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Autore: Evali    18/05/2022    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Eros e Agape
 
Erano trascorsi quattro giorni dall’arrivo della misteriosa Imogene al villaggio.
Ed erano quattro giorni che, alla Taverna, vi era uno strano via vai, molto più intenso e frenetico del solito.
Le legge parlava chiaro: nessuna attività di prostituzione era ammessa con le locandiere della Taverna.
Tuttavia... la legge si limitava alle locandiere. Non parlava di altri.
Dunque, aggrappandosi a tale mancata specifica, la sciamana si stava muovendo come un sapiente ragno tra i popolani, tessendo la sua intricata tela.
Una tela che raggiungeva la quasi totalità degli uomini adulti, sposati, insoddisfatti e servi del Diavolo.
La sciamana bionda era scaltra, autoritaria ed estremamente seducente, molto più di molte altre serve del Diavolo decisamente più giovani di lei: quasi nessun uomo riusciva a resistere al suo fascino.
Per tale motivo, quando tra i popolani si era sparsa la voce che vi fosse una misteriosa serva del Diavolo che svendesse il proprio corpo alla Taverna, con il benestare delle locandiere e persino dei monaci, la stragrande maggioranza della fetta maschile e insoddisfatta del proprio matrimonio dei servi del Diavolo (talvolta anche delle donne), era accorsa alla Taverna senza farselo ripetere due volte.
D’altronde, il costo per assaporare interamente il corpo di quella dea e diavolessa non era neanche troppo elevato.
Sì, i monaci conoscevano ciò che stava facendo Imogene da quando era giunta al villaggio, eppure non stavano aprendo bocca a riguardo, un fatto che aveva oltremodo infastidito Myriam.
Lei oramai era all’interno dell’ordine, seppur in prova, perciò sapeva quali fossero le decisioni dei “messaggeri di dio” che tutto stabilivano, ed era costretta a non mettervi bocca, non ancora.
Come mai i monaci fossero d’accordo con l’“attività” di Imogene?
Solo e solamente grazie alla coercizione esercitata dalla loro pupilla: Judith.
La fanciulla, da quando Imogene aveva accettato il suo accordo, l’aveva accolta nella cattedrale del Creatore, fornendole una lussuosa camera e tutti gli agi che la sciamana non aveva mai posseduto in vita sua.
Come se non bastasse, cosa ancora più rara, Judith le stava pian piano concedendo il dono della sua compagnia.
Era un’amicizia strana la loro, basata sulla complicità scaturita dal loro tacito e tremendo patto, e da una verve forte e autoritaria che le contraddistingueva entrambe, ognuna in modo diverso dall’altra.
Seppur Judith disprezzasse l’attività di Imogene, rispettava la scelta della sciamana di praticarla ed era decisa ad agevolarla in ogni modo, mettendo la sua buona parola con i monaci, e ciò solamente per un unico motivo: la ragione che spingeva Imogene a svendere il proprio corpo era tra le più nobili.
Judith, così come chiunque conoscesse un minimo la sciamana, sapevano benissimo quanto costasse a quest’ultima svendersi, ma specialmente, giacere con gli uomini, più di quattro diversi a nottata.
Accogliere tra le sua calde e morbide cosce la virilità di un uomo era tra le sensazioni che odiava di più sulla faccia della terra.
Il suo Signore l’aveva creata così.
E persino le poche volte in cui aveva a che fare con delle clienti di sesso femminile Imogene doveva fare uno sforzo a se stessa per fare quel che aveva deciso di fare.
Tuttavia, era benissimo in grado di nascondere tutto ciò dietro un sorriso sensuale e strafottente, da padrona incontrastata.
Il motivo che spingeva Imogene a voler guadagnare denaro facile nel minor tempo possibile, consisteva nell’amore che la donna nutriva ancora nei confronti dei figli della sua defunta sorella.
Sapave che i suoi nipoti non fossero più al villaggio, così come sapeva che erano scappati imbarcandosi in una nave. Fuori dalla sua protezione. Fuori dalla sua guardia.
Finchè Maringlen e Maroine erano al villaggio, avrebbe potuto dormire sonni tranquilli; ma nel momento in cui era venuta a sapere della loro partenza, per addentrarsi fuori dalla campana di vetro che era Bliaint, si era sentita il sangue gelare nelle vene, e il desiderio di proteggerli, ad ogni costo, dalle insidie del mondo, era prevalso su tutto.
Imogene sapeva benissimo cosa fosse accaduto loro in mare, in quell’imbarcazione piena di marinai, di uomini sudici che non avevano mai visto in vita loro una tale accecante beltà. Ephram l’aveva informata, e anche se lo stregone non l’avesse fatto, lo avrebbe immaginato benissimo.
Imogene conosceva bene la natura umana.
Specialmente quella degli uomini.
Motivo per cui era sempre più decisa a guadagnarsi un’ingente quantità di denaro da donare ai gemelli, in modo che potessero avere vita più facile là fuori, ed evitarsi molti pericoli. D’altronde, il denaro convinceva tutti, a prescindere da tutto, no? Avrebbero potuto persuadere molti approfittatori a stare alla larga da loro se avessero offerto loro abbastanza soldi. O se li avessero investiti nel modo giusto.
Se non poteva riportarli indietro, allora li avrebbe almeno salvati ricoprendoli di denaro, finchè era in tempo.
In tutto ciò, le avrebbe fatto certo comodo una mano.
Svendere due corpi invece che uno, sarebbe stato sicuramente una grande fonte di guadagno in più.
La sciamana bionda sbuffò nel ricevere l’ennesimo sacchetto di monete d’oro da un cliente, poco lontana dall’entrata della Taverna.
Era il quinto quella sera, ed era uno dei clienti a cui piaceva particolarmente l’entrata posteriore, quella tra le sue natiche, rispetto alla calda e umida conchiglia dischiusa che custudiva sotto il ventre.
Era sera inoltrata, e diversi servi del Creatore stavano entrando a loro volta nella Taverna, puntando istantaneamente gli occhi curiosi e ammaliati su di lei.
Imogene li guardò con astio e non perse neanche tempo a fulminarli tutti, uno per uno, per lo più ignorandoli.
- Dovresti prendere in considerazione l’idea di svenderti anche ai servi del Creatore – commentò la scena una voce, ahimè, sin troppo ben conosciuta alla sciamana bionda, una voce dalle sfumature androgine che la fece rabbrividire e ghignare allo stesso tempo, proveniente dalle sue spalle. – Sai... pagherebbero molto meglio – aggiunse quella voce, avvicinandosi sempre più a lei.
- Credi che voglia finire bruciata al rogo fino a questo punto? Va bene sfidare la sorte, ma cedermi ai servi del Creatore implicherebbe morte violenta e istantanea, un prezzo che non pagherei neanche per tutto l’oro del mondo. In quel caso nessuna magia potrebbe salvarmi – rispose Imogene sorridendo spavalda e voltandosi finalmente a guardare in volto la donna che non vedeva da anni, il suo più grande e perduto amore. – In quattro giorni che sono qui, non abbiamo ancora avuto modo di vederci io e te, mia cara Myriam. Ho saputo della tua decisione di diventare monaca. Mi complimento con te.
Myriam le rivolse una smorfia infastidita in risposta, togliendosi il cappuccio.
Dopo pochi secondi, anche Ephram la raggiunse, facendo sorridere ancor di più Imogene. – Cos’è, una festa con i vecchi fantasmi del passato questa sera? – commentò squadrandoli entrambi e rinunciando una volta per tutte all’idea di ricontare i soldi che l’ultimo cliente le aveva lasciato.
- A che quota sei arrivata questa sera? – le domandò lo stregone.
- Perchè ti interessa? Vuoi essere il prossimo? – lo provocò lei rivolgendogli uno sguardo languido. – Credo di essere una delle poche donne del villaggio ad essere sfuggita dalle tue grinfie, Ephram. E non sono del tutto certa che anche Myriam faccia parte di questa lista.
La succitata le rivolse uno sguardo ancor più torvo e offeso, in seguito a tale insinuazione.
- Per quanto mi alletti l’idea di trascorrere il resto della nottata tra le cosce di una sciamana folle che potrebbe essere mia madre, non sono qui per questo – le rispose a tono il giovane stregone, facendola stizzire.
- Non ti disturba? – le domandò improvvisamente Myriam, con una sincerità che fu in grado quasi di farla rabbrividire. – Come puoi riuscire a farlo con tale naturalezza?
- Non lo faccio con naturalezza difatti. Ma lo faccio. Perchè lo voglio e perchè ne ho bisogno – rispose seccamente.
- Per i nipoti che hai tanto “amorevolmente” venduto a degli sconosciuti per una manciata di capre anni fa?
- Non... mettermi alla prova, Myriam – la ammonì mortalmente seria Imogene, fronteggiandola e guardandola duramente dall’alto. – Potrete anche non comprendere le mie scelte, non è mai stato un mio problema. Ma, che ci crediate o no, vendervi i gemelli è stata una scelta ragionata, nonchè l’ultima possibilità che avevo. Sapevo chi foste, di certo non li avrei mai venduti a individui violenti o perversi.
- Ma non eravamo di certo le persone più indicate ad occuparci di loro. Hai solo una vaga idea di cosa hanno vissuto con noi, quei due poveri bambini? Non abbiamo dato loro una vita facile, nè stabile o piena d’amore. Pensa solo al fatto che “l’amorevole guida della compagnia” qui presente li ha fatti imprigionare e stava quasi per farli finire al rogo.
- Ehi, avevo i miei buoni motivi – intervenne il succitato, completamente ignorato dalle altre due.
- Contesti le mie scelte? Bene. Non sei mai stata in grado di fare altro d’altronde – la provocò la bionda, sapendo di farla uscire di senno in tal modo.
- Attenta a come usi quella lingua, Imogene. Potresti ritrovarti senza. A quel punto come serviresti adeguatamente i tuoi esigenti clienti? Sai che le tue bollenti cosce bagnate non basterebbero a soddisfarli appieno.
- Vedo che siamo sul piede di guerra. Esattamente come anni fa. Non è cambiato nulla.
- No, non è cambiato nulla, Imogene. Anzi... se possibile, il mio odio nei tuoi confronti è accresciuto ancor di più.
- D’accordo, possiamo abbassare i toni ora? – intervenne Ephram, scocciato e annoiato da quel litigio tra le due. – Ad ogni modo, non avevi lanciato una maledizione sul villaggio per proteggere i gemelli? La maledizione per cui, “grazie” alla nostra Myriam che ha attentato alla loro vita, è piombata una tremenda epidemia che ha decimato Bliaint.
- La maledizione ha effetto solo all’interno dei confini di Bliaint: nel momento in cui i gemelli lasciano il villaggio sono fuori dalla mia protezione. Non avrei mai creduto potesse mai verificarsi un’eventualità simile... – ammise frustrata la donna, allontanandosi di un passo da Myriam e posando la sua attenzione su Ephram.
- Per quale motivo sei qui? – indagò Myriam, sempre più incalzante. – Per quale dannato motivo proprio nel momento in cui l’ape regina perde la memoria, tu piombi qui al villaggio, dopo anni di isolamento nelle paludi? L’hai aggredita tu quella notte?
- Oh, a quanto pare è una teoria che attira tutti quanti – rispose mellifluamente la donna. – Non ho bisogno di ricorrere a mezzi tanto estremi per entrare nelle grazie di una giovane donna – aggiunse provocatoria.
- Che mire hai nei suoi confronti? Vuoi tentare scioccamente di sedurla solo per il puro diletto di godere delle carni di una privilegiata?
- Oh, cos’è questo improvviso tono d’accusa? Per caso anche tu hai delle mire nei confronti della giovane ninfa dai capelli scarlatti? – le domandò la bionda assottigliando lo sguardo incuriosito.
Myriam rise di scherno in risposta. – Oh, Imogene, ingenua Imogene: tu non hai neanche idea di cosa, o meglio di chi popoli il cuore di Judith.
- Ti stavamo cercando – le interruppe nuovamente Ephram, deciso ad arrivare al punto. – Ti saremmo comunque venuti a cercare, ma, dato che sei improvvisamente saltata fuori, tornando alla luce del sole, ci hai facilitato un bel po’ il lavoro.
- Per quale motivo? – gli domandò Imogene, stavolta davvero curiosa di sapere la risposta.
Myriam abbassò lo sguardo, forzando tremendamente il proprio orgoglio. – Ci serve il tuo aiuto.
- Sono tutt’orecchie.
- Non possiamo parlarne qui – pronunciò lo stregone guardandosi intorno circospetto: essendo vicini all’entrata, vi era un immenso via vai di persone che avrebbero facilmente potuto udire i loro discorsi da quella postazione. – Sediamoci e beviamo qualcosa.
Quando i tre si furono accomodati, ebbero bevuto ed Ephram ebbe informato Imogene dell’intera faccenda, quest’ultima se ne uscì con una sola frase, al termine del racconto:
- Dato che è lui che il conte vuole, non potremmo semplicemente consegnargli il ragazzo e farla finita?
Tale frase provocò un evidente moto di agitazione in Myriam, la quale si avvicinò alla sua eterna nemica, trucidandola con lo sguardo e sibilandole tra i denti: - No. Non possiamo. Faresti meglio ad infilarti queste idiote idee malsane là dove non batte il sole.
Notando come fosse improvvisamente mutato lo sguardo della sua vecchia amante, trasformandosi in un’espressione spaventosa di puro odio iniettato nei suoi occhi, Imogene sembrò realizzare improvvisamente.
- Oh... ora capisco, mia vecchia amica.
Nel tuo sguardo scorgo un’ossessione antica, che pervade il tuo cuore come null’altro.
Il giovane che questo conte Agloveil cerca... è la luce dei tuoi occhi, non è vero?
È il ragazzo che hai cresciuto da bambino.
Ora che ci penso, non l’ho ancora conosciuto, questo fantomatico giovane visionario tanto amato dall’unica donna a cui io abbia mai donato il mio cuore – commentò Imogene, facendo sorgere in Myriam una varietà di emozioni differenti, le quali vennero momentaneamente annebbiate dalla rabbia.
- Bene. E sarà meglio per te non incontrarlo mai.
- Di cosa hai paura, Myriam?
- Sei pericolosa, Imogene. Da sempre.
- Non si tratta solo di lui – intervenne Ephram. – Bliaint è una meta ambita da ogni viaggiatore e non solo. Nessuno ci ha mai minacciati sinora solo perchè noi servi del Diavolo esistiamo e abbiamo la fama di essere dei diavoli scesi in terra a quanto pare. Dimostriamo loro che non si sbagliano. Tramite la maledizione, nessuno d’ora in poi oserà anche solo desiderare di mettere piede qui e minacciarci. Siamo sprovvisti di un esercito, l’unica cosa che possediamo è la magia, la scaltrezza e una reputazione secolare che ci precede ed è in grado di far tremare gli uomini più potenti del continente. Sfruttiamo i nostri assi nella manica.
- Nessuno ci ha mai minacciati sinora – commentò Imogene. – Ciò sta accadendo ora solo perchè un ragazzo troppo ambizioso e spavaldo ha deciso di uscire da Bliaint e di andarsene in giro in altri villaggi, spodestando l’ordine delle cose e provocando stragi, mettendo seriamente a rischio la sua vita per cosa? Una leggenda? Un ideale?
- Un’arma letale – rispose Ephram a tono, ostentando una strana decisione nella voce. – E perchè lui è libero, come ognuno di noi. La differenza, è che lui se ne è accorto, mentre noi no. Nessuno ci impedisce di uscire di qui e di costruirci la vita che vogliamo, a prescindere da tutto e da tutti. Nessuno dovrebbe condannarci per ciò che siamo, per essere nati come siamo. Nessuno. Non dovremmo avere simili catene ai nostri polsi, invece le abbiamo e condanniamo chiunque desideri vedere oltre, spingersi oltre, puntare più in alto.
Siamo codardi. Tutti quanti. Lui non lo è. Vuoi condannarlo per questo?
Tali parole colpirono non poco Imogene, la quale rimase a scrutare l’espressione determinata sul volto del giovane stregone.
- Noto che questo Blake è molto amato da entrambi – commentò la bionda dopo un tempo che parve infinito. - D’altro canto... ammetto di trovarmi in parte d’accordo: non possiamo rimanere qui e aspettare che un principe, un conte o un qualsiasi altro nobile più audace di altri si azzardi a giungere a Bliaint e a saccheggiare la nostra terra, attaccandoci e prendendoci come schiavi. Una protezione in più non è mai sgradita – concluse con naturalezza, bevendo l’ultimo sorso di quel liquido scuro e alcolico che riposava nel suo boccale. – Vi aiuterò.
Detto ciò, l’attenzione della sciamana si spostò sull’entrata della locanda, distrattamente.
Osservò ogni persona entrare dentro, non concentrando lo sguardo su nessuno in particolare, almeno sin quando non individuò una figura vagamente familiare varcare la soglia, con un cappuccio scuro calato sulla testa. Imogene lo squadrò. – Quel fanciullo.. lo scorgo spesso dentro la cattedrale del Creatore. L’ho intravisto anche poco fa.
- Folker? – rispose alla sua tacita domanda Myriam, individuando a sua volta la figura del ragazzo che aveva visto giusto un’ora prima. – È il ragazzo accusato di essere una strige. Deve sottoporsi ogni giorno alle sessioni di purificazione nella cattedrale. Da quando Judith ha perso la memoria, me ne sto occupando io. Prima egli era una sua responsabilità.
- Folker ... – ripetè Imogene articolando quel nome lentamente, mentre lo guardava a distanza, studiandone i tratti, osservando il suo corpo nascosto dai vestiti, per quanto possibile. – Con quel fondoschiena che si ritrova e quegli occhioni potrebbe essermi estremamente d’aiuto, mi farebbe guadagnare il doppio di quel che ricavo a nottata.
Tale affermazione fece emettere un sospiro esasperato a Myriam, ed un risolino divertito ad Ephram.
- Ad ogni modo... vorrei saperne un po’ di più – affermò la sciamana.
- Riguardo cosa?
- Riguardo questa faccenda della strige. Mi interessa.
C’è qualcosa in lui.. forse i suoi occhi o altro. Ha qualcosa da nascondere.
Ma forse è solo una supposizione un po’ avventata – si riscosse la bionda, distogliendo lo sguardo dal ragazzo. – D’altronde quali inestimabili segreti potrebbe mai celare un ragazzino?
Myriam ed Ephram si scambiarono uno sguardo complice.
- Tu non ne hai la minima idea.. – commentò Ephram prendendo un altro sorso dal suo boccale.
 
- Qualche ora prima -
 
La ragazza si lasciò sprofondare giù, dentro l’enorme vasca che occupava quasi tutta la stanza, immergendo le spesse ciocche rosse, il mento e la bocca chiusa, solleticata dalla schiuma profumata dei sali immersi nell’acqua calda.
Erano almeno dieci minuti che se ne stava con gli occhi chiusi.
Quasi un’ora da che era nella vasca.
“Arley, Arley, non rimanere immersa per troppo tempo o ti si raggrinziranno le dita!”  le diceva sempre sua madre quando era bambina, ogni volta che lei protestava per uscire dal fiume, mentre ella se ne stava a fare il bucato, guardandola ridendo.
L’immaginazione e la fantasia vagarono incontrollatamente.
Cercò di concentrarsi sui profumi, sul tatto, sulla forma delle cose, sui colori e sulle luci per recuperare almeno uno stralcio, un dettaglio, qualcosa di ciò che aveva perduto a causa dei suoi ricordi svaniti.
Cos’è che non ricordava?
Un colore: biondo miele. Dei capelli biondo miele. Null’altro.
Le risa di bambini. Di tanti bambini insieme.
Le lacrime calde sulla guancia di una bambina.
La pelle scura, color cioccolato, unita all’odore di una presenza amica.
Poi, di nuovo, parole incoraggianti, un sorriso caldo, che ricondusse a padre Craig, ne era quasi certa.
Poi la consistenza di una frusta tra le mani, di capelli morbidi e sin troppo chiari tra le dita, mugolii e lamenti di dolore da parte di un fanciullo troppo giovane per subire un tormento simile.
E poi... poi soggiunse qualcosa, di più potente e avvolgente: la forza liquida e la bellezza di due iridi di zaffiro, talvolta scure come l’abisso di un oceano, talvolta chiare come la superficie del mare colpita e rischiarata dai raggi del sole di mezzogiorno, variabile in base alla luce.
Judith non aveva mai visto il mare dal vivo, ma ne aveva ammirato delle immagini che lo rappresentavano sulle pagine di alcuni tomi che amava particolarmente. I vivaci colori che venivano usati per rappresentarlo erano gli stessi di quegli occhi.
Unito a loro, vi era anche un buon profumo. Un odore amato che riusciva ad animarla e a rasserenarla insieme, pregno di tante cose insieme e sottile, leggero, talmente leggero che si riusciva a percepirlo solamente a stretto contatto con la pelle.
Un amante, forse..?
Un amante che possedeva anche una voce calda e bellissima, ma dal timbro e dal colore indefinito, troppo vago e vacuo per poter riaffiorare nella sua mente.
Quanto aveva perduto...?
Chi aveva perduto...?
Cosa le sfuggiva in quello strano disegno?
In cosa si era cacciata?
Forse il tatto l’avrebbe aiutata di più, concentrarsi sulla sensazione delle mani che esperivano qualcosa.
Sorrise di sottecchi, sotto l’acqua.
Le piaceva tanto toccare le cose, soprattutto da bambina.
Amava sentire la consistenza della carta ruvida o liscia dei libri tra i polpastrelli, la sensazione dei fili di capelli che scorrevano tra le dita mentre se li pettinava, il caldo del fuoco delle candele accese che scottavano tra i palmi, la consistenza del cibo, dell’acqua, delle lenzuola pulite, dei diamanti, dei tessuti dei vestiti, persino del vento. La sensazione della palle liscia del ventre, gonfia...
Senza accorgersene la tastò, avvertendola ancora più liscia, immersa nell’acqua.
Provò a concentrarsi, tentando di avvertire anche il più piccolo movimento, sperando di sentirne uno scalciare, magari il più scalmanato o scalmanata dei tre.
Tastò il basso ventre con vigore, quasi spingendo, pur di avvertirli.
Ad un tratto li sentì.
Fu come avvertirli respirare.
E andavano alla stessa velocità del proprio cuore.
Se li immaginò davanti a sè, piccoli, ma abbastanza grandi da reggersi in piedi da soli: i loro capelli sarebbero stati biondo cenere come quelli di Naren o rossi come i suoi? O scuri come quelli di sua madre?
E i loro occhi?
Si immaginò a saggiare la loro pelle vellutata e profumata con le dita.
I loro lamenti sarebbero stati i classici mugolii dei bambini piccoli, ancora incapaci di comunicare, intestarditi con il mondo.
Si immaginò a baciare le loro guance e i loro capelli, per calmarli.
La sua mano continuò a massaggiare il proprio ventre, per poi spostarsi lentamente più sotto, verso la propria intimità.
Da quant’è che non si toccava là sotto, solo per sentire la consistenza di quel fiore dischiuso, troppe volte violato contro la sua volontà?
- Oh... bambina. Non potete farmi questo. Proprio nel momento in cui entro qui dentro e vengo avvolta dal profumo dei sali e dalla visione del vostro delizioso corpo immerso nell’acqua... – quella voce oramai familiare, la riscosse vagamente dal suo torpore, ma non troppo.
Judith rimase comunque ad occhi chiusi, con il volto per metà immerso in acqua, e la mano ancora impegnata a tastare la propria intimità, priva di vergogna.
Per qualche ragione, dinnanzi ad Imogene non provava alcun tipo di imbarazzo.
Quella donna riusciva a metterla stranamente a proprio agio, come nessun altro.
- Da quanto siete lì dentro? – le domandò Imogene, avvicinandosi alla vasca, non risparmiandosi minimamente nell’osservarla appieno, cercando di scorgere anche ciò che si celava sotto il pelo dell’acqua.
La bionda si denudò a propria volta, facendo il suo ingresso dentro la spaziosa vasca e avvicinandosi a Judith con molta calma.
Fu in quel momento che gli occhi neri come la pece della rossa si schiusero, individuandola a meno di un metro da lei.
- A cosa stavate pensando? – le domandò la sciamana.
Judith scosse lentamente la testa, emettendo qualche bolla sott’acqua.
Avrebbe sicuramente preferito rimanere sola in quel sacrosanto momento di tranquillità estatica, ma la compagnia di Imogene non la disturbava come avrebbe dovuto.
Si stava gradualmente abituando a lei.
Alla sua presenza mentre dormiva accanto a lei, quando consumavano i pasti, e persino mentre faceva il bagno.
 A pensarci bene, la presenza di quella donna accanto a lei era quasi asfissiante.
- Pensavo ai miei ricordi. E all’aspetto che avranno i miei figli – rispose sinceramente la fanciulla.
A ciò, Imogene si avvicinò ancor di più, posando a sua volta le mani sul ventre gonfio.
Lo carezzò con dovizia, incatenando i suoi occhi a quelli vacui di Judith.
- Vi state rilassando?
Judith annuì, lasciando che la donna la carezzasse.
Poi, i palmi attenti e curiosi della sciamana si spostarono più sù, posandosi sui seni sodi e prosperosi della fanciulla, la quale non ebbe alcuna reazione.
A ciò, incoraggiata dallo stato quasi metafisico in cui galleggiava Judith, si permise di osare come non aveva mai fatto in quei quattro giorni.
Palpò i seni gonfi, con delicatezza e vigore insieme, facendole emettere un lieve mugolìo, un’incantevole musica per le sue orecchie.
I suoi lombi si stavano accendendo, tuttavia, l’atmosfera febbricitante del momento e del luogo fece rilassare anche lei, motivo per cui i suoi tocchi procedettero con una calma esasperante.
Judith non le permetteva mai di toccarla così.
Nonostante Imogene si fosse già presa molte libertà in pochi giorni, la rossa aveva un’idea ben precisa e intransigente di spazi personali. Ci teneva che fossero rispettati.
Toccandola, percependo la delizia di una carne morbida e soda al contempo, quelle curve perfette e procaci, libidinose ed estremamente sensibili, la sciamana si rese conto sempre più di quanto la ragazza di fronte a sè fosse davvero giovane.
Diciassette anni non ancora compiuti, eppure ne dimostrava di più.
Judith si rilassò sempre più, lasciandosi saggiare, palpare con venerazione, non muovendo un muscolo, chiudendo gli occhi e godendosi quegli spudorati massaggi.
Tuttavia, quando Imogene spostò le mani sui suoi fianchi succulenti, Judith ebbe un sussulto.
Si risvegliò dalla trance all’improvviso, prendendo realmente coscienza del momento.
Si allontanò lievemente dalla donna, guardandola dritta negli occhi mentre spostava le sue mani dal proprio busto.
- Devo depilarmi le gambe – le disse all’improvviso, vedendola sgranare gli occhi chiari con un cipiglio divertito.
- Cosa?
- Vi ho già spiegato che tengo particolarmente a queste cose. Rientrano nella mia concezione di pulizia del corpo. Stavo per farlo prima che arrivaste voi qui.
- Ci penso io, allora. Dov’è la resina?
- Ma non lo avete mai fatto in vita vostra..
- Imparerò – insistette Imogene. – Dov’è la resina?
- È miele, in realtà – la informò la rossa, poggiandosi con le spalle alla parete della vasca. – La trovate laggiù.
A ciò, Imogene uscì dalla vasca, esponendo tutta la sua nudità e dirigendosi verso il barattolo colmo di miele, poggiato accanto agli strati di morbida carta, fatta appositamente per tali pratiche.
La sciamana non aveva mai sentito il bisogno di fare una cosa del genere, e non capiva per quale motivo molte donne di Bliaint si torturassero in questo modo senza motivazione.
Non era stata una grande sorpresa scoprire che anche Judith fosse tra loro.
Si rimmerse nella vasca, prese una gamba della fanciulla con delicatezza e la tirò fuori dall’acqua, alzandola e facendola poggiare comodamente sul bordo, in modo da lasciare tutto il polpaccio scoperto.
Judith la osservò mentre lo faceva, in silenzio.
Imogene, senza difficoltà, prese uno strato di miele con le dita, lo spalmò su tutta la lunghezza del polpaccio di Judith, per poi farvi aderire sopra uno strato di carta vellutata, e strappare con vigore.
Notando il risultato quasi perfetto, la sciamana continuò, senza dire una parola, quasi come stesse compiendo un rito sacro o un incantesimo delicato.
Quando ebbe finito la prima gamba e passò alla seconda, Judith ruppe il silenzio:
- Cosa farete se non riuscirete a far arrivare loro il denaro che state guadagnando?
Imogene rimase sorpresa da tale domanda. – Ho i miei metodi. So che arriverà loro.
- E se fosse troppo tardi? – domandò Judith con spaventosa freddezza. – Se fosse troppo tardi per i gemelli? Se loro fossero morti?
Imogene si voltò a guardarla, con espressione stranita e astiosa. – Per quale motivo state ipotizzando un simile catastrofico scenario che mai si avvererà?
- Bisogna considerare ogni ipotesi.
- Non è un’ipotesi verosimile. Ed ora lasciatemi finire in silenzio.
Judith obbedì inizialmente, restando zitta per qualche minuto, ma poi persistette:
- E se dovessero morire?
- ...Chi?
- I miei bambini. Se dovessero morire nella mia pancia?
Di nuovo, la rossa lo disse con una freddezza che fu in grado di congelare Imogene sul posto.
I suoi occhi neri non lasciavano trapelare nulla mentre la sciamana cercava di scrutarli.
- È una minaccia, per caso?
- Chiamatela come più vi aggrada. Ma tenete pur sempre a mente che è un dato di fatto: considerando le violenze subìte... mi è sempre stato detto che non avrei potuto avere figli.
Quello che è accaduto.. può ritenersi un vero e proprio miracolo.
- Forse il Signore ha in serbo dei piani per voi.
- Potrebbe essere. O potrebbe essere stata una fatalità.
Per questo devo scoprire come Naren mi abbia ingravidata.
- Arrivate al punto, Judith.
Una cattiveria improvvisa animò l’animo della rossa, la quale la sfidò ancora, con quei suoi occhi impossibili:
- Vi ho promesso una grande ricompensa.
In cambio, tuttavia, vi ho chiesto di farmi tornare i ricordi e di farmi scoprire come sono stata ingravidata.
Non mi sembra vi siate portata avanti con nessuna delle due cose sinora.
Dovreste darvi da fare, non credete?
Altrimenti... potrei riconsiderare l’idea che avevo inizialmente: uccidere “accidentalmente” i miei figli in grembo.
A ciò, la sciamana non ci vide più e afferrò le mascelle della ragazza con una mano, affondando nella pelle bianca con le unghie, avvicinando il viso al suo, mentre ella continuava a reggere il suo sguardo, fiera, audace e astuta, senza battere ciglio, nonostante il male fisico che le stava provocando.
 Imogene sapeva di averla sottovalutata.
Lo sapeva sin da subito.
- Vi ho già detto di aver avuto delle visioni, della notte in cui il vostro ripugnante amante ha piantato il suo seme in voi – sibilò la bionda con voce rabbiosa, senza mollare o indebolire la presa.
- “Ballavate ebbra di vino al chiaro di luna, come un sinuoso serpente, muovendo i fianchi come se steste scuotendo una campana, i capelli rossi sciolti e ondeggianti, lo sguardo appagato e perso, un lungo vestito lilla di seta a fasciarvi gentilmente tutte le forme, ben illuminate da un grande focolare”. Questo dovrebbe essermi d’aiuto? – le domandò in tono di scherno Judith, sottraendosi dalla sua presa senza difficoltà, dopo aver riportato le esatte parole con cui Imogene aveva descritto la sua visione su quella notte.
- È tutto ciò che ho visto.
- Per quale motivo siete venuta qui? Non dovete andare alla Taverna a compiere la vostra “attività”?
Imogene sospirò, mettendo da parte il suo orgoglio solo per quella sera, sfinita e affranta. – Secondo voi..? Non mi fa piacere fare quello che faccio, lo sapete. La mia è una necessità temporanea. Passare del tempo con voi... mi permette di rigenerarmi un po’, di risanarmi prima di compiere un’attività tanto degenerante e avvilente – ammise, abbassando lo sguardo.
Judith la osservò con lieve diffidenza. – Per questo mi toccate come si tocca un’amante? Che senso ha toccare me e poi fare lo stesso con i vostri clienti?
- Voi non mi pagate, per toccarvi. Non è un servizio quello che vi offro.
È un piacere, per me, perchè lo voglio, consensualmente.
A ciò, Judith si mosse nell’acqua, camminando verso di lei.
Si avvicinò e fece qualcosa che sorprese nuovamente la donna: le infilò le mani oltre le spalle, circondò i suoi fianchi in una morsa stretta tra le cosce, e la baciò intensamente sulla bocca, stuzzicandole costantemente le labbra con la lingua e i denti, esattamente come ricordava piacesse tanto a Naren.
Imogene la accolse con stupore ed eccitazione, trattenendola a sè con i palmi puntati sulla schiena, ma Judith non le diede neanche il tempo di realizzare appieno cosa stesse succedendo che, staccandosi dalla bocca della bionda, le sussurrò a fior di labbra:
- Dovrai sforzarti un po’ di più... – bisbigliò minacciosa e melliflua insieme, scendendo poi a terra e guardandola negli occhi. – Buon lavoro, Imogene – le disse uscendo dalla vasca, coprendosi con un telo bianco e defilandosi dalla stanza.
Per rivestirsi optò per qualcosa di semplice, qualcosa che raramente si permetteva di fare: indossò un semplice vestito nero, di pregiato velluto, che aderiva al suo busto come una seconda pelle, lungo fino alle caviglie; i capelli li legò in una crocchia alta, per farli asciugare in ordine.
Scese la scalinata che l’avrebbe condotta verso il salone principale della cattedrale, occupato dalle due navate, arrestandosi nel momento in cui notò un’unica presenza, una serva del Creatore inginocchiata dinnanzi all’altare, intenta a pregare convulsamente e quasi disperatamente, con la schiena piegata in giù, in una posizione di supplizio.
Non aveva mai visto nessuno pregare così.
Ne rimase affascinata.
Senza rendersene conto, si avvicinò quatta quatta a lei, osservandola e ascoltando le sue preghiere in silenzio.
- Oh, Signore, oh mio Signore, perdonami.
Trova un senso alle mie gesta.
Immeritevole sono e sarò sempre,
Dinnanzi alla tua grandezza e onnipotenza.
Nata peccatrice, cresciuta peccatrice, morirò peccatrice.
Sono macchiata, oh Potentissimo, Araldo di misericordia.
Oh, Signore, oh mio Signore, perdonami.
Trova un senso alle mie gesta... – Hinedia continuò a pregare con le lacrime agli occhi, fin quando non si accorse che una presenza vicina a lei la stesse osservando.
A tal punto si arrestò, e si voltò verso l’osservatrice, sgranando gli occhi scuri e lucidi non appena la vide, percependo il corpo tremare visibilmente.
Ebbe l’imminente impulso di correre, di scappare via, non appena le sue iridi si posarono su quelle inconsapevoli di lei.
- Non immaginavo ci fosse qualcuno qui a quest’ora – esordì ingenuamente Judith, accennandole un sorriso cordiale, velato di scuse. – Mi spiace di aver interrotto la vostra accorata preghiera. Continuate se volete.
Non merito il tuo perdono.
Io non lo merito.
Non merito il perdono di nessuno.
- Non fa niente... – ebbe il coraggio di risponderle, dopo un tempo che le parve infinito. – Avevo quasi finito.
In quello sprazzo di lucidità, mentre osservava gli occhi neri dell’unica amica che aveva mai avuto e a cui aveva fatto del male, realizzò che anche Blake l’aveva incontrata per la prima volta in quel modo: i loro sguardi si erano incrociati mentre lei stava pregando accoratamente, col volto rigato dalle lacrime.
Ironia della sorte.
Per Judith era la prima che la vedeva. E non sembrava intenzionata ad andarsene via.
- Va tutto bene? – le domandò la rossa, riferendosi alle lacrime che stavano rigando le guance della fanciulla dalla pelle scura come il cioccolato.
Hinedia annuì, non riuscendo a trovare le parole per parlare.
- Come vi chiamate? – le domandò Judith, facendola gelare.
Gliel’avrebbe dovuto dire?
Era sbagliato quello che stava facendo.
Quaglia le aveva detto di starle alla larga.
D’altronde, Layla si sarebbe potuta manifestare da un momento all’altro.
Non avrebbe dovuto cercare il perdono della sua più cara amica.
Non avrebbe dovuto preoccuparsi di sapere come stesse.
Non avrebbe dovuto...
- Hinedia. Geenie Hinedia.
- “Hinedia”? Il vostro nome mi è stranamente familiare.. i monaci, se non erro, mi hanno detto che ho un’amica, una serva del Creatore, chiamata Hinedia. Siete voi?? – le domandò con genuina e gioiosa sorpresa Judith.
- Sì... sono io – alla fine si arrese e le disse la verità. Ciò valse tutto, in quanto il sorriso che si dipinse sul bel volto di Judith ripagò ogni suo timore.
- Onorata di conoscervi, Hinedia.
Come mai non siete venuta prima da me? – le domandò curiosa la rossa, sorridendole ancora.
A tale domanda, la serva del Creatore iniziò a balbettare, non sapendo cosa rispondere.
- Io... sono stata molto ... molto impegnata... inoltre... l’idea che non vi ricordaste più di me... mi faceva troppo male... – mentì, ma a quanto pare bastò, perchè Judith non pretese altre spiegazioni.
- Sapete... quando i monaci mi hanno informata di essermi fatta amica una serva del Creatore.. mi è risultato molto difficile crederci. A parte i monaci, non ho mai avuto molti contatti con i servi del Creatore, prima. In realtà, ho sempre avuto pochi contatti in generale. Mi sono svegliata con la consapevolezza di non avere amici, e invece... mi sono ritrovata invasa da amici di cui non ricordo disgraziatamente nulla... – pronunciò, lasciando trasparire un pizzico di tristezza e malinconia.
- Mi dispiace! – non riuscì a controllarsi Hinedia, gridando accoratamente le sue scuse, ancora con le lacrime agli occhi.
- Oh, no, non scusatevi. In realtà non amo essere compatita – la pregò Judith con un sorriso dolce, doloroso da guardare. – Sapete, sono felice di aver scoperto di essere diventata amica di una serva del Creatore.
- Beh.. devo confessarvi che anche per me è stato un gran cambiamento, aver stretto amicizia con una serva del Diavolo – ammise Hinedia, cercando di farla sentire più compresa. – È molto raro che accada.
- Già. Mi piacerebbe riallacciare i rapporti con voi, Hinedia... se per voi va bene.
Dovrete essere solo un po’ paziente, per me.
Quella richiesta la mise con le spalle al muro.
Avrebbe voluto, avrebbe tanto voluto riallacciare i rapporti con la sua amica che credeva perduta.
Le avrebbe fatto leggere il copione che aveva scritto lei stessa per cercare di farle tornare i ricordi, le avrebbe fatto conoscere i bambini e le avrebbe raccontato tutto ciò che avevano fatto insieme.
Si sarebbe redenta, e Judith le avrebbe voluto di nuovo bene.
Tuttavia... dentro di lei erano insediati due mostri.
No. Non poteva permettersi di perdere il controllo di nuovo.
Non poteva, per nessuna ragione al mondo.
Nè con lei... nè con Blake.
In quel momento, prima che Hinedia potesse darle la sua risposta, fece il suo ingresso nella cattedrale anche un’altra presenza, che attirò l’attenzione delle due.
Era uscito da una delle porte secondarie e i suoi capelli erano tutti bagnati, segno che fosse stato appena sottoposto ad uno dei tanti riti di purificazione che era costretto a subire.
Hinedia spalancò gli occhi, riconoscendo in lui il ragazzo che l’aveva fermata in tempo dal porre fine per sempre alla vita della sua amica, o meglio... che aveva fermato Layla.
Il ragazzino dai capelli biondissimi procedette per la sua strada senza degnarle di uno sguardo, dirigendosi verso l’uscita della cattedrale.
Fu a quel punto che Hinedia lo richiamò, in un impeto di urgenza: - Ehi voi! Fermatevi!
Sentiva il bisogno di parlare con lui, di chiarire ciò che era accaduto, di capirne qualcosa in più...
- Voi! Vi prego, fermatevi! – esclamò ancora, alzandosi in piedi, intenzionata a rincorrerlo.
Ma lui si voltò solo un attimo, incrociando i suoi occhi con quelli di Hinedia, poi uscendo dalla cattedrale come niente fosse.
A ciò, la serva del Creatore prese a correre, lasciando Judith sola e confusa, raggiungendo a sua volta il portone d’uscita, con la speranza di essere ancora in tempo per fermarlo.
Quando aprì la porta e uscì, entrando a contatto con il fresco della sera, di lui non vi era più traccia.
 
Non seppe per quale motivo gli tornò alla mente quel nefasto episodio, rimasto impresso nei suoi ricordi a fuoco.
Forse perchè accadde in Primavera.
E anche a Bliaint si stava avvicinando la Primavera oramai.
Ma la Primavera di Bliaint non era la stessa Primavera di Armelle.
Nonostante i due villaggi distassero pochi giorni di viaggio in carovana, Bliaint era collocato nella postazione più a Nord e in entroterra del continente: oltre questo, non vi era più nulla oltre le gelide steppe disabitate.
La Primavera a Bliaint, padre Craig ci averebbe scommesso, si sarebbe manifestata con un cielo terso e ceruleo, privo di nuvole grigie, ma mai davvero chiaro, illuminato da un debole sole instabile e distante, e da un’aria fredda e profumata di muschio bianco e forse di fiori, non più gelida ma pur sempre  paralizzante a primo impatto.
Ad Armelle invece la Primavera si faceva sentire, leggera e potente come una dea antica, annunciava il suo arrivo con venti tiepidi e dolci, portando fiori coloratissimi a germogliare, ricoprendo l’aria di polline e petali.
La Primavera ad Armelle era dolce, delicata e colorata come quella ragazzina, la ragazzina esorcizzata a morte.
Un caschetto sfilato di capelli color albicocca, folte sopracciglia chiare e grandi occhi verdi come un prato sconfinato. Leah era il suo nome. Leah Jane Cable. Aveva tredici anni.
Per questo ci aveva ripensato proprio in quel periodo.
La ricordava ancora, la sua voce acuta e un poco timida, mentre guardava fuori dalla finestra della cattedrale e gli diceva: “Mi piace la Primavera, padre. A voi?”
Leah aveva dato i primi segni di possessione demoniaca quando i genitori avevano denunciato all’ordine dei preti del villaggio (di cui anche lui faceva da poco parte) che la loro bambina  aveva ucciso di punto in bianco un giovane falco prendendolo a morsi sulla collottola, fin quando il povero pennuto non aveva smesso di dimenarsi tra gli spasmi di dolore, in un tripudio di sangue.
A ciò, lui e gli altri preti avevano deciso unanimemente di esorcizzarla, poichè doveva essere posseduta dal Diavolo.
Quante cose aveva imparato durante quel soggiorno a Bliaint, che gli avrebbero fornito tutti i motivi necessari per dissuadere i suoi compagni dal compiere un esorcismo su quella giovane fanciulla.
Specialmente sapendo come sarebbe andata a finire.
A Leah piaceva sognare. Era una ragazzina curiosa, tanto che la beccava sempre ad avventurarsi nelle steppe  fitte del bosco inesplorato.
Un giorno, a detta dei genitori, era tornata da una delle sue escursioni solitarie nel bosco, e non era stata più la stessa.
Doveva aver incontrato qualcosa o qualcuno in quel bosco, a detta loro.
Padre Craig non avrebbe mai e poi mai dimenticato gli occhi allucinati e spalancati di quella fanciullina, mentre, col corpo magro come lo stelo di un fiore, si dimenava come un’ossessa, sputava sangue e saliva, urlava a squarciagola e piangeva, pronunciando parole incomprensibili in lingue all’apparenza sconosciute.
Fradicia e sudata, gli stracci che indossava sporchi di sangue, i capelli arruffati appiccicati al collo, le labbra bianche e spaccate, le lacrime a rigarle le guance, bocca e occhi orribilmente spalancati,  le forme di quel corpo acerbe scosse da tremendi fremiti e tremolii, contorta in posizioni anomale, convulsa, famelica, disperata, martoriata.
Le avevano legato polsi e caviglie con una corda e l’avevano stesa sopra la tavola di pietra dinnanzi al crocefisso, sistemandosi a cerchio intorno a lei, pregando per lei.
Ma cià non era bastato.
Leah aveva morso ferocemente al collo una delle suore, ferendola gravemente, e aveva sfondato l’occhio di un altro prete con le unghie, mentre continuava a parlare in quella lingua incompresibile.
Infine, disperati dall’inefficacia delle loro preghiere, l’avevano immobilizzata con le mani per farle fare il bagno nell’acqua santa.
Dopo neanche un’ora di esorcismo, Leah era orribilmente morta, col corpo contratto, le cosce spalancate, gli occhi all’indietro, affogata nel suo stesso vomito.
Padre Craig era stomacato.
Quello era il ricordo peggiore conficcato nella sua memoria.
Ma persino il ricordo di quell’esorcismo terminato atrocemente non avrebbe retto il confronto con ciò che avrebbe vissuto di lì a breve.
Cominciò tutto con uno strano profumo di cucinato in casa.
L’aria era dolce.
Dolce come non lo era mai stata.
Heloisa era bellissima. Saltellava in giro come una giovane fanciulla, con indosso un vestito turchese, fresco di sartoria.
Rolland ostentava un sorriso sincero, meraviglioso, che era in grado di illuminare l’intera casa, e guardava sua moglie con occhi sognanti.
Ioan era più energico che mai mentre se ne stava ancorato alle spalle di Quaglia, ridendo e scherzando, mentre fingeva di cavalcarlo come un vero cavaliere col suo destriero.
Le risa e la gioia che imperversava in casa era visibile fino all’esterno e padre Craig ne fu contagiato.
- Sedetevi, padre! La cena è pronta in tavola! – squittì Heloisa, con i suoi ricci castani che ballavano in ogni dove, dandole un’aria ancora più giovanile.
Quando la donna ebbe sistemato ogni vassoio colmo di qualsiasi prelibatezza sul tavolo, suo marito la cinse per i fianchi e i due si lasciarono andare ad uno spassionato e lunghissimo bacio.
Padre Craig sorrise nel guardarli, e prese posto accanto ad un affamatissimo Ioan e ad un sereno Quaglia.
- Cosa c’è per cena? – domandò quest’ultimo.
- Purea di patate viola, pasticcio di verdure, agnello con miele, zuppa di radici e alloro e focaccia appena sfornata – pronunciò fieramente Heloisa, guardando tutti quanti incoraggiante. – Avanti, che aspettate? Mangiate!
Padre Craig, già con l’acquolina in bocca, fece per inforchettare un po’ di verdure, quando, improvvisamente, si accorse che mancasse qualcuno all’appello. – Dov’è Blake?
- Blake? – Rolland sembrava confuso.
- Sì, Blake.
- Oh, certo, Blake. Andatelo a chiamare, padre, e ditegli che è pronta la cena – lo esortò Heloisa con naturalezza.
- Dove posso trovarlo?
- Oh, lo sapete benissimo dov’è: sepolto, lontano dal sole – gli disse Quaglia, già con la bocca piena, mugolando per la bontà del cibo.
A ciò, il giovane prete si alzò dalla sedia, si infilò il suo mantello e uscì dall’abitazione, dirigendosi verso l’unico luogo in cui si aspettava di trovarlo.
Fuori era buio pesto e la luna era alta in cielo.
La luna era stranamente inquietante quella sera.
Era come se gli sussurrasse qualcosa, ma non ne era certo.
Padre Craig arrivò finalmente alla galleria, combattendo contro la paura di quel luogo buio, macabro e destabilizzante.
Si fece coraggio e si addentrò sottoterra con una fiaccola accesa per farsi luce, cercando di coprirsi naso e bocca come meglio poteva con la manica della tunica.
- Blake, siete qui? – provò a richiamarlo, essendosi addentrato in profondità ma non avendolo ancora scorto.
Improvvisamente, illuminò anche le pareti di quella galleria umida e sibilante, scorgendole completamente colme di scritte, calcoli e simboli di difficile comprensione, che sembravano addirittura geroglifici, i quali si dilungavano per decine di metri, forse per chilometri.
Lo spessore di quella calligrafia era talmente elevato da aver formato dei solchi sulla terra dura delle pareti... solchi pieni di sangue.
Riconobbe immediatamente quella calligrafia, sapeva a chi appartenesse, e se aveva ricoperto la galleria di quelle scritte, allora voleva dire che fosse lì, da qualche parte.
Padre Craig corse all’interno di quel tunnel sconfinato, perdendo il senso dell’orientamento, percependo un orribile sensazione alla bocca dello stomaco.
“Sepolto”.
“Sepolto, lontano dal sole”.
Improvvisamente, la disperazione e la paura presero possesso del suo animo e il giovane prete tornò indietro, avendo compreso che il ragazzo non fosse lì sotto.
O meglio, era lì sotto... ma con il corpo compresso da chili e chili di terra.
Uscì dalla galleria non svenendo là dentro solo per miracolo, per poi  cominciare a guardarsi intorno per cercare  una porzione di quel terreno diversa dalle altre, con la terra mossa e avvallata.
Non ebbe bisogno di farlo.
Alla sua destra, sbucò dal terreno scuro un braccio.
Un braccio che sembrava troppo magro per essere quello del ragazzo, ma il prete non ci fece caso e iniziò a scavare disperatamente e con vigore.
- Vi prego... vi prego, resistete!
Quando ebbe scavato abbastanza per rivelare il corpo che giaceva seppellito, padre Craig sbiancò:
non Blake, bensì Leah, viva e immobile, con gli occhi spalancati, che lo guardava sorridendo.
Il giovane prete urlò spaventato e cadde seduto all’indietro, fissandola più che mai inquietato.
- Che state facendo, padre?
Quella voce lo riscosse, facendolo saltare per lo spavento.
Padre Craig si voltò e osservò la sagoma di Blake dal basso, che si ergeva in tutta la sua altezza e lo guardava con sguardo confuso.
Gli occhi del monaco vagarano involontariamente sulle mani scoperte del ragazzo che amava, trovando le dita affusolate tutte sporche, ferite e macchiate del suo stesso sangue.
Lo stesso sangue fresco che vi era sui solchi di quei simboli e numeri tracciati sulle pareti della galleria.
- Blake... avete scritto voi tutti quegli strani geroglifici? – gli domandò continuando a guardarlo come fosse una visione destinata a svanire in breve.
A ciò, il ragazzo si osservò le mani a sua volta. -  Dovrei fasciarle – commentò con tranquillità, senza la minima smorfia di dolore in volto.– Presto verranno qui – aggiunse.
-  Chi?
-  I monaci.
- Per fare cosa?
- Per tagliarmi le mani – disse con naturalezza.
- Cosa...? Tagliarvi le mani? Perchè..?
-  Perchè ho osato infrangere la sacra legge che ci vuole tutti ignoranti e analfabeti.
Con queste stesse mani ho scritto migliaia di volte, su centinaia di pagine bianche.
Vogliono toglierci la parola, vogliono impedirci di sapere, di comunicare, di entrare in contatto tra noi e con il mondo.
Vogliono tenerci segregati in un orrore indistinto.
- No, non possono!
Ad Eva non fu tagliata la mano con cui afferrò il frutto maledetto, così come a voi non verranno tagliate le mani con cui avete lasciato la vostra impronta nel mondo – pronunciò il giovane prete.
-  Eppure Eva è stata punita.
- Con la perdita della vita eterna. Ma voi siete stato già punito abbastanza .. – disse  padre Craig con le lacrime agli occhi.
Blake lo scrutò, il suo sguardo algido mutò in un piccolo sorriso dai contorni inquietanti. – Vi riferite al fatto che il conte Agloveil stia venendo a prendermi?
- Non verrà a prendervi ... non verrà...
- E se mi taglieranno le mani con cui ho compiuto il mio peccato..
- Non vi faranno nulla di male!
- Come farò a soddisfare il più ardito e proibito desiderio del conte? Come farò a plagiare i metalli sotto il mio volere? Come farò a scrivere ancora? – pronunciò tutto ciò con fasulla disperazione.
Il suo splendido viso illuminato dalla luna nascondeva qualcosa di sinistro che spaventò padre Craig. 
Improvvisamente, accadde qualcosa che fece gelare il sangue nelle vene del giovane prete:
“Cala la luna, cala la luna
Cala la luna, il cielo la inghiotte
Cala la luna, cala la notte
Cala la notte, il sole si ammala, il fuoco non brucia, il palco scompare, nessuno urla più.
Cala la luna, ti sta cercando, chiudi gli occhi, trattieni il respiro e rimani laggiù” – la litania che aveva udito per la prima volta dalle labbra di Blake. Ora era Leah a cantarla.
Padre Craig fissò esterrefatto la ragazzina, ancora stesa con il corpo semisepolto , intonare quella canzone con la sua voce acuta.
- Che cosa...? Che cosa sta succedendo??
- Avreste dovuto rimanere al sicuro, dentro la galleria – pronunciò improvvisamente Blake, portandolo a voltarsi di nuovo verso di lui.
-  Per quale motivo?? Io dovevo...
- Ora che l’avete disseppellita il conte la verrà a prendere.
- Lei..? Il conte vuole voi, non vuole lei.
- Guardatela meglio – gli intimò Blake a ciò.
Ma non appena il prete si voltò di nuovo verso la ragazzina, trovò solamente un mucchio di terra smossa, e nessuna traccia di Leah.
Iniziarono ad udire dei rumori: urla, esclamazioni, lamenti, sempre più vicini.
Improvvisamente gli occhi di padre Craig divennero bui.
In un istante, si ritrovò altrove: la cattedrale non era nè quella del Creatore, nè quella del Diavolo di Bliaint, bensì quella dell’unico vero Dio, ad Armelle.
Si trovavano ad Armelle.
Rincontrò i volti di tutti i suoi compagni e amici di infanzia: padre Rubert, padre Elijah, padre Ton, madre Dorothy.
Tra loro tuttavia, c’era anche una presenza nuova, che spiccava su tutti: Judith era tra loro, vestita con la stessa tunica larga color ruggine che indossavano tutti gli uomini e le donne di Dio ad Armelle, i suoi bei capelli rossi ordinatamente acconciati in alto come di consueto e gli occhi autoritari.
Ma ciò che attirò maggiormente l’attenzione del prete, facendolo impietrire per l’orrore, era la presenza di Blake steso sul tavolo di pietra, con le caviglie e i polsi legati strettamente a stella, esattamente come lo era stata Leah.
Tuttavia, egli aveva un sorriso stampato sul volto, a differenza di Leah, apparendo come l’impersonificazione del Demonio, consapevole ed estremamente pericoloso.
Ogni tanto rideva di gusto, come se non aspettasse altro che trovarsi in quella situazione.
- Che state... Cosa volete fare..?? – balbettò in preda al terrore padre Craig, rivolgendosi a Judith in particolare, la quale appariva ai suoi occhi come una statua immobile e granitica, quasi una Madonna.
- È il Diavolo che parla per lui – disse lei con voce atona.
- È il Diavolo che parla per lui – ripeterono gli altri, riunendosi in cerchio intorno al tavolo di pietra, trascinando anche padre Craig tra loro, e prendendosi le mani tutti insieme.
Solo in quel momento il giovane prete si rese conto che i vestiti di cotone del ragazzo erano tutti sporchi di terra, così come il suo volto e i suoi capelli, quasi come se, poco prima, fosse lui ad essere sepolto e non...
Un urlo si elevò in tutta la cattedrale, facendo tremare le pareti.
Il ragazzo iniziò a dimenarsi inumanamente come una bestia in cattività, con una tale forza ed energia dirompente che terrorizzò padre Craig, facendogli credere che, se solo fosse riuscito a liberarsi, avrebbe ridotto in cenere l’intero edificio a suon di calci e pugni, spaccando le vetrate con solo l’uso della voce.
Si muoveva come elettrizzato, come scosso artificialmente da un’entità esterna che lo agitava dall’interno e dall’esterno, come se una corrente d’aria o d’energia maligna stesse manovrando e alzando il suo corpo, per poi sbatterlo sulla superficie di pietra con violenza, in pose contorte e dolorose solo da guardare.
All’improvviso alzò la testa in avanti come in un tremendo colpo di frusta, nonostante la costrizione dei polsi, e sputò in faccia al prete che si trovava ai suoi piedi, sorridendogli diabolico.
- Preghiamo – si elevò la voce di Judith.
A ciò, iniziarono tutti a pregare intorno a Blake:
“Exorcizamus te, omnis immundus spiritus,
Omnis satanica potestas, omnis incursio infernalis adversarii, omnis legio, omnis congregatio et secta diabolica
In nomine et virtute Domini Nostri Jesu Christi, eradicare et effugare a Dei Ecclesia, ab animabus ad imaginem Dei conditis ac pretioso divini Agni sanguine redemptis
Non ultra audeas, serpens callidissime, decipere humanum genus, Dei Ecclesiam persequi, ac Dei electos excutere et cribrare sicut triticum
Imperat tibi Deus altissimus, cui in magna tua superbia te similem haberi adhuc præsumis; qui omnes homines vult salvos fieri et ad agnitionem veritaris venire
Imperat tibi Deus Pater
Imperat tibi Deus Filius
Imperat tibi Deus Spiritus Sanctus
Imperat tibi majestas Christi, æternum Dei Verbum, caro factum, qui pro salute generis nostri tua invidia perditi, humiliavit semetipsum facfus hobediens usque ad mortem
Qui Ecclesiam suam ædificavit supra firmam petram, et portas inferi adversus eam nunquam esse prævalituras edixit, cum ea ipse permansurus omnibus diebus usque ad consummationem sæculi
Imperat tibi sacramentum Crucis, omniumque christianæ fidei Mysteriorum virtus
Imperat tibi excelsa Dei Genitrix Virgo Maria , quæ superbissimum caput tuum a primo instanti immaculatæ suæ conceptionis in sua humilitate contrivit.”
A ciò, Blake spalancò gli occhi e rigirò le iridi all’indietro, iniziando a lamentarsi agonizzante e a ridere allo stesso tempo, la follia impersonificata nel suo volto cosparso ovunque di scarmigliati ciuffi di capelli scuri e ribelli impregnati di terra.
Tremava, sudava, ansimava, ma non si fermava, continuando a muovere il suo corpo lungo, levigato e ardente come se stesse andando a fuoco, le gambe andavano da una parte, il busto dall’altra e le braccia da un’altra ancora.
Padre Craig non ce la faceva più.
Era troppo per lui.
Tuttavia rimase fermo, fermo ad osservare quella follia, come se attendesse la fine del mondo da un momento all’altro, ad osservare i rivoli di sangue macchiare la pelle contratta del ragazzo, provenienti da chissà quale delle innumerevoli ferite che si stava provocando, ferite senza importanza.
Una bestia. L’accecante bellezza di un mostro, provato a domare innumerevoli volte, senza successo.
L’essenza di un’era, di una generazione, si ritrovò a pensare padre Craig durante quel maestoso e sovrannaturale esorcismo.
Leah cercava la stessa cosa che cercava Blake, infondo.
La differenza era che Blake avrebbe smosso mari, cieli e monti per trovarla.
Poi, accadde il fatto più spaventoso di tutti:
Blake iniziò a parlare con le voci di più persone unite insieme, ripetendo al contrario tutte le preghiere in latino che i preti e Judith stavano pronunciando intorno a lui.
- Sued ileoc, Sued earret, Sued murahcrairtap, Sued muratehporp, Sued murytram, Deus munigriv, Sued iuq metatsetop sebah eranod mativ tsop metrom, meiuqer tsop merobal: retilimuh itatsejam eairolg eaut sumacilppus, tu ba inmo muilanrefni muutirips etatsetop, oeuqal, enoitpeced te aitiuqen son retnetop erarebil, te semulocni eridotsuc sirengid. Rep Mutsirhc Munimod Murtson. Nema – urlò il ragazzo sorridendo ancora, con quelle voci meschine che risalivano tutte insieme dalla sua gola, facendoli rabbrividire.
- Tappategli la bocca! – urlò madre Dorothy in preda al terrore.
-  Ab insidiis diaboli – continuò a pregare Judith, restando ferma e inscalfibile.
- Ba Siidisni Ilobaid – ripetè Blake penetrandola con quei suoi occhi che perdevano umanità ogni secondo che passava.
- Libera nos Domine
Ut Ecclesiam tuam secura tibi facias libertate servire
Te rogamus, audi nos
Ut inimicos sanctæ Ecclesiæ humiliare digneris
Re rogamus, audi nos! – urlò Judith, ma prima che il ragazzo potesse ripeterle al contrario venne imbavagliato come era stato ordinato.
Ora era ancor più inerme, disteso su quella tavola di pietra, legato e imbavagliato; ma, nonostante tutto, continuava a muoversi come scosso dalle fiamme o dai fulmini, ribellandosi a quelle costrizioni come un ossesso.
Le corde gli lacerarono i polsi e le caviglie, macchiando la superficie di pietra e i suoi vestiti di sangue scarlatto.
- Vi prego... non ce la faccio più... – implorò padre Craig, non sapendo bene a chi rivolgersi, stremato, distrutto, deanimato.
- Tenetelo fermo! – esclamò un altro dei preti, e tutti lo assecondarono, non senza un’ingente dose di difficoltà:
Uno di loro, posizionato ai piedi del ragazzo, gli afferrò strettamente le caviglie; altri due le gambe, un altro i fianchi e il bacino, altri due le braccia e le spalle, e Judith la testa.
Memore di ciò che era accaduto a Leah, padre Craig fece qualche passo indietro, allontanandosi dalla tavola di pietra con orrore. – Che cosa state facendo...? Che cosa volete fargli..??
Si pietrificò nel momento in cui vide uno dei preti avvicinarsi con una sorta di strano pentolone tra le mani: al suo interno, al posto dell’acqua santa, vi era dell’oro in stato liquido. Lo stesso oro che si sarebbe dovuto ottenere dalla trasmutazione alchemica che sempre più uomini bramavano.
Oro. Accecante e bellissimo.
Fu quando sembrò rendersi conto di cosa si trovasse dentro il recipiente che Blake si paralizzò immediatamente, sgranando gli occhi ora spauriti e terrorizzati.
Tuttavia, non poteva fare nulla, nè urlare, nè tanto meno muoversi ora che era anche immobilizzato da una dozzina di mani che lo stringevano e ancoravano alla tavola di pietra.
- No, aspettate...! – provò ad intervenire padre Craig, ma fu tutto inutile: le gambe avevano iniziato a cedergli facendolo piombare a terra.
Il prete con il grosso recipiente tra le mani poggiò quest’ultimo a terra, immerse dentro l’oro le dita, per poi avvicinarsi a Blake.
Nel momento in cui toccò la pelle del ragazzo, tracciando dei segni sul suo viso con l’oro, la pelle di Blake iniziò a bruciare fino ad arroventarsi sotto quei segni dorati, consumandosi.
Nonostante il bavaglio a comprimergli la bocca, l’urlo di agonia del ragazzo fu talmente immenso che tuonò e rimbombò per tutta la cattedrale, spezzando il cuore di padre Craig.
Il giovane prete aprì gli occhi tra i singhiozzi, nel suo letto, ritrovando il cuscino su cui poggiava la testa zuppo di lacrime.
Era troppo reale per essere un incubo. Troppo reale.
Non poteva credere di averlo sognato in quel modo.
Possibile che quando Blake invadeva i suoi sogni accadessero eventi tanto nefasti e tremendi?
Ancora terrorizzato e animato da una disperazione che non credeva di possedere, si alzò in piedi senza neanche darsi una sistemata davanti allo specchio, senza togliersi la camicia da notte o sciacquarsi il viso, corse fuori dalla camera ansimante, piombando dritto dinnanzi alla porta sbarrata che dava accesso alla fucina sotterranea, oramai sigillata a chiunque non fosse Blake.
Il ragazzo si trovava là sotto da quattro giorni di seguito, apparentemente senza uscire nè per mangiare, nè per dormire o per qualsiasi altro bisogno fisiologico.
Poteva essere morto là sotto, e loro non ne sapevano nulla.
Era stato lui stesso a sigillare la porta dall’interno, per evitare che qualcuno entrasse, per isolarsi dal mondo e continuare le sue folli sperimentazioni.
Da quando aveva scoperto del conte Agloveil la situazione era evoluta di male in peggio.
Neanche Quaglia, che solitamente era il solo ad assisterlo nelle sue sperimentazioni quando era là sotto, aveva il permesso di raggiungerlo.
Padre Craig, in un impeto di esasperazione, si aggrappò alla porta, cominciando a riempirla di pugni, con la speranza di sfondarla e aprirla.
- Vi prego!! Vi prego, aprite la porta!!
Quanto poteva apparire patetico visto dall’esterno?
Quanto avrebbero potuto compatirlo Quaglia o Heloisa?
Ioan forse sarebbe stato l’unico a non giudicarlo, dato che piangeva tutti i giorni da quando il fratello si era chiuso là sotto senza dare più notizie o tracce di sè.
Pianse, il giovane prete pianse tutte le lacrime che gli erano rimaste, invaso dalla preoccupazione e dal terrore.
Voleva sapere se stesse bene, se fosse ancora vivo, se gli servisse qualcosa, qualsiasi cosa.
Anche solo vederlo sarebbe andato bene.
Anche solo scorgerlo da lontano...
Si lasciò andare ad un pianto singhiozzante e liberatorio come quello di un bambino, trascinando i palmi sul legno della porta chiusa, fino a lasciarsi cadere inginocchiato a terra.
I pugni con cui colpì la porta divennero sempre più deboli e il suo pianto sempre più forte.
- Perchè...? Perchè mi fate questo...?
Io ho bisogno di voi...
Non potete neanche immaginare quanto io abbia bisogno di voi...
Troppo in preda alle lacrime e alla disperazione, non si era accorto di una presenza che lo aveva raggiunto, e che ora se ne stava in piedi, a guardarlo, a metri di distanza.
Padre Craig si accorse di Rolland, ma non fece nulla per placare il suo attacco di pianto.
Oramai aveva perso la sua dignità.
In una circostanza come quella non la possedeva una dignità.
E se Rolland non l’avesse compreso, o peggio, avesse scoperto il suo torbido segreto, poco sarebbe importato.
Per lo meno fu quello che pensò in quel momento di perdita totale, quando i suoi occhi appannati dal pianto incontrarono quelli duri, un poco confusi e al tempo stesso velatamente malinconici di Rolland.
Aveva quasi dimenticato che il capo famiglia avesse ricominciato a tornare a casa da quando vi era stata la sfuriata con Blake e la quasi-morte scampata di Heloisa, quattro giorni prima.
Era tornato e si era preso cura di sua moglie malata e del suo figlioletto, non potendo tuttavia fare nulla per raggiungere nuovamente il suo primogenito.
Non seppe dire se quello sul suo viso fosse anche senso di colpa.
Senso di colpa o... rassegnazione.
L’uomo si avvicinò a lui di qualche passo, con sguardo indefinibile.
Il prete resse il suo sguardo mentre i suoi singhiozzi diminuivano di intensità, ma rimanevano comunque costanti e persistenti.
- Ho bisogno di vederlo... – gli disse con voce rotta.
- Perchè? – gli chiese Rolland.
- “Perchè” mi domandate...?
Un lampo di strana consapevolezza apparve negli occhi di Rolland, senza che padre Craig ebbe aggiunto nulla.
Fu in quel preciso istante che padre Craig capì che Rolland avesse capito.
- Non aprirà la porta – disse l’uomo con voce improvvisamente fredda.
- Non volete sapere se sta bene?
- Sta bene.
- Come potete esserne certo..??
- Lo stato di mio figlio non sono affari che vi riguardano.
Ricomponetevi, padre, prima che qualcun altro possa scorgere la vostra spregevolezza.
Alzatevi in piedi e andate via di qui.
Non avvicinatevi più a questa porta.
- Mi caccerete via di casa...?
Attimi di attesa pari a secoli si dilungarono dinnanzi agli occhi del prete.
- Se gli starete alla larga, no.
Toglietevelo dalla testa.
E con quella minaccia, Rolland si dileguò, uscendo dalla sua vista.
La sua anima ormai irrimediabilmente macchiata e torturata cedette.
Cedette, spingendolo a rialzarsi in piedi e a raggiungere la sua stanza.
Non appena si infilò le scarpe, l’abituale tunica monacale gli si palesò davanti agli occhi, fresca di lavaggio e appesa all’attaccapanni della camera, pronta all’uso.
A causa dello strautilizzo era lievemente rovinata in diversi punti.
Padre Craig la carezzò con la punta delle dita, come a volergli dire addio.
Dopo di che, raggiunse la stanza di Quaglia, trovandola vuota. Frugò tra i suoi vestiti, prese un paio di pantaloni di tela e una maglia di cotone bianca, in quanto egli non possedeva altro che la sua tunica da indossare.
Una volta vestito da semplice popolano, afferrò il proprio mantello e uscì di casa, dirigendosi verso una meta ben precisa.
Era il suo dolore a fargli muovere i passi per raggiungere l’unico luogo che avrebbe potuto dargli un po’ di illusorio sollievo in quel momento, in quanto, l’idea di andare da Judith e di farsi vedere da lei in quello stato non gli si era neanche affacciata alla mente.
Giunto all’entrata delle segrete fece un cenno di saluto ai monaci di guardia e scese la scale che lo avrebbero portato a quel luogo buio, umido e maleodorante.
Raggiunta la cella di suo interesse, imbucò la chiave ed entrò dentro.
Quella fu la seconda volta che diede sfogo ai suoi impulsi sessuali, la seconda volta che entrò dentro le carni di Beitris in quella cella putrida.
La seconda volta che la bellissima strega lo lasciò fare, accettandolo dentro di sè, come in un tacito patto che condividevano, e che li avrebbe resi indissolubilmente legati.
Beitris gli baciò la testa o lo rassicurò cullandolo come una madre premurosa, mentre lui si aggrappava a lei disperato.
- “Sorga Dio
I suoi nemici si disperdano
Fuggano davanti a lui quelli che lo odiano.
Come si disperde il fumo, tu li disperdi
Come fonde la cera di fronte al fuoco, periscano gli empi davanti a Dio” – ripetè il giovane prete a se stesso, come una punizione autoinflitta e persistente.
Beitris lo cullò ancora, avvicinando poi le labbra al suo orecchio, per sussurrargli parole di conforto sopra le sue di dannazione:
- Ama con tutto te stesso.
Ama intensamente.
Ama insistentemente.
Amare non è mai peccato.
Amare non è mai un errore.
Ama. Ama fino alla morte.
 
Folker entrò dentro la Taverna, il cappuccio ancora tirato sù.
Individuò subito facce conosciute al suo interno e non se ne sorprese: quello era un luogo di incontro e di svago per ogni abitante di Bliaint di entrambi i culti.
Riconobbe anche i volti di Myriam, la donna che aveva iniziato a sottoporlo ai riti di purificazione al posto di Judith, e la nuova ospite di Judith, la sciamana che era apparsa da un giorno all’altro, e che aveva acquistato una certa fama in tutto il villaggio nel giro di pochi giorni.
Camminò, facendosi largo come potè tra la folla di gente, alcuni già ebbri, altri in procinto di diventarlo.
Si tirò il cappuccio ancor più sù, tentando di nascondere il suo viso, volendo evitare che qualche ubriaco riconoscesse in lui “il ragazzino-strige”, per evitare problemi.
Si sedette in un posto libero dinnanzi all’affollato bancone colmo di locandiere, cercando con gli occhi una figura in particolare, che tuttavia non vide.
C’erano quasi tutte dietro quel bancone, come era possibile che mancasse proprio lei?
Attese a testa bassa, torturandosi le mani nel frattempo.
- Ehi, biondino – lo richiamò una delle locandiere notandolo. Era una voce giovane che non conosceva, forse era una ragazza nuova.
A ciò, lui abbassò ancora di più la testa, dannando i suoi ciuffi di capelli chiarissimi che sbucavano fuori dal cappuccio.
- Guardate che vi vedo lo stesso, anche se tenete la testa bassa – persistette lei avvicinandosi. - Perchè non mi guardate?
Vedendo che egli non rispondesse, lei schioccò la lingua scocciata. – Almeno posso prepararvi qualcosa da bere?
- Sto cercando una persona.
- Una locandiera?
- Sì.
- Di chi si tratta?
- Bridgette. Nora Bridgette.
- Oh.. siete uno dei suoi numerosi ammiratori? – domandò la fanciulla puntellandosi le mani suoi fianchi e inclinando la testa, per scorgere qualcosa in più del suo volto celato.
Senza preavviso, la ragazza gli sfilò il cappuccio a gran velocità, facendolo sussultare.
- Immaginavo foste un servo del Diavolo – affermò con ovvietà lei, osservandolo a dovere. – Sapete di essere molto bello. Ma sapete anche di non avere l’età adatta, giusto? A Bridgette non piacciono i ragazzini, ma gli uomini più grandi. Non lo sapete che ha compiuto diciannove anni?
- Voglio solo parlarle.
Ma proprio mentre quella fanciulla persistente dai voluminosi boccoli neri stette per replicare, Bridgette fece il suo ingresso dietro il bancone, posando alcuni boccali vuoti dentro un recipiente colmo di altri bicchieri sporchi.
Non appena la ragazza lo vide e lo riconobbe, sgranò i suoi occhi a mandorla. – Folker...?
- Lo conosci? – gli domandò la fanciulla dai ricci neri.
- È un ... amico di mio fratello.
Folker ringraziò mentalmente Bridgette di essersi limitata a quella descrizione, in quanto l’altra locandiera non lo aveva riconosciuto come “la strige”, poichè non lo aveva mai visto in vita sua, fortunatamente.
- Oh.. vi lascio soli, allora – si dileguò la ragazza ammiccante.
Folker fissò gli occhi in quelli di Bridgette, senza dire nulla.
Non sapeva come avrebbe potuto reagire, vedendolo, la sorella di quello che era stato il suo amico di una vita, il quale gli aveva improvvisamente voltato le spalle per avere salva la pelle; nonchè la ragazza che li aveva guardati crescere silenziosamente, partecipando talvolta ai loro giochi infantili quando erano bambini.
Bridgette lo conosceva da una vita, e anche lui conosceva lei.
Ricordava distintamente persino il periodo in cui la spiava di nascosto mentre cantava, quando lei credeva di non essere udita. I suoi occhi innocenti di bambino, a quei tempi, erano rimasti incantati a guardarla pettinarsi i capelli, associandola spesso alle sensuali sirene delle storie fantastiche che gli narrava suo padre.
Ma ora che aveva quasi quindici anni, ora che Ambrose gli aveva aperto nuovi orizzonti, seppur contro la sua volontà, comprese che Bridgette fosse l’unica ragazza che avesse mai guardato con desiderio.
Probabilmente lei avrebbe riso di lui e lo avrebbe preso per sciocco.
Tuttavia, aveva bisogno di parlarle.
Specialmente ora, dato che erano giorni che non rivolgeva la parola ad Ambrose, dopo il litigio che avevano avuto.
Era rimasto davvero solo.
E non avendo nessuno con cui poter anche solo parlare senza venir perseguitato o evitato, sperò ingenuamente che almeno lei, almeno la fanciulla con la quale era cresciuto, nutrisse ancora un po’ di affetto nei suoi confronti. Affetto e pietà.
Lo sperò perchè Bridgette sapeva che le strigi non esistessero, in quanto suo fratello prima di ogni altro era stato vittima di quelle accuse infondate, ed ora la stessa sorte stava toccando a Folker.
Sperò che la ragazza si sentisse in colpa per ciò che aveva fatto suo fratello, almeno un po’.
Lo sperò perchè era quel giorno della settimana. Il giorno della settimana in cui non ricordava niente di cosa gli fosse accaduto il giorno prima.
E oramai era quasi certo che qualcuno gli avesse fatto una maledizione e prendesse possesso del suo corpo di settimana in settimana, rubandogli i ricordi.
La sua testa stava esplodendo, l’ansia di non sapere lo stava risucchiando.
La fame tremenda lo stava consumando.
Bridgette continuò a guardarlo con occhi colmi di preoccupazione e di un velo di senso di colpa, come Folker aveva sperato.
Quando ella capì che lui non avrebbe detto nulla, parlò per prima:
- Ho finito il mio turno, per stasera.
Barclay e i miei genitori non sono in casa.
Vuoi venire con me?
Quella proposta lo lasciò a dir poco perplesso.
- D’accordo – le rispose senza pensarci.
- Bene. Aspettami fuori e tirati sù il cappuccio: non credo sia saggio tu ti faccia vedere in giro a quest’ora.
Quando i due furono giunti a casa di Bridgette, la quale distava pochi minuti a piedi dalla Taverna, la ragazza accese alcune lampade ad olio e le sparse in vari punti della cucina.
Folker si accomodò su una di quelle sedie familiari, che sapevano tanto di casa.
- Non hai un bel colorito.
Ti preparo qualcosa da mangiare – fu la prima cosa che gli disse lei.
- Non serve.
- Folker, hai palesemente perso peso e sembri senza forze.
Permettemi di offrirti qualcosa.
- La tua preoccupazione è commovente – commentò lui con sarcasmo.
- Cosa vuoi dire con questo?
Lo sai che non ho convinto io mio fratello ad accusarti, vero?
Folker rimase in silenzio, dandole ragione internamente, sapendo che non avesse alcun senso essere arrabbiato con lei per ciò che aveva fatto Barclay.
Inoltre, poteva davvero biasimare totalmente Barclay per essersi salvato la vita in quel modo?
- Trovavo ignobile la sua idea.. – aggiunse la ragazza, ripensando a ciò.
- Ti ringrazio. Per avermelo detto.
I loro occhi si incrociarono di nuovo, in silenzio.
Dopo di che, la fanciulla distolse lo sguardo e afferrò una piccola teglia coperta da un coperchio di legno.
Sotto di essa si ergeva qualche pezzo avanzato di una crostata di fragole.
- Tieni – gliene porse una fetta, posandola sul tavolo, davanti ai suoi occhi.
Quell’odore invitante e la consapevolezza che l’avrebbe rigettata non appena l’avesse assaporata sulla lingua lo fece indisporre. – Non la voglio. Ti avevo detto di non volere nulla – le rispose distogliendo lo sguardo dal pezzo di dolce, stizzito.
- Perchè ti stai agitando, ora?
- Non mi sto agitando – rispose lui continuando a grattarsi i polsi in un istinto involontario, come stava facendo da tutta la sera.
- Folker, ti stai indisponendo per una fetta di torta – gli fece notare lei accennando un mezzo sorriso, che unito alle fossette sulle guance le diede un aspetto ancor più effeminato e ricercato.
Il suo sorriso ebbe il potere di rilassarlo per qualche motivo, così ritentò, facendosi attrarre dal profumo di fragole. Prese il pezzo di dolce, lo avvicinò alla bocca e lo morse velocemente, per evitare di sputarlo subito dopo.
Combattè contro l’istinto involontario di rigettarlo fuori, percependo una fitta alla bocca dello stomaco.
La soddisfazione per quella piccola vittoria lo galvanizzò tanto da spingerlo a divorare l’intero pezzo di crostata quasi senza neanche masticarlo, pur di non vomitarlo.
Bridgette emise un risolino nel guardarlo.
- Visto? Non c’era bisogno di indisporsi per così poco – disse con semplicità lei, addentando un pezzo di crostata a sua volta.
Folker attese che ella finisse di mangiare, guardandosi intorno in cerca delle parole giuste da dirle.
- Dimmi, come mai mi hai cercato questa sera? Sono settimane che non ci vediamo – cominciò lei.
- Posso farti una domanda?
- Certo.
- Mi hai ... visto entrare alla Taverna prima di oggi? Mi hai visto... fare delle cose strane, cose non “da me”?
- No. Oggi è la prima volta che ti vedo alla Taverna da quando c’è stato l’ultimo incontro della congrega.
Folker tirò un respiro di sollievo nell’udire tali parole.
- Perchè me lo chiedi?
- Qualcuno sta... prendendo possesso del mio corpo a mia insaputa.
- Prendendo possesso..? Come una possessione demoniaca?
- No – si affrettò a rispondere lui. – O almeno non credo. Credo sia qualcuno che si diverte a fare ciò che gli pare e piace con il mio corpo.
- Oh... – commentò Bridgette turbata. – Se ciò fosse vero, sarebbe un po’ perverso, anche solo pensarlo.
Folker rimase in silenzio, non avendo la forza di guardarla.
Strinse i pugni tra loro e chiuse gli occhi, tutti movimenti che vennero abilmente captati dalla ragazza dalla chioma mogano.
- Folker?
- Ieri io.. non ricordo niente di quello che mi è successo. Non so mai quando capiterà. Ho queste perdite di memoria improvvise e... so che non sono dovute ai riti di purificazione, ne sono certo.
- Ti credo. Potrebbe essere qualcuno che si sta rivolgendo ad una strega per operare la magia su di te. I servi del Creatore lo fanno spesso.
- Perchè dai per scontato sia un servo del Creatore? – domandò lui riaprendo gli occhi e puntando quei fari chiari e lucidi su di lei.
- Oh, Folker, ma è ovvio – rispose ella avvicinandosi un po’, fin quando non fu abbastanza vicina da accarezzargli una guancia con la mano delicata, abbellita da qualche anello. – Sono i servi del Creatore a desiderare di essere noi. Non è strano pensare che uno o una di loro siano rimasti ammaliati da te, tanto da voler essere te.
- Ma... come potrebbe qualcuno arrivare a tanto?
- Per sperimentare. Sperimentare la lussuria, il desiderio, l’atto sessuale e le perversioni.
- Così non stai aiutando...
- Non è detto che lo abbia già fatto. Quali sospetti ti hanno fatto giungere a questa conclusione?
- Una persona che conosco mi ha detto di avermi baciato e toccato, ma io non ricordo minimamente di averlo fatto. Io non ho mai pensato al desiderio fisico.
- Ah no? – gli domandò lei sorpresa.
- No.
- Neanche in merito alla tua promessa sposa?
- No, mai. Forse.. – si bloccò, imponendosi di tapparsi la bocca per non dirle altro.
- Cosa? – insistette lei curiosa.
- Mi è sempre piaciuto guardarti – ammise. – Guardarti cantare, sentirti ridere ed essere così attenta a noi.
Bridgette rimase meravigliata da tale ammissione.
- Non lo sapevi? – le domandò lui scrutandola. – Credevo te ne fossi accorta.
Ella negò con la testa. – È lusingante. E lo sarebbe ancora di più se non avessi l’età di mio fratello – disse lei girando intorno al tavolo, sospirando.
A ciò, Folker aguzzò lo sguardo, riflettendo. – Ne sei dispiaciuta?
- Di cosa?
- Che io sia più giovane di te.
- Può essere – rispose vagamente la ragazza poggiando il mento affilato sui palmi delle mani.
- Ci scambiamo solo quattro anni – precisò lui.
- Alla tua età quattro anni sono tanti, Folker. Devo spiegarti anche questo? – gli rispose bonariamente.
I due si guardarono per un po’, senza dire nulla, fin quando Bridgette non glielo domandò di nuovo:
- Folker, perchè hai voluto incontrarmi stasera?
- Non lo so – rispose continuando a guardarla. – Se io fossi più grande... – iniziò. – saresti attratta da me?
A ciò, lei rise divertita per un po’, prima di dire qualcosa che lo fece paralizzare sulla sedia per lo stupore:
- Sciocco. Sono attratta da te anche adesso.
Il ragazzo si alzò in piedi, compiendo qualche timido passo verso di lei, ancora seduta.
Bridgette lo guardò per tutto il tempo che impiegò ad avvicinarsi.
Normalmente, quando erano in piedi, la ragazza era poco più alta di lui.
Ora, la situazione era invertita.
- Posso chiederti una cosa? – le domandò lui.
- Che cosa?
- Dormiresti con me?
- Sei piuttosto diretto... – sussurrò lei fissandolo negli occhi, scrutando ogni espressione sul suo volto giovane e inconsapevole.
- Sono stanco. Sono stanco di sentirmi usato, stanco che gli altri usino il mio corpo a loro piacimento.
Per una volta vorrei essere io a decidere per il mio corpo – le disse con la voce sfinita e incrinata.
- Folker – lo richiamò a sè lei, prendendogli le mani tra le sue.
- Cosa c’è?
- Stai tremando. Rilassati.
- Io non..
- Se non ti rilassi, non riusciremo a farlo.
Una scintilla di speranza e di sorpresa si accese negli occhi di topazio del ragazzo. – Vuoi dire che lo farai?
- “Lo faremo”. È una cosa che si fa insieme – lo corresse lei in tono incoraggiante, spostandogli un ciuffo di capelli dietro l’orecchio.
- Ci penserò io a farti rilassare, promesso – lo rassicurò ancora, vedendolo annuire. – Però prima devi trovare il coraggio.
- Il coraggio di fare cosa?
- Di sedurmi – gli rispose penetrandolo con le sue vivide iridi argentee, una parte di lei che gli era sempre piaciuta molto. – Non posso iniziare se sembri un pulcino spaventato, mi sembrerebbe di strapparti via la verginità senza alcun ritegno.
- Come faccio? Non so sedurre, non l’ho mai fatto.
- Non è difficile. In parte lo fai già, senza accorgertene – gli disse lei poggiando la schiena allo schienale della sedia e sondandolo da capo a piedi, con il suo sguardo argenteo. – Sai.. non tutti coloro che sono belli sono anche in grado di sedurre. La bellezza e la seduzione non vanno di paripasso. La capacità di sedurre è una dote, un dono. C’è chi lo ha naturalmente, e non se ne accorge. C’è chi deve esercitarsi per acquisirlo. C’è chi ne è talmente dotato da considerarla quasi una maledizione.
Ad esempio, esistono delle persone bellissime, talmente eteree da sembrare un dipinto: un dipinto da contemplare, nulla più di questo.
Ma esistono anche delle persone che, invece, oltre ad essere belle, sono anche in grado di farti provare sensazioni strane e destabilizzanti laddove non batte il sole. Persone che sono in grado di farti tremare solo guardandoti o muovendosi con naturalezza in una stanza...
Vuoi sapere a quale categoria appartieni tu?
Folker annuì, un po’ incerto.
- Il tuo corpo è perfettamente in grado di sedurre.
La tua è una dote innata, riesco a vederla, ma è celata in profondità.
Devi solo tirarla fuori, ma c’è, è lì e si scorge chiaramente.
Forse è proprio questo che ha visto in te chiunque stia cercando di appropriarsi del tuo corpo con la magia.
Quell’ultima frase fece gelare il sangue nelle vene del ragazzo. – Non parlare di questo – la ammonì in un impeto di rabbia.
- Allora muoviti e fa’ qualcosa – lo esortò Bridgette, inchiodandolo a lei con i suoi occhi ipnotici.
A ciò, Folker agì d’istinto: si avvicinò a lei e al contempo la ragazza gli fece spazio aprendo le cosce coperte dalla sottana blu notte, non appena capì che si sarebbe avvicinato.
Senza attendere troppo, la guardò negli occhi, incantandola a sua volta con le sue iridi liquide e curiose, si abbassò e posò le sue labbra calde su quelle di lei schiuse.
Fu un contatto lento, accennato e stranamente dolce.
Un contatto che si prolungò più del dovuto, divenendo un assaggio febbricitante.
Quando il ragazzo si staccò da lei, con ancora le labbra schiuse e umide, la guardò negli occhi per capire cosa provasse.
Ma prima che potesse chiederle qualsiasi cosa, la ragazza gli infilò una mano dietro la nuca e gli disse - Vieni qui – tirandolo di nuovo a sè e facendogli provare realmente cosa significasse scambiarsi un vero bacio, pregno di lingue vorticanti e di morsi alle labbra.
Il biondo riuscì finalmente a sciogliersi grazie a quel bacio mozzarespiro, iniziando a spostarsi più in basso autonomamente. Le baciò e leccò il collo beandosi del sapore della sua pelle dolce, per poi giungere al petto di Bridgette, stretto nel corpetto.
La ragazza, già lievemente ansimante, lo aiutò a slacciarsi il corpetto, liberando i propri seni smaniosi di essere saggiati.
Bridgette possedeva dei seni piccoli ma sodi e pieni, e lasciandosi guidare ancora dall’istinto e dalla frenesia, Folker iniziò a succhiarli, facendo mugulare di approvazione la ragazza, la quale iniziò già a rilasciare qualche gemito soddisfatto.
- Che cosa sto facendo... ? – sibilò tra un sospiro e l’altro la ragazza, in un attimo di lucidità. – Se mio fratello lo scoprisse...
- Non deve saperlo per forza – si affrettò a rispondere lui staccandosi dai suoi seni e ritornando a baciarla.
Ella ricambiò con trasporto, mentre esponeva i suoi dubbi tra un bacio famelico e l’altro. – Non ho mai tolto la verginità a nessuno. Non ho mai istruito un ragazzo privo di esperienza – gli sussurrò mentre lui le stringeva i capelli tra le dita.
- Andrà bene. Farò tutto quello che mi dirai – sussurrò il ragazzo, facendo vagare le mani inesperte sulle cosce coperte dalla sottana della ragazza.
Ma Bridgette non gli diede il tempo di proseguire, poichè infilò una mano dentro i suoi pantaloni, afferrando la sua intimità, facendolo paralizzare sotto il suo tocco.
- Va tutto bene... – lo rassicurò. – Fidati di me – gli disse sorridendo, alzandosi in piedi e iniziando a sua volta a torturargli il collo con baci vogliosi, mentre intanto proseguiva a toccare la sua erezione, massaggiandola con dovizia.
Il ragazzo buttò la testa all’indietro, sospirando a pieni polmoni, rendendosi conto solo in quel momento di aver indietreggiato talmente tanto da aver toccato il muro con la schiena, e di potersi appoggiare ad essa.
Ma non ve ne sarebbe stato comunque bisogno, in quanto Bridgette si spostò verso il basso, abbassandogli i pantaloni e sfilandoglieli senza preavviso, per poi afferrargli i fianchi con le mani e ancorarli al muro. Lo guardò dal basso un’ultima volta, rivolgendogli un sorriso che il ragazzo avrebbe custodito preziosamente nelle sue memorie, lo sguardo più lussurioso e diabolico che avesse mai visto.
Dopo di che, Bridgette tuffò il viso nell’intimità del ragazzo, iniziando a leccare, a baciare e a succhiare ovunque arrivasse, quasi come volesse divorarlo, quasi come se la sua pelle avesse un sapore irresistibile.
Gli ansimi del ragazzo divennero sempre più forti e intensi, la testa iniziò a diventargli infinitamente leggera, il corpo era fremente e scosso dal destabilizzante piacere che quella bocca e quelle mani gli stavano donando, un idillio che non credeva esistesse nel mondo terreno.
Cercò di trattenersi dall’urlare per il piacere e per la sorpresa quando la ragazza spalancò l’antro caldo che era la sua bocca e lo inglobò tutto dentro di sè, iniziando succhiarlo con impeto e padronanza, facendogli ancorare le mani al muro.
Andarono avanti tutta la notte, venerando i rispettivi corpi in ogni modo possibile, scoprendosi, desiderandosi, rassicurandosi e lasciandosi andare persino a dolci effusioni prima di addormentarsi.
Bridgette non fece domande quando tastò la sua schiena d’avorio colma di ferite provocate dalle frustate.
Bridgette non fece domande riguardo ai lividi o riguardo le sue anche troppo sporgenti.
Bridgette non domandò e non pretese nulla, se non la sua completa attenzione e il suo dominio, prima che il sole sorgesse su un nuovo giorno.
 
 
 
 
 
 
   
 
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