvegliata in una stanza senza rivedere la persona con cui la condividevo, era perché Benedetta se n'era andata per sempre; infine cacciai quei pensieri e mi alzai dal letto.

Andai in camera mia per iniziare a prepararmi per la scuola e, non appena aprii la porta, vidi Vittorio sul mio letto, ancora ronfante. Tirai un sospiro di sollievo, senza però sapermi spiegare perché si fosse spostato lì a dormire.

Comunque mi avviai alla finestra e spalancai le tende, per far entrare la luce del sole e svegliare Vittorio, così che uscisse dalla mia cameretta e mi lasciasse sola per prepararmi. Non appena dopo averlo fatto, il mio amico emise un lamento e si coprì la testa col cuscino.

«È ora di alzarsi, Bella Addormentata» lo canzonai, avvicinandomi al letto dove stava dormendo e strappandogli il cuscino di mano.

«Che rompabale, Nina» si lamentò. «Sai che russi da morire? Non sono riuscito a chiudere occhio fino a che non ho deciso di alzarmi e andarmene in un'altra stanza!» sbraitò e io assunsi un'espressione offesa: «Che dici? Non è vero che russo. Forse sono solo un po' raffreddata e ho il naso chiuso...» tentai di giustificarmi.

«Su, non cercare scuse, sembrava di ascoltare un concerto di ottoni!» esclamò e io roteai gli occhi.

«Che esagerato. E ora levati.» Poi gli tolsi la coperta di dosso, lo afferrai per un braccio e lo costrinsi a uscire dalla mia camera.

*

A scuola sembrava che le cose fra me e Irene fossero tornate come prima, non si comportava più come se ce l'avesse con me, tanto che non ci fu nemmeno il bisogno che mi scusassi e le spiegassi, ancora una volta, che non appena mi fossi sentita pronta le avrei raccontato ciò che mi stava succedendo.

Ne fui sollevata. Non volevo di certo che continuasse ad avercela in eterno con me, ma al tempo stesso ancora non me la sentivo di dirle la verità.

E poi così almeno su quel fronte non avevo di che preoccuparmi, considerando che tutto il resto andava uno schifo.

L'unica altra nota positiva di quella giornata era che quella sera avrei avuto la mia seconda lezione di danza.

Non appena tornata a casa da scuola, infatti, corsi subito in camera a preparare la borsa con le cose da portare, fra cui l'occorrente per farmi la doccia in spogliatoio.

A un certo punto sentii il telefono di casa squillare, ma presa com'ero dalle mie faccende non avevo voglia di interrompermi per andare a rispondere. «Vitto, vai tu?» gli urlai dalla mia stanza.

«Sì, vado io» rispose e infatti, pochi secondi dopo, il trillo insistente terminò, segnale che Vittorio aveva sollevato la cornetta. «Pronto?» gli sentii dire.

Trascorse poi qualche secondo in silenzio ad ascoltare chiunque stesse parlando dall'altra parte della cornetta. Poco dopo finii di preparare la borsa, così uscii dalla stanza e mi appoggiai allo stipite della porta per osservare Vittorio. «Chi è?» sussurrai, e in cuor mio speravo si trattasse di Filippo, che magari aveva chiamato Vittorio per chiedergli di vedersi quel pomeriggio oppure se poteva venire a stare da noi quella sera.

Vittorio separò la cornetta dall'orecchio e la coprì con la mano: «È Benedetta, mi ha chiesto di te» rispose a bassa voce e io subito mi irrigidii.

Scossi la testa prontamente e mimai a Vittorio di lasciar perdere, poi mi richiusi in camera.

«No, mi dispiace, non è ancora tornata a casa» sentii Vittorio dire.

Sospirai di sollievo e lo ringraziai mentalmente per avermi coperta. Non avevo alcuna intenzione di parlare con lei, perciò era il caso che la smettesse di telefonare ogni giorno e chiedere che me la passassero, perché non avrei mai ceduto. Non volevo più saperne di lei.

Dopo aver finito di pranzare e di studiare, arrivò finalmente l'ora di uscire per andare a danza.

Quella sera era particolarmente fredda e ventilata, e me ne resi conto solo non appena misi piede fuori casa e sentii la mia gola chiedere pietà. Avrei dovuto portarmi dietro una sciarpa. Speravo solo di non ammalarmi.

Presi il tram e in meno di venti minuti giunsi a destinazione. Andai di corsa in spogliatoio a cambiarmi e lì salutai le mie compagne di danza con un sorriso. Alcune di loro mi squadrarono come la prima volta, ma non me ne curai. Misi il body e i fuseaux, stavolta della taglia giusta, e infine le scarpette.

A differenza della prima volta, mi sembrava che l'insegnante ci stesse massacrando, fra il riscaldamento e il proseguimento della coreografia, andando a velocità supersonica e senza lasciarci quasi alcuna pausa. Molto spesso mi guardavo intorno per cercare di capire se fossero tutte stremate come me, eppure sembravo l'unica così tanto affaticata.

Non capivo se fosse per via delle poche ore di sonno degli ultimi giorni oppure perché ancora non ero ben abituata a tanto esercizio fisico, eppure arrivai a fine lezione totalmente spossata e con la testa che girava.

In più mi sentivo lo stomaco vuoto, e spesso ero distratta perché, totalmente senza motivo, pur non c'entrando nulla, mi veniva in mente Filippo. In particolare quando gli avevo raccontato della mia passione per la danza, e di quando il giorno prima mi aveva presa in giro per via del mio poco equilibrio e della mia poca grazia, e poi ancora di quando mi aveva chiesto di ballare con lui la prima volta che ci eravamo incontrati.

Scacciai ogni qualvolta quei pensieri con decisione.

«Ho una fame da lupi!» esclamai, rientrando in spogliatoio.

«Già, a chi lo dici» mi diede ragione Ginevra. «Non ho nemmeno fatto merenda, è praticamente da pranzo che digiuno!».

«E mi scoppia la testa, per colpa di questo schifo di chignon troppo stretto» mi lamentai, provvedendo subito dopo a sciogliermi i capelli e a massaggiarmi la cute con le dita.

Come al solito, in pochissimo tempo le poche docce a disposizione furono occupate, e c'erano addirittura già alcune ragazze in fila ad aspettare il proprio turno.

Sentii il mio stomaco brontolare indecorosamente un'altra volta. Mi presi qualche secondo per riflettere. Avevo una fame incontrollata, in più ero a pezzi, avevo solamente voglia di andare a casa mia, farmi una doccia rigenerante, cenare e poi filare a letto, il tutto nel minor tempo possibile. Quindi decisi di andarmene e lavarmi una volta tornata a casa.

Avrei fatto in fretta. In fondo la fermata del tram era a pochi passi dalla scuola di danza.

Una volta salita sarebbe stata questione davvero di una manciata di minuti. E così feci. Mi lasciai cadere sulla panca in legno del tram, appoggiando la borsa di danza ai miei piedi.

Fu allora che provai una strana sensazione, sperimentata solamente una volta nella mia vita, all'incirca un mese prima.
Sentivo delle goccioline fare la loro discesa da una determinata parte del mio corpo. Non poteva essere sudore, dato che fortunatamente non sudavo mai molto e di solito si concentrava tutto sulla fronte, dietro la nuca e sotto le ascelle, insomma nella parte alta del mio corpo.

Dentro di me sapevo già di cosa si trattasse, ma non volevo credere che avesse bussato alla mia porta, per la seconda volta, nel momento più sconveniente. Eppure ero sicura fosse così: mi era arrivato il ciclo.

Che palle.

Neanche il tempo di riprendermi da quello precedente. Avevo passato quindici anni ad attenderlo e per cosa? Se lui neanche sapeva aspettare che tornassi a casa prima di presentarsi! A quanto pare avevamo una cosa in comune: l'impazienza.

Motivo ulteriore per arrivare a casa il prima possibile.

Nonostante la stanchezza, mi alzai in piedi e ci rimasi fino al momento di scendere dal tram, per evitare di sporcare qualcosa.

Quando finalmente giunse la mia fermata, scesi quasi correndo, il che fu un errore di cui mi resi conto troppo tardi, dato che contribuì ad aumentare le perdite.

Indossavo dei pantaloni della tuta blu notte, e pregai che non si notasse qualcosa.

Cominciai a camminare verso casa con fare spedito. Questione di pochi minuti.

«Ehi bella, dove vai così di fretta?» sentii una voce maschile alle mie spalle, seguita da una grossa e grassa risata, anch'essa maschile ma con una voce diversa dalla prima.

Rabbrividii, e sentii la pelle d'oca propagarsi in ogni parte del mio corpo.

Il mio battito accelerò, così come anche il mio passo.

Decisi di ignorare quel richiamo, come mi aveva insegnato mia madre, e tirare dritto, senza dire nulla. Non fu facile, perché ne avrei dette di cose, parecchie, ma non sarebbe servito a niente. Erano in due, e io ero solo una ragazzina indifesa.

«Ehilà, parliamo con te!» sentii un altro richiamo in lontananza, stavolta sembrava provenire da colui che prima stava ridendo.

Non li avevo neanche visti in faccia, ma a giudicare dal tono delle loro voci sembravano adulti, sulla quarantina o cinquantina.

Mi davano il voltastomaco.

E pensare che forse erano padri di famiglia e facevano tali commenti su una ragazzina... mi chiesi come si sarebbero sentiti se a fare così fosse stato qualcun altro con le loro figlie. Mi chiesi anche come si sarebbero sentite le loro eventuali compagne nello scoprire di stare con persone del genere, e di averci fatto anche dei figli con persone così viscide.

«Non scappare, dai!» urlò il primo, e le loro voci mi giunsero più vicine rispetto a poco prima. Mi stavano seguendo. «Non dovresti andare in giro tutta sola con questo buio!»

«Ti riaccompagniamo noi» si aggiunse l'altro, mentre io sentivo le lacrime addensarsi nei miei occhi, ma non avevo tempo per piangere.

Mancavano circa due minuti ad arrivare a casa, ma non potevo permettermelo, non se ce li avevo alle calcagna. Dovevo seminarli, o andare in un luogo pieno di gente, a differenza di quello isolato in cui mi trovavo.

Mi ricordai che lì nei paraggi c'era un supermercato, così iniziai a dirigermi lì. Sarei rimasta lì dentro per un po', fino a che non ci avrebbero rinunciato.

Ormai non mi importava nemmeno più di arrivare al più presto a casa, mi importava arrivarci sana e salva.

Portai a compimento il mio piano, varcando la soglia del supermercato e tirando subito un sospiro di sollievo nel vedere quanta gente ci fosse. I due, che nel frattempo non si erano mostrati intenzionati a demordere, rimasero invece fuori, evitando di entrare.

Feci un giro di tutto il supermercato due o tre volte, girando ogni singolo reparto dall'inizio alla fine e talvolta soffermandomi a leggere le etichette dei prodotti, sperando che col passare dei minuti i due si decidessero a lasciarmi in pace.

Avevo la costante paura che, una volta uscita dal supermercato, sarebbero stati ancora lì fuori ad attendermi, così ritardai il più possibile quel momento.
Mi affiancai a una donna con due bambini, uno dentro il carrello e uno che camminava al suo fianco, e uscii insieme a lei, standole quasi attaccata, nell'illusione che, se quei depravati fossero stati lì, vedendomi insieme a un adulto mi avrebbero lasciata stare.

Non ce ne fu bisogno, per fortuna, perché se n'erano andati.

A quel punto mi avviai davvero verso casa correndo, dimenticandomi che correre non era il massimo nella mia situazione. Tanto dopo la doccia mi sarei ripulita per bene, l'importante era soltanto arrivarci, a quella doccia.

Giunsi davanti al portone e tirai fuori dal borsone le mie chiavi, affrettandomi ad inserirla nella serratura.

Una volta dentro, infine, richiusi il portone alle mie spalle e sospirai di sollievo.

Ero salva.

Ma odiavo essere femmina.

E ancor di più odiavo gli uomini.

Perciò non capivo che cosa mi avesse portata a prendermi una cotta per uno di loro.

C'era solo una cosa che potevo fare per rimediare: uccidere quel sentimento.

 

   
 
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