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Autore: Nao Yoshikawa    26/05/2022    5 recensioni
Dieci nuclei familiari, dieci situazioni diverse tra loro: disfunzionali o complicate o fuori dalla cosiddetta "norma".
Anche se alla fine, si sa, tutti quanti sono all'eterna ricerca di una sola cosa: l'amore.
Byakuya detestava tornare al proprio appartamento, specie a quell’ora. Dopo la morte di Hisana aveva preferito andare a vivere da un’altra parte, in un luogo dove non avrebbe avuto ricordi dolorosi.
A Orihime piaceva molto l’odore di casa sua. Profumo di colori a tempera misto a biscotti appena sfornati.
Ishida era un po’ seccato, non solo per la stanchezza, ma perché odiava quando Tatsuki non rispettava i piani. Anche se comunque non si sarebbe arrabbiato a priori.
Rukia era provata, si poteva capire dal suo tono di voce. Era brava a nascondere i timori dietro una facciata di allegria ed energia, ma Ichigo la conosceva bene.
Naoko era indispettita. Possibile che nessuno capisse il suo dramma?
Ai muoveva le gambe con agitazione. Indossava delle graziose scarpette di vernice nera e molti le dicevano spesso che aveva il visino da bambola, con i capelli scuri e gli occhi di una sfumatura color dell’oro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai, Yaoi | Personaggi: Gin Ichimaru, Inoue Orihime, Kurosaki Ichigo, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Capitolo diciotto
 
Nnoitra era sempre stato un tipo diffidente con gli estranei ed era uno che non parlava mai dei fatti suoi, dei suoi segreti più intimi e delle sue emozioni, l’aveva sempre trovata una cosa da smidollati. Per questo ci aveva impiegato un po’ per convincersi ad andare da uno strizzacervelli. Doveva però ammettere che la dottoressa Nanao Ise, con i suoi occhiali, i suoi capelli legati e l’espressione seria, gli infondeva una certa fiducia. Il primo incontro era stato di conoscenza più che altro, sia per lui che per Neliel. Il secondo incontro però sarebbe stato in solitaria per entrambi. Nnoitra era entrato e si era stravaccato sulla poltrona con fare annoiato e sciatto.
«Allora, dottoressa. Facciamo questa cosa? Perché ho una certa fretta»
«Ci prenderemo il tempo che serve» disse lei, aggiustandosi gli occhiali. Non era affatto messa in soggezione dal suo modo di fare annoiato. «Al nostro primo incontro è venuto fuori che è la gelosia ciò che causa difficoltà a lei e a sua moglie.»
Nnoitra fece spallucce.
«Sono fatto così, sono possessivo. Ma a mia moglie non va bene e io sono qui perché non voglio mandare tutto a putt… non voglio rovinare tutto.»
La dottoressa Ise gli porse la prima domanda e tanto bastò per metterlo in difficoltà.
«Che cosa pensa quando prova questa gelosia?»
Nnoitra corrugò la fronte. Lui non era bravo a parlare, non di quella roba almeno, ciò lo faceva sentire goffo.
«Cosa dovrei pensare? Che non voglio che nessuno si avvicini a lei. Vale lo stesso per Naoko, ma lei è ancora piccola e il problema non si pone.»
«Si sente minacciato in qualche modo?»
Divenne rigido come un bastone. Non gli piaceva come quella donna gli leggeva nel pensiero, si sentiva violato. Forse era un qualche super potere degli strizzacervelli, chissà. Le sue labbra si contrassero in un ghigno.
«E perché dovrei? Non sono certo uno stupido ragazzino insicuro» senza rendersene conto il suo tono era cambiato. «Senta, ma perché stiamo parlando di quello che sento io? Non è importante.»
La dottoressa Ise, che stava prendendo appunti, si fermò e lo guardò.
«Invece è importante. Ma se vogliamo parlare d’altro, possiamo parlare più approfonditamente di lei. Mi racconti qualcosa.»
Quello era perfino peggio. Nnoitra amava parlare della sua vita solo da un certo punto in poi, da quando aveva conosciuto Neliel, precisamente.
«La mia vita non è niente di eccezionale. Sono stato un bambino pestifero e un adolescente ribelle, ho fatto un sacco di… di cavolate» cercò di non usare un linguaggio scurrile. «Ma di quel periodo della mia vita io non parlo. Sto cercando di togliermelo di dosso.»
«Ma quel periodo fa comunque parte della sua vita. L’ha reso ciò che è ora, per quanto terribile sia stato.»
Era stato più che terribile. Aveva perso tanto, aveva perso qualcuno. Scosse la testa, come a scrollare via il pensiero.
«Io continuo a non capire questo cos’ha a che fare col mio matrimonio. Parliamo di quello! Sono un po’ geloso, okay?» s’innervosì. «Beh? C’è bisogno di condannarmi? Non è colpa mia se la gente non vuole stare al suo posto, non è colpa mia se pensano tutti di essere migliori di me!»
«Chi è che lo pensa?»
Nnoitra arrossì. Tante persone, ne era certo. Non gliel’avevano mai detto apertamente, ma era chiaro che fosse così, glielo leggeva negli occhi.
«Tutti quanti, va bene? Sì, lo so che devo cambiare, devo cambiare sempre io» si era ripromesso che non si sarebbe innervosito, ma in fondo non ci aveva mai creduto. I sentimenti, le paure, erano un brutto affare. Ripercorrere certi momenti faceva troppo male. Era per questo che tante persone preferivano non affrontarli, ecco perché lui aveva sempre preferito non affrontarli.
La sua prima seduta in solitaria fu difficoltosa, non riuscì ad aprirsi più di tanto, ma Nanao Ise sapeva farci anche con i pazienti più difficili. Per quanto riguardava Nnoitra, era uscito da quello studio con il mal di testa. Neliel era lì, nella sala d’aspetto.
«Ma sei rimasta qui? Potevi andare» borbottò.
«Non ci penso proprio, volevo aspettarti. Com’è andata?» Nel si alzò, si sollevò sulle punte e lo baciò a fior di labbra. Nnoitra si rilassò appena.
«È andata che io detesto parlare dei miei sentimenti e delle mie emozioni, non lo sopporto. Però devo farlo perché non voglio rovinare tutto. Io voglio… devo essere migliore.»
Nel afferrò la manica della sua maglietta. Lei conosceva molto di Nnoitra, ma altrettante cose non le conosceva perché lui non glielo permetteva.
«Nnoitra, io non ti voglio migliore. Io ti voglio sereno, perché è chiaro che per adesso non lo sei.»
Sua moglie aveva ragione e questo non riusciva a sopportarlo. Odiava essere così spezzato.
«Lo… lo so… Dai, basta con le sciocchezze. Andiamo a prendere Nao.»
 
Nao fu felicissima di vedere entrambi i suoi genitori, era raro che venissero a prenderla entrambi. Quindi era saltata loro in braccio.
«Ma che bella sorpresa, siete venuti tutti e due! Vi preferisco quando state insieme che quando siete separati!»
La paura per Naoko era stata tanta e ancora non riusciva ad essere del tutto tranquilla. Non voleva certo che i suoi genitori si lasciassero!
«Vedo che siamo poetici oggi, eh?» domandò Nnoitra prendendola in braccio.  Naoko si voltò a salutare Rin e Miyo, di fronte a loro.
«Ciao Rin, ciao Miyo. Io vado a casa.»
Nnoitra assottigliò lo sguardo. Quindi era quella Rin Ichimaru, la bambina che indirettamente gli aveva dato del delinquente. Non era colpa sua di certo, ma di quel maledetto di Gin, fedele cagnolino di Aizen, che sicuramente gli aveva parlato di lui in termini offensivi. La bambina in questione lo fissava con una certa suggestione, mentre Miyo invece era tranquilla e spigliata.
«Da quando siete amiche tu e quella ragazzina?» domandò alla figlia, la quale fece spallucce.
«È Miyo che l’ha fatta entrare nel nostro gruppo. Non è poi così antipatica, però non direi che è mia amica, è sempre un po’ snob. E poi ti ha offeso.»
«Non avercela troppo con lei per questo. I bambini imitano gli adulti.»
Neliel sollevò lo sguardo. Non aveva idea di cosa stessero parlando.
«Chi ti ha offeso?» domandò.
«Nessuno» disse Nnoitra, accoccolando Nao a sé. Non poteva affrontare più di una cosa per volta, non avrebbe retto.
 
Miyo era rimasta sconvolta di fronte la bellezza e la grandiosità della casa di Rin. Sembrava il set di un film, avevano perfino un maggiordomo ad accoglierli alla porta, una roba fuori di testa.
«È bellissimo qui. Ti prego, dimmi che hai anche una libreria gigante» mormorò con gli occhi spalancati.
«Sì, ne ho una in soggiorno» Rin la guidò proprio in soggiorno. Credeva che fossero sole, invece vi trovò sua madre che parlava con qualcuno. Un uomo che non conosceva.
Rangiku si entusiasmò non poco quando vide sua figlia in compagnia di una nuova amica.
«Oh, ciao bambolina. Come ti chiami? Mi sembri familiare»
Miyo fu incantata dalla bellezza ed eleganza di quella donna dai lunghi capelli biondi.
«Molto piacere di conoscerla signora, io sono Miyo Hirako.»
«Giusto! La figlia di Shinji e Hiyori, ma sei adorabile. Sono così felice che tu sia qui e…» solo in quel momento si ricordò di non farsi prendere dall’entusiasmo e, soprattutto, di presentare il suo ospite. «Kira, vieni un po’ qui. Dicevi di voler vedere Rin. Beh, eccola.»
La bambina era certa di non aver mai visto quell’uomo dai capelli biondi e dallo sguardo dolce e gentile. Però le piacque subito.
«Sei tu Rin? Non posso crederci, come ti sei fatta grande. Forse non ti ricordi di me, mi chiamo Izuru Kira, io e tuo padre eravamo molto amici» lui si era inginocchiato per guardarla negli occhi. Rin era arrossita e lo aveva inserito in automatico nella lista della gente che da grande avrebbe sposato.
«No, non mi ricordo, però è un piacere conoscerla di nuovo» disse timida, il che era una novità. Rangiku rise e poi raccomandò a sua figlia e alla sua amichetta di comportarsi bene, perché lei e Kira avevano qualcosa d’importante di cui parlare.
«Tua figlia è adorabile»
Rangiku si adagiò sul divano, in mezzo ai cuscini morbidi, e prese una coppia contenente sakè. Ne aveva offerta una anche a Kira, ma lui ne aveva bevuto appena un sorso, non era bravo a reggere l’alcol.
«Allora, amh… qual è il motivo per cui mi hai chiesto di venire qui? Non che non mi faccia piacere, anzi. È solo che è passato così tanto tempo.»
Izuru Kira era un uomo adorabile, sempre dolce e un po’ timido ed era stato per tanti anni il migliore amico di Gin, era stato anche il suo testimone di nozze. Ma frequentando Aizen, i due avevano finito con l’allontanarsi.
«Izuru» accarezzò il suo nome con affetto. «Non è giusto che ci siamo allontanati. Io ti voglio bene e te ne vuole anche Gin. Perché non tornate a frequentarvi? Tu sei la persona migliore che lui conosca. Eravamo tutti amici una volta!»
Kira arrossì e fissò la coppia di sakè.
«È dispiaciuto anche a me, ma Gin è impegnato e forse preferisce la compagnia di uno come Aizen.»
«Oh, io non riesco a sopportarlo!» esclamò la donna mettendosi seduta in modo più rigido. «Ha un’influenza pessima su di lui. Gin si sente in debito nei suoi confronti, è lui che l’ha aiutato a fare carriera. E sarà anche vero, ma rimane il fatto che una persona non può essere eternamente in debito, no? E poi lui vuole far sposare MIA figlia a suo figlio! Ma perché, santo cie-»
Kira aveva sgranato gli occhi e le aveva fatto segno di tacere.
«Ma questo è terribile. Ed è anche molto strano»
«Per l’appunto. Lui ha bisogno di frequentare gente per bene. E poi, qualcuno dovrà pur farlo ragionare, altrimenti giuro che lo uccido» Rangiku rideva e nel frattempo si era alzata, poggiandogli una mano sul viso per accarezzarla. Lei era sempre così, molto fisica. Kira invece era timido e poco abituato.
«E… e va bene dai, dopotutto cosa mi costa?» domandò con un tremitio nella voce. Stava poi per domandarle quando Gin sarebbe tornato, se era il caso di venire un altro giorno, quando lo sentirono rientrare in quel momento. Gin si fermò all’improvviso quando vide il suo amico di una vita che non frequentava da anni.
«Izuru Kira» mormorò serio e poi gli andò incontro, poggiando la valigetta sul tavolo e sorridendo. «Non ci posso credere.»
Kira sorrise e arrossì. Gin alla fine era sempre lo stesso. Sempre sorridente, divertito. A volte un po’ ambiguo.  
«Gin Ichimaru. Sono contento di rivederti» fece un inchino. Gin rise e poi lo tirò a sé in un abbraccio. Avevano una confidenza tale da potersi permettere quel genere di approccio. Rangiku nascose un sorriso dietro una mano.
«Gli ho chiesto io di venire. E ho fatto bene a quanto pare. Comunque penso che vogliate stare un po’ da soli» fece l’occhiolino a Kira e poi guardò suo marito, con uno sguardo che stavolta fu lui a non riuscire a comprendere fino in fondo.
 
 
Byakuya aveva appena finito il suo turno mattutino e per quanto fosse stanco (i pensieri notturni gli avevano fatto tornare l’insonnia) e nervoso all’idea di rivedere Renji, doveva comportarsi da persona matura e affrontare la situazione.
«Chissà perché non risponde» disse fra sé e sé, appena uscito dall’ufficio. Era già la terza chiamata persa, che il suo amico avesse cambiato idea? Si sarebbe sentito umiliato nel profondo in caso, ma non avrebbe comunque potuto dargli torto. Stava già per arrendersi a quell’evenienza quando sentì un rombo: Renji, con la sua chioma rossa, si stava accostando al marciapiede.
«Ciao» lo salutò. «Scusa, stavo guidando»
Byakuya fece scorrere lo sguardo sulla moto.
«Renji, cos’è questo mostro?»
«Ma che mostro, è la mia moto, finalmente l’ho aggiustata» disse col solito fare allegro. «Non dirmi che hai paura? Sono molto prudente alla guida.»
Byakuya aveva qualche dubbio, ma visto che stava imparando a superare i suoi limiti, si arrese e salì dietro di lui.
«Non farci ammazzare» sussurrò. Dovette per forza di cose stringersi a lui, avere un contatto fisico del genere dopo quanto successo non era ciò che si era immaginato, ma comunque non gli dispiacque. Anche se su una cosa Renji aveva mentito: la sua guida non era affatto non spericolata. Arrivarono a Shinjuku, e nonostante il freddo, c’era una gran folla, anche di turisti. In molti si aggiravano attorno alla statua LOVE per scattarsi foto. Un luogo davvero interessante, senza dubbio, ma Byakuya preferì non infierire, aveva altro a cui pensare.
«Allora, parliamo» disse Renji nervoso, sedendoglisi accanto. «Ma di cosa dobbiamo parlare?!»
«Del fatto che a quanto pare mi ami e io sono stato così cieco da non rendermene conto. E anche del fatto che mi hai detto delle cose che mi hanno dato da pensare.»
«Mph, ti ho detto che per quello mi dispiace, va bene?» disse Renji, un po’ goffo. «Io non posso capire quello che stai passando, è solo che ero esasperato e… e se proprio vogliamo parlare di qualcosa, cosa intendevi dire quando hai insinuato che forse ti piaccio?»
Byakuya arrossì, ma mantenne comunque la sua solita espressione seria.
«Io non mi sono mai immaginato accanto a nessuno dopo che Hisana se n’è andata. Ma da quando io e te ci siamo riavvicinati sono stato bene. E ho iniziato a immaginare un futuro un po’ diverso, intendo con te. Ma era solo un’immaginazione, appunto, perché noi eravamo solo amici e non pensavo tu provassi questo sentimento nei miei confronti. La cosa mi ha mandato in confusione, non perché sei un uomo, quello mi è indifferente. Ma perché non pensavo di poter accettare altro a parte il dolore.»
Byakuya era incredibilmente loquace. Renji stava andando a fuoco, ma si sentì ad un tratto così felice che lo avrebbe gridato al mondo intero.
«Io volevo andarci piano, davvero, ma ho capito che questa faccenda sfugge al mio controllo» rise, in imbarazzo, e si portò una mano tra i capelli. «Allora tu cosa vuoi fare? Credo che rimanere amici sarebbe un po’ strano.»
«Infatti non possiamo esserlo visto che mi ami da anni e che, anche se mi pare ancora assurdo, tu mi piaci. E…» abbassò la voce. «Forse possiamo provarci.»
Renji lo sentì a malapena e quasi cadde dalla panchina. Era così imbranato!
«Davvero? Provarci? Come coppia? Oh, merda. Cioè, bello eh, ma io non ero preparato. Forse dovrei stare zitto, sì sto zitto.»
Peggio di un adolescente. Le loro attenzioni furono ad un tratto attratte da due persone, una coppia forse che conoscevano piuttosto bene. Retsu Unohana, davanti alla statua LOVE, stava chiedendo a Zaraki Kenpachi di farle una foto e lui, tutto imbarazzo e scorbutico, stava cercando di scattarle. Forse si era accorto dei due che lo osservavano, perché stava palesemente fingendo di non vederli.
«Oh, oh, ma guarda un po’ tu che romantico Zaraki, sono commosso!» commentò Renji. Nel vederli e nel sentirli (e forse per tutta la situazione assurda e bella che si era venuta a creare) accadde una cosa straordinaria: Byakuya rise. Lui non rideva mai e quando lo faceva era sempre molto composto. Quella volta quasi faceva fatica a trattenersi.
«Che un fulmine mi colpisca. Byakuya, non ti vedevo ridere così da anni.»
«Per favore, non inferire» lui cercò di ricomporsi. «Va bene, allora. Facciamo questa cosa. Se non provo a camminare non potrò andare avanti.»
Sembrava veramente convinto e Renji finalmente poté tornare a respirare. Ci sarebbero andati piano. Avrebbe accettato qualsiasi condizione. Si schiarì la voce.
«Sì, bene, hai ragione. Umh… ma anche noi dovremo fare queste cose?» chiese indicando l’adorabile coppietta. Byakuya scosse la testa, perentorio.
«Assolutamente no.»
 
Dopo tanti anni, Momo aveva ritrovato la leggerezza e non se ne rendeva neanche corto. Suo figlio Hayato, invece, se n’era reso conto eccome. Lui adorava sua madre, era l’unica che fosse affettuosa nei suoi confronti. In genere era abituato a vederla triste, a vederla forzare sorrisi, a parlare sottovoce. Ora, addirittura la sentiva ridere, la vedeva sorridere e se ne andava per casa con gli occhi che brillavano e con un buon umore che avrebbe contagiato anche lui, se non fosse stato così arrabbiato. Se Momo stava così bene il merito era di quel ragazzo più giovane che con accortezza era entrato nella sua vita, facendole riscoprire tutto ciò che c’era di bello. Le aveva fatto venire voglia di riprendere a suonare: un pianoforte ce l’aveva, ma era sempre stato lì solo per decorazione. Invece, quel pomeriggio si era seduta e aveva preso a suonare qualcosa di allegro, con Hayato che la osservava stupito.
«Mamma, tu sei così brava. Ma da quando suoni il pianoforte?»
Lei sorrise. Oh, era stata così diversa un tempo. Prima del matrimonio, prima di quella vita spenta.
«Da molto prima che tu nascessi. Poi però ho smesso e adesso… adesso mi è venuta voglia di riprendere a suonare. Vieni a sederti accanto a me.»
Il ragazzino arrossì, ma si sedette comunque accanto a lei, osservando i tasti bianchi e neri.
«Tu sei felice, ora?» domandò e quella domanda improvvisa sorprese molto Momo.
«Io… sono felice sempre» mentì, senza guardarlo negli occhi.
«No, non è vero» Hayato scosse la testa. «Adesso sei diversa. Sei felice per davvero e questo mi piace. Cosa è successo?»
Momo avrebbe anche potuto dirgli che aveva un nuovo amico, ma sentiva che sarebbe stato inopportuno.
«Ho solo… pensato un po’ a me stessa. Suonare mi rende felice!» quella non era una bugia. «Chissà, magari sarei potuta diventare una musicista famosa. Ma a tuo padre non è mai piaciuta la mia indole da artista.»
Hayato s’imbronciò e poggi i gomiti sui tasti, producendo un rumore stonato.
«Lui non ci vuole bene. Io lo vedo e non capisco perché.»
Momo smise di sorridere. Forse suo figlio aveva più coraggio di lei ad ammettere certe cose ad alta voce. Allungò una mano, accarezzandogli i capelli.
«So che tuo padre può essere severo, ma vuole solo il meglio per te.»
«Sì, solo il meglio» borbottò lui. «Dice che devo farmi rispettare, ed è quello che faccio, però non ho nemmeno un amico. A parte Rin, ma non mi sopporta più nemmeno lei. E se divento come lui? Tutti che ne hanno paura o lo evitano.»
Momo capì a quel punto di essersi sbagliata in modo clamoroso. Accecata dall’amore, aveva sempre visto Hayato come un bambino perfetto (così come, acciecata dall’amore, aveva sempre visto Sosuke come un uomo perfetto), ma anche lui aveva i suoi piccoli tormenti, i suoi piccoli lati oscuri.
«Ascolta, caro» Momo gli afferrò il viso e lo guardò negli occhi. «Tu sei chi scegli di essere. Questo vale per tutti noi.»
Valeva anche per sé stessa. Aveva scelto di essere una donna remissiva, poteva scegliere di essere diversa. Di esigere il rispetto.
Sosuke se n’era rimasto chiuso nel suo studio per tutto il giorno. Era diventato ancora più assente del solito e Momo non capiva perché. Anzi, un sospetto lo aveva, ma non osava chiedere.
«Ma che fate?» domandò quando li vide seduti al piano. Hayato arrossì. Fu Momo a rispondere.
«Suonavo e lo stavo mostrando a nostro figlio.»
Si sorprese del suo stesso tono e forse si sorprese anche Sosuke.
«Capisco. Domani torno tardi, comunque.»
E dove sarebbe stata la novità? Momo si alzò, con la fronte corrugata. Improvvisamente le era venuta una gran voglia di dire quello che pensava.
«Non sei mai a casa per ora. Non è possibile che lavori così tanto, hai anche una famiglia. O c’è forse altro?»
Sosuke sospirò scocciato, poi guardò Hayato, facendogli segno con lo sguardo di andarsene. Il bambino non capì subito, perché i suoi genitori non discutevano. Suo padre diceva una cosa e sua madre ubbidiva.
«Hayato, esci» disse infatti all’improvviso. Hayato in realtà sarebbe voluto rimanere, aveva anche lui voglia di dire quello che pensava. Ma non era il momento. Momo era rimasta ad osservare suo marito con i pugni chiusi.
«Sosuke, dimmi la verità. Hai un’amante?» domandò. Era da tanti anni che aveva il sospetto, ma non aveva mai osato domandare nulla. Forse quella situazione era sempre andata bene anche a lei. Non sapere. Ma era quasi certo che Sosuke la tradisse. O l’avesse tradita, perché le cose ad un certo punto non erano più state le stesse.
«Momo, te ne prego» disse annoiato.
«No, io te ne prego. Non ti chiedo mai niente. A questo potresti rispondermi» era decisa. Allora il coraggio ce l’aveva, doveva solo imparare a tirarlo fuori. Aizen sospirò e si avvicinò a lei e guardandola negli occhi.
«Giuro che a parte te non c’è un’altra donna.»
E questa non era una bugia e Momo non avrebbe avuto motivo di sospettare che il suo amante fosse un uomo. Si rilassò appena e arrossì.
«E tu hai un amante?» chiese Sosuke all’improvviso, irrigidendosi. Momo non capì se interpretarlo come un segnale di gelosia o come il fatto che suo marito fosse troppo orgoglioso per accettare un tradimento dalla sua fedele moglie sempre pronta a venerarlo? Lei aveva un altro uomo? Non era stata a letto con nessuno, ma in compenso ciò che faceva con Toshiro era più intimo del sesso, più intimo di tutto. Arrossì e poi sorrise.
«No, non ce l’ho.»
Poi lui fece qualcosa di inaspettato. Le afferrò il viso e la baciò con passione, permettendole di dissipare tutti i suoi dubbi, di controllarla ancora una volta. E ci riuscì, ma solo in parte. Perché Momo aveva capito di meritare qualcosa di più.
 
Rukia che non si lamentava mai, Rukia che teneva sempre tutto dentro, a volte aveva bisogno di sfogarsi anche a lei. Non con Byakuya, che era impegnato con Renji e non avrebbe voluto disturbarlo, non con Ichigo, che era poi causa del suo malumore, ma con Orihime. Aveva avuto un paio d’ore di buca e Orihime, approfittando della chiusura pomeridiana della sua pasticceria, era andata a trovarla. Non le piaceva stare sola, aveva bisogno di parlare, e aveva avuto l’impressione che quella volta avessero bisogno di parlare entrambe.
«Ichigo è stressato, purtroppo temevo sarebbe successo» Rukia mangiava distrattamente un macaron, l’amica gliene aveva portato una confezione piena. «Credo che dovrà abituarsi, e dovremmo farlo entrambi, a questo stile di vita. Lui mi ha sempre sostenuto, ma ho l’impressione che le cose saranno più difficili adesso. Tu pensi che io sia un’egoista se voglio qualcosa per me?»
«Ma certo che non sei un egoista, Rukia» Orihime si passò una mano tra i capelli, stancamente. Rukia allora le sorrise, poggiando una mano sulla sua.
«Scusa, non volevo aggiungere il mio malumore al tuo. Come vanno le cose a casa?»
Sono diventata apatica. Mio marito a malapena mi sopporta, mia figlia è arrabbiata, ma con Ulquiorra almeno parla. Kiyoko nemmeno mi considera e io non riesco ad avvicinarmi a lei perché mi sento troppo in colpa.
«Con Ulquiorra le cose vanno… così» sussurrò. «Si è creata una freddezza tra di noi… e la colpa è tutta mia. Volevo così tanto – e voglio ancora una gravidanza – che ho finito col perdermi. E anche Kiyoko, lei è davvero convinta che non le vogliamo bene, che vogliamo sostituirla» Orihime sorrideva, ma i suoi occhi erano ricolmi di lacrime. «Non sono più brava a fare… questo. Forse mi sono spezzata, forse sono davvero malata.»
«Ehi» Rukia le diede un colpetto. «Anche se tu soffrissi di una qualche forma di depressione, non fartene una colpa, è una reazione normale. E dai Hime, tu sei sempre stata una ragazza forte e dolce, Ulquiorra lo sa. E lo sa anche Kiyoko.»
Orihime si asciugò una guancia su cui era scivolata una lacrima. Aveva forse spezzato anche le persone che amava, oltre che sé stessa? Perché se così fosse stato, non se lo sarebbe mai perdonato.
«Inoltre, volevo chiederti: Hai mai pensato a un’altra opzione?»
Orihime poggiò il viso sul tavolino, come se fosse stata colta da un sonno improvviso.
«Una volta in un film avevo visto di una coppia che ricorreva ad una madre surrogata, ma penso sarebbe troppo complicato. E ho pensato all’adozione, ma non saprei da dove iniziare, non so nemmeno se sarei idonea o capace.»
Rukia assunse un’espressione pensierosa. Aveva iniziato da troppo poco tempo a studiare in quel campo per atteggiarsi a esperta, ma voleva comunque aiutarla.
«Hai ragione, sono cose per cui ci vuole tempo. E all’affido hai mai pensato? Lo sai, ci sono un sacco di bambini e ragazzini che vivono situazioni terribili e avrebbero bisogno di una famiglia affidataria. Solo perché non puoi avere un figlio biologico, non vuol dire che non puoi essere una madre.»
Anche se sembrava stesse dormendo, Orihime stava ascoltando attentamente. Tutte quelle informazioni vorticavano nella sua testa.
«A questo in effetti non avevo pensato… oh, ma perché è tutto così difficile, accidenti! E se Ulquiorra mi lascia perché è stufo di me? Sono stupida, non penso più alla nostra relazione da tempo e…»
Rukia trovò Orihime molto tenera. Era sempre stata così, emotiva, anche molto allegra. E quella ragazza c’era ancora, aveva però ricevuto una batosta.
«Ma va, non accadrà. Ichigo, lui sì che mi mollerà» ci scherzò su. «Comunque, Hime… se senti che non ce la fai e che hai bisogno di aiuto… lo sai che non devi avere paura, vero?»
Orihime non avrebbe mai pensato che una come lei sarebbe potuta cadere in depressione. Anche se di ciò non era ancora certa, ma quasi. La breve uscita con Rukia però le aveva fatto bene e quando era tornata a casa aveva trovato Kiyoko tutta contenta con una macchina fotografica in mano, una di quelle piccole e coloratissime: era stato Sora a regalargliela così, senza un motivo preciso. Orihime avrebbe dovuto parlare anche con lei, con la sua bambina che ora si divertiva a scattare foto a qualsiasi cosa che attirasse il suo interesse. Ma prima aveva avuto bisogno di lui. Ulquiorra si era gettato sulla pittura per dar sfogo alla sua frustrazione ed era in quei momenti che dava vita alle sue produzioni migliori. Orihime era entrata nel suo laboratorio lentamente e lo aveva osservato per qualche istante.
«Ulqui…» lo chiamò sottovoce. Suo marito nel voltarsi si era sporcato la maglietta di colore.
«Hime» sussurrò. Lei gli si avvicinò e senza dire una parola lo abbracciò, scoppiando in un pianto silenzioso. Se davvero stava sprofondando, voleva quanto meno provare a risalire. Anche se le mancava l’aria, voleva provare a respirare.
Sentì l’aria mancarle un po’ meno quando Ulquiorra si rilassò e l’abbracciò.
«Va tutto bene» le disse. Orihime singhiozzò e lo guardò negli occhi. Si sentiva in colpa ed egoista, fragile e stupida. Spezzata a metà, ma allo stesso tempo col cuore traboccante. Strinsi i suoi capelli tra le dita e, ancora senza parlare, lo baciò come non faceva da tempo, sentendolo di nuovo. Ulquiorra chiuse gli occhi, fece cadere il pennello a terra e la strinse a sé più forte.
«Hime, ma…» tentò di dire. Lei gli posò le dita sulle labbra.
«Non ho nessun obiettivo, se non quello di stare bene» rispose, seria. Voleva lui e basta. Voleva loro e basta. E poi voleva provare a stare meglio, a recuperare i pezzi. Ulquiorra capì tutto questo, chiuse gli occhi e la baciò di nuovo.


Nota dell'autrice
E con questo capitolo siamo ufficialmente a metà storia. Alcune situazioni iniziano ad evolversi, altre sono ancora in una fase di stallo, ma non durerà molto. Come ho detto molte volte, su Nnoitra e la sua storia mi sono dedicata parecchio, storia che sarà costretto a raccontare adesso che è andato in terapia. Byakuya e Renji hanno una gioia? Sì, per ora. Momo invece sta iniziando a ribellarsi pure lei al sistema corrotto, anche se Aizen ha pure l'ardire di dire che la ama. E Orihime FINALMENTE sta lentamente iniziando a risalire. Spero che il capitolo vi sia piaciuto :*
Nao
   
 
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