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Autore: WillofD_04    16/02/2022    3 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Ah, ho vinto! Che bello!» esclamò trionfante Usop, gettando le braccia al cielo. «Hai visto che alla fine ti ho battuto, Cami?»
A quanto pareva la partita era terminata. Non dissi niente. Sia Sanji che il mio Capitano aspettavano una mia qualsiasi reazione, che però non arrivò. Per un po’ rimasi immobile nella posizione in cui mi trovavo, seduta a gambe incrociate su un angolo del prato della Sunny.
Avevo obbligato quei due ad interrompere le attività che stavano svolgendo, che nel caso del biondo era cucinare, mentre nel caso del moro era tentare di convincere Rufy ad affrontare un discorso serio sull’imminente guerra contro un Imperatore – quindi lo avevo salvato da se stesso – per rendere il gioco un po’ più divertente: non mi piaceva vincere facile. C’era, però, una cosa che mi piaceva ancora di meno.
«Non dici niente? Del resto qualsiasi cosa tu dica non cambierà il fatto che io sono il Grande Usop, l’appena proclamato Re di Machiavelli!» rimarcò il cecchino, con un sorriso beffardo che gli avrei cancellato entro qualche secondo.
Fu un attimo. Non si accorse nemmeno. Si ritrovò semplicemente con uno dei miei pugnali puntati alla gola. Sgranò gli occhi e deglutì sonoramente.
«C-Cami? Che... che stai facendo?» mi domandò titubante, osservando la mia mano che teneva il coltello a mezzo millimetro dalla sua pelle.
«Cami-chan...» Sanji era attonito.
«Pensavi che non me ne sarei accorta?» Un bagliore omicida apparve nei miei occhi.
Spalancò ancora di più le palpebre, terrorizzato.
«Non fare mai più un giochetto simile con me. So che hai barato. Avanti, tira fuori le carte dai pantaloni.»
Usop si portò le mani ai lati della faccia, in segno di resa. Se con Brook la violenza non serviva a niente, con lui era necessaria, affinché capisse che con me non c’era da scherzare. Se si aspettava di trovarsi davanti la Camilla ingenua e innocua di una volta, si sbagliava di grosso.
Ghignai e infilai le dita nei suoi pantaloni color giallo senape. Non era una cosa tanto elegante da fare, ma avevo fatto di peggio. Ed eccole lì. Non una, non due, ma ben tre carte. Era un trucchetto vecchio quanto mia nonna. Era stata proprio lei ad insegnarmelo, avevo imparato a riconoscere i segnali fin dalla tenera età di dodici anni. Anche lei ogni tanto barava, più che altro perché non aveva mai capito come funzionasse Machiavelli, ma era così orgogliosa e testarda che pur di non perdere avrebbe – letteralmente – fatto carte false. Ancora mi pareva di scorgerla davanti a me, con i suoi boccoli perfettamente definiti, il suo rossetto rosso ciliegia, il suo bicchiere di vino in mano e le carte nella manica della sua blusa. Non avevo bisogno di attivare l’Haki per sapere quando qualcuno barava, soprattutto se si trattava di Machiavelli.
Le recuperai e le rimisi in mano al cecchino come se non fosse successo nulla, per poi rinfoderare il pugnale nello stivale. Volevo continuare la partita, anche se avevo motivo di credere che per gli altri fosse finita lì.
Gettai uno sguardo su tutti i giocatori per cercare di captare le loro intenzioni. Se Usop appariva sconvolto e Law impassibile, Sanji sembrava estasiato.
«Cami-chan! Anche io ho nascosto delle carte nei pantaloni!» esordì, contento come un bambino. Alzai un sopracciglio. Ecco spiegato il perché del suo strano comportamento. «Controlla pure, ti prego!»
Fece per avvicinarsi, ma io tirai di nuovo fuori il coltello e gli premetti la punta della lama contro il petto, senza fargli male. Lo stavo facendo più per fermare la sua folle avanzata verso di me. Tuttavia lui non cedette, né diede il minimo segno di volerlo fare.
«Trafiggimi, mia Regina! Il mio cuore è colmo d’amore per te!» esclamò con voce stridula, facendomi accapponare la pelle. Dopo quella frase ero davvero tentata di piantargli il pugnale nel torace. Dall’espressione che fece, capii che il mio Capitano la pensava alla stessa maniera.
«Sanji-san,» lo richiamò Nami da lontano. «Oggi non ci cucini una delle tue squisite cenette? Avrei una certa fame.»
Le rivolsi un’occhiata grata. Sapevo che era tutta una recita per levarmi di torno lui e le sue velate – ma neanche troppo – molestie. All’improvviso, il cuoco ritornò serio.
«Dolce principessa, spero che non ti dispiaccia, ma il sole sta tramontando e devo andare a preparare la cena,» si congedò guardandomi. Dopodiché si alzò e ritornò verso la sua amata cucina, non prima di rivolgere delle avances – che furono prontamente respinte con un pugno – alla navigatrice. Avevo tentato di convincerlo a lasciare che per una volta fosse Ryu a cucinare, ma non aveva voluto sentire ragioni. Una cosa, però, era certa: quando ero in loro compagnia il tempo passava in fretta. Non mi ero accorta che fosse già arrivato il tramonto, né pensavo che ne avrei rivisto uno così presto. Eppure, eccomi lì, colta in flagrante dall’imprevedibilità della vita.
Il cecchino si schiarì timidamente la voce.
«Io... devo... sì,» balbettò, defilandosi pian piano, con la coda tra le gambe e la paura ancora negli occhi.
Rimanevamo soltanto io e il chirurgo, seduti uno di fronte all’altra.
«È stata una partita emozionante,» commentò una volta che si fu rimesso in piedi. Poi si calò la tesa del cappello sugli occhi. Sulle sue labbra si intravedeva un sorriso compiaciuto. Mi rialzai anche io e lo affiancai.
«Di’ la verità, te ne eri accorto anche tu.» Sollevai gli angoli della bocca in un sogghigno.
«Volevo vedere fino a che punto ti saresti spinta.»
«Ad un punto di non ritorno, a quanto pare.» Ridacchiai nell’osservare il cecchino che si accarezzava la gola, ancora scosso per quanto successo.
Quando riportai lo sguardo sul mio Capitano, notai che stava squadrando Rufy con aria pensierosa.
«Prima o poi si renderà conto che abbiamo bisogno di un piano per agire e allora potrete discuterne,» provai a rassicurarlo, sebbene non ne avesse bisogno. «Non è sempre come parlare a un muro.»
Non che fossi un’esperta o che sapessi come prenderlo, ma un po’ conoscevo il capitano dei Mugiwara ed ero convinta che prima o poi si sarebbe ravveduto. Non si poteva biasimare, però: era un argomento di cui nessuno aveva voglia di parlare. Mettendoci contro Kaido avevamo praticamente firmato la nostra condanna a morte.
Law non mi rispose. Sospettavo che non mi avesse nemmeno sentita. Ne compresi il perché solo dopo che anche io ebbi osservato attentamente il fratello di Sabo per qualche minuto. Stava ridendo e scherzando tranquillo con Chopper e Carrot, quando, ad un tratto, ai miei occhi apparve diverso. Era sempre uguale, era sempre lo stesso Rufy che sembrava essere ignaro di tutto, ma qualcosa era cambiato. Non avrei saputo dire cosa, però era lì, davanti a me. Lo avevo visto e non potevo più ignorarlo.
«C’è qualcosa di strano. Non credi?» chiesi al mio interlocutore, voltandomi a guardarlo. Il mio Capitano annuì flebilmente. Sembrava molto serio, più del solito. C’era qualcosa che non andava.
 
Sapevo che prima o poi quell’idilliaco momento di svago sarebbe finito. Non per niente a cena ci ritrovammo a discutere dell’imminente battaglia contro l’Imperatore delle Cento Bestie. Era venuto fuori quasi per caso, in realtà. Ed era stata colpa mia. Ancora una volta io e Law ci eravamo ritrovati a banchettare in allegria insieme alla ciurma di Cappello di Paglia. Bepo, invece, era rimasto con il resto dei Pirati Heart. A pranzo i Mugiwara mi avevano parlato perlopiù della loro avventura su Whole Cake Island, ma non avevano menzionato niente sulle mille altre peripezie che ero sicura avessero vissuto – e delle quali non avevo avuto ancora l’occasione di leggere – così avevo fatto il madornale errore di chiedere loro cosa avessero combinato in questi due anni dopo aver sconfitto una delle punte di diamante di Kaido e aver salvato il loro cuoco da un matrimonio tragico. La loro risposta era stata tanto inaspettata quanto semplice: avevano cercato quanti più Poignee Griffe fossero riusciti a trovare, tra i quali anche l’ultimo Road Poignee Griffe, dall’ubicazione sconosciuta. A quanto pareva, però, la loro ricerca era stata piuttosto fallimentare: della pietra rossa non vi era alcuna traccia da nessuna parte. Mi avevano spiegato che avevano aspettato così tanto prima di affrontare Kaido perché era stata Robin a chiederlo. Per quanto fossimo tutti riluttanti ad ammetterlo, sapevamo che c’era la possibilità che qualcuno di noi potesse morire a Wa, e l’archeologa sembrava esserne più consapevole di tutti, per questo aveva deciso di cercare prima il Road Poignee Griffe mancante, in modo da poterlo decifrare e ridurre così le possibili rotte da tracciare per Raftel. Non le si poteva dare torto, dopotutto tre erano pur sempre meglio di due.
«Non siamo riusciti a trovare ciò che cercavamo, ma in compenso abbiamo trovato tre Poignee Griffe normali, e crediamo che in uno di essi sia contenuto un indizio circa le informazioni necessarie per trovare la sua corrispondente pietra rossa,» ci informò la navigatrice, ormai divenuta la portavoce ufficiale del gruppo.
«Che tipo di indizio?» chiesi, incuriosita.
«Un indizio alquanto enigmatico,» commentò Brook, prendendo un lungo sorso di tè.
«Una specie di filastrocca.» Usop si grattò il pizzetto.
«Dove il cielo incontra il mare, un rubino inizierà a brillare. La rotta finale verrà tracciata e la sorte del mondo ribaltata,» rivelò Robin, facendomi corrugare la fronte.
«Che diavolo dovrebbe significare?» mi lasciai sfuggire, perplessa.
«È quello che stiamo tentando di capire anche noi.» Nami sospirò.
«Qual è il problema?» chiese Law, che data la sua incredibile perspicacia aveva capito che c’era qualcosa sotto.
«Siamo un po’ stretti con i tempi,» replicò la cartografa. «Tra due settimane dovremmo incontrarci con gli altri membri dell’alleanza. Non possiamo più rimandare, lo abbiamo fatto per troppo a lungo.»
Nel sentire le sue parole, raddrizzai la testa e mi rianimai all’improvviso.
«Gli altri membri dell’alleanza? Intendi anche Nekomamushi e... Marco?» chiesi, gli occhi pieni di speranza. Pronunciai l’ultima parola con molta cautela, come se avessi paura che la persona che portava quel nome potesse di nuovo svanire nel nulla. Non poteva accadere, avevo bisogno di rivederlo.
«Non ne siamo certi. Non abbiamo contatti con loro da parecchio tempo, abbiamo preso questi accordi mesi fa.»
Abbassai lo sguardo, carico di delusione, e sospirai malinconicamente. Forse non era destino che ci rincontrassimo.
«Il punto è che, come ha detto Nami, il tempo per trovare il Road Poignee Griffe scarseggia. E non siamo sicuri di avere i mezzi necessari per riuscire nella nostra impresa prima che si esauriscano queste circostanze favorevoli,» intervenne Usop. «Ci è rimasta una sola zona da perlustrare, tra quelle nelle quali crediamo che si possa nascondere la pietra, e siamo convinti che questa sia la volta buona.»
«Perciò... vi andrebbe di unirvi a noi nella ricerca del Road Poignee Griffe? Ci farebbe comodo una mano,» ci propose la Gatta Ladra, rivolgendo un gran sorriso a me e al chirurgo.
«E dei cervelli in più,» aggiunse Sanji, accendendosi l’ennesima sigaretta della giornata.
«No,» rispose Law, secco. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo. Era proprio un frigido guastafeste. Però capivo il suo punto di vista: per lui il solo scopo dell’alleanza che aveva stretto con Cappello di Paglia era quello di eliminare Kaido. Si aspettava di parlare di approcci e strategie di guerra, di certo non aveva pensato di doversi mettere a fare una caccia al tesoro, non era nei suoi piani, né nei suoi interessi.
La rossa spostò lo sguardo su di me, speranzosa. Prima di rispondere gettai uno sguardo al chirurgo, non tanto per chiedergli il permesso, quanto per chiedergli un consiglio sul da farsi. Tuttavia non riuscii a decifrare la sua espressione. Non capivo se secondo lui avrei fatto meglio a rifiutare la loro proposta o se invece credeva che avrei dovuto accettare. In fondo me lo aveva sempre ripetuto: non era mio padre, o il mio Angelo Custode, non era sempre lui a dover decidere per me. Quello che mi lasciò intendere, però, era che avevo la sua autorizzazione per unirmi a loro.
«Allora?» mi sollecitò Rufy, impaziente come suo solito.
Mi morsi un labbro. C’erano ancora tante cose che dovevo sistemare sul sottomarino, a cominciare dalla questione di Kenji. E avevo ancora bisogno di lavorare sul mio polso, per riacquistarne una volta per tutte la piena funzionalità. In più non volevo essere io la responsabile della mia stessa morte. Perché, se l’avessimo trovato, niente avrebbe trattenuto Cappello di Paglia dall’andare da Kaido. Aiutarli avrebbe significato affrettare i tempi per l’inizio di una battaglia impossibile contro un uomo – ammesso che si potesse definire tale – praticamente immortale. Però... avevano bisogno di una mano. E lo avevano chiesto a me.
Sospirai, buttando fuori tutta l’aria che avevo trattenuto nel corpo fino a quel momento.
«E va bene,» accettai, non senza una certa riluttanza.
Seguirono urla di giubilo, brindisi e festeggiamenti vari. E continuarono per tutta la serata.
Sapevo che non sarebbe stata una buona idea, ma sentivo di doverlo fare. Li dovevo aiutare, perché loro lo avevano fatto con me, senza pretendere nulla in cambio. E poi, una parte di me credeva che sarebbe stato divertente passare un po’ di tempo con quegli scalmanati, mi avrebbe fatto bene vivere una delle loro avventure.
Tanto avrebbero trovato comunque il Road Poignee Griffe. E noi saremmo comunque andati in guerra, che mi piacesse o meno.
 
Poggiai il cellulare sul comodino dopo aver augurato virtualmente la buonanotte ai miei genitori. Quel giorno erano stati all’Ikea. Si erano persi un paio di volte e alla fine non avevano comprato niente, però mio padre aveva rubato così tante matite da sistemarsi a vita. Quando avevo visto le foto ridere fino alle lacrime era stato inevitabile. Ero contenta per loro, finalmente stavano vivendo con leggerezza. Anche se il loro sguardo era un po’ vuoto, come se mancasse qualcosa, sembravano sereni. Tante volte mi ero detta che era giusto così, che adesso facevamo delle vite separate e che sia io che loro meritavamo di essere felici. Ero stata io a volere che le cose andassero così, perciò non potevo che essere contenta per tutti. Perché adesso avevo uno scopo. Un sogno per cui combattere e da portare avanti. Ed ero circondata da persone che mi apprezzavano per quella che ero e che addirittura volevano il mio aiuto, per quanto inutile fosse. Mi sentivo viva, come avrei sempre dovuto sentirmi.
Spensi la luce, appoggiai la testa sul cuscino e mi imposi di dormire. Quella sera non avevo voluto sentire ragioni: nel momento in cui avevo rimesso piede sul sottomarino avevo ignorato tutti i coraggiosi che erano rimasti svegli nonostante l’ora tarda, avevo augurato la buonanotte a Law, liquidato Shachi e Penguin con un’occhiataccia quando mi avevano chiesto di descrivergli Nami e Robin, evitato Kenji come la peste ed ero andata dritta a letto. Ero stanca e la notte prima avevo dormito poco. Il problema era che non riuscivo a prendere sonno.
Per tutta la sera avevo osservato Rufy nel tentativo di capire cosa non andasse, e per tutta la sera avevo fatto fiasco. Ma qualcosa c’era, ne ero sicura. Dovevo solo capire quale fosse il problema.
Alla fine, sfinita, caddi tra le braccia di Morfeo, in quello che sarebbe stato un sonno profondo e tormentato.
 
Sognai un’inquietante apocalisse zombie, che mi fece risvegliare con addosso una certa agitazione nel bel mezzo della notte. Maledetti incubi. Con la stanchezza che avevo e le energie che mi servivano per affrontare quelle giornate frenetiche, tutto ciò che mi serviva – oltre al vino e al caffè – era un sonno ristoratore, accompagnato da dolci sogni che mi facessero svegliare riposata e appagata. E invece, a quanto pareva, mi era stato negato anche quello. Una dannata apocalisse zombie. Non era neanche un incubo: nel sogno c’erano “semplici” corpi in decomposizione che vagavano per il Polar Tang, senza meta e senza scopo. Eppure qualche dettaglio a me sconosciuto di quel sogno mi turbava.
Il display del telefono segnava le quattro e trentadue. Sbuffai più volte prima di decidermi a scostare le coperte e alzarmi. Tanto ormai non mi sarei più riaddormentata. Aprii piano la porta della mia cabina e mi diressi a passo svelto ma silenzioso in infermeria. Avevo bisogno di tenere la mente occupata, e sapevo anche quale fosse il rimedio perfetto.
Accesi la luce, chiusi la porta ed andai verso uno degli armadietti. Al suo interno, lercio e pieno di sfregi, c’era Chuck, il manichino. Non persi tempo e lo tirai fuori, cercando di non fare rumore. L’ultima cosa che volevo era che qualcuno si svegliasse.
«Come prendere due piccioni con una fava,» commentai mentre lo mettevo steso su uno dei lettini.
Visto che in quei giorni la mia agenda sarebbe stata piena, quello era l’unico modo che avevo per esercitarmi. Avevo bisogno di tenere il polso allenato.
Passai una mano sul freddo torace di Chuck. Sulla sua “carne” c’erano ancora alcune tracce del sangue di Kenji. Prima di cominciare ad incidere, la mia mente tornò per un secondo all’Isolachenoncè. Davanti ai miei occhi comparvero le distese verdi, lo scintillante oceano blu e il luminoso cielo azzurro, e mi sentii in pace.
Feci un taglio sulla pianta del suo piede sinistro. Dopo l’ultima volta c’erano ancora meno posti disponibili sui quali poter operare. Presi l’ago e il filo da sutura e mi apprestai a ricucire. Non ero in ansia, sapevo di potercela fare. Il mio polso non tremò nemmeno per una volta durante il tempo che impiegai per suturare. Ero diventata anche più veloce. Sollevai un angolo della bocca. Nonostante la confusione che aveva generato con le sue azioni, Kenji aveva fatto un ottimo lavoro con me. Era giusto dargliene atto.
Rimasi in infermeria a fare pratica per più di un’ora. Quando riposi gli strumenti al loro posto ero sfinita e sudata, ma mi sentivo appagata. Il polso non aveva tremolato neanche per mezzo secondo e io non avevo vacillato. Per tutta la durata delle procedure avevo creduto che fosse possibile, e lo avevo fatto.
«Un’apocalisse zombie. Ci crederesti, Chuck?» Diedi al manichino una simbolica pacca sulla spalla. «Un esercito di zombie su questo sottomarino. La loro pelle cadeva a pezzi, la loro carne era putrida e le loro membra erano esposte.»
Mi appoggiai allo schienale della sedia e continuai a fissare Chuck, come se mi aspettassi una risposta. Scossi la testa. Ero impazzita, alla fine: stavo parlando con un manichino.
Tirai su la testa e spalancai gli occhi, colta da un’improvvisa illuminazione. Zombie, manichini... A quanto pareva il mio subconscio aveva capito prima di me. Eppure adesso mi sembrava così ovvio. Quasi mi sentivo una stupida per non averlo realizzato prima.
Sbattei le mani con forza sul lettino, lanciai Chuck dentro all’armadio e corsi via dall’infermeria. Mi fermai nel bel mezzo del corridoio, rendendomi conto che ancora non erano nemmeno le sei del mattino e che stavano tutti dormendo. Lo studio di Law, il posto che conteneva le informazioni che mi servivano, era chiuso a chiave e di certo non sarei stata io a scatenare la sua ira svegliandolo. Si sarebbe comunque svegliato poco dopo, quindi sarebbe stato meglio aspettare. Inoltre, prima di fare qualsiasi altra cosa, dovevo andare a farmi una doccia, perché puzzavo.
 
Bussai, per poi varcare la soglia come un uragano, senza aspettare una risposta.
Il Capitano era seduto compostamente alla sua scrivania e stava leggendo il giornale odierno. Alzò appena gli occhi dalla pagina per scrutarmi con un’espressione indecifrabile.
«Sei mattiniera, oggi. A cosa devo questa visita?»
Ignorai la sua pseudo provocazione e mi diressi verso lo scaffale su cui teneva gran parte dei suoi tomi di medicina. Scorsi tutti i titoli dei volumi con gli occhi. Non ci misi molto a trovare ciò che stavo cercando, dato che il moro conservava ogni libro rigorosamente in ordine alfabetico. Ed eccolo lì, in bella vista. Si intitolava:  La decomposizione del corpo umano. Lo presi e lo aprii sulla pagina dell’indice.
«Posso prenderlo in prestito?» chiesi, voltandomi solo per un istante a fissare il Capitano. In risposta, sollevò di poco un angolo della bocca e ghignò sommessamente, facendomi innervosire. Non mi sembrava quello il momento di mettersi a fare sogghigni provocatori.
«Mi chiedevo quanto ci avresti messo.»
Corrugai la fronte, perplessa. Non sapevo a cosa si riferisse. Ci arrivai solo in un secondo momento, e sbuffai una risata: lo aveva intuito anche lui. Era ovvio che l’avesse capito, era il medico più brillante che conoscessi.
Appoggiai il pesante tomo sulla scrivania, poi andai a chiudere la porta dello studio. Non volevo che qualcuno ci sentisse.
«Credi anche tu che si tratti della Sindrome di Noxyd?» volli sapere, piegando la testa da un lato e umettandomi le labbra – improvvisamente diventate secche – con la punta della lingua. Non solo non mi rispose, ma tornò a leggere il giornale.
Sbuffai con frustrazione e picchiettai le dita contro il tavolo. Odiavo quando faceva così. Odiavo il fatto che volesse per forza apparire enigmatico e misterioso. La questione era seria, se avevo ragione c’era poco da scherzare. Era della vita di Rufy che si stava parlando.
 
Sospirai dopo aver letto le cinque pagine che parlavano della Sindrome di Noxyd, per poi passarmi una mano su tutto il viso. Era come immaginavo: i sintomi che mostrava Cappello di Paglia, seppur molto poco visibili, combaciavano con quelli descritti nel libro. Se pensavo che i miei sospetti erano stati confermati, mi veniva da piangere. Perché era una cosa che andava oltre le mie possibilità e quelle di Law. Non c’era niente che potessimo fare, se non aspettare e sperare che la situazione non andasse a finire nel peggiore dei modi.
Mi agitai sulla sedia. All’improvviso in me montò un senso di rabbia profondo e incontrollabile. No, non poteva essere, non mi sembrava vero. Era così... ingiusto.
«Hai trovato quello che cercavi?» La voce del chirurgo mi distrasse dalle mie riflessioni.
«Sì...» Una ruga d’angoscia comparì in mezzo alla mia fronte. Mi voltai a guardarlo. «Lo pensi anche tu?»
«Purtroppo sì.»
«Quindi... che facciamo?»
«Il fatto che tu me lo chieda indica che dovresti cercare meglio.» Con un cenno del capo indicò il volume aperto davanti a me.
«Smettila, Law. Non è il momento di mettersi a fare del sarcasmo.» Strinsi i pugni. La sua indifferenza mi faceva uscire dai gangheri. Il fatto che non ci fosse nulla da fare non stava a significare che avrei dovuto disinteressarmi totalmente della cosa. Era di un amico che si stava parlando. «Lo so. So che non c’è niente che possiamo fare.»
Abbassai lo sguardo e scossi la testa. Provavo tante emozioni differenti. Ero arrabbiata, ero triste, ero sconfortata.
«Sei un medico. Pensa con razionalità,» mi ammonì. A quel punto mi arresi. Era come parlare con un muro. Però capivo le sue motivazioni: anche a lui dispiaceva per Rufy, la finta indifferenza era il suo meccanismo di difesa, perché non avrebbe mai ammesso che ci teneva a Cappello di Paglia.
«Credi che Chopper se ne sia accorto? Lui è un dottore, dovrebbe saperlo.» Avevo le sopracciglia sollevate e un barlume di speranza negli occhi.
«No. Non può essersene accorto. Vede il suo Capitano tutti i giorni.» Il chirurgo fece svanire ogni mia illusione. Non che si potesse biasimare, aveva ragione: i sintomi responsabili della Sindrome di Noxyd non potevano essere percepiti se si vedeva la persona che ne era affetta tutti i giorni. Chopper non aveva colpe, era semplicemente ignaro di tutto. Era una sindrome beffarda, che si insinuava gradualmente nel corpo di chi ne veniva colpito. Era subdola, silenziosa e lenta, come un serpente che strisciava verso la propria preda. Non era neanche una vera sindrome, il libro stesso lo diceva, era più un modo di reagire dell’organismo ad un certo tipo di “stimoli”.
«Pensi che Rufy lo sappia?» Un’altra ruga di preoccupazione era comparsa sulla mia fronte.
«Mugiwara-ya non è uno sprovveduto,» affermò, girando per l’ennesima volta la pagina del giornale. Su questo aveva ragione. Probabilmente Rufy sapeva in quali condizioni fosse il suo corpo. Il problema era che sembrava non curarsene. Strinsi il ponte del naso tra pollice e indice per qualche secondo, per poi ricompormi e tirare su la testa.
«In teoria dovremmo dirglielo... no?»
«Io ho preso la mia decisione. Ora sta a te stabilire cosa fare.»
Non ebbi il tempo di replicare, perché lo vidi richiudere il giornale e alzarsi con la sua solita calma. Camminò fino alla porta, la aprì e se ne andò.
Sospirai, afflosciandomi sulla sedia. L’argomento di quella conversazione non piaceva nemmeno a lui.
Imposi a me stessa di ricompormi. Avevo davanti una giornata lunga e piuttosto faticosa, e non potevo mostrarmi in questo modo. Come Law, anche io avevo deciso di tacere sulla faccenda. Non volevo farlo, non volevo stare zitta e buona a guardare Rufy che si distruggeva da solo, ma se lui lo sapeva e aveva deciso di non dire nulla, allora dovevo rispettare la sua volontà. Ecco perché non potevo mostrarmi affranta davanti alla sua ciurma. Avrei dovuto ingoiare il boccone amaro e fare finta di niente. Tanto, testardo com’era, Cappello di Paglia avrebbe continuato a fare ciò che voleva, e non c’era malattia, o avversario, o perfino amico che avrebbe potuto impedirglielo.
Mi alzai dalla sedia con riluttanza, rimisi a posto il tomo e uscii anche io dallo studio, sempre più sconfortata. L’unica cosa positiva di quella faccenda era che, avendo accettato la proposta dei Mugiwara, avrei potuto monitorare Rufy da vicino. Se avessi avuto fortuna, per un po’ avrei potuto evitare il peggio.
 
Bevvi un generoso sorso di vino, poi sospirai per l’ennesima volta, buttando fuori con forza tutta l’aria che avevo nei polmoni. Non faceva freddo quella sera, non c’era nemmeno il vento. L’unico suono che riecheggiava nell’aria tiepida – a parte i miei sospiri sconsolati – era quello dello sciabordio delle onde che si infrangevano dolcemente contro il sottomarino. La Sunny, nonostante fosse a qualche decina di metri di distanza, non si vedeva all’orizzonte. Tutto sembrava quieto. Sarebbe stata una serata perfetta per stare sul ponte a sorseggiare vino e ad osservare le stelle, se non fosse stato per l’angoscia che avevo addosso, che a quanto pareva non voleva lasciare il mio corpo, e per la scarsità dei corpi celesti visibili. Quasi tutto il cielo era coperto da uno strato di nuvole. La situazione rispecchiava il mio stato d’animo: ero felice di aver rivisto i miei amici, ma ero anche preoccupata. Quella che stavo provando era un tipo di preoccupazione che non si poteva placare, c’era e basta, e non sapevo come scacciarla. Dovevo fare qualcosa a riguardo, e bere vino mi sembrava l’opzione migliore.
Nonostante i miei buoni propositi, non ce l’avevo fatta. Avevo evitato la ciurma di Cappello di Paglia per tutto il giorno, utilizzando una scusa banale che nemmeno ricordavo, ed ero rimasta chiusa in camera mia, ad arrovellarmi il cervello in cerca di una soluzione inesistente per un problema grosso. Alla fine mi ero arresa. Avevo convinto me stessa ad avere fiducia in Rufy e mi ero imposta di non preoccuparmi. Non che servisse a molto, ma almeno ora riuscivo a non far trasparire troppo la mia inquietudine. Oltretutto, non potevo continuare a nascondermi per sempre da lui e dai suoi compagni. Non potevo essere codarda, non ora che avevano bisogno di me. Dovevo darmi un contegno e fare finta di niente. Lo avevo fatto tante volte, lo facevo fin da quando ero bambina. Bastava stringere i denti e sorridere. Che cosa c’era di difficile?
Un rumore di passi alle mie spalle mi fece rinsavire. Non mi voltai. Invece, presi un altro sorso di vino direttamente dalla bottiglia. Il bicchiere in questi casi serviva a poco. Dopo qualche secondo la figura misteriosa fu accanto a me, i gomiti poggiati sulla ringhiera del ponte del Polar Tang.
«Capitano.» Lo salutai con un cenno della testa.
«Hai deciso di chiuderti nella tua stanza, oggi?»
«No. Avevo semplicemente delle cose importanti da fare.» Non provai neanche a sembrare credibile. Era una battaglia che con Law non potevo vincere.
«Non abbiamo ancora avuto modo di parlarne,» iniziò, criptico come al solito. Alzai un sopracciglio.
«Di cosa?» volli sapere. C’erano un milione di cose di cui non avevamo avuto modo di parlare con tutto quello che era successo in quelle settimane caotiche.
«Della tua riabilitazione.» Mi dedicò un’occhiata indecifrabile.
«Oh,» mi lasciai sfuggire, un po’ sorpresa. «Beh, Kenji mi ha ridato il vino, perciò...»
«Dovresti esserne contenta. Ora puoi usufruire di tutto. Caffè, vino, pane...» Un piccolo ghigno era comparso sulle sue labbra.
«Pane? Non c’è mai stato del pane, su questo sottomarino.» Anche se intendeva il pane che si faceva con acqua e farina, i miei pensieri andarono istintivamente a Sabo e alle nostre attività ricreative. Mi mancavano, ma forse era un bene che non fosse qui, non avevo buone notizie da dargli su suo fratello.
Il Capitano mi guardò con eloquenza.
«Quindi sapevi delle casse di pane?» domandai, per poi mordermi il labbro inferiore.
Mi fissò con lo stesso sguardo di poco prima, che denotava una certa ovvietà. Sì che lo sapeva. Figurarsi se gli sfuggiva qualcosa. E sul suo sottomarino, per di più. Nonostante non sembrasse arrabbiato – quanto piuttosto divertito – sarebbe stato meglio cambiare argomento.
«Comunque, la riabilitazione sta andando bene. Il mio polso è sano e forte e la mia mente è concentrata. Riesco ad eseguire suture quasi perfette senza problemi,» affermai, concentrandomi sull’oceano. «Sta andando bene,» ripetei, più per convincere me stessa che lui. Avevo bisogno di pensare a qualcosa di positivo.
Law sollevò un angolo della bocca ed annuì. Era l’unico in grado di capire, talvolta prima di me, quando ero davvero convinta di una cosa, oppure quando mentivo a me stessa e al resto del mondo. Non avevo idea di come facesse, ci riusciva e basta. Forse era talento, forse era arguzia unita ad un attento spirito d’osservazione, o forse era magia. Supponevo che non importasse molto. Quella volta aveva compreso che ero sincera. E questo bastò a tranquillizzarmi.
Gli porsi la bottiglia di vino e gliene offrii un po’. Lui la prese, bevve un paio di sorsi e me la restituì. Avevamo i nostri alti e bassi, ma mi piaceva quando era così, quando potevamo condividere l’uno con l’altra piccoli momenti di serenità, soprattutto se il vino faceva da contorno. Mi erano mancate le nostre chiacchierate di questo tipo, perché da quando ero tornata non avevo avuto modo di trascorrere del tempo da sola e in tranquillità con il mio Capitano. E in fondo, ne avevo bisogno.
«Questo è un bene. Presto sarai in grado di operare di nuovo,» disse, ammorbidendosi un po’.
Sorrisi, cercando di non mostrarmi troppo contenta per le sue parole, né troppo ottimista. Avevo imparato che bastava un attimo per rovinare tutto.
«Suppongo di sì. Non voglio affrettare le cose, ma devo sbrigarmi, il tempo stringe.» Tornai ad osservarlo .«Voglio dire, ho sacrificato dieci anni della mia vita per guarire e...»
«No, non lo hai fatto,» mi interruppe, atono.
«E mi sono resa conto che è un prezzo troppo alto da pagare per permettere a me stessa di rinunciare al mio sogno a causa di uno stupido tremore al polso. Dopotutto, è proprio perché ho un sogno che ho deciso di sottopormi al trattamento di Ivankov,» continuai, giusto per lo sfizio di finire la frase. «Sì che l’ho fatto. Lo abbiamo fatto entrambi. Ed è stato anche piuttosto doloroso,» gli rammentai, rabbrividendo al pensiero delle unghie del Trans-formato conficcate nella mia carne e dei giorni passati a contorcermi tra le lenzuola. Non mi capacitavo di come Law potesse non ricordarsene. Oppure stava fingendo indifferenza anche questa volta? No, c’era qualcosa sotto. Decisi di ignorare il Capitano. Se avesse voluto comunicarmi qualcosa di importante, lo avrebbe fatto senza enigmi e giri di parole.
Accennai una risata, osservando l’oceano color pece illuminato dai pallidi raggi della luna. «Assurdo, vero? Abbiamo fatto tanti sacrifici e sopportato tanto dolore... e pare che a tutti noi tocchi morire prima del tempo.»
«No.» Il suo tono era sempre piatto. «Non a tutti.»
Spostai il peso del corpo da un piede all’altro. Percepii l’irritazione farsi strada dentro di me. Non avevo né voglia né tempo di mettermi a decifrare i suoi dannati “indizi”. Però era riuscito a mettermi la pulce nell’orecchio: adesso non avrei avuto pace finché non avessi capito.
«Stai cercando di dirmi qualcosa, Law? Perché, se è così, parla chiaro, per una volta nella tua vita.»
Non rispose. Per un po’ non si mosse neanche, sembrava una statua, al punto che mi chiesi se stesse respirando. Poi fece un blando cenno del capo in direzione del cielo, accompagnandosi con uno dei suoi maledetti ghigni. Corrugai le sopracciglia e mi sforzai di capire, ma non ero concentrata, non dopo aver scoperto quello che avevo scoperto quel giorno. Il mio corpo era lì, la mia testa no. Non del tutto, almeno. Per questo volevo che per una volta, una volta soltanto, Law fosse chiaro ed esplicito.
«Continuo a non capire.» Allargai le braccia in segno di resa.
Ampliò il suo ghigno, facendomi venire voglia di dargli un pugno sul naso.
«Buonanotte, Camilla.» Girò i tacchi e cominciò a camminare verso l’interno del Polar Tang.
«Grazie di cuore, sei sempre così cristallino!» gli urlai adirata. Continuò ad avanzare verso la porta – che avevo riparato con una certa fatica qualche settimana prima – senza voltarsi. Non potevo vedere il suo volto, ma il sorriso che immaginavo dipinto sulle sue labbra mi fece digrignare i denti. Il suo comportamento mi dava sui nervi. Mi aveva sempre dato sui nervi e sospettavo che avrebbe continuato a darmi sui nervi. Per sempre. Il portone d’ingresso si richiuse con un piccolo tonfo, facendomi sbuffare con forza. Tesi il braccio davanti a me ed alzai il dito medio, rivolta al ponte del sottomarino ormai deserto. Non che quel gesto servisse a qualcosa, ma almeno mi faceva sentire meglio.
In mano stringevo ancora la bottiglia, l’unica cosa sulla quale potevo contare al momento. La portai alle labbra e bevvi un lungo e generoso sorso di vino. Quando finii, mi accorsi che il cielo era tornato terso, adesso si vedevano le stelle. Rimasi un paio di minuti ad ammirarle prima di tornare dentro e andare a letto. Quella sera la loro luce era fioca e distante, ma ce n’erano un paio che brillavano più delle altre, come se non avessero paura di curiosare tra le questioni degli umani. Quasi come...
«Oh, cazzo...» Mi immobilizzai per qualche secondo. Il mio cuore perse un battito, forse due. Fu lì che mi arrivò – letteralmente – l’illuminazione. Certo. Era chiaro come il sole. Anzi, come la Seconda Stella a Destra.
 
Arrivai di fronte alla camera del Capitano con il fiatone, avevo corso davvero veloce. Bussai con impeto e la porta si aprì pochi secondi dopo. Mi lasciai scappare una risatina quando vidi Law, in piedi davanti a me, con indosso il suo pigiama di seta grigia perfettamente stirato. Persino le sue tenute da notte erano impeccabili ed eleganti. Tuttavia tornai subito seria.
«Lo hai fatto davvero?»
Mi lanciai su di lui senza aspettare una risposta e lo abbracciai. Non fece resistenza: aveva capito che non serviva a nulla.
Rimanemmo immobili e in silenzio per qualche minuto, lui in piedi ed eretto, io avvinghiata al suo corpo, come se avessi bisogno di stare attaccata a lui per respirare. E in un certo senso era così. Per quanto potessi negarlo, era stato lui ad essere la mia ancora di salvataggio in quegli anni, e lo era stato ancora una volta quando aveva deciso di restituirmi i dieci anni di vita che credevo di aver perso.
Inspirai il suo odore a piene narici. Profumava. Profumava di menta e di muschio, e di salvezza. Strofinai la guancia contro la morbida seta del pigiama, e attraverso il tessuto udii il suo cuore battere. Il battito era calmo e sicuro, proprio come il mio Capitano. Ritornai con la mente al giorno in cui avevamo incontrato Doflamingo. Se pensavo che avevo rischiato di perderlo, che c’era stata la possibilità che il suo cuore non battesse più... La sola idea bastava ad annientarmi. Non potevo perderlo. Chiusi gli occhi, per impedire alle lacrime che si erano formate sulle mie iridi di scendere. Non erano lacrime di tristezza, ero solo contenta che fossimo entrambi vivi.
Percepii il suo braccio alzarsi piano, poi sentii il palmo della sua mano che mi sfiorava i capelli. Sollevai la testa e lo guardai, attonita. Avevo il mento leggermente pressato contro il suo sterno e la vista un po’ appannata, ma questo non mi impedì di notarlo. Abbassò il capo e mi guardò anche lui. Non avevo mai visto quello sguardo, così intenso e al tempo stesso delicato. In quel momento, fu come se mi stesse vedendo per la prima volta, come se mi stesse vedendo per quella che ero davvero, oltre le apparenze, oltre il mio corpo fragile, oltre il mio atteggiamento da ragazzina immatura. I suoi occhi entrarono nella mia anima e ne scrutarono ogni angolo. Un piccolo sorriso comparve sulle sue labbra. Nelle sue pupille non c’era scherno, o divertimento, o provocazione. Solo... tenerezza. Per quei brevi attimi Law non era più il mio Capitano, era mio amico. Forse perfino qualcosa di più. Fu come se volesse comunicarmi che potevo contare su di lui, che mi avrebbe tenuta al sicuro. Almeno, così mi piaceva pensare. Magari mi stavo immaginando tutto. Era quello che mi serviva, però. Dopo tutto quello che era successo avevo bisogno di un avvenimento positivo nella mia vita. Ed era quello. Non il fatto che avessi riavuto dieci anni della mia vita, quanto lo sguardo che mi aveva regalato quella sera il chirurgo, così puro e sincero.
La sua mano si staccò dalla mia nuca e ritornò lungo il suo fianco. Tornai ad appoggiare la mia guancia contro il suo torace.
«Non avresti dovuto farlo,» lo ammonii, tuttavia con dolcezza. «Ma grazie. Grazie
Strizzai le palpebre e lo strinsi ancora di più. La mia voce rotta aveva tradito la mia emozione. Non potevo credere che lo avesse fatto. Mi sembrava tutto così assurdo. Perché, poi? Perché aveva deciso di usare il suo desiderio in questo modo? C’erano un milione di altre cose che avrebbe potuto desiderare, e lui aveva deciso di chiedere alla Stella... questo. Quasi mi sentivo un’approfittatrice: io gli avevo ceduto il desiderio affinché chiedesse qualcosa per se stesso, invece lui aveva pensato a me. A noi. Eppure ero così contenta. Il cuore mi scoppiava di gioia e avevo gli occhi lucidi dalla commozione. Perché lui aveva espresso il desiderio di ridarmi i dieci anni di vita che avevo perso e li aveva restituiti ad entrambi. Non mi aveva detto esplicitamente che aveva riavuto i dieci anni di vita, ma era troppo intelligente per non capire che non lo avrei mai perdonato se avesse usato il desiderio che gli avevo ceduto solo per me e non per se stesso.
Mi staccai da lui e mi distanziai di un paio di passi. Avevo bisogno di guardarlo negli occhi e capire a cosa stesse pensando. Stava ghignando. A quanto pareva era ritornato in sé.
«Non avevo altri desideri da esprimere.» Scrollò le spalle con – finta – noncuranza. «Ti ho solo restituito ciò che hai perso per aver ficcato il naso in affari che non ti riguardavano.»
Sbuffai una risata. Sì, era tornato in sé. Ci fissammo per qualche secondo, le iridi di uno incastonate in quelle dell’altra. Era la prima volta che qualcuno faceva una cosa del genere per me, una cosa così eclatante, che andava oltre le leggi dell’universo. E la persona che l’aveva fatta era proprio Trafalgar D. Water Law.
Tentai di resistere, ma non ce la feci. Lo abbracciai di nuovo, questa volta più stretto. Non volevo lasciarlo andare. Mai più. Quello era l’unico modo in cui riuscissi ad esprimere la mia immensa gratitudine. Perché il chirurgo mi aveva ridato la vita, in senso figurato e letteralmente, e non esiste un modo consono per ringraziare una persona per questo.
Ci pensò lui a rovinare quegli attimi significativi, perché stavolta si irrigidì. Avrei dovuto saperlo: due abbracci nella stessa giornata erano troppo per lui.
«Ho ucciso...»
«Per molto meno, lo so.» Risi e lo liberai dalla mia presa ermetica.
La sua espressione era ritornata seria. Sospirai. Il momento catartico si era concluso lì. Con i palmi delle mani gli lisciai il pigiama di seta che avevo inavvertitamente sgualcito durante gli abbracci, come per togliermi di dosso l’imbarazzo.
«Fai buon uso degli anni che ti sono stati restituiti,» si raccomandò, ghignando appena. Sorrisi ed annuii con convinzione. Lo avrei fatto, poteva starne certo.
«Anche tu, Capitano,» replicai con voce vellutata. Il suo ghigno si allargò. Quella era la conferma che lo avrebbe fatto anche lui. «Buonanotte.»
«Buonanotte,» mi salutò, facendo un cenno del capo e chiudendo piano la porta, senza smettere di guardarmi.
Presi un respiro profondo e mi accertai che nessuno mi stesse vedendo, poi appoggiai una mano e la fronte alla porta della sua cabina. Chiusi gli occhi e rimasi lì per un po’, a sorridere come un’ebete.
Adesso sapevo che oltre alla mia buona Stella, a proteggermi, a proteggermi davvero, c’era anche Trafalgar D. Water Law. Lui non avrebbe permesso che mi fosse accaduto qualcosa. O, comunque, dopo avrebbe sempre sistemato la situazione, come solo lui era in grado di fare.
Chi poteva saperlo, forse avremmo passato insieme i dieci anni di vita che avevamo riavuto. Io me lo auguravo. Non riuscivo ad immaginare un modo migliore di trascorrere il mio tempo.



Angolo autrice
Buonasera! Come state? So che è da molto che non mi faccio viva, e mi dispiace. Mi impegnerò ad aggiornare con cadenza più rapida.
Come avete potuto constatare, è stato necessario cambiare il corso della storia e discostarla un po' da quella del manga, ma così Cami avrà l'occasione di vivere un'avventura memorabile. Per quanto riguarda Rufy, la "Sindrome di Noxyd" è una sindrome che ho inventato io e verrà spiegato meglio più avanti in cosa consiste.
Come sempre spero che questo capitolo vi sia piaciuto. :) Ringrazio di cuore chi ha ancora la voglia e la pazienza di seguire questa storia! <3
A presto (promesso)! <3
   
 
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