Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ode To Joy    15/02/2022    3 recensioni
[Erwin x Levi]
[Kenny x Uri] [Jean x Eren]
”L’Umanità si divide in due categorie: quelli che vogliono cambiare il mondo e quelli con il potere di farlo.”
Paradis, 850.
Il Muro Maria è stato riconquistato ma a caro prezzo: solo otto soldati hanno fatto ritorno da Shiganshina.
Levi ed Eren non sono tra loro.
Erwin è sopravvissuto a costo della sua umanità e non si ritiene più degno di guidare le Ali della Libertà.
Marley.
Prigioniero sotto la custodia di Zeke Jeager, Levi cerca di tenere in vita se stesso ed Eren con la certezza che Erwin sia morto e che nessuno stia venendo a salvarli. Manipolare il fratello minore per renderlo suo complice, però, è solo una parte del piano di Zeke.
“Ora hai sia la volontà che il potere. Smettila di piangerti addosso, vinci questa guerra e riprenditi ciò che è tuo.”
Mytras, 819.
Catturato dopo aver cercato di uccidere il re, a Kenny Ackerman viene risparmiata la vita e promessa la libertà in cambio di qualcosa che lo legherà a doppio filo al principe Uri Reiss.
[Canon-Divergence] [Omegaverse]
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Jean Kirshtein, Kenny Ackerman, Levi Ackerman
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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12
Le Ali della Libertà 
III


Ieri 

-Paradis, 819-

 

“Uri.”

Il Principe trasalì. Era ancora seduto alla sua scrivania, ma la luce della candela che gli aveva fatto compagnia durante tutta la notte si era estinta. A giudicare dalla cera sui suoi documenti, si era addormentato ormai da qualche ora.

Un ricordo che non riusciva bene a collocare lo spinse a guardare verso lo specchio nell’angolo della sua camera. Il suo riflesso gli restituì lo sguardo con la sua stessa espressione smarrita.

“Uri?”

Si voltò: Rod era sulla porta della sua camera. Aveva i capelli in disordine e indossava una vestaglia pesante sopra i vestiti da camera. “Non ti sei mosso da lì da ieri notte?”

Uri ingoiò a vuoto, cercò di recuperare la facoltà di parlare: aveva la gola secca e la testa gli girava, dopo una notte di sonno che vero sonno non era stato.

“Stavo cercando una soluzione…” Mormorò Uri con voce ancora impastata.

Rod sospirò e si decise a entrare nella camera da letto, chiudendosi la porta alle spalle. “Nostro padre ci vuole nel cortile interno tra un’ora.”

Uri si sorresse la testa con una mano. “Nostro padre vorrebbe tante cose da noi, Rod,” replicò. “Tipo che ce ne stessimo buoni e in silenzio.”

Fissò i libri sparsi sulla sua scrivania come se fossero i colpevoli del suo malumore. In tutti i territori delle Mura, la gente comune sarebbe morta per aver osato solo prendere tra le mani uno di quei volumi.

Uri non lo accettava. Non poteva accettarlo.

Suo padre possedeva il potere per garantire a loro e alla loro gente la libertà e non lo usava. No, le Mura esistevano per un bene superiore. I Reiss rimanevano nell’ombra per un bene superiore. I Titani li assediavano per un bene superiore.

Lanciò un’occhiata all’immagine della Regina Ymir, raffigurata come una dea in trionfo, poi richiuse il libro proibito in cui aveva cercato una scappatoia la notte precedente, solo per trovarsi di nuovo in un vicolo cieco.

“Uri… Forse dovremmo smetterla…”

Il Principe Uri era un carattere docile, poco incline alla violenza, anche se teneva testa al Re con una determinazione che i nemici della corona potevano solo invidiargli. Eppure, ogni volta che Rod gli porgeva la possibilità di mantenere il mondo così com’era e di limitarsi ad esserne l’erede, grato per la sua vita privilegiata, aveva una gran voglia di prenderlo a pugni in faccia.

“Non sei obbligato a darmi corda, fratello,” disse Uri, senza rancore. “In autunno diverrai padre, non hai ragione di restare appresso alle mie follie.”

“Ma tu non le consideri follie,” replicò Rod.

“Io considero follia un re che non fa tutto quello che è in suo potere per il bene della sua gente,” disse Uri, passando le dita sulle lettere in rilievo del volume proibito, che aveva rubato dalle stanze di suo padre. “Non riesco ad accettare il punto di vista di nostro padre. Non ha importanza quante versioni della storia legga. Centinaia di migliaia d’innocenti stanno pagando per crimini che non solo non hanno mai commesso, ma di cui nemmeno sono a conoscenza.”

Rod appoggiò entrambe le mani sulla scrivania. “Non credere che io non ti dia ragione,” disse. “Ma il tempo di nostro padre sta per scadere e nessuno di noi due è pronto a prenderne il posto.”

Uri si passò una mano tra i capelli biondi. “C’è davvero qualcosa che possa preparare un figlio a divorare suo padre, trasformandosi in un mostro nel processo?”

Rod non seppe come rispondergli. “Se mia moglie partorirà un maschio-“

“Non è questione di maschio o femmina, o di primogenitura, Rod, e lo sai. Con la nascita del tuo bambino, nostro padre sarà certo di poter passare la sua eredità a un’altra generazione. A quel punto, potrà scegliere chi maledire.”

“Non metterla in questi termini.”

“E in che termini dovrei metterla, Rod?” Urlò Uri, frustrato. Ritornò in sé immediatamente. “Scusa…” Aggiunse, stringendo un polso del fratello.

Rod non se la prese. “Riporta quel libro nelle stanze di nostro padre, fino a che è di sotto a fare colazione. Ti copro io: dirò che non ti sei svegliato in orario.”

Uri si massaggiò la fronte. “Dove ha intenzione di portarci?”

“Sta nevicando troppo,” spiegò Rod. “Rimanere qui sul lago sta diventando pericoloso. È bene trasferirsi nella casa di Mytras.”

Uri non gli disse che, contro ogni buon senso, sarebbe voluto restare al lago, lontano dalla classe nobiliare e dai loro giochetti malati: tipo scommettere sul numero dei caduti della missione successiva della Legione Esplorativa.

“Riporterò il libro, poi mi preparerò per la colazione… Tranquillo, non c’è alcuna fretta di parlare della successione oggi. La discussione è rimandata.”

“Ti ringrazio,” disse Rod e se ne andò.

E Uri rimase di nuovo solo con i suoi pensieri, con il peso del mondo che non aveva ancora ereditato e la triste consapevolezza che non sarebbe mai riuscito a reggerlo da solo.




 

Oggi

-Marley-

 

-20 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-

 

Quando Porko parcheggiò la motocicletta nel garage del quartier generale, era passata da un bel pezzo la mezzanotte.

Ed Eren non ne voleva sapere di stare zitto.

“Perché cammini con passo felpato?” Domandò il quindicenne.

Per tutta risposta, Porko gli schiaffò una mano contro la bocca. “Sei completamente idiota?” Sibilò, a bassa voce. “Non ho alcuna intenzione di sentire Reiner che delira su quanto tu sia pericoloso e altre stronzate simili.”

Eren ridacchiò, liberandosi dalla stretta. “Credi che dorma? Avrà tenuto in piedi tutto il quartier generale!”

“Il tuo ottimismo è quasi commuovente.”

“Che vuoi che ti faccia? Si sente troppo in colpa anche solo per guardarti.”

Porko si bloccò e il quindicenne lo superò. “Davvero?”

Eren gli lanciò un’occhiata annoiata da sopra la spalla. “E poi sarei io l’idiota… Dai, andiamo!”

“E abbassa quella voce di merda che hai!”

Porko aprì la porta dell’edificio principale e trovò l’ingresso e le scale completamente buie. Rimase fermo, ma non vide nessuna luce ai piani superiori e non udì alcuna voce.

Ottimo.

“Ti lascio nella tua stanza e domani sono cazzi tuoi,” disse al quindicenne alle sue spalle.

Eren alzò gli occhi al cielo e annuì.

Salire al piano superiore al buio fu un’impresa: Porko rischiò d’inciampare almeno tre volte ed Eren di scoppiare a ridere.

“Cazzo, quanto sei fastidioso,” bofonchiò Porko, arrivato sul pianerottolo. “Mi dispiace dare ragione a Reiner, ma quando dice male di te-“

Non riuscì a finire la frase. 

Finì scaraventato contro il muro, a meno di un metro dalla camera di Eren.

Le luci si accesero e Porko Galliard si ritrovò faccia a faccia con un furioso Reiner Braun.



 

***



 

Levi sognò di Shiganshina.

La luce del tramonto entrava senza ostacolo dall’unica finestra della stanza. Non sapeva di chi fosse quella casa, né perché avessero deciso di varcare proprio la sua porta. 

Non aveva importanza. 

I ragazzi lo avevano aiutato - anche Eren e Mikasa. Avevano deposto il corpo di Erwin sull’unico letto che avrebbe potuto reggere il suo peso, poi se ne erano andati tutti. Lo avevano fatto sia per timore che per rispetto.

Levi gliene era grato.

Solo Hanji era rimasta ferma sulla porta, per nulla intenzionata a lasciarlo da solo in un momento tanto tragico.

Qualunque sentimento si agitasse nel petto di Levi, aveva bisogno di affrontarlo in solitudine. “Lasciami solo,” disse, allungando una carezza tra i capelli di Erwin.

Erano in disordine: doveva fare qualcosa per pettinarli.

“Levi…” Hanji piangeva. “Levi, per favore…”

Lui non gli rispose.

Tutta la sua attenzione era per il viso di Erwin. Era pallido, certo, ma in pace.

Nessun incubo disturbava il suo sonno eterno, nessun pensiero che comprendesse il destino del mondo. Il fardello posato sulle sue spalle per tanto tempo, era infine stato rimosso.

Il prezzo della liberazione di Erwin Smith, Levi preferiva non quantificarlo.

Lo aveva odiato.

Sì, quando non si era fatto indietro e li aveva condotti a Shiganshina, Levi lo aveva odiato.

Tutto quello che voleva era avere l’occasione di potergli riversare addosso tutta la rabbia e il rancore che aveva provocato, ma era stato lui stesso a decidere altrimenti.

Aveva salvato un ragazzino per permettere al suo Comandante di non trasformarsi in un mostro.

Era stato stupido.

Era stato egoista.

Era stato il suo ultimo regalo per Erwin.

“Levi…” Lo chiamò Hanji. Il suo silenzio la spaventava, lo sapeva.

Il Capitano però non riusciva a farsi carico anche del suo dolore. Non ci riusciva proprio. “Lasciami solo con lui, Hanji.”



 

***


“Che diavolo ti è saltato in testa?!” Sbottò il Titano Corazzato.

Seguì il rumore di porte che si aprivano e Pieck e Colt comparvero sulla scena.

“Oh, siete tornati,” disse lei, per nulla allarmata.

“Dov’è il fratello del Capitano?” Domandò l’altro, allarmato.

Ancora fermo sulle scale, Eren alzò la mano per farsi riconoscere.

Reiner portò gli occhi su di lui e Porko lo spinse via. “Toglimi le mani di dosso!” Urlò.

Ora era Eren che il Titano Corazzato guardava con rabbia, ma il ragazzino non sembrava sentirsi affatto minacciato. “Forza,” allargò le braccia, come per invitarlo. “Picchiami, fammi del male. Non vedi l’ora di farlo, no?”

“Certo che non vedo l’ora di farlo!” Ringhiò Reiner, come un cane furioso. “Ma anche se lo facessi, riuscirei a far funzionare quel cervellino bacato che ti ritrovi? Eh?!”

Eren sbuffò e salì le ultime scale che lo dividevano dal pianerottolo. “Non è successo niente.”

“Non è successo niente?” Ripeté Reiner, fuori di sé. Si fece avanti, minaccioso. Eren, di risposta, indietreggiò fino a ritrovarsi con le spalle al muro.

A quel punto, anche Pieck avvertì che l’aria si stava facendo troppo pesante. “Reiner…” Chiamò, facendosi avanti insieme a Colt. Quest’ultimo continuava ad alzare ed abbassare le braccia, come se volesse intervenire, ma sapere di essere il più debole sulla scena lo tratteneva.

“Reiner, davvero…” Porko alzò la mano e afferrò la manica del compagno di squadra. “Vediamocela tra me e te, che potere decisionale può mai avere questo moccioso? L’ho caricato in moto e l’ho portato a fare un giro, non mi ha puntato una pistola alla testa!”

Pieck sbatté le palpebre un paio di volte. “Lo stai difendendo, Porko?”

“Vi prego…” Colt era evidentemente nervoso. “Se ci mettiamo a fare una rissa qui, ci faranno rapporto ai piani alti e il Capitano ci andrà di mezzo in prima persona!”

“Smettila di urlare e forse non ci beccheranno,” gli rispose Pieck, tranquilla.

Reiner stava ancora fissando il prigioniero dall’alto in basso. Non doveva sforzarsi di essere minaccioso: il suo aspetto lo aveva sempre aiutato a mettere in soggezione gli altri, finché non apriva bocca e si faceva conoscere. Era proprio quello il problema: Eren lo conosceva bene e sapeva di non dover avere paura di lui. Quello che preoccupava di più il Titano Corazzato era come fosse riuscito ad avvicinare Porko, nonostante lo conoscesse da meno di quarantotto ore. Sì, il più giovane dei fratelli Galliard era un testa calda, facile da provocare, ma se c’era qualcuno che più di ogni altro avrebbe dovuto disprezzare Eren, quello era Porko stesso.

Invece, no, Eren non solo era riuscito a parlarci, ma lo aveva anche spinto a trasgredire le regole.

“Che diavolo di potere hai?” Sibilò Reiner.

Eren sorrise sarcastico. “Ti faccio paura?”

“Reiner, smettila, guarda in faccia me!” Esclamò Porko, tirando indietro il compagno di squadra di forza. “Per chi mi hai preso, eh? Non sono un pupazzetto nelle sue mani!”

“Come se me ne facessi qualcosa di un pupazzetto come te,” replicò Eren.

“Stai zitto!” Tuonarono Reiner e Porko in coro.

Il fanciullo di Paradis sospirò, annoiato. Pieck ridacchiò sotto i baffi e Colt si prese il viso tra le mani, certo che non sarebbero arrivati all’alba senza finire nei guai.

“Che cosa ti ha convinto?” Domandò Reiner, provocatorio. “Lui rappresenta tutto quello che ti fa schifo e lo porti a fare un giro in moto per tutta la città?”

Porko gli diede una spinta. “Sei tu che non hai capito un cazzo, Reiner!” Esclamò. “Non che tu abbia mai brillato per intelligenza. Gli ordini sono di fargli conoscere Marley e come può conoscerla chiuso in una stanza?” Domandò. “Deve guardarla da una finestra e giocare d’immaginazione?”

“Quindi hai eseguito gli ordini del Capitano?” Domandò Reiner, con un sorriso beffardo. “Sei davvero così affamato di gloria, che hai ben pensato di fare il primo passo, eh? Oppure, sii onesto, e ammetti davanti a tutti che Eren è riuscito a convincerti a fare qualcosa che non avevi la minima voglia di fare!”

“Non sono il suo pupazzo!” Ripeté Porko, con rabbia.

“Abbiamo parlato!” Era arrivato il turno di Eren di urlare. “Non so che cosa ti abbia convinto che io sia un manipolatore nato, Reiner, ma io e Porko abbiamo solo parlato. Il giro in moto è venuto da sé.”

Solo parlato. Reiner non riusciva a credere alle sue orecchie. Quello era lo scenario peggiore che potesse verificarsi e la cosa più llarmante era che non lo aveva nemmeno preso in considerazione. Eren e Porko? Non esisteva, né in quel mondo né dentro le Mura. Una testa calda e una mina vagante erano il peggior binomio di cui avevano bisogno in quel preciso momento. 

Pieck si alzò sulle punte. “Dove siete andati di bello, Eren?”

Sia Porko che Reiner portarono lo sguardo sul ragazzino, rimasto fermo nell’angolo. Eren non rispose immediatamente: il viso del suo vecchio compagno di squadra era pieno di aspettativa, l’altro scuoteva appena la testa. Non dirlo, lo pregava Porko, in silenzio. Non glielo dire.

Eren non aveva alcuna intenzione di mentire per coprire un Guerriero di Marley, ma doveva ammettere con se stesso che Porko - nonostante il pessimo carattere che dimostrava di avere - era stato il primo a trattarlo come una persona, poco importava se lo aveva fatto con tutta l’antipatia del mondo. No, forse era stato proprio per questo che lo aveva fatto sentire normale. “Mi ha portato sul belvedere a guardare la città dall’alto e a prendere un gelato,” rispose, con nonchalance. “Poi siamo andati fuori dalle mura di cinta, sulla spiaggia e siamo rimasti lì per un bel po’. Alla fine, abbiamo deciso di finire il carburante girando intorno, per vedere alcuni dei quartieri principali da vicino.”

Il viso di Porko si rilassò di colpo per il sollievo.

“Ah!” Pieck non nascose la sorpresa, lanciando all’amico di sempre un sorrisetto divertito. “Era un appuntamento!”

Il giovane Galliard la guardò malissimo. “Stai zitta!”

Reiner inarcò le sopracciglia fin quanto gli fu fisicamente possibile. “Il gelato… La spiaggia… Ma che cazzo state dicendo?” 

“Porca puttana, Reiner!” Porko era entrato nel quartier generale senza pazienza, ma ora stava raggiungendo tutto un altro livello. “Nessuno ha manipolato nessuno! Lo stronzetto era in giro, ci siamo ritrovati nel garage e siamo andati a fare un giro!”

Reiner si portò una mano alla testa, poi la scosse, frustrato. “Voi due non dovrete più parlarvi.”

Porko scoppiò a ridere. “Non ci posso credere.”

“Non è questo che ha ordinato Zeke,” obiettò Eren.

Reiner gli puntò l’indice contro. “Non nominarlo solo quando ti fa comodo!”

“E tu smettila di fare l’isterico!” 

Lo schiaffo arrivò prima che Reiner stesso riuscisse a registrare il movimento del suo braccio. Eren finì contro la parete, con i capelli a coprirgli gli occhi. 

Tutto intorno al Titano Corazzato si fece immobile.

 
 

***



 

Levi stava ancora sognando.

Prima di andarsene, Hanji si permise di avvicinarsi al letto. Il Capitano non la guardò, mentre si chinava sul Comandante caduto e gli posava un bacio sulla fronte. Fu atto di sincero affetto, come quello che si riserva a un fratello molto amato.

“Addio, Erwin…” Mormorò, tra le lacrime.

Prima di andarsene, la compagna di squadra a cui era legato come una sorella provò un’ultima volta a cercare i suoi occhi. Levi sapeva che gli stava porgendo una mano, che non voleva farlo sentire solo in quell’ora così buia. Sapeva che lei era lì, gli sarebbe bastato allungare un braccio per toccarlo. Levi non era davvero in quella stanza, insieme a lei. Era certo di essere morto e che il suo cuore stesse continuando a battere per puro sbaglio. Da quando avevano deposto il cadavere di Erwin su quel letto, Levi aveva smesso di percepire il mondo intorno a sé come avrebbe dovuto.

Ma non aveva la voce né la forza di spiegarlo a Hanji.

Se lei riuscì a comprenderlo lo stesso, non lo seppe mai. La giovane donna uscì da quella camera da letto senza dire una parola di più, preoccupandosi di chiudere la porta per lasciare a entrambi tutto il tempo di cui avevano bisogno.

Di cui Levi aveva bisogno, perché quello di Erwin era ormai arrivato alla sua conclusione. Eppure, l’illusione che il suo Comandante stesse solo dormendo era molto realistica.

Levi aveva visto la morte su molti giovani visi, prima di allora. Primo tra tutti, quello di sua madre. Pur tra le braccia della nera signora, lei gli era sembrata bellissima, poi i giorni erano passati e aveva cominciato a decomporsi.

Forse era malato da pensare ma, se possibile, Erwin appariva ai suoi occhi ancor più bello di quanto lo fosse in vita. Se Levi avesse scostato la giacca della divisa, avrebbe trovato una fasciatura sul fianco sinistro stretta alla male e peggio per contenere gli organi interni, e tutta quella tragica poesia sarebbe stata messa da parte dall’odore insopportabile di carne morta.

Ma Levi non aveva né la forza né la voglia di essere realista, non quella volta.

Ormai in pace, Erwin gli appariva bellissimo.

“Hai i capelli in disordine,” lo rimproverò stancamente, come se potesse udirlo. Allungò la mano per porre rimedio alla cosa lui stesso. I capelli non erano morbidi, non come Levi era abituato a sentirli sotto le dita la notte successiva al rientro da una missione, mentre Erwin gli dormiva addosso e lui vegliava il suo sonno.

Fosse stato per Levi, sarebbe rimasto lì, seduto su quel letto, a fare lo stesso fino alla fine del tempo. Ma non poteva, non era più necessario.

Nessun incubo avrebbe più disturbato il sonno del suo Comandante.

“Non hai più nulla di cui preoccuparti,” disse Levi. Parlare gli provocava un dolore al petto che non aveva mai provato prima. Quello da solo bastava a fargli desiderare la morte anche per se stesso. Il Capitano non avrebbe voluto altro che stendersi accanto al suo Comandante ed esalare il suo ultimo respiro lì, accanto a lui. Non gli era concesso. Il destino non era mai stato gentile con Levi Ackerman.

“Ci penso io adesso. Tu sei libero…”

Levi si voltò, afferrò il mantello verde in fondo al letto, poi si bloccò, come se una lama invisibile lo avesse trafitto. Dischiuse le labbra per ingoiare aria, strinse gli occhi e s’impone un controllo che raramente aveva vacillato. 

Levi portò di nuovo gli occhi sul suo Comandante e quando non trovò quegli occhi azzurri rispondere al suo sguardo, tutta la tristezza cristallizzata nelle sue iridi d’inverno venne fuori in un singhiozzo strozzato: “Erwin…” 

Levi si chinò su di lui, gli baciò le labbra, artigliando lo stemma sulla manica destra della divisa, come se volesse ridurlo a brandelli. Lo avevano definito l’incarnazione delle Ali della Libertà molte volte. Erwin era stato il primo a farlo. Fosse stato per Levi, le avrebbe lasciate bruciare, così come ciò che le Mura proteggevano e il resto del mondo - lo stesso mondo che quei maledetti mocciosi volevano tanto vedere con i loro occhi.

Erwin non avrebbe mai avuto quella possibilità. Erwin, che aveva pagato più di ogni altro ancor prima di sacrificare la propria vita, non avrebbe mai visto il mare di cui Armin parlava con tanto entusiasmo con Eren. L’ultima volta che le ali del Comandante si erano aperte era stato per volare incontro alla morte.

E Levi avrebbe vissuto ogni giorno che gli era rimasto ad accettare quella verità devastante.

Le loro fronti si toccarono, mentre Levi graziava le labbra fredde di Erwin ancora, ancora e ancora.

Non lo aveva mai fatto così disperatamente, non aveva mai tremato così, stretto al corpo del suo Comandante.

Levi scivolò sul suo petto e vi rimase per quella che parve un’eternità. Era già morto, quindi perché il suo cuore non la piantava d’insistere e non cessava di battere. Non accadde. 

Era un sopravvissuto. Era quella la sua maledizione.

Levi si allontanò da Erwin. Non era scesa nemmeno una lacrima sul suo viso, ma il dolore riflesso nei suoi occhi era qualcosa di terribile. 

“Non dimenticherò,” mormorò Levi. “Te lo prometto, Erwin.”

Il Capitano coprì quel volto tanto amato con il mantello della Legione Esplorativa. Esitò un istante di più, poi s’impone di alzarsi in piedi. Le gambe lo ressero a stento, ma non poteva restare lì. Non aveva importanza quanto il suo cuore gli urlasse di rimanere al fianco dell’uomo che amava, la guerra non era finita. Fuori da quella stanza, Hanji aveva bisogno di lui, i mocciosi avevano bisogno di lui. L’intera Umanità, che avrebbe volentieri condannato se fosse stato per il suo dolore, aveva bisogno di lui.

Il tempo di Erwin era finito, il suo no.

Con lui, Levi aveva conosciuto comprensione - come con nessun altro - felicità - nella forma in cui era concessa a due portatori delle Ali della Libertà - e guarigione - da tutte le ferite della sua anima che non si erano mai rimarginate. Ora, anche se Erwin lo aveva lasciato con una più profonda di tutte le altre, doveva andare avanti.

Fece un passo, solo uno.

“Levi!” Urlò la voce di Erwin, spezzandogli il respiro.

Non era possibile, ma non aveva importanza.

Si voltò.



 

“Erwin!” Levi si svegliò nella sua cella, con il braccio teso verso il vuoto e il nome dell’uomo che amava sulle labbra.



 

***



 

Fu Eren il primo a muoversi. Si portò una mano alla guancia lesa e quegli occhi dal colore impossibile cercarono immediatamente quelli di Reiner. Non era arrabbiato, ma sorpreso. Il genere di sorpresa che si prova quando si riceve una pugnalata alle spalle.

“Ma sei completamente impazzito, cazzo!” Porko spezzò il silenzio, spingendo da una parte il Titano Corazzato per accertarsi delle condizioni del più giovane.

Reiner restò a guardare come un ebete, mentre Eren si lasciava toccare da Porko, che gli prese il viso tra le mani per valutare i danni. Un taglio sul labbro inferiore si rimarginò in pochi istanti, emettendo un filo di fumo appena visibile.

Pieck non sorrideva più. Si avvicinò a Reiner e gli strinse la spalla. “Ehi,” gli disse con voce quieta. “Un po’ di rabbia è comprensibile, ma non è successo nulla di così grave.”

Il Titano Corazzato ascoltava la sua voce, ma non la sentiva davvero. Non riusciva a distogliere lo sguardo da Eren e Porko, dalla libertà che quest’ultimo si prendeva nel stargli vicino e dalla naturalezza con cui il primo glielo permetteva.

Non si conoscono da nemmeno due giorni, continuava a ripetere nella sua testa. Non si conoscono da nemmeno due giorni.

“Sto bene,” disse Eren, un po’ troppo bruscamente.

Porko alzò le mani al cielo. “Scusa, se sto cercando di aiutarti.”

“Non mi serve il tuo aiuto.”

Tutto quel bisticciare a Reiner sembrava terribilmente familiare. La sua mente lo riportò indietro, a casa - no, non casa, ma Paradis - ai giorni del campo di addestramento, quando Eren non riusciva a fare un singolo passo senza farsi male e Jean era sempre lì, pronto ad urlargli contro per la sua incapacità di agire senza pensare.

Ecco chi gli ricordava Porko in quel momento: Jean Kirshtein.

Quel pensiero lo atterrì.

“Beh, vanno d’accordo,” concluse Pieck, al suo fianco. Suonava felice, forse perché non era da tutti riuscire ad attirare l’attenzione di Porko.

Alle sue spalle, Reiner sentiva Colt ripetere una litania di cui non comprendeva le parole. Forse stava pregando per la loro salvezza, non ne era certo. Non aveva tempo di preoccuparsi delle ansie del successore di Zeke Jeager, anche se aveva la netta sensazione che il Capitano sarebbe presto venuto a sapere che il suo fratellino era stato schiaffeggiato dal Titano Corazzato in persona.

No, nemmeno quel pensiero riusciva a distogliere Reiner dal riflettere sulla concreta possibilità che Porko ed Eren stessero legando e anche velocemente.

Inaspettatamente, fu Eren a correre in suo soccorso e porre fine a tutto. 

“Io vado a dormire!” Dichiarò, allontanandosi da Porko. 

Pieck lo fece passare. Reiner lo seguì con lo sguardo, ma il più giovane evitò volontariamente di guardarlo. Se le circostanze fossero state diverse, Eren non si sarebbe fatto scrupoli a rispondere al suo schiaffo con un pugno. I tempi erano cambiati, le loro posizioni erano diverse.

Reiner non era solo il nemico sotto copertura che aveva tradito gli amici con cui era cresciuto ed Eren non era solo il suo prigioniero. Almeno, questa era la conclusione a cui il giovane Braun era arrivato in quei venti giorni di delirio.

“Eren-“ Reiner non fece in tempo a dire nulla.

Il corpo di Eren venne attraversato da uno spasmo, come se qualcuno lo avesse colpito alla testa. Cadde a terra, come se fosse morto.




 

***



 

Levi rimase con le dita tese verso il soffitto scuro per quella che gli parve un’eternità.

Quando adagiò il braccio sul materasso lercio, accanto al suo viso, dischiuse le labbra per ingoiare aria: sentiva la gola chiusa.

Non era a Shiganshina. Non aveva mai dato al corpo di Erwin una sorta di degna sepoltura. Maledizione, non sapeva nemmeno come fosse morto con precisione. Se se ne era andato velocemente, se era rimasto ad agonizzare sull’erba sporca di sangue, maledicendo lui, la sua scelta e tutta la sua vita.

Levi sapeva solo che era rinchiuso in quella prigione in compagnia del suo fantasma.

E non ce la faceva più.

“Kenny…” Pianse, come se avesse ancora quattordici anni e fosse raggomitolato nell’oscurità della Città Sotterranea ad aspettare che quel bastardo venisse a prenderlo. Lo aveva lasciato solo molte volte, ma era sempre tornato. Levi si era aggrappato a quel pensiero per giorni interi, prima di accettare che Kenny lo aveva abbandonato e non sarebbe più tornato.

Chiamare il nome del bastardo ora, quando Levi sapeva benissimo che c’erano un mare e almeno tre cinte di Mura a dividerli, era umiliante, oltre che ridicolo.

Ma Levi non ce la faceva davvero più.

Aveva salvato se stesso tante di quelle volte che era distrutto. Non riusciva più a rialzarsi in piedi. Dichiarava la resa e pretendeva che qualcuno venisse a salvarlo.

E c’era rimasta solo una persona là fuori di cui invocare il nome.

“Ti prego, Kenny…” La voce di Levi era rotta e flebile, come quella di un bambino in lacrime. Forse stava piangendo davvero, non lo sapeva. Non gli importava.

Voleva solo uscire da quell’oscurità.

“Levi.” La voce di Erwin gli rispose dal buio, come se fosse reale. “Levi, mi senti? Sono qui!”

Levi si coprì entrambe le orecchie con le mani. “No, basta… Basta...”

“Levi, sono io!” Il fantasma di Erwin insisteva, lo chiamava con tono implorante, disperato. “Sono qui! Rispondimi!”

Il respiro di Levi era veloce e frammentato. Tremava e i suoi singhiozzi riecheggiavano contro le pareti di pietra. 

Non ce la faccio più! Non ce la faccio più!

“Levi!”

”Basta!” 



 

Quell’urlo fece tremare la terra. 

Qualcosa andò in pezzi, poi tornò il silenzio.



 

***



 

”Basta!”



 

Eren aprì gli occhi con cautela. 

“Va tutto bene, Eren,” lo rassicurò una voce dolce. Era Uri.

Il fanciullo si fece coraggio. Sopra di lui trovò la volta celeste trapunta di stelle. Era stupende, gli trasmetteva una sensazione di pace che gli era completamente estranea. Mosse le dita delle mani: erano intorpidite, come se fossero rimaste immobili per molto tempo. Chiuse il pugno su della sabbia fresca. 

Lentamente, come se avesse paura che il sogno potesse andare a pezzi da un momento all’altro, Eren si mise a sedere. Uri non era lì.

All’orizzonte, una luce verdastra usciva dal terreno, diramandosi verso il cielo come un enorme albero luminoso. 

Era successo tutto in una frazione di secondo. Aveva udito un grido disperato nella sua testa. La voce di Levi. Eren non sapeva come faceva a esserne così certo, ma lo era. 

Si guardò intorno e si accorse di non essere solo.

Gelò, spaventato, ma l’uomo inginocchiato sulla sabbia sembrava essere spaventato quanto lui. 

Pur tremando come una foglia, Eren allungò una mano verso l’altro. Gli afferrò il polso.

“Comandante…” La voce uscì flebile e tremante dalla sua gola.

Erwin sollevò gli occhi e incontrò i suoi. 

Impiegò un lungo istante per riconoscerlo, poi chiamò il suo nome: “Eren…”




 

Il sogno andò in pezzi.




 

Ieri 

-Paradis, 819-



 

“Levi!” Uri si svegliò di colpo, una mano protesa verso il soffitto della sua camera da letto. Tutto il suo corpo era ricoperto da una patina di sudore 

Ingoiò aria, come un naufrago che riemerge dall’acqua alla fine di una tempesta.

Con cautela, si sollevò sui gomiti: era al sicuro, nella sua camera da letto a Mytras.

Eppure, nel petto avvertiva un dolore che non sapeva quantificare e di cui non conosceva la fonte.

Non ebbe il tempo di calmare il cuore impazzito, che Rod entrò nella sua camera in tutta fretta imbracciando un fucile. Incapace di dire qualcosa, Uri se ne rimase immobile a guardare suo fratello che, spaesato, girava su se stesso, alla ricerca di eventuali minacce.

Non trovò nulla, erano solo loro due.

“Che cosa è successo?” Domandò alla fine, rivolgendosi al fratello minore.

Uri ignorò deliberatamente l’irritazione ben visibile sul suo volto paonazzo. “Un incubo,” disse.

“Un incubo…” Ripeté Rod.

“Non è una novità, Rod. Non guardarmi così,” disse l’erede al trono, spingendosi verso il bordo del materasso per mettersi in piedi. Nonostante i suoi timori, la terra non si aprì sotto i suoi piedi e le gambe lo sorressero. “Un incubo,” ripeté.

Rod abbassò il fucile con un gran sospiro, simile a uno sbuffo. “E chi diavolo sarebbe Levi?”

Uri sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?”

“Hai urlato quel nome,” chiarì Rod. “Chi è questo Levi?”

Il Principe provò a ricordare che cosa aveva sognato, chi fosse il giovane a cui apparteneva quel nome. Un momento, perché era così sicuro che fosse un giovane? Gli faceva male la testa, così allontanò quel pensiero scuotendo il capo. “Non lo so,” rispose frettolosamente.

Non conosceva nessuno con quel nome.

“Non lo sai?” Insistette Rod.

“No, non lo.”

“Allora perché stai piangendo?”

Uri si portò una mano tremante al viso e si accorse di avere le guance madide di lacrime. Non aveva una risposta da dare. Si portò la mano al petto, dove il fantasma di un dolore che non gli apparteneva faceva ancora male. Rimase in silenzio.


 
   
 
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