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Autore: Alexa_02    13/03/2022    1 recensioni
Julianne ha tutto ciò che potrebbe mai desiderare, quando guarda la sua vita non c’è una virgola che cambierebbe. È così sicura che ogni cosa andrà nel giusto ordine ed esattamente come se lo aspetta, che quando si sveglia e trova la lettera di addio di sua madre non riesce a capacitarsene.
Qualcosa tra i suoi genitori si è incrinato irrimediabilmente e April ha deciso di scompare dalla vita dei figli e del marito senza lasciare traccia o la benché minima spiegazione.
Abbandonata, sola e ferita Julianne si rifugia in sé stessa, perdendosi. Una spirale scura e pericolosa la inghiotte e niente è più lo stesso. Julianne non è più la stessa.
Quando sua madre si rifà viva, è per stravolgere di nuovo la sua vita e trascinare lei e suo fratello nell'Utah, ad Orem, dalla sua nuova famiglia.Abbandonata la sua casa, suo padre e la sua migliore amica, Julianne è costretta a condividere il tetto con cinque estranei, tra cui l'irriverente e affascinante Aaron. Tra i due, da subito, detona qualcosa di intenso e di forte, che non gli da scampo.
Può l’amore soverchiare ogni cosa?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Aaron



“Ancora non ci credo” sospiro estasiato.
Julianne mi lancia un’occhiata divertita. “Hai intenzione di lasciarlo andare prima o poi, o ci dormirai anche insieme?”.
“Lo porterò con me ovunque, anche in bagno” affermo serio.
Ridacchia, o almeno credo. L’unica cosa che riesco a scorgere di lei in mezzo alla lana e al cotone sono i suoi occhi. Si è avvolta in così tanti strati che comincia ad assomigliare ad una mummia.
Henry mi guarda stranito. “Lo sai che si tratta solo di una A meno e non del premio Nobel, vero?”.
Gli sventolo il foglio davanti al naso. “È molto meglio del premo Nobel, è una A meno in francese. Praticamente sto stringendo tra le mani il Sacro Graal”.
Henry sbuffa. “Mi sembra un’esagerazione”.
Julianne chiude la macchina e si stringe con più furore nella sciarpa. “Non lo è, credimi. Ho partecipato alla preparazione di quel capolavoro e la coppa con il sangue di Gesù non è nulla in confronto”.
Henry scuote la testa e si avvia verso la porta. “Secondo me state esagerando. Comunque, congratulazioni, sono sicuro che tu te lo sia meritato”.
Julianne mi sfila il tema dalle mani. “Sei stato davvero bravissimo, lo sai vero? La professoressa era così sorpresa ed estasiata, che avevo paura che saltasse la cattedra per sbaciucchiarti dalla felicità”.
“Per me ci ha pensato” mormoro inorridito.
“Avrei filmato la scena volentieri”.
Mi riprendo il compito e le stringo la mano avvolta nel guanto. “Grazie di avermi aiutato”.
Scuote la testa. “No, quello è interamente merito tuo. Io ti ho dato una spintarella, ma la fatica l’hai fatta tutta tu. Sono molto fiera di te”.
Vorrei rovistare tra la lana per darle un bacio, ma siamo davanti a casa e non è il caso di rischiare. “Grazie”.
Gli occhi di Julianne guizzano di lato, verso qualcosa alle mie spalle. Mi giro e osservo la macchina luccicante parcheggiata dall’altro lato della via. “È una Rolls Royce?”. 
Jay aggrotta le sopracciglia. “Ho già visto quella macchina”.
“Sì, anche io” sospiro. “Nei miei sogni”.
Henry ballonzola davanti sul portico. “Vi date una mossa? Mi sto congelando”.
Jay smette di fissare la macchina e si avvia verso il fratello. “Puoi entrare anche senza di noi”.
“Ho dimenticato le chiavi” brontola.
Julianne sfila le dita dalla muffola verde e si fruga in tasca. “Dio. Perché fa così freddo?”.
“Siamo solo a fine novembre, non fa ancora così freddo” asserisco raggiungendoli.
Jay estrae le chiavi dalla tasca e lancia un’occhiataccia alla mia giacca di pelle. “Forse per te che abiti sotto l’ascella di Babbo Natale da tutta la vita, ma noi veniamo dalla terra del sole”.
Henry si stringe nelle braccia. “Credo tu ti stia confondendo con la Terra del Fuoco, ma a discapito del nome lì fa molto più freddo che qui. Forse quello che intendevi è lo Stato del Sole”.
Fulmina il fratello. “Vuoi restare fuori, Hen?”.
Lui scuote visibilmente la testa. “No, ti prego”.
Deve essere difficile passare dal caldo quasi perenne della California, al rigido inverno dello Utah. Vorrei poterli consolare, ma le temperature non sono ancora davvero precipitate. Verso fine dicembre e inizio gennaio farà davvero freddo e arriverà finalmente la neve. Sarà divertente vederli alle prese con il ghiaccio e con le nevicate, se sono scontrosi adesso figuriamoci più avanti.
Julianne spalanca la porta e possiamo tutti sgusciare all’interno. Appendo la giacca al gancio mentre i fratelli si sfilano i piumini e le sciarpe.
“Mi aiuti ad incorniciarlo?” mormoro.
Julianne si toglie il capello e finalmente posso rivederle il viso. “Vuoi davvero incorniciarlo? Non vuoi farlo vedere a tuo padre?”.
“Ovviamente, così magari ti libererà di quella stupida punizione”.
“Non è un problema, Aaron. Un mese l’ho già praticamente scontato, me ne resta solo un altro e poi sono libera” afferma rimettendosi lo zaino in spalla.
“Sì che è un problema. Stai pagando anche la mia parte e non è giusto. Oltretutto un altro mese significa che passerai le vacanze invernali in casa e io avevo dei piani”.
Sorride dolcemente. “Che piani?”.
“È una sorpresa” esalo “Oltretutto ci sarà il ballo d’inverno…”.
“Jules? Puoi venire qui un momento?” domanda Henry dal salotto.
L’urgenza del suo tono fa innervosire entrambi e ci fa varcare la soglia con più impeto del necessario.
Seduti compostamente sul divano ci sono un uomo e una donna di una certa età. Hanno un’aria familiare ma non ho idea di chi siano. La donna ha i capelli biondi raccolti dietro la testa, un abito grigio lungo fino alle ginocchia e dei tacchi vertiginosi. Stringe la borsetta di marca sulle ginocchia, come se avesse paura ad appoggiarla per terra o da qualsiasi altra parte. Ha l’aria adirata e infastidita, di chi vorrebbe essere da un’altra parte.
L’uomo è meno contrito ma altrettanto vistoso. Il completo scuro e l’orologio luccicante urlano denaro da ogni angolazione li si guardi. I capelli grigi e i baffi folti gli conferiscono un’aria gentile ma si vede che anche lui non vorrebbe davvero essere qui.
Julianne molla lo zaino sulla poltrona vuota. “Mi sta prendendo in giro?”.
April si alza cautamente dalla sedia e sorride ai figli. “Siete tornati, finalmente”.
Henry ficca le mani in tasca e abbassa lo sguardo ferito verso il tappeto. Sembra aver del tutto perso la voglia di parlare che aveva poco fa.
Jay invece sembra non voler chiudere la bocca. “Che cosa cazzo ci fanno loro due qui?”.
La donna alza il mento appuntito con arroganza e stringe gli occhi castani. Qualcosa in quell’espressione attira la mia attenzione. È come se l’avessi già vista ma in una versione più giovane e meno affilata.
“Vedo che certe cose non cambiano” sibila la donna.
“Anche tu sei ancora la stessa stronza, Vivian” ribatte Julianne.
April sobbalza. “Julie”.
La figlia non stacca gli occhi dalla donna. “Cosa? Sono stata sgarbata? Pensavo dovessimo chiamare le cose con il loro nome”.
“Julianne…”.
Vivian alza una mano. “Non importa, April, non mi aspettavo nulla di diverso”.
April si stringe le spalle. “Forse dovevamo parlarne prima, questa imboscata non è stata una grande idea”.
Vivian inarca un sopracciglio biondo. “Sai benissimo che lei non si sarebbe presentata”.
Jay si fa avanti, comprendo il fratello con il suo corpo minuto. “Finalmente qualcosa su cui siamo d’accordo”. Lancia un’occhiata siderale alla madre. “Posso sapere perché siedono sul nostro divano come se nulla fosse?”.
April si sistema nervosamente il maglione. “In quest’ultimo periodo, abbiamo cercato di ricucire i rapporti e abbiamo fatto enormi passi avanti. Così, ho pensato che sarebbe stato bello se anche voi…”.
“No” ringhia Julianne “Neanche per sogno”.
“Julie…” sospira.
“No, sono i tuoi genitori. Per noi non sono altro che due vecchi con il portafoglio bucato che non ci sono mai stati”.
“Sono pur sempre i tuoi nonni, Julie” mugola April.
“No!” ribatte “Mia nonna sia chiama Geneviève, vive a Parigi e c’è sempre stata. Era lì quando siamo nati, era lì quando ci siamo presi la varicella ed era lì quando avevamo bisogno di lei. Ti ricordi? C’è sempre stata anche per te, anche quando sei rimasta incinta e qualcuno ti ha detto di non disturbarti a tornare”.
April chiude gli occhi, percorsa da un dolore sordo alquanto lampante. “Non è così semplice”.
“È molto semplice, invece. Da quando hai deciso di ricucire i rapporti?”.
Vivian inclina la testa. “Da quando ha iniziato a prendere decisioni sensate, come quella di lasciare quel fallito di vostro padre”.
Henry si risveglia in tempo per afferrare il braccio della sorella, impedendole di avanzare. “Jules”
“Non ti azzardare” ringhia lei. “Non sai nulla di noi o della nostra famiglia”.
“So abbastanza” soffia.
L’uomo si muove a disagio. “Vivian”.
Lei lo guarda con sufficienza. “Non fingere di non essere d’accordo, Quentin”.
“Cerchiamo di calmarci, per favore” sospira April. “Ora ci sediamo tutti insieme, beviamo un bel thè e cerchiamo di conoscerci”.
Julianne si scrolla la mano di Henry di dosso. “Noi non lo faremo. Ci abbiamo già provato ed è stata tutta fatica sprecata”.
April sembra disorientata. “Cosa significa?”.
Jay si gira verso il fratello. I loro sguardi così simili sono perfusi da emozioni completamente diverse. Quelli di Julianne traboccano di collera e risentimento, mentre quelli di Henry sono tristi e amareggiati.
“Non mi sorprende che tu non glielo abbia detto, Vivian. Non è stato uno dei tuoi momenti migliori, eh?”. Vivian la fissa con la stessa espressione rabbiosa. “Dopo diversi mesi dalla tua sparizione, mamma, Henry e io abbiamo deciso di cercarti. Volevamo una spiegazione un po’ più sostanziosa di quella che avevi lasciato. Nessuno di noi sapeva ancora guidare, quindi abbiamo comprato i biglietti del treno e ci siamo messi in viaggio. Da San Diego a Phoenix ci voglio più o meno sei ore, così ci siamo svegliati presto e muniti di buona volontà abbiamo raggiungo la loro casa”.
Henry le stringe delicatamente la mano. “Abbiamo viaggiato tutta la mattina per ricevere una porta in faccia. Non hanno avuto nemmeno la decenza di farci entrare o di assicurarsi almeno che tornassimo a casa tutti interi”.
Vivian si raddrizza. “Oh, ma davvero? È questo che gli hai detto?”.
“È quello che è successo” ribatte Julianne.
Vivian arriccia le labbra. “Io ricordo di averti fatta entrare, invece”.
Julianne si irrigidisce e Henry corruga la fronte. “Jules?”.
“Non mi sorprende che tu non glielo abbia detto”. I suoi occhi scuri si riempiono di scherno. “Non è stato uno dei tuoi momenti migliori, Julianne?”.
“Ti ha fatta entrare? Mi hai detto che ti ha detto di andartene e che ha sbattuto la porta” mormora Henry.
“È entrata e mi è bastata un’occhiata per capire cosa volesse. Non era la prima volta che vedevo una drogata” sibila.
Quentin sospira. “Vivian, basta”.
“Sto solo chiamando le cose con il loro nome” sibila velenosa per poi squadrare Jay dalla testa ai piedi. “Si vedeva che ti facevi di qualcosa, eri scattosa, agitata e con gli occhi vacui. Ti ho dato l’assegno e te ne sei andata, non provare a dipingere me come la cattiva”.
Henry sembra sempre più confuso. “Ti hai dato un assegno?”.
Vivian ride freddamente. “Perché mi sorprende che tu non lo abbia condiviso con tuo fratello? Forse perché avevo ragione, dopotutto”.
Julianne stringe la mascella e fissa sua nonna con lo sguardo più ferito che le abbia mai visto. Vederla così dilaniata mi provoca una fitta al centro del petto.
“Mi ha dato un assegno, è vero. Mentre cercavo di farle capire che volevamo solo nostra madre e che conoscerli nonostante tutto sarebbe stato bello, lei ha tirato fuori il libretto degli assegni” mormora roca “Ha scritto il valore della nostra relazione e me lo ha sbattuto in mano. Mi facevo allora, non ancora a livelli assurdi, ma comunque abbastanza da esserne dipendete. Una cifra del genere mi avrebbe fatta sballare per un sacco di tempo e con la roba giusta, ma poi hai detto una frase che non mi scorderò mai e che ha sovrastato addirittura la mia dipendenza”. Prende un respiro tremolante. “Te la ricordi, Vivian?”.
“No” sospira.
Julianne le sorride sprezzante. “Non importa quanto denaro ci metti dentro o con cosa la avvolgi, la spazzatura puzzerà ugualmente”.
Il silenzio cala opprimente. Nessuno respira, non c’è spazio per nient’altro che lo sgomento. L’intera stanza fissa Vivian, io non riesco a non osserva la ragazza che amo mostrare una delle sue ciccartici più profonde senza nemmeno vacillare.
“Quella frase è incisa a fuoco nel mio cervello. L’hai pronuncia nel momento peggiore possibile, è stato come versare benzina su un incendio che aveva già divampato da parecchio. E purtroppo avevi ragione, sono spazzatura, sotto sotto lo sapevo già. Lui, però…”. Indica il fratello. “Lui è meraviglioso. È intelligente, gentile, divertente e la persona più comprensiva e incline al perdono che io abbia conosciuto. Quindi no, non gli ho detto dell’assegno e non gli ho detto che mi avevi liquidata senza nemmeno cercare di conoscermi, non volevo che pensasse di non valere niente”.
Afferra bruscamente la borsa, fruga all’interno e ne estrae il portafoglio. “Ho aspettato a lungo, ma sapevo che ne sarebbe valsa la pena”. Estrae un rettangolo di carta stropicciato e lo sbatte in mano a Vivian. “Puoi riaverlo”.
Vivian stringe la carta tra le dita sottili. “Lo hai tenuto?”.
“Non abbiamo mai voluto i tuoi schifosi soldi, volevamo soltanto una famiglia. Volevo bruciarlo ma poi ho pensato che sarebbe stato più gratificante vedere la tua faccia quando te lo avrei ridato”. Le lancia un’occhiata siderale. “Avevo ragione, dopotutto”.
“Io…” sospira Vivian.
“Oltretutto, mi è servito come monito in questi anni. Il sangue non determina la famiglia e le seconde occasioni si devono poter contare sulle dita di una mano” afferma per poi girarsi verso la madre. “Quindi, no, mamma. Non ho alcun interesse nel conoscere queste persone, nello stesso modo in cui loro non hanno voluto conoscere noi”. April annuisce con gli occhi lucidi. “Ora, se volete scusarmi, ho un sacco di compiti da fare”.
Recupera la borsa e, senza la minima esitazione, sale le scale verso la sua camera.
Henry fa qualche passo in avanti. “Fino a venti minuti fa avrei fatto di tutto per convincerla a darvi un’altra occasione. Avrei perdonato qualsiasi cosa, ma nessuno in questo universo è migliore di mia sorella. Lei…voi non avete proprio idea, non ci avete nemmeno provato…”. Gli stremano le mani lungo i fianchi. “Spero torniate a casa senza problemi e che ci restiate”.
Dovrei seguirlo di sopra, ma non riesco a muovermi. Ho così tante cose che vorrei dire, mille esempi che gli farebbero capire quanta immensità si sono persi. Le parole, però, mi restano bloccate in gola.
Quentin si gira verso la moglie, per la prima volta con un’espressione diversa dalla noia. “Le hai dato dei soldi? Mi avevi detto che te li aveva estorti, che li esigeva per lasciarci in pace. Non mi hai mai detto che erano venuti solo per conoscerci”.
Vivian sbuffa. “Non fare il santo ora, nemmeno tu hai fatto il minimo sforzo”.
“Perché non pensavo che ne sarebbe valsa la pena. Mi hai detto che non ci avevano mai cercati”.
“Cosa?” squittisce April. “Tutte le lettere ho spedito e le telefonate che ti ho fatto? Te le sei tenute tutte per te? Perché?”.
Vivian si raddrizza con sdegno. “Lo sai benissimo perché, April. Quando hai deciso di rimanere in Francia e di sposare quel mentecatto, io…”.
“Deciso?! Io non ho deciso nulla, mamma. Mi hai dato un ultimatum e niente di più”.
“Ti ho messa davanti ad una scelta” ribatte alzando la voce.
“Abortire o restare dov’ero e arrangiarmi? È questa la scelta di cui parli?” ringhia.
“Esattamente”. Lancia un’occhiata stomacata verso le scale. “Ti saresti evitata parecchie grane”.
Quentin si stropiccia il viso. “Dio, Vivian”.
April stringe i fianchi con le mani. “Non è mai stata una scelta! Non ho avuto alcun dubbio e non credere che abbia mai avuto qualche ripensamento. I miei figli sono straordinari e, credimi, evitando di conoscerli ci perdi solo e solamente tu”.
Vivian si alza dal divano come se la stanza fosse in fiamme. “È stato decisamente un errore venire qui”.
April non indietreggia. “Su qualcosa siamo d’accordo allora”.
“Presumo che l’invito per il ringraziamento sia revocato” asserisce recuperando il cappotto dal bracciolo del divano.
“Presumi bene”.
Si infila quello che sembra l’intero manto di una famiglia di ermellini. “Quando deciderai di ragionare di nuovo, sai qual è il mio numero”.
April scuote la testa lentamente. “Non ti struggere accanto al telefono, mamma, non suonerà molto presto”.
“Non l’ho mai fatto, April, non preoccuparti” sibila. Detto ciò, esce dalla porta in un alone di superbia e bieca meschinità.
Quentin raccoglie i suoi averi e allunga il braccio come per accarezzare la guancia di sua figlia, ma all’ultimo desiste e lascia cadere la mano. “Mi dispiace. Cercherò di farla ragionare, ma sai com’è quando si impunta sulla sua versione della storia”.
April abbassa lo sguardo tristemente. “Lo so, non preoccuparti”.
Dopo un sospiro sconfitto, Quentin segue la moglie fuori dalla casa.
April si accascia sulla sedia come un palloncino sgonfio e affonda il viso nelle mani. “Diamine”.
“Mi dispiace”. Sobbalza, come se non si fosse resa conto che sono rimasto nella stanza. “Deve essere terribile avere una madre del genere”.
Si stringe nelle spalle esili. “È tutta la vita che litighiamo, non smetteremo certo da un giorno all’altro e di sicuro non grazie alla sua facile personalità”. Si alza i piedi. “È il caso che parli con Julianne”.
La accompagno mentre sale i gradini e si dirige in camera dei gemelli.
Siedono vicini sul letto di Jay e confabulano a bassa voce in francese. Appena ci notano, Julianne scivola giù dal materasso e marcia verso la madre. Sbalordendo tutti i presenti, le avvolge le braccia intorno al collo inghiottendola in un abbraccio inaspettato.
Sono quasi quattro mesi che vivono qui e questa è la primissima volta che la vedo iniziare un contatto fisico con April di sua spontanea volontà.
April sembra totalmente stupefatta e le ci vogliono un paio di secondi per ricambiare la stretta. “Oh, tesoro. Mi dispiace così tanto”. Julianne la stringe con più decisione. “Lei non si sarebbe mai dovuta permettere, quello che ha detto è imperdonabile. Mi dispiace da morire”.
Lo sguardo di Julianne trabocca di sofferenza e di malinconia. È molto diverso dal solito però, sembra più profondo, più ombroso e più devastante.
Dura una frazione di secondo, sparisce nel momento in cui si staccano e April le rivede il viso. Io, tuttavia, l’ho notato e non mi piace per niente.
“Grazie per averla rimessa al suo posto”.
“Oh, Julie” pigola “Tu e tuo fratello siete le due cose più importanti della mia vita. Venite prima di tutto e tutti, e questo non cambierà mai, per nessuna ragione al mondo”.
Henry salta in piedi e si intrufola nell’abbraccio facendole ridacchiare. Per la prima volta da parecchio, sembrano finalmente una famiglia felice.
Dopo che Henry e April se ne sono andati, Julianne si raggomitola sul letto e apre il libro di letteratura. Ha un’aria stanca e opaca con cui ho una certa familiarità. “Vuoi restare sola?”.
Mi osserva mordicchiandosi il labbro e poi scuote la testa. “No”.
“Vuoi parlarne?”.
“Nemmeno” sospira.
Non ho idea di come aiutarla. “Cosa ti va di fare?”.
Sorride debolmente. “Voglio fare il compito di letteratura, poi voglio incorniciare il tuo tema e poi, non lo so, magari un film?”.
“Mi piace come suona questo programma, sono invitato?”.
Il suo sorriso si fa un po’ più luminoso. “Sempre”.
 


“Sembro una bomboniera” brontola Julianne.
“Secondo me sei carina” mento.
Mi lancia un’occhiataccia che si può solo definire come assassina. “Sembro appena uscita da Hairspray”.
Sì, non posso smentirla. “Tu adori quel film” ribatto.
Si gira verso di me e la gonna ampia produce un suono strano. “Questo non significa che voglia farne parte”.
Il vestito che indossa non è esattamente in linea con il suo stile. Ha la gonna lunga fino alle ginocchia, è smanicato e il corpetto le arriva fino al collo. Il colore e la stoffa non sono dei migliori, è così lucido da sembrare scivoloso. Sua madre glielo ha confezionato personalmente per il giorno del Ringraziamento e, siccome hanno trovato una specie di punto di incontro, Jay non ha voluto replicare. Sono piuttosto certo che ora se ne stia pentendo amaramente.
“Sembro l’incrocio venuto male tra una ciotola di pot-pourri e un budino al cioccolato” bofonchia tirando il fiocco nero che le stringe la vita.
Mi scappa una risata. “Ecco cosa mi ricordavi”.
Stringe i denti. “Una volta che sarà tutto finito, brucerò questo obbrobrio in una pira”.
April ci trotta davanti trasportando una pirofila e sfoggiando un vestito abbinato a quello della figlia. Ne ha confezionato uno anche per Liv, sembrano tre piccole matriosche. Fortunatamente, a noi ragazzi ha dato solo una cravatta della stessa stoffa e dello stesso colore. Sembriamo una famiglia di sociopatici.
“Non penso sia una grande idea, le esalazioni potrebbero intossicarti” constato.
Lei sorride con un gatto. “Perfetto, così magari mi scorderò di questa giornata infernale”.
“Non sarà poi così male, vedrai”.
Il tavolo è imbandito di pietanze dall’aria succosa, il salotto è decorato con festoni colorati e sagome storte di tacchini, e la casa si sta lentamente riempiendo di parenti e consorti.
Dopo le dovute presentazioni, recuperiamo dei piatti di carta e li carichiamo di cibi misti. L’abbondanza di parenti non ha permesso la classica cena al tavolo, così April ha organizzato un buffet davvero variegato e ha disposto sedie in ogni angolo del soggiorno.
I gemelli e io ci sediamo sul pavimento davanti al televisore e sbocconcelliamo gli antipasti osservando distrattamente la parata.
“Posso unirmi a voi?”. Quentin stringe il piatto con aria imbarazzata. “Non conosco nessuno a questa festa”.
Sia io che Henry aspettiamo che sia Julianne a scegliere. “Non lo sapevi, vero?”.
Lui scuote la testa. “Vivian mi ha dato la sua versione della storia, non sapevo che ce ne fosse un’altra”.
Jay raccoglie un cuscino e lo appoggia accanto a lei. Con un’agilità davvero rimarchevole, Quentin si accomoda al tavolino. “Tua madre è una cuoca davvero eccezionale, sembra tutto delizioso”.
Julianne non sembra favorevole alla conversazione spicciola. “Vivian lo sa che sei qui?”.
“Sì, le ho detto che sarei venuto” sospira “Non è stata…entusiasta”.
“Immagino” borbotta.
Quentin abbassa lo sguardo sugli involtini di gamberi. “Tua nonna non è cattiva, Julianne, è solo…”.
“Meschina? Fredda? Intollerante?” propone “Ne ho altre”.
Sospira tristemente. “Vivian è fatta a modo suo. La vita l’ha resa così dura. La sua famiglia è…beh, diciamo che è molto complicato. Non si fida facilmente delle persone, è sempre stato così”.
Lo sguardo di Julianne si rabbuia. “Nemmeno di sua figlia?”.
Quentin sorride malinconicamente. “Le è costato parecchio persino fidarsi di me. Ho impiegato anni a oltrepassare le sue barricate e, ogni volta che pensavo di averle superate tutte, ne spuntavano di nuove. Si è chiusa in sé stessa molto tempo fa, è un meccanismo di difesa, Julianne”.
“Mi sembra un grandissima stronzata”.
China le spalle, spossato. “Non soffriamo tutti nella stessa maniera. Ognuno ha il proprio modo di reagire al dolore”.
“Non è una giustificazione” mormora.
“Sono quarantatré anni che siamo sposati e ancora faccio fatica a capirla”. Scrolla la testa. “Non esprime mai i sentimenti che le imperversano la testa. Ha imparato che lasciarli dove sono le permette di controllarli. Ha il terrore di essere ferita di nuovo e quindi allontana tutti prima che possano deluderla”.
Julianne aggrotta la fronte. “Perché vi siete sposati?”.
Quentin addolcisce lo sguardo. “Non decidi chi amare, Julianne. Lo fai e basta”.
Lei abbassa lo sguardo sulle patate al forno. “Suppongo di no”.
“Vi assomigliate molto, sai?”.
“Lo prendo come un insulto”.
Quentin ridacchia. “È un dato di fatto, non deve per forza farti piacere, ma vi assomigliate. Avete lo stesso sguardo sprezzante, la stessa testardaggine e lo stesso modo di nascondervi dietro il risentimento”.
Arriccia le labbra. “La genetica è terrificante”.
“Qualcosa l’hai preso anche da me, tua madre mi ha detto che suoni. Un tempo lo facevo anche io” asserisce.
Julianne abbozza in sorrisino. “Davvero?”.
“Volevo diventare un musicista da giovane, ma i miei genitori pensavano fosse una stupidaggine, così sono diventato un bancario” mormora amareggiato.
“Aaron e io suoniamo spesso in garage, se vuoi più tardi posso farti sentire qualcosa”.
Quentin annuisce serenamente. “Mi piacerebbe molto”.   


 
Il verso strozzato di un rospo che tossisce un’iguana risale lungo in corridoio e riempie la mia camera. È così raccapricciante da farmi rizzare i peli lungo le braccia. Mollo il libro di storia sul materasso e slitto in corridoio.
Trovo l’origine del suono abbarbicata al water di ceramica come se fosse una salvagente. “Jay?”.
Un altro conato sgraffiante riempie la stanza. “S-sto…b-eene”.
Mi inginocchio sulle piastrelle e le raccolgo i capelli alla base della nuca. “Cosa succede?”.
“N-niente” espira lentamente.
La pelle cerea e imperlata di sudore la contraddice sonoramente. “È qualche giorno che dici di avere mal di stomaco, cosa hai mangiato recentemente? Forse qualcosa ti ha fatto male”.
Scuote la testa e un altro conato la costringe ad abbassare la testa nella tazza. Devo lottare contro ogni fibra del mio essere per non fare lo stesso. “Cos’altro potrebbe essere?”.
Una carrellata di probabili ragioni che possano causano vomito e mal di stomaco mi attraversa la mente come un treno. Solo una sembra cristallizzarsi più vivida delle altre. 
“Smettila di fare quella faccia” sospira appoggiando la guancia al bordo per guardarmi negli occhi.
Oddio. Oddio. Oddio. È incinta. “Che faccia starei facendo?”.
“Da idiota” mormora con voce rauca “La faccia da: oddio, è incinta”.
Odio essere così prevedibile. “Non è assolutamente quello che stavo pensando”.
Ridacchia sommessamente. “Fai schifo a mentire, Aaron”.
Sì, lo so. “Potrebbe…”.
“No” ribatte perentoria.
Abbasso il tono. “Non siamo stati attenti la prima volta”.
Allunga la mano per tirare lo scarico. “Lo so, me lo ricordo. Quello che non ti ricordi tu è che ho l’impianto sottocutaneo. Te l’ho detto all’hotel, ma suppongo che il panico da idiota azzeri la memoria”.
Sì, me lo ha detto, è vero. Sono successe talmente tante cose fantastiche quella sera che questo dettaglio è scivolato in secondo piano. “Ops”.
“Quell’espressione scema ti dona” ridacchia.
“Sei antipatica quando stai male, ne sei consapevole?” brontolo.
Un conato la costringe a stringere di nuovo la tazza e le impedisce di ribattere. Se non stesse così male potrei anche gongolare.
“Julie?”. April entra in bagno praticamente correndo. “Stai male?”.
Mi scosta bruscamente di lato e mi ruba il lavoro. Accarezza la schiena della figlia eseguendo giri concentrici e le stringe i capelli con mano ferma. “Cosa ti senti, tesoro? Come posso aiutarti?”. Mi lancia uno sguardo preoccupato. “Cosa succede?”.
“È qualche giorno che ha mal di pancia e ora sta vomitando”. Le mi informazioni non sono un granché. “È tutto quello che so”.
Julianne riemerge e guarda la madre con il viso della stessa tonalità dei sanitari. “Non sono incinta…”.
April strabuzza gli occhi. “Non lo stavo di certo pensando. Perché dovresti…”. Chiude la bocca, la riapre e poi la richiude. Dopo una lunga e imbarazzante pausa, la riapre e starnazza. “Julianne Jade Roux! Stai facendo del sesso non protetto?!”.
Il conato che le scuote le spalle come un terremoto è l’unica risposta che la domanda riesce a generare. Io mi faccio più indietro e cerco di confondermi con gli asciugamani. Abbiamo già appurato che non so mentire, non tentiamo la fortuna.
April le scosta i capelli umidi dalla fronte e sobbalza. “Oddio, scotti tantissimo”.
Julianne si stringe lo stomaco con il braccio ed emette un rantolo. Vederla così in sofferenza mi fa tremare le mani. “Dovremmo portarla all’ospedale. Potrebbe essere qualcosa di serio”.
April annuisce. “Ora chiamo il dottor Allen”.
“Non dovremmo aspettare, potrebbe peggiorare. Dobbiamo portarla all’ospedale!”.
“Calmati, Aaron” ribatte “Ora la aiutiamo. Chiamo il dottore dalla macchina, riesci a sollevarla?”.
Le passo una mano sotto le ginocchia, una intorno alle spalle e la sollevo dal pavimento freddo. Julianne emette un gemito dolorante. “Scusami” le sospiro all’orecchio.
Sua madre ha ragione, è bollente. Riesco a percepire il suo calore corporeo anche attraverso due strati di vestiti.
Seguo April al piano di sotto, lei raccoglie le chiavi e la sua borsa e insieme usciamo in garage. Deposito Jay sul sedile posteriore e mi avvio verso quello del passeggero. April mi afferra il braccio. “Devi restare qui”.
Sì, col cazzo. “Assolutamente no”.
Le sopracciglia bionde le schizzano in aria. “Come?”.
“Tu non riesci a trasportala e non voglio lasciarla da sola” ribatto.
April inclina la testa, confusa. “Non è da sola, ci sono io con lei, Aaron. Liv invece è sola, devi restare con tua sorella”.
Tentenno. So di non poter lasciare Olivia in casa, ma separarmi da Jay mi sembra fisicamente impossibile. “Non preoccuparti, vi chiamo appena so qualcosa. La cena è già pronta, dovete solo metterla in forno. Avvisa tu tuo padre e anche Henry, per favore”. Mi stringe la mano. “Andrà tutto bene, tranquillo”.
 
Passiamo la cena in totale silenzio. Nessuno sembra aver voglia di parlare, nemmeno papà.
Henry assomiglia ad un fantasma. Fissa il pasticcio di carne da quando glielo hanno schiaffato nel piatto. Ha provato in tutti i modi ad andare in ospedale ma papà glielo ha impedito. Ho provato ad appoggiarlo ma non c’è stato verso. Hanno discusso per almeno un’ora e per la prima volta da quando l’ho conosciuto Henry è stato insolente con un adulto. Sembrava di essere in una realtà parallela, avrei dovuto filmarlo per Jay.
Dopo aver ripulito, lui ed io ci rifugiamo in camera e aspettiamo. Sediamo entrambi sul pavimento e ci facciamo compagnia l’uno nel silenzio dell’altro.
Non so esattamente quanto è passato, ma il cielo è diventato completamente nero, quando Henry decide di parlare. “Odio quando veniamo separati” mormora “Il periodo in cui era in riabilitazione è stato terribile”.
“Quanto ci è rimasta?”.
“Due mesi” sospira “Non le era permesso usare il cellulare o il computer, poteva telefonare costantemente supervisionata. È stato tremendo non vederla per così tanto tempo”.
“Com’era?” bisbiglio “Sai, prima”. Jay odia parlarne, perciò non la sforzo, ma sono lo stesso curioso.
“Era come se ci fossero due Jules” sospira pesantemente “All’inizio non me ne sono accorto, lei è particolarmente brava a dissimulare il suo dolore. Però, più si addentrava nel mondo chimico più diventava distratta e sbadata, e mi sono accorto della differenza”.
“Quale differenza?”.
“Era come se due Jules si alternassero. Quando stava male ed era in astinenza era rabbiosa, irrequieta, qualsiasi minima perturbazione la faceva andare fuori di testa. Se la prendeva con chiunque le stesse tra i piedi e poi incolpava mamma. Invece quando era fatta era come se non ci fosse. Passava il tempo sdraiata a fissare oggetti che vedeva solo lei o a dormire. Era un fantasma, opaca e inespressiva”.
Non riesco nemmeno ad immaginarmela. “Deve essere stato terribile”.
Si mordicchia il pollice. “C’era un momento tra i due stati, una frazione minuscola in cui era Jules. Era solare, divertente, faceva piani e si occupava di me e di papà. I primi tempi era la fase che durava di più, quando ha perso il controllo era perennemente un’ombra. Ad un certo punto, mi sono accorto di quello che stava facendo e ho provato ad affrontarla. È allora che ha smesso di fingere. Ha lasciato perdere tutto e tutti ed è scappata tra le braccia di Jared. Tornava a casa di tanto in tanto ma non ci restava mai. Ho provato a fare qualcosa, anche insieme a Scar, ma più provavamo a riportala indietro più si allontanava”. Strappa una pellicina e una gocciolina di sangue si raggruma vicino all’unghia. “E ad un certo punto abbiamo smesso di provarci”. Il senso di colpa gli incrina la voce.
“Vostro padre? Lui non ha fatto nulla?”. Mi sembra assurdo che sia semplicemente rimasto lì a guardare sua figlia autodistruggersi.
“Voglio bene a mio padre, davvero, ma alcune persone non sono fatte per essere genitori”. Henry pulisce il dito con un fazzolettino. “Jules lo idolatra così tanto da rendere distorta la realtà. Ha fatto la stessa cosa ma al contrario con nostra madre. Nella sua mente, lei è la peccatrice e lui il santo, ma non è così. Nessuno dei due manca di difetti, come ogni essere vivente del resto, però papà…lui si è sempre comportato come un amico. Con lui non c’erano regole, non c’erano limiti e non c’era stabilità. Passava le giornate a dipingere e si dimenticava di tutto il resto, persino di noi”.
È assurdo come la stessa persona venga descritta in modo completamente diverso da due osservatori che dovrebbero vederla allo stesso modo. “Jay non me ne ha mai parlato in questo modo”.
Henry sorride amaramente. “Lei tende a vedere il mondo solo attraverso i suoi occhi. O ti adora o ti odia, non ci sono vie di mezzo”.
C’è una domanda che mi solletica la curiosità da diverse settimane, ma che non ho mai avuto il coraggio di pronunciare. “Hai mai conosciuto Jared?” sussurro e non so nemmeno bene il perché.
Henry scrolla le spalle. “No, lei non me lo ha mai permesso. Anche completamente fatta, non ha mai lasciato che i due lati della sua vita si mescolassero. Non lasciava entrare in casa Jared o la roba, l’unica persona che ho conosciuto è stata Skylar. Lei e Jules avevano una strana amicizia, ma non ci ho mai interagito a parte i soliti convenevoli”.
“Non me ne ha mai parlato. Ha accennato qualcosa su Jared ma niente di rilevante” sospiro.
“E non ti aspettare che lo faccia. Quella parte della sua vita è un intreccio caotico e nebuloso di cui conosce i dettagli solo e solamente Jules. Ti ha detto tantissime cose rispetto ai suoi standard, ma ci sono parti che non condividerà mai con nessuno”.
Lo so bene. “Non voglio che lo faccia se non lo desidera lei”. Non la costringerei mai a fare nulla contro la sua volontà. “Dove pensi che sia Jared ora?”
Henry allunga le gambe avvolte nel pigiama. “Quando si è ripresa dall’overdose ha raccontato alla polizia tutto quello che sapeva su Jared e il suo giro, quindi, immagino che ora sia in prigione. Spero a marcire”.
“Come l’hai convinta? Molte persone dopo la riabilitazione ricadono nelle vecchie abitudini. So che te lo ha promesso ma mi sembra un po’ debole come motivazione” constato.
Si stringe nella felpa. “Dopo che l’hanno ricoverata hanno telefonato a casa, papà era nel suo studio e ho risposto io. L’infermiera non arrivava al punto e il mio unico pensiero è stato: ci è riuscita, si è autodistrutta. Non ho mai provato un tipo di paura peggiore. L’idea che non ci fosse più mi ha annientato. Ma era viva, per miracolo, ma era viva. Perciò, sono andato in ospedale con un solo obbiettivo: impedirle di riprovarci. Mi giurato e spergiurato che non si sarebbe più drogata e che sarebbe tornata ad essere la Jules di sempre, ma sapevo che le sue promesse in quel momento erano buttate al vento”.
“Cosa hai fatto allora?”.
“Le ho giurato che se avesse infranto la promessa e si fosse drogata di nuovo, lo avrei fatto anche io”.
Il fiato mi si ferma in gola. “Cosa?”.
“Era l’unico modo per spaventarla. L’idea di morire non le faceva terrore, quindi mi sono avvalso di qualcos’altro. E, a quanto pare, lei mi ama più di quanto ami sé stessa, perciò, ha funzionato” mormora.
Wow. Sono senza parole. “Lo avresti fatto davvero?”.
“Per Jules? Assolutamente” dichiara senza esitazione.
La porta della stanza si apre lentamente e April appare sulla soglia. Il viso stropicciato e i capelli spettinati ci mettono immediatamente sull’attenti.
Henry salta in piedi come se il pavimento fosse incandescente. “Mamma?”.
“Siete ancora svegli” sospira stancamente.
“Ti stavamo aspettando. Allora? Cos’è successo?” trepida Henry.
“Il cellulare si è completamente scaricato, mi dispiace non aver chiamato” esala entrando nella stanza e sedendosi fiaccamente sul letto del figlio.  
Perché non parla? “April? Come sta Julianne?”.
“Ha avuto una brutta appendicite che è progredita in peritonite. L’hanno operata d’urgenza poco prima di cena e l’hanno riportata in stanza qualche ora fa. È stata sotto i ferri parecchio, il dottore ha detto che era messa maluccio e che non sono potuti intervenire in laparoscopia”.
Henry espira. “Quindi sta bene, ora?”.
April si passa una mano sul viso affaticato. “L’operazione è andata bene, però le hanno dovuto dare dei farmaci, antidolorifici e cose simili…Stava così male e hanno detto che siccome ha solo diciassette anni spettava a me decidere, e io ho detto sì”. Alza lo sguardo affranto e colpevole verso il figlio. “Provava tanto dolore, non potevo…io…ho pensato…e il dottore mi ha consigliato…”.
Henry le siede accanto stringendole il braccio intorno alle spalle tremolanti. “Mamma. Mamma, va tutto bene”.
“Era così arrabbiata quando si è svegliata, Henry. Era furiosa con me e con il dottore, voleva andarsene e ha provato a togliersi la flebo. Sono dovute intervenire le infermiere e mi hanno mandata a casa”. Affonda il viso nelle mani “Stava malissimo, pensavo di aiutarla. Non credevo sarebbe stato un problema così…”.
Henry la stringe più saldamente. “Va tutto bene. Andrà tutto bene. Domani vedremo cosa fare. Adesso però vai a dormire perché sei esausta, okay?”.
April annuisce mestamente. “Okay”.
Henry le bacia una tempia. “Domani è un altro giorno”.
“Sì”. April si alza e incertamente si avvia alla porta. “Buonanotte”.
“Notte” ribattiamo entrambi.
Dopo che April è uscita, ci infiliamo anche noi nel letto e spegniamo la luce. Al buio la consapevolezza della situazione mi colpisce alla nuca. Se le hanno dato dei farmaci significa che non è più sobria e che probabilmente si sente da schifo. È in un posto sconosciuto, da sola e con solo i suoi incubi a tenerle compagnia. E io non posso aiutarla.
Non posso darle supporto.
Non posso fare niente.
Potrei scappare fino all’ospedale. A piedi arriverei all’alba, perciò dovrei prendere la macchina e non c’è modo di non svegliare tutta la casa. Potrei chiedere a Lip, sono sicuro che per Jay si farebbe la notte in bianco.  
“Non è una buona idea” bisbiglia Henry “Qualsiasi piano tu stia tessendo per andare in suo soccorso è inutile”.
Come diavolo… “Perché?”.
“L’ospedale ha le guardie e l’orario di visita è terminato. E, anche se tu riuscissi a superare questi due ostacoli, l’ala dove mettono i pazienti come Jules è sorvegliata costantemente. Oltretutto, la tua presenza non cambierebbe la situazione in cui si trova e sai bene che quando è di pessimo umore di solito predilige restare sola. Perciò smettila di creare una corda con le lenzuola e prova a dormire”.
Il suo ragionamento non fa una piega. “Mi sento completamente impotente” ribatto.
“Lo so, è una sensazione con cui ho una certa familiarità. Purtroppo, non puoi fare nulla eccetto dormire, quindi segui il consiglio che ho dato a mamma e dormi. Domani è un altro giorno”.
 
Sbatto incessantemente il piede contro la gamba della sedia e aspetto che Lip si decida ad entrare in aula.
La classe di storia è l’ultimo posto in cui vorrei stare, il primo sarebbe la camera di ospedale di Julianne ma a quanto pare viviamo sotto una ferrea dittatura tirannica. Papà è stato irremovibile, non si salta la scuola per nessuna ragione al mondo. Non lo ha permesso nemmeno ad Henry e Jay è la sua gemella. Hanno discusso animatamente durante tutta la colazione, ma non c’è stato verso di fargli cambiare idea. Henry lo ha pure paragonato ad un certo dittatore coreano. April si è messa in mezzo e lo scontro non è arrivato ad una conclusione decente.
Lip entra in classe con passo stanco e si dirige verso di me senza fretta. Si siede al mio fianco e butta lo zaino a terra.
“Allora, quali sono le informazioni che sai?”.
“Buongiorno anche a te” ribatte sprezzante.
Gli scuoto la mano davanti alla faccia. “Sì, ‘giorno. Che cosa sai?”.
Ridacchia. “Mia madre ieri ha fatto il turno di notte e quando mi hai detto che Jay era in ospedale le ho chiesto di darle un occhio”.
“Cosa ti ha detto?”.
“Il dottore che l’ha operata è un imbecille, o almeno così dice mia madre. Però ha detto che fisicamente sta bene e che tutto è andato come doveva andare. Mi ha detto che il medico le ha dato la morfina anche se sulla cartella c’era scritto della sua dipendenza e che hanno provato a dargliela anche dopo l’operazione, ma Jay si è opposta come una pazza. Mamma mi ha detto che si è tolta la flebo dal braccio un paio di volte, allora è intervenuta personalmente”. La signora O’Connor è la capo infermiera del reparto di chirurgia e una donna davvero eccezionale. “Ha parlato con Julianne e le ha promesso che nella flebo ci sarebbero stati solo i liquidi e qualche antibiotico, ed è riuscita a convincerla a lasciarla dov’è. Le ha fatto compagnia ogni volta che poteva e quando stamattina è venuta via, Jay stava bene, aveva mangiato ed evacuato”.
“Sai quando potrà uscire?”.
“Ha detto che le hanno fatto una bella incisione e che a causa della peritonite le hanno messo un drenaggio. Dovrà restare lì almeno altri tre giorni, devono darle gli antibiotici e reintegrare i liquidi” afferma.
“Tre giorni?”.
Il professore entra in classe e Lip abbassa la voce. “Non ti disperare, poteva andare peggio. Vedrai che passeranno in un lampo”.
 
Nessun lampo. Nessun fottutissimo baleno. Le settantadue ore più lente della mia vita. Ad ogni occhiata l’orologio sembrava arretrare sempre di più.
Quand’è successo?
Quand’è diventata così indispensabile?
Come può una sola, minuscola persona riuscire ad occupare una porzione così grande della mia vita?
Salgo le scale di casa apaticamente, come un’anima in pena. Sono patetico. Il me di un anno fa mi riderebbe in faccia se mi vedesse. Sono tre giorni che salgo con la bieca speranza di trovarla seduta sul letto ad aspettarmi ed ogni volta rimango fregato. Oggi no, non ho intenzione di guardare.
Henry mi passa accanto con la stessa espressione mesta. Lui almeno non deve fingere di non essere triste.
“Ehi, voi due. Dov’è il mio abbraccio di bentornato?”.
Ci giriamo di scatto nello stesso momento. Julianne è raggomitolata sotto una pila di coperte, con i capelli raccolti scompostamente in cima alla testa, il viso pallido e un tubo di plastica che le sbuca dalla mano sinistra.
Dio, non è mai stata così bella.
Henry balza dal corridoio sul letto come un canguro esaltato. La stringe con foga, rischiando di far cadere l’asta con la flebo. “Oddio, quanto mi sei mancata!”.
Jay ride e si lamenta allo stesso tempo. “Ahi! Henry, i punti”.
Henry si tira indietro. “Scusa, mi sei mancata tantissimo”.
“Anche tu, la televisione dell’ospedale è sintonizzata solo su canali orribili”. Si gira verso di me e un velo di rosa le colora le guance. “Ehi”. Allunga la mano da cui le spunta la flebo verso di me. “Vieni qui”.
Intreccio le dita con le sue senza la minima esitazione e mi siedo al suo fianco con meno impeto di Henry.
“Come stai?” le domanda il fratello.
“Bene. Sto bene. Molto bene. Voi come state?”.
“Jules…”. Henry le accarezza la gamba. “Mamma ci ha detto della morfina”.
Lei scrolla le spalle. “Ho reagito eccessivamente la mattina dopo l’operazione. Sto benissimo, era solo una piccola dose…quantità. Va tutto bene. Il dottore ha detto che è andato tutto alla perfezione, ieri sera mi ha tolto il drenaggio”. Ci mostra l’agocannula avvolta nel cerotto adesivo. “Mi hanno dato gli antibiotici per via endovenosa. Questa è l’ultima. Pur di permettermi di uscire oggi pomeriggio, Erin si è offerta di venire a togliermela personalmente”.  
Henry corruga la fronte. “Erin?”.
“È la madre di Lip” spiega Julianne “È un’infermiera eccezionale e una persona fantastica. Mi ha fatto compagnia ad ogni turno. Abbiamo letto riviste, guardato programmi orrendi e mi ha raccontato un sacco di storielle interessanti sull’infanzia di Lip, che userò sicuramente contro di lui”.
“Quindi stai bene? Nessun problema?” domanda cauto Henry.
Lei scuote energicamente il capo. “Nessun problema”.
Henry è alquanto scettico e devo dire che lo sono anche io. “Va bene, sorellina. Ho un compito di biologia da preparare, ma stai pronta perché stasera ci guardiamo almeno due film strappalacrime”.
Julianne ridacchia. “Sì, signore”.
Si china in avanti e le bacia la fronte. “Sono felice che tu sia a casa”.
“Anche io”.
Una volta che è uscito, occupo il posto di Henry accanto a Julianne. Scivoliamo tra le coperte e la stringo tra le braccia facendo attenzione a non tirare il tubicino.
Julianne si ritrae leggermente. “È da qualche giorno che non faccio la doccia”.
“Non mi interessa” esalo strascinandola verso di me.
Appoggia il viso sul mio petto ed espira stancamente. “Mi sei mancato”.
“Anche tu. Un sacco”.
Chiude lentamente le palpebre. “Mamma viene a controllarmi ogni mezz’ora, non possiamo restare così per sempre”.
“Solo per un minuto” biascico. Non mi ero reso conto di essere così stanco fino a questo momento. È come se avessi trattenuto il fiato e ora potessi respirare di nuovo.
“Un minuto” concorda.
 
Salgo faticosamente le scale, trascinandomi dietro il borsone di lacrosse e lo zaino. Il coach oggi ci ha massacrati, mi sembra di avere della gelatina al posto delle gambe.
Dopo le vacanze invernali verranno ad osservarci gli scout delle varie università e dobbiamo dare il massimo. Le borse di studio per il lacrosse sono poche e sono destinate solo ai veri talenti. È quasi impossibile che ne assegnino più di una nella stessa scuola e la nostra squadra è composta solo dal meglio. Sarà una vera e propria strage.
Butto le borse sul letto e mi avvio verso la camera di Jay. Il dottore le ha ordinato di riposare per almeno una decina di giorni e questo comprende anche la scuola. Oggi abbiamo avuto una sfilza di test e non le ho potuto scrivere nemmeno un messaggio.
Varco la soglia e mi blocco di colpo. “Jay?”.
Julianne siede sotto la trapunta ricamata con il vassoio da letto sopra le gambe e un barattolino arancione stretto nella mano sinistra. Una manciata di pillole bianche sparse sul vassoio attira particolarmente la mia attenzione. Julianne le divide in piccoli mucchi di dimensioni diverse e poi le rimette insieme.
“Jay? Che cosa fai?” mormoro titubante.
Recupera una pastiglia con la punta del dito. “Con una ti senti bene, niente dolore, niente fatica”. Ne recupera un’altra. “Con due inizi a sentirti leggero e un po’ assonnato”. Poi un’altra. “Con tre ti ritrovi a galleggiare in uno stato catartico. Come se il corpo e la mente fossero in due dimensioni diverse”.
“Jay…”.
Ne spinge un’altra fuori dal mucchio. “Con quattro non senti più niente. Niente corpo. Niente mente”.
“Julianne”.
Alza lo sguardo incavato verso di me. “Ventotto compresse. Un intero barattolo. Gli ho detto di non darmelo ma nessuno mi ascolta. Al dottore non importa. Erin non può farci nulla. Mia madre…” ride senza allegria “Lei continua a spostarle. Le appoggia sul comodino ma sono troppo vicine. Le mette in bagno ma sono troppo lontane. Le appoggia sulla scrivania ma mi costringerebbero ad alzarmi, allora le riappoggia sul comodino e il circolo ricomincia”. Raggruppa le pastiglie e le rimette nel barattolo con rabbia. “Ventotto pastiglie. Sai quanto avrei pagato per averle un anno fa?”. Chiude il tappo. “Qui sopra c’è il mio nome, significa che sono mie. Non devo lavorare o faticare per averle. Sono mie, lo capisci?”.
Mi siedo accanto a lei sul materasso. “Non capisco, spiegami”.
“Ho mandato via mamma perché mi stava facendo impazzire e sono rimasta completamente sola e per tutto il giorno questa voce, che proviene da un lato della mia testa che pensavo si fosse calmato, mi ha ripetuto sempre e solo la stessa cosa: prendila. Cosa vuoi che succeda se ne prendi solo una? Una non è un problema. Solo per far assopire un pochino questa angoscia”. Si mordicchia il pollice. “Sarebbe comunque inutile. Questo tipo di brama non si assopisce mai”
“Io…”.
Le tremano le mani. “Perché deve essere così difficile? Perché il mio cervello si ricorda così vividamente quando bene mi facciano sentire?”.
Un brivido gelato mi trapassa lo stomaco. “Cosa posso fare?”.
Mi mette in mano il barattolo. “Nascondimele”.
“D’accordo”.
Mi artiglia il polso. “Nascondile bene, Aaron. Dove non guarderei. Devi pensare come me, okay? Per favore. E contale, devono essere ventotto”.
Stringo il tubetto di plastica con determinazione. “Ci penso io. Resta qui”.
Esco dalla stanza e mi avvio verso le scale. Nonostante la rigidezza delle gambe, scendo i gradini praticamente correndo. Entro in cantina, afferro la custodia impolverata della mia vecchia chitarra e la apro. Svito il tappo di plastica e conto le pillole bianche, poi sgancio un paio di corde e infilo il baratto nel foro di risonanza. Stringo di nuovo le corde e rimetto la chitarra al suo posto. La infilo dietro diversi scatoloni nel punto più alto della mensola.
Torno in camera di Julianne con la stessa velocità con cui sono sceso. Mi sfilo le scarpe e mi arrampico sul letto accanto a lei.
“Grazie” sospira intrufolandosi tra le mie braccia.
“Va tutto bene” esalo senza fiato “Non le hai prese. Va tutto bene”.
Continuo a dirglielo. Glielo ripeto finché non si appisola contro la mia spalla, ma non va tutto bene. Vorrei riuscire ad autoconvincermi, ma i problemi non spariscono solo perché cerchiamo di illuderci di non vederli.
Julianne ha bisogno di aiuto e so di non poterglielo offrire, ma di sicuro posso fare in modo che lo abbia.
Quando sono sicuro che dorma davvero, scivolo fuori dalla sua camera e scendo al piano inferiore. April svuota le buste della spesa sul bancone della cucina. “Aaron. Tutto bene, tesoro?”.
“Julianne ha bisogno di aiuto, April”. Le parole mi sgattaiolano fuori dalla bocca con più facilità di quanto pensassi.
April si immobilizza a metà del movimento e mi fissa apprensiva. “È successo qualcosa? Sta male? Le è venuta la febbre?”.
“No” sospiro. “È per via degli antidolorifici”.
Contrae le labbra. “Li ha presi?”.
“No, ma ci è andata vicino”. Faccio qualche passo in avanti e la guardo dritta negli occhi. “Deve parlare con qualcuno. Deve parlare con la dottoressa Dawson. Ha bisogno di aiuto. Le piace fingere di poter tenere questo macigno tutto da sola, ma non ne è in grado e soprattutto non è costretta. Per qualche stupida e complicata ragione, che proprio non comprendo, non riesce a fare affidamento sugli altri”.
April si stropiccia la fronte cercando di appianarla. “Credo di conoscerla la ragione”. Si allontana dalla spesa e agguanta la borsa. “Chiamo immediatamente la dottoressa Dawson”.
“Ci penso io qui” asserisco.
Digita sullo schermo e annuisce senza guardarmi. “Grazie, Aaron”.
Esce rapidamente dalla stanza e io sistemo la spesa con movimento meccanici. Quando ogni cosa è al suo posto, l’ordine che mi circonda diffonde una certa tranquillità che attenua la tensione che mi irrigidisce le spalle.
“Sai cosa succede?” domanda Henry sulla soglia. “Mamma mi ha vietato di andare da Jules e ha quell’espressione determinata e preoccupata che mi fa venire l’ansia”.
Gli afferro il braccio. “Vieni, dobbiamo fare una cosa”.
Mi segue confuso in soggiorno. “Cosa?”.
Liv protesta vigorosamente quando la scollo dal divano e da davanti al televisore. “Ehi! È la mia mezz’ora di cartoni animati”.
“Abbiamo una missione importantissima, ranocchietta”.
Mi stringe le braccia al collo con aria scettica. “Cioè?”.
Saliamo al piano superiore ed entriamo in camera di Andy e Cole.
Andy aggrotta più profondamente la fronte mentre osserva torvo il computer. “Non si bussa più in questa casa?”.
Appoggio Liv accanto a Cole. “Ho un favore da chiedervi”.
Andy digita sulle tastiera. “Ma tu pensa. E io che credevo che fossi qui per un po’ di salutare tempo fraterno”.
Infilo le mani nelle tasche dei jeans per evitare di colpirlo in testa con il mouse. “Hai snobbato ogni mio tentativo di tempo fraterno”.
“Ero sarcastico, infatti” mormora apatico.
Henry si stringe le braccia al petto. “Cosa succede? Di che favore parli?”.
“Julianne passerà la prossima settimana a letto e ha bisogno che noi le facciamo compagnia ogni volta che è possibile. Ho un mucchio di allenamenti extra in questo periodo quindi non potrò tornare a casa subito dopo scuola, perciò ho bisogno che mi aiutiate”.
Andy scuote lentamente la testa. “Non se ne parla. Non faccio il babysitter, anche io ho la mia vita”.
Liv mi guarda inquieta. “Julianne non sta bene?”.
“Lei…non…” sospiro. Come diavolo glielo spiego? “Sai quando ti ammali e papà resta a casa con te? Passate la giornata insieme sul divano a guardare i cartoni animati e anche se non ti senti bene la cosa però ti fa stare meglio, giusto?”. Annuisce. “Ecco è lo stesso. Julianne non si sente benissimo e per guarire più velocemente e sentirsi meglio ha bisogno della nostra compagnia. Ti va aiutarla?”.
Non esita nemmeno un secondo. “Certo”.
“Cole?”.
Sorride. “Ovvio”.
Non mi aspettavo niente di diverso. “Andy?”.
“A una sola condizione”.
Mi aspettavo anche questo. “Quale?”.
“Mi insegni a guidare”.
Oh. Questa invece non me la aspettavo. “D’accordo, possiamo…”.
“Con la tua macchina”.
Il rumore del cambio che gratta e della vernice che viene raschiata contro il marciapiede mi procura un brivido di orrore lungo la schiena. Mi ci vuole più del previsto per rispondere e alla fine le parole mi esco fuori un po’ strozzate. “Va bene”.
Andy sogghigna come il Joker.
“Solo se rispetti il patto e collabori davvero, se non lo fai te la sogni la mia macchina” aggiungo.
Andy annuisce lentamente. “Andata”.
   
 
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