When the time will come
«Go away!»
«Yoongi, come sta la tua coscienza?»
Jimin aveva già ricoperto quattro volte la distanza dell’intera sala a piedi: le
mani strette una nell’altra dietro la schiena nascosta dalla felpa grigia, il
viso basso a seguire l’incastro del parquet chiaro. Yoongi sollevò lo sguardo
sorseggiando da almeno dieci minuti un caffè completamente freddo.
«Come dovrebbe stare, scusa? Come sempre.» Puntò le iridi scure sull’altro, si
stava palesemente innervosendo. Gli avrebbe fatto venire il mal di mare. «Puoi
fermarti adesso, o hai intenzione di scavare un sentiero? Cazzo, Jimin,
possibile tu ti stia pentendo? Io avevo già avvisato Jin e lo sai. Mi sono
rotto le scatole di lui. Meglio così piuttosto che vederli rincorrersi senza
incontrarsi. Mancano due mesi sì e no, e grazie a te lo sa anche Jungkook
adesso, quindi perché io dovrei sentirmi in colpa? Sei stato tu il primo a fare
danno, dovrebbe essere la tua di coscienza a darti fastidio.»
Silenzio. L’andirivieni del ragazzo si fermò.
«Lo sta già facendo, a quanto pare. Bene, è tardi, Jin è andato di sopra,
Taehyung è scomparso subito dopo cena e tu sei qui a fare il pellegrinaggio
dalla porta all’arco del salotto, direi di andare a dormire.» La ceramica della
tazzina cozzò violenta contro la vasca del lavello: sfogare una certa
irritazione contro gli oggetti si stava dimostrando più efficace del previsto,
pensò Yoongi sbuffando con una certa sonorità. Si diresse con calma alle scale,
alzando la mano in segno di saluto, quando venne fermato per il polso da una
presa incerta e nervosa.
«Cosa credi dirà Jungkook?»
«Avresti dovuto pensarci prima di andare a spifferargli tutto. Ora che fai, ti
tiri indietro? Non pensi sia un po’ tardi?» sospirò voltandosi verso Jimin.
«Sul serio, mettiti il cuore in pace. Quei due non sarebbero andati da nessuna
parte.»
«Come fai ad esserne così sicuro?»
«Conosco abbastanza Jin da sapere che non avrebbe ceduto, e conosco Jungkook
tanto da ammettere che non avrebbe mai detto una sola parola prima della
partenza. Se questo non ti sembra masochismo, allora non so come chiamarlo.»
La presa si allentò fino ad esaurirsi, era d’accordo con il discorso di Yoongi,
eppure era sempre più propenso a pensare di aver dato il via a qualcosa di
irreparabile.
«Guarda che non sei tu ad averlo registrato, dovresti riversare questa tua
rabbia repressa su Taehyung. Hai provato a sentire cos’abbia da dire? Così
magari mi lasci in pace. Buonanotte.» Il tono con cui aveva concluso la
conversazione era piatto. Ne aveva piene le tasche e la testa. Salì al piano di
sopra e svoltò immediatamente, entrando nella propria stanza da letto e cercando
invano di chiudere fuori dalla porta di legno chiaro i propri pensieri, tutti:
dalle parole da vipera ai gesti non proprio ortodossi, ne aveva dette e fatte
più d’una di cui non andava propriamente fiero. Vedere soffrire però i due
amici in quella maniera era troppo ormai, e nonostante stesse riuscendo a mantenere
una certa maschera di bronzo davanti a tutti, ne stava risentendo con non poca
difficoltà; focalizzò la stretta di mano di Jimin sul proprio polso, in gesto
inconsueto che l’aveva preso alla sprovvista.
Tanto equilibrati erano stati finora, tanto si stavano disperdendo piano piano.
Taehyung aveva bussato alla porta della stanza di Jin consapevole della sola
presenza di Jungkook: in quelle condizioni era meglio tenerlo lì, aveva detto
lo stesso padrone della camera, così da essere costantemente controllato. Guai
a dire che avevano a che fare con un adulto capace di badare a se stesso – a parte le medicine, quelle proprio non era in
grado di tenerle a mente – anche perché Jin si era arrabbiato nel ricevere
quella semplice frecciatina detta con leggerezza. Ritrattata dunque la frase
incriminata, si rese ben conto lo stesso Taehyung quanto l’argomento “Jungkook”
fosse così delicato per il ragazzo, e quanto quest’ultimo ci tenesse ad ogni
singolo aspetto della sua vita, partendo proprio dalla sua salute.
Lo scrosciare dell’acqua calda della doccia nel bagno del piano riempiva il
corridoio di una cantilena continua e familiare, colmando un silenzio fatto di
sensi di colpa e di un leggero tremolio alle mani.
Coda di paglia, aveva concluso cinico.
Chiuse le dita a pugno ripetendo il gesto più volte: era scontato il fastidio non
sarebbe passato, così come il bisogno di ingoiare più del dovuto, a vuoto. Si
appoggiò alla porta a riprendere fiato e regolarizzare il respiro. Possibile
stesse avvertendo dell’ansia nonostante fosse stato d’accordo con gli altri fin
dall’inizio? Quando Yoongi aveva proposto l’idea, lui era stato il primo ad
accettare con un cenno d’assenso. Le sue sensazioni si erano rimescolate quando
aveva spedito a Jungkook il messaggio vocale, concludendo il proprio ruolo
senza farsi beccare, ma rendendosi complice di qualcosa che forse aveva passato
il limite. Chi erano davvero loro per intromettersi? I loro amici, aveva detto
Yoongi senza battere ciglio. E ci aveva creduto anche prima, non certo però
nell’istante in cui si accasciò sul pavimento, spalle alla porta, la testa tra
le ginocchia, la rassegnazione mista al dispiacere. Lui e la sua dannata
emotività, avrebbe dovuto smettere di mettersi in mezzo per poi starci così
male e ridursi ad uno straccio. Sembrava essere incollato, non riusciva neppure
a rialzarsi, la sensazione di fastidio allo stomaco si era spostata alla testa procurandogli
un dolore costantemente crescente. Doveva finirla lì.
Bussò.
Attese dall’altra parte, mentre le nocche ripetevano un toc delicato.
“Starà sicuramente dormendo, ha mangiato e preso le pastiglie, adesso sarà
sotto il piumone. E se…” Voltò il busto in direzione della superficie lignea,
attendendo una risposta, un rumore, una traccia di presenza.
Nulla.
Tentò ancora, sussurrando il nome dell’amico.
Niente.
Si issò determinato, carico di una rinnovata energia: avrebbe semplicemente
eliminato il messaggio dalla conversazione privata, mandando delle scuse al
destinatario inventandosi un contenuto errato, per poi spiegare agli altri
cosa… esattamente cosa? Che aveva cancellato erroneamente ciò che aveva spedito
in accordo con loro? Non ci avrebbero creduto, però avrebbe giovato a sé.
Sarebbe stato corretto, tutto si sarebbe riequilibrato, così come era stato
fino a qualche ora prima. E le sue mani non avrebbero più tremato, la morsa
sullo stomaco si sarebbe allentata, e lui avrebbe sorriso di nuovo. Soddisfatto
di un ragionamento praticamente perfetto estrasse lo smartphone dalla tasca.
La doppia spunta blu accanto alla registrazione decretò il fallimento del suo
tentativo di redimersi.
Inspirò, il danno era fatto.
Jungkook era sveglio, aveva ascoltato ogni singola parola e si trovava oltre la
porta, a pensare chissà cosa di loro, di Jin, di lui.
E non poteva rimediare in alcun modo. Una leggera punta di rabbia si insinuò
scalciando poi violentemente tutte le altre sensazioni: Taehyung pareva
terribilmente deluso. Avrebbe risolto in qualsiasi altro modo, ne sarebbe
uscito pulito. Entrò in camera bloccandosi al secondo passo, la mano ancora
sulla maniglia.
Sgranò gli occhi, le labbra socchiuse in uno “scusa” muto che non aveva ancora
avuto il tempo di pronunciare ad alta voce.
Jungkook era seduto sul letto rivolto nella sua direzione, i pantaloni bianchi
della tuta a sfiorare il pavimento, una delle pesanti felpe casalinghe dai
colori improbabili di Jin indossata nonostante il termostato ad indicare una
temperatura ideale, ed il cellulare stretto ancora tra le dita. Gli occhi erano
puntati su di lui, ma non erano concentrati su qualcosa di preciso, parevano
vacui, umidi, vuoti.
Lo stava guardando, ma non lo stava vedendo davvero.
«Senti, se è per quello che hai ascolt-»
«Esci, per favore.»
Una delle prime volte in cui Taehyung si sentiva realmente a disagio in
presenza dell’altro. «Come, scusa? Se è per la questione del messaggio, guarda,
posso spiegare…»
«Davvero?» Le sillabe tremavano, così come le sue labbra. Jungkook stringeva a
sé l’oggetto, avvicinandolo al petto, le nocche sbiancate dallo sforzo. «Spiegami.
È la sua voce, perché il numero è il tuo?»
Una domanda lecita, una risposta semplice.
«Perché l’ho registrato io.» Un’ovvietà.
«Ah.» Il tappeto catturò le sue iridi con interesse eccessivo. «E questo lui lo
sa?»
Altra domanda lecita.
«Beh…»
«Tae, lo sa?»
Non gli era mai costato tanto dire un semplice no. Non doveva nemmeno trovarsi
lì in quel momento, si trovava sotto stretto interrogatorio a causa di un’idea
non sua.
Jungkook era spazientito, stanco, sfiancato, ancora non aveva assimilato
l’essere venuto a sapere le tempistiche della partenza di Jin da Jimin, e aveva
pure ascoltato la conversazione più assurda, inspiegabile, indimenticabile della
sua intera esistenza grazie ad un’altra persona. Non aveva gioito, non aveva
sorriso; era furioso, si sentiva un estraneo.
«Rispondi, cazzo!» Lo scatto di rabbia fece sussultare l’ospite indesiderato
sul posto, annullando la possibilità di parlare. Lo aveva ammutolito con due
sole parole. «Per favore, va’… va’ via. Se non hai nu-… nulla da dire, vai via.»
«Jungkook, senti…»
Il ragazzo sbottò, scaraventando il cellulare da parte e ricoprendo in poche
falcate malferme la distanza che separava i due.
«No, adesso sent… sentimi bene tu.» I volti a non più
di venti centimetri di distanza. «Non avete fatto altro che farvi i cazzi… ahhh…
nostri. Chi vi ha chiesto niente? Ho chiesto io a Jimin…» riprese fiato a
fatica, tossendo un paio di volte prima di parlare di nuovo, «di dirmi quando
sarebbe partito? No. Ho chiesto io a voi d- di sapere cosa pensa di me? No,
cazzo... cazzo. Si può sapere perché vi sentite… sentite tanto superiori da
pretendere d-», altra pausa obbligata, «di avere il diritto di, uff… mettervi
in mezzo?» Tossì e riprese, gli occhi arrossati dalla febbre sempre più
liquidi. «Credi davvero che… che questo mi faccia sentire… meglio? Pensi che il
tuo messaggio mi far- farà correre da lui a… ahh…
dichiarargli il mio amore? Non è un film, Tae, ca… zzo.
E se io, se io lo amo o meno, sono solo fatti miei. Adesso va’ via, non… non
voglio vedervi.» Lo spintonò con le poche forze che aveva fino a oltre l’uscio,
per poi ritrovarsi Jin in accappatoio, le mani a stringere ancora l’asciugamano
sui capelli.
Era bloccato.
Stava guardando Jungkook e Taehyung, sconvolto.
«Cosa hai fatto… che cazzo hai fatto?»
«Jin, ero venuto per sistemare la situazione, lui non doveva sapere…»
Jin scaraventò sul pavimento il telo, strattonò per la maglietta nera il ragazzo
sbattendolo contro il muro del corridoio, sovrastandolo. Lo stava detestando,
quel poco che aveva colto era arrivato direttamente dalle labbra di Jungkook,
ed era stato più che sufficiente. «Cosa gli hai mandato?»
Silenzio.
«Rispondi.»
«Quel… quello che hai detto.»
La presa sul tessuto si intensificò, provocandogli affanno.
«E come?»
Jungkook era inerme, poggiato sullo stipite della porta: davanti a lui il
ragazzo che amava stava sfogando la rabbia più pura contro uno dei suoi
migliori amici, e lui non aveva la forza di fare nulla.
Non voleva fare nulla, in realtà.
«Come!» Jin scaraventò una seconda volta Taehyung contro la parete, stavolta
con maggiore forza: un gemito strozzato, la lingua paralizzata dell’altro l’aveva
fatto infuriare.
«Ho sentito tutto.» Furono le ultime parole sussurrate da Jungkook, prima di
lasciarsi andare e cadere a terra trattenendosi a fatica dal singhiozzare. Jin
mollò la presa e si precipitò su di lui, stringendolo al petto in parte
scoperto dalla spugna dell’accappatoio. Il suo calore contrastò comunque con la
temperatura del ragazzo, ma vive erano le lacrime che stavano inumidendone la
pelle ancora umida dalla doccia.
«Fateci solo un favore, lasciateci in pace.»
Taehyung si precipitò al piano di sotto di corsa, mancando un paio di scalini
per poi inciampare sui propri piedi e sbilanciarsi. Jimin gli evitò una caduta
rovinosa per un soffio, acchiappandolo da dietro con entrambe le mani.
«Che fai?»
«Abbiamo fatto un casino.»
«Come, abbiamo? Che hai combinato?»
Jimin lo conosceva, sapeva sarebbe andato a spifferare tutto: entrambi faticavano
a mentire, ma stavolta la posta in gioco era davvero alta. «Non dirmelo, ti
prego. Non dirmi che sei andato a dirgli tutto.»
Quelle iridi color caramello lo incatenarono sulle scale. «Mi sa che non hanno
apprezzato. E credo adesso ci odino...»