Epilogo
Ci
siamo, cari lettori. Eccoci arrivati alla fine della lunga storia di Chiara e
Roberta, che mi hanno accompagnato in questi anni di transizione, con cui sono cresciuta,
e che lascio ora come mie coetanee, come amiche con cui mi sono confrontata,
formata e scontrata. Ho amato scrivere ogni capitolo di questa storia, ed ho
amato ricevere recensioni da ognuno di voi. Vi ringrazio per essere rimasti con
me tanto tempo. A presto, forse, con altre storie, con altri nomi. Mi farebbe
immensamente piacere.
Con
amore,
Deirbhile
**
Chiara era uscita
dall’ospedale con largo anticipo quel pomeriggio, dopo aver strappato al suo
capo reparto il permesso di andar via ad un orario decente, adducendo la
scusa piuttosto banale di una tubatura rotta e della necessità di gestire il
traffico degli operai nella nuova casa in ristrutturazione.
Il dottor Gelli,
dall’alto del suo compassato metro e ottanta, aveva accordato quel permesso con
silenziosa disapprovazione, mentre già Chiara faceva retro-front verso il
locale degli armadietti in cui gli specializzandi tenevano camici e cambi di
vestiti, con un sorriso trionfante in volto. L’afa di luglio riempiva le sale,
dava a tutti un’aria più fiacca, ma lei si sentiva elettrica, non riusciva a
stare ferma. Afferrando un paio di cartelle cliniche, fu più che felice di
avere davanti una sfilza di pazienti da controllare per quella mattina.
-
Allora, è oggi il giorno? – aveva chiesto Alice,
sua collega e compagna delle disavventure in reparto dall’inizio degli studi in
medicina.
Chiara aveva annuito,
sbattendo forte la porta del suo armadietto arrugginito, ed aggiustandosi i
capelli corti ad uno specchio antistante. Li aveva tagliati da poco, ma non ne
era convinta: le arrivavano sotto le orecchie, in una massa fulva di onde
spesso disordinate, che si passava da un lato all’altro del volto a seconda del
suo umore.
-
Fammi gli auguri, ti prego- aveva
sospirato, passando in rassegna alla pelle bianca delle sue guance, alle
occhiaie da sonno e alle ciocche scarmigliate da giornate di intenso lavoro –
vado via alle quattro, il generale mi ha accordato il permesso.
Alice aveva represso una
risatina, guardandosi intorno divertita.
-
Shh,
potrebbe sentirti! E poi che fine farebbe la tua futura carriera da primaria?
Chiara aveva alzato le
spalle, dirigendosi a grandi passi verso il corridoio, infilandosi il suo
candido camice da lavoro.
-
Ci sto quasi ripensando- aveva grugnito,
appuntandosi al petto un cartellino con su scritto Dott.ssa Chiara Torri,
specializzanda in psichiatria.
Ora, alle quattro e
dieci, lasciandosi alle spalle l’ospedale, non poté fare a meno di lasciarsi
andare a quel senso di piacevole panico che l’aveva pungolata durante tutto il
giorno. Nel piazzale antistante al policlinico, individuò la sua ammaccata Ford
magenta (eredità e regalo di Benedetta, che aveva dovuto separarsene per
ragioni pratiche ma era incline al sentimentalismo più conservatore), e fece
scattare le porte.
Si guardò ancora una volta
allo specchietto retrovisore. Il profilo asciutto, vagamente teso, gli occhi
lucenti contornati da un lievissimo strato di trucco. Avrebbe voluto tornare a
casa per cambiarsi, farsi una doccia e darsi una sistemata ai capelli, ma non
poteva rischiare di incontrare Roberta, di ritorno da lavoro. Avrebbe voluto
dirle tutto, prima ancora che vedesse la sorpresa, perché non ce la faceva più
a tenerle nascoste le continue incursioni nel suo laboratorio (col beneplacito
del socio di Roberta), le strane manovre ordinate agli operai che si stavano
occupando della loro nuova casa. Aveva in mente un grande piano per lasciarla
senza parole, e per rimediare agli ultimi mesi di assenze, ritardi, permanenze
ad oltranza in ospedale ed impegni mancati.
Per la buona riuscita del
tutto, però, c’era bisogno di discrezione e fuggevolezza. Aspetta ancora un po’,
pensò Chiara, non sapendo se si stesse rivolgendo a sé stessa o a Roberta, ne
varrà la pena. Discrezione e fuggevolezza. Cose in cui, pensò con uno
sbuffo, non era forse mai stata brava.
-
Pronto- disse ad una voce maschile al
cellulare, prima di mettere in moto - ci sono, sto passando ora. Avete liberato
tutto?
**
-
Allora, signor… Manzi- lesse
Roberta da dietro le sue lenti tonde, alzando un sopracciglio a quel cognome
familiare- che cosa ha scelto di approfondire in storia dell’arte?
Il
volto cereo di uno studente di quinta liceo le si parò davanti in una strana
inversione del tempo, come se d’un colpo anche lei avesse di nuovo diciotto
anni e si trovasse di fronte alla commissione del suo esame di maturità. Sperò
che quel pensiero non trapelasse, e cercò di rimanere impettita nel suo ruolo
di commissaria esterna, mentre pensava che con ironia in dieci anni era passata
dalla parte degli aguzzini senza nemmeno rendersene conto.
-
Ho scelto Picasso- balbettò lui, per poi
iniziare a sciorinare una serie di informazioni biografiche, in modo pedante e
quasi lamentoso.
Roberta alzò leggermente
gli occhi, preparandosi all’ennesima sfilza di domande che aveva già fatto quella
settimana. Cos’hanno tutti con Picasso? si chiese e, annoiandosi un po’,
fece finta di sbarrare meticolosamente i parametri di giudizio su un foglio
stampato.
Quando anche l’ultimo
candidato fu esaminato e la commissione fu prosciolta, uscì insieme ai suoi
colleghi per prendere un caffè e fare un giro nelle classi dei suoi alunni,
dell’istituto comprensivo dell’edificio accanto. Era sicura che stessero
facendo un buon lavoro, ma non poteva esimersi dal sentirsi un po’ tesa: era il
primo anno che una sua classe affrontava l’esame finale, ed in più senza lei
come commissaria interna, il che segretamente la preoccupava.
-
So che i tuoi ragazzi stanno facendo un
ottimo lavoro-
A quelle parole, quasi
evocate dai suoi stessi pensieri, Roberta si voltò e afferrò velocemente il
caffè pronto dal distributore automatico. Arrossì quando vide che si trattava
della professoressa Neri, Claudia, la collega di letteratura dell’altra
sezione. Quella donna aveva un che di magnetico, l’aveva sentita più volte
declamare insieme alle sue classi battute per il laboratorio di teatro antico,
e tutti a scuola – lei compresa – ne erano in qualche modo affascinati.
-
Beh, mi solleva sentirtelo dire. A dirti
la verità sono più in ansia io di loro- rispose, spostandosi di lato per lasciar
spazio alla collega.
Due monetine tintinnarono
nel distributore, un rumore meccanico e stridente annunciò l’arrivo di un altro
espresso decaffeinato.
-
Vedrai che andrà tutto bene. Sei stata
un’ottima insegnante per loro, lo sai. Mi hanno parlato molto della tua ultima
mostra. Li hai ispirati- disse casualmente la professoressa Neri, allungando
una mano inanellata ad afferrare il suo bicchiere.
La mostra che Chiara non
ha ancora visto, pensò con amarezza Roberta. Si avviò in
silenzio verso il cortile, mentre la collega la seguiva.
-
E hai ispirato anche me- continuò quella,
lanciandole un’occhiata piuttosto eloquente.
Roberta ingurgitò
imbarazzata il suo caffè. Nel silenzio del cortile rimbombavano le voci delle
ultime commissioni riunite in scrutinio, e sporadiche urla di esultanza da
parte di studenti che avevano concluso i loro colloqui.
-
Davvero?
Claudia strinse gli occhi
in un modo a metà fra il divertito e il sorpreso. Roberta fissò per un momento
i suoi bracciali tintinnanti, i suoi capelli bruni racconti in una crocchia, il
suo leggero vestito a fiori. Si sentì pervadere da un improvviso senso di
malinconia, prese un altro sorso fissando oltre i cancelli, dove le macchine
procedevano sonnolente.
-
Non dovresti dubitare del tuo talento-
Roberta pensò che avrebbe
dovuto sentirsi felice, perfino lusingata di quella avance non richiesta.
Eppure, sentiva qualcosa stridere nelle sue giornate, il meccanismo perfetto
della sua vita incepparsi di tanto in tanto, lasciandola sola, impantanata di
una palude di apatia per giorni interi.
Era un’insegnante
stimata, di tanto in tanto esponeva con vecchi amici di università nelle
gallerie dei centri vicini, aveva un minuscolo laboratorio che condivideva con
un collega artista, pagato con faticose ore extra dando lezione di disegno a
ragazzi delle medie. Negli ultimi mesi, però, si sentiva sempre più stanca,
sempre più irascibile: aveva l’impressione che Chiara le stesse sfuggendo, che
dietro i suoi folli orari di lavoro ci fosse qualcosa che non andasse nella
loro relazione, che si stessero perdendo. Si era gettata a capofitto nei suoi
progetti senza pensarci, ma le litigate gelide e le notti passate senza dormire
non erano diminuite, togliendole la poca energia che non impiegava nel suo
lavoro.
Non sei mai a casa, non
ti riconosco più, mi sembra di essere sola in questa relazione.
E le lacrime di Chiara, il suo stress, le sue levatacce la mattina, la sua inavvicinabilità
nei giorni con pazienti difficili. Tutto era diventato all’improvviso
insopportabile, sotto il peso dei ricordi malinconici di tempi migliori, di
quando si divertivano senza pensieri negli anni dell’università, nell’estate
dopo la loro laurea. Non è colpa mia se devo lavorare tanto, non puoi
capire, non sei tu che ci lavori in quell’ospedale. Nell’ultimo anno, le
cose erano andate gradatamente peggiorando: Chiara era sempre stata una ragazza
ambiziosa, ma ora sembrava totalmente fagocitata da un proposito di successo
quasi distruttivo. Roberta non riusciva bene a vedere a fondo nei suoi desideri,
ultimamente, ma qualcosa le diceva che quella frenesia e quell’ansia di
riuscire nascondessero in fondo un insistente senso di inadeguatezza. Il
circolo vizioso però non si spezzava, e loro due si allontanavano lentamente
ciascuna sulla propria orbita.
Dopo qualche convenevole
chiacchiera, Roberta salutò con un sorriso timido la collega e si allontanò,
lasciandola forse interdetta (aveva la netta impressione che Claudia ci
provasse con lei, di tanto in tanto), mentre si incamminava verso casa. Avrebbe
parlato ai suoi studenti un altro giorno. Si sentiva improvvisamente senza
energie, e non voleva farsi vedere così dai suoi amati alunni.
Pensava ai viaggi che
aveva condiviso con Chiara, alle avventure in vacanza in posti sperduti, di cui
non parlavano la lingua, alle cene che erano seguite quando aveva fatto coming
out con la sua famiglia, prima freddamente cordiali, poi gradualmente più
piacevoli. Ci erano voluti anni per costruire il futuro che volevano, anni di
duro lavoro, di solitudine, di distanza. Quando Chiara aveva superato il test
di medicina si era dovuta trasferire a cinque ore da casa, e Roberta aveva
deciso di affittare con altri due studenti di storia dell’arte un minuscolo
appartamento vicino alla migliore accademia delle belle arti nel paese, che da
lei ne distava tre in macchina. Avevano deciso senza difficoltà di separarsi,
in virtù di opportunità migliori, ma c’erano stati momenti difficili, in cui il
futuro della loro relazione era stato in bilico. Avevano sempre tenuto duro,
erano sempre riuscite ad andare avanti.
Adesso, però, da giovani
donne, si presentavano di fronte altre difficoltà: la convivenza, la monotonia,
le piccole scaramucce da coppia sposata, lati del loro carattere che venivano
fuori quasi per la prima volta, dettagli che prima erano sembrati
insignificanti e che ora assumevano una rilevanza quasi spaventosa. Le gelosie
insensate di Chiara (che serbava particolare rancore verso Claudia, a cui
Roberta sospettava si sentisse inferiore per chissà quale astrusa ragione), i
silenzi di Roberta, che non era capace di litigare ma solo scappar via per
restare finalmente in pace con sé stessa, le conseguenti prese di posizione di
Chiara, che non sopportava di lasciare una discussione a metà. E la casa nuova,
in cui avrebbero dovuto trasferirsi di lì a qualche mese, che aveva sempre
problemi e ritardi, le litigate per le sporadiche (ma ancora presenti)
ingerenze della famiglia di Roberta, per dove trascorrere le ferie, per chi
dovesse portare dal veterinario il gatto.
Roberta ripensò a tutte
queste cose, e, mentre girava le chiavi nella toppa di casa, le venne in mente
che era passato quasi un mese da quando lei e Chiara avevano fatto l’amore
l’ultima volta, e una morsa le prese lo stomaco, mentre desiderava che Claudia
fosse Chiara e Chiara Claudia, e che potessero tornare, almeno per un momento,
all’intensità dei loro primi corteggiamenti. Che potessero lasciarsi tutto alle
spalle, lavoro, responsabilità, ansie, e solo tornare- solo per un giorno- a
quando si vedevano di nascosto nelle roventi estati liceali. A quando si
scoprivano per la prima volta, a quando si volevano senza vedere nient’altro. Momenti
di stanchezza si alternavano a momenti di urgente bisogno che Chiara fosse con
lei, che non la lasciasse mai, che le promettesse che sarebbero state sempre
insieme.
-
Chiara, sei a casa?
L’ingresso era vuoto,
animato solo dal passo felpato del loro gatto grigio, un micione di otto chili,
che venne a salutarla strusciandosi contro le sue gambe.
-
Già- gli disse, - è a lavoro.
Attraversò a piedi scalzi
il salotto, sfiorando il parquet bucherellato e il tappeto persiano, mettendo a
posto qualche libro che il gatto aveva tirato giù dalla loro enorme libreria. Da
quanto tempo lei e Chiara non leggevano un po’ insieme?
Stava per prendere un
bicchiere d’acqua in cucina, ancora assorta in questi pensieri, quando un
foglio vergato a mano attirò la sua attenzione.
Quest’invito per
richiedere la sua partecipazione alla prima retrospettiva dell’artista Roberta
Della Corte, in data odierna, alle ore 18.00. E’
gradita conferma.
L’indirizzo indicato,
pensò aggrottando la fronte Roberta, era l’indirizzo della nuova casa.
-
Che strano- disse, -Qualcuno è in vena di
scherzi.
**
Chiara aveva appena
finito di sistemare l’ultima tela contro il muro immacolato, quando sentirono
dei rumori d’auto provenire dal cortile antistante. Gettò un’occhiata di panico
a Benedetta, che per l’occasione era tornata in città dalla provincia vicina –
dove lavorava come avvocato tributario in uno studio piuttosto conosciuto- e
pregò con gli occhi che, in caso di emergenza, sapesse come aiutarla a salvare
la situazione. Benedetta, d’altro lato, aveva sempre un asso nella manica.
-
Siamo pronte? - chiese alla sorella,
avvicinandosi con fare circospetto.
Tutt’attorno a loro, gli
operai che avevano duramente lavorato durante il giorno alla nuova casa si
stavano lentamente disperdendo, lasciando spazio a quella bizzarra mostra
d’arte improvvisata.
Alle parteti, prima
completamente spoglie, ora c’erano affissi disegni, quadri, schizzi di volti-
tutti inconfondibilmente recanti il marchio e la firma di Roberta.
-
Direi che qualche minuto e ci siamo. Come
vanno le luci? - domandò di rimando Chiara.
Benedetta fissò per un
momento Guido, il collega con cui Roberta divideva il laboratorio, che le diede
un’okay silenzioso. I primi faretti illuminarono la stanza vuota,
gettando fasci morbidi di luce sui disegni alle pareti.
-
Ci siamo. Vado a controllare che sia tutto
a posto fuori-
Chiara ringraziò mentalmente
la calma e l’efficienza di sua sorella maggiore e, dopo aver sistemato l’ultima
opera, si allontanò per fissarla per bene.
Era la raffigurazione,
con colori pastello tenui e delicati, di un paesaggio campestre stilizzato, con
alberi da frutto e un cielo azzurro puntellato di nuvole. Aveva sempre pensato
che Roberta avesse talento, ma evidentemente non si era mai resa conto di quanto
i suoi lavori avessero assunto un tono serio, professionale, un marchio
inconfondibile e riconoscibile dal tratto, dalle forme delicate, dai temi
ricorrenti. Guardandosi attorno, sorrise nel vedere come alcune cose- in
Roberta- non fossero mai cambiate: i primi disegni liceali, fra cui quelli che
lei stessa aveva scorto per la prima volta in gita a Vienna, avevano già il
segno di una mano precisa, consapevole, con un messaggio ben chiaro da
esprimere. C’era il pesco che aveva dipinto durante uno dei loro primi
pomeriggi insieme, mentre Chiara l’aveva osservata con il desiderio di
avvicinarsi e baciarla, quando avevano finito per cospargersi di colore con
sommo divertimento di entrambe. C’era persino il suo ritratto, quello che aveva
scorto nel buio la notte del loro primo bacio, quello contro cui Roberta
l’aveva spinta per avventarsi sulle sue labbra, durante la canzone di Bruno
Mars.
Roberta è un’artista,
pensò, e si rese conto di quanto ultimamente si fosse persa tanto di lei: le
sue lezioni, i suoi progetti sempre più estesi, con sempre più persone al
seguito, le sue idee improvvise nei fine settimana liberi. Da quando aveva
smesso di dipingere in casa ed aveva affittato uno studio tutto suo, si era
quasi sentita privata di quell’armonia che Roberta dava agli spazi, quella
calma profonda che infondeva all’ambiente ogni qual volta stesse lavorando ad una
nuova tela.
Finalmente, quando tutto
fu pronto, tirò un sospiro di sollievo, e vide Benedetta invitare le prime
persone arrivate ad entrare, indicando loro un piccolo rinfresco, muovendosi
con eleganza nella stanza vuota adibita a mostra. Tutt’attorno, i lavori di
Roberta brillavano, facevano da veri protagonisti. Guido aveva fatto un ottimo
lavoro come allestitore.
I colleghi di scuola e di
lavoro di Roberta iniziavano a disporsi con curiosità attorno ai quadri,
commentando le luci soffuse, la bellezza del tramonto che entrava dalle
finestre senza vetri, che dava a tutto un’aura più essenziale, più austera.
Chiara notò che c’era anche Claudia Neri, la professoressa di lettere, e cercò
di non storcere la bocca quando quella iniziò a girare attorno ai disegni della
sua compagna come se ne fosse ipnotizzata. In fondo, si disse, non
posso biasimarla.
E poi, dopo qualche
minuto, eccola.
Roberta arrivò trafelata,
con le chiavi della macchina ancora in mano e la camicia con cui era uscita
quella mattina, i capelli neri tenuti da un lato, un lieve strato di sudore
sulla fronte bianca. A Chiara venne in mente quando, il primo giorno di scuola
del loro quinto anno, era entrata con la stessa impacciata foga in classe: la
sua aria da eroina greca, quei magnetici occhi blu, non l’aveva mai
abbandonata.
Quando la vide, al centro
della stanza, Roberta sembrò bloccarsi e realizzare, improvvisamente, quello
che stava succedendo.
Fu allora che Chiara
parlò, sentendo il cuore che le batteva furiosamente in petto.
-
Benvenuti alla prima retrospettiva di
Roberta Della Corte, - esordì, richiamando l’attenzione del pubblico con voce
squillante, - artista di cui ho avuto la fortuna di scoprire i primi lavori
dieci anni fa, quando eravamo compagne di liceo. Da allora, non ha mai smesso
di stupirci. Grazie, Roberta, per essere una persona meravigliosa e d’ispirazione
continua.
Le andò vicino, vedendo
che aveva gli occhi evidentemente lucidi, mentre tutti applaudivano.
-
Ti amo - aggiunse. E la baciò
delicatamente su una guancia, indicandole timida, con una mano tremante, la
sala allestita.
**
-
Ma ti ricordi quando ci siamo baciate per
la prima volta? –
La voce molle di Chiara
risuonò nella loro stanza da letto come un’eco morbida, come se fossero sul
fondo di un lago. Dalla finestra, entravano i pigri rumori della notte
d’estate, il frinire dei grilli del giardino comunale e, di tanto in tanto, il
verso dei cani dei vicini, che facevano tremare di paura il loro grosso gatto
fifone. Roberta se ne stava distesa sul fianco, in silenzio, accarezzando
lievemente la schiena nuda della sua compagna.
-
Certo che me lo ricordo. Ti ho sempre
mentito, quando ti dicevo di non ricordarmi nulla di
quella notte.
Chiara rise divertita,
fissando su di lei un paio di occhi irriverenti, di finto biasimo.
-
Quando hai bussato alla mia porta, la
mattina successiva, ero terrorizzata. Mi sono detta Oddio, che succede se si
ricorda tutto? Mi batteva così tanto il cuore che stavo per svenire dal
panico.
Roberta roteò gli occhi,
dandone della drammatica. Poi prese ad accarezzarla con più delicatezza
il collo, la radice dei corti capelli rossi, le clavicole.
-
Avevamo diciotto anni- sospirò, rapita,
fissandola negli occhi senza nessun’altra emozione nella voce se non una
placida, soddisfatta calma.
-
Diciassette.
Risero e si avvicinarono,
facendo frusciare le lenzuola.
-
Mi dispiace tanto, per tutto quello che è
successo fra di noi negli ultimi tempi. Quando ho visto Claudia mi sono detta
che sono tanto fortunata ad averti, è evidente quanto quella donna ti voglia-
disse Chiara, non senza una nota di fastidio.
-
È un peccato allora che io voglia solo te.
Chiara la guardò, con
un’improvvisa tenerezza, e le sorrise abbassando gli occhi.
-
Non litighiamo mai più, per favore-
mormorò, stringendosi a lei, nascondendo la testa fra i suoi capelli.
Roberta
le diede un lieve bacio sulla fronte.
-
Te lo prometto, almeno fino a domani.
Chiara le diede uno
schiaffetto e rise. Poi, dopo un attimo di silenzio, si avvicinò per baciarla
delicatamente sul collo, risalendo la linea della sua mascella, avvicinandosi
lentamente alle sue labbra rosse. Con uno scatto, si portò su di lei e, facendo
scivolare via le lenzuola, si avvicinò al suo visò finché i suoi capelli non
sfiorarono le sue spalle nude. Roberta sospirò e Chiara riprese a baciarla più
avidamente, cercando le sue mani per stringerle, scoprendo leggermente i denti
sulla sua pelle delicata e lasciandole una scia di segni.
-
E questo?
-
Sono una donna gelosa, lo sai- si alzò,
con un’espressione maliziosa, per poi essere ritrascinata giù fra le braccia di
Roberta.