In the still of the night
43.
La
stanza in cui ho trascorso i giorni precedenti i miei due Hunger Games, quella
al Centro di Addestramento, diventa il luogo in cui trascorro la mia prigionia.
È una prigionia, non saprei in che altro modo descriverla altrimenti. Potrei
chiedere a Peeta se anche lui, all’inizio, era stato trattato nello stesso modo
in cui vengo trattata io, ma Peeta non è qui. Non so dov’è. Non so nulla. Da
quando sono qui, non mi hanno più messa al corrente di nulla.
Mi
hanno condotta qui, mi hanno fatta entrare nella stanza spoglia e semibuia e se
ne sono andati, chiudendo a chiave la porta alle loro spalle. Mi hanno lasciata
qui senza dirmi cosa dovevo fare, se avessi dovuto aspettare qualcuno, senza
sapere se qualcuno sarebbe giunto per somministrarmi la stessa medicina che io
ho riservato alla Coin. Seduta sul letto, avvolta ancora nella mia uniforme da
Ghiandaia Imitatrice, ho atteso un movimento. Ho atteso un rumore, ho atteso un
segnale, ho atteso un qualsiasi cambiamento che potesse avvertirmi di ciò che i
minuti seguenti, le ore seguenti, o i giorni seguenti mi avrebbero riservato.
Ma non è arrivato nulla. Sono rimasta ore ad aspettare, ma non è giunto
nessuno. Sono stata ignorata. Ignorata come ho desiderato così ardentemente nelle
ultime settimane. E adesso che lo stanno facendo, vorrei che accadesse il
contrario. Vorrei che qualcuno venisse a parlarmi.
Ho
trascorso giorni interi vestita solamente di un accappatoio di carta, dopo che
ho tolto l’uniforme per fare la doccia. L’uniforme è sparita, raccolta e
portata via da qualcuno che non sono riuscita a vedere e neanche a sentire. Non
ho altri vestiti all’infuori di questo accappatoio, e là fuori sicuramente
pensano che non abbia bisogno di altro. Cosa se ne fa una ragazza imprigionata
di un guardaroba pieno di abiti? Non posso uscire, comunque, la porta è chiusa
a chiave. Le finestre sono sbarrate e siamo troppo in alto per poterle usare
come via di fuga. L’unica fuga che potrei trovare da quest’altezza sarebbe
tramite suicidio.
Non
che non ci abbia già pensato… ma come avrei potuto suicidarmi qui dentro? Non
ho niente con cui suicidarmi. Niente armi, niente vestiti, niente cinture.
L’unica cintura che ho è quella dell’accappatoio, e si è strappata subito
appena ho provato a realizzare un cappio, così adesso ho un accappatoio che
resta sempre aperto e che mostra a chiunque mi spii la mia nudità, ma non mi
interessa. Che guardino pure. Le medicine che mi mandano ogni giorno
insieme al cibo sono inutili, e non mi garantiscono una dose letale con cui
morire. Neanche se le accumulassi potrei trovare la morte. E lì fuori, chiunque
mi stia sorvegliando si guarda bene dal mandarmi medicinali pericolosi. Vorrei
un bel veleno, adesso. Un veleno farebbe proprio al caso mio.
Quando
le medicine, i veleni e gli altri metodi di suicidio scarseggiano, metto in
atto un'altra soluzione: inizio una specie di sciopero della fame. Assaggio appena
la porzione di cibo che mi mandano, fino al giorno in cui smetto di fare anche
questo. Bevo sempre meno acqua. Mi lascio, a poco a poco, morire di fame. Gli
effetti cominciano a vedersi notevolmente quando sono trascorse almeno due settimane:
le ho contate. Conto i giorni che trascorrono da quando ho iniziato. Le costole
sono evidentissime, le ossa del bacino sporgono dai fianchi e sento di essere
più magra dei giorni trascorsi nell’arena, ancora più magra dei giorni e dei
mesi che affrontai quando morì papà, quando la mia famiglia rischiò di morire
di fame. E forse, stavolta, ci riesco davvero. Morirò di fame.
Sono
così debole da non riuscire più ad alzarmi dal materasso. Striscio lungo il
pavimento quando devo andare in bagno, e quando faccio la doccia mi limito a
stare seduta sulle piastrelle, e lascio che l’acqua scorra lungo il mio corpo
magro. Non ho altra compagnia all’infuori di me stessa. Questa compagnia
potrebbe terminare presto, forse è questione di pochi giorni prima che
sopraggiunga la morte. Sento che, morendo, potrei trovare quella felicità che
non sono riuscita a trovare da nessun’altra parte. Solo con Peeta ci stavo
riuscendo, ma poi è tornato Snow. Sono tornati gli Hunger Games, ed è arrivata
la guerra. Ed io ho perso tutto. L’illusione di felicità è svanita con Prim,
con Lilac…
Ho
le labbra secche, la bocca asciutta. Le palpebre si aprono e chiudono con gesti
automatici mentre fisso, senza guardarla veramente, la finestra bianca da cui
vedo cadere i fiocchi di neve. I graffi sulla parete, i graffi che ho smesso di
fare giorni fa, sono trentatré. Sono in questa stanza da almeno trentatré
giorni. Non so per quanti altri giorni dovrò restarci, ma spero che terminino
molto prima che possa scoprirlo da sola.
Realizzo
tardi, troppo tardi che, se sono trascorsi trentatré giorni e più da quando
sono qui, gennaio è finito da un pezzo. Siamo già a febbraio, febbraio
inoltrato. Il sedici gennaio è passato da tempo. Il sedici gennaio… è il giorno
del compleanno di Peeta.
Peeta
ha compiuto diciotto anni.
Diciotto
anni: è un’età importante. L’età in cui diventi maggiorenne e smetti di essere
un ragazzo costretto a presenziare alla mietitura. Peeta è salvo, ora, non
dovrà più partecipare alla mietitura. Ma era già salvo in precedenza, essendo
un vincitore. Ma essere un vincitore non gli ha risparmiato l’Edizione della
Memoria. Essere un vincitore non ha risparmiato nessuno dei due. E non ha
risparmiato me, non mi ha esonerato dal portare mia figlia non ancora nata
dritta nelle fauci della morte. Sono stata io a consegnare mia figlia alla
morte.
Non
riesco neanche a ruotare sul materasso. Resto immobile, un braccio steso sulla
pancia nuda, quella pancia che si era gonfiata per ospitare una vita innocente,
una vita che non desideravo ma che è arrivata come un fulmine a ciel sereno a
rischiarare la mia, di vita, che stava per giungere al termine. E scopro di
avere ancora acqua nel mio corpo, acqua necessaria alla mia sopravvivenza,
quando inizio a piangere per quella vita che mi è stata strappata troppo
presto, quella vita che non sono riuscita a proteggere. Quella vita che ho
amato anche se mi costringevo a non amare, perché sapevo che sarebbe stato
difficile e doloroso lasciarla andare quando sarebbe arrivato il momento di
farlo. Ho scoperto che avevo ragione: è stato difficile ed è stato doloroso, è
stato straziante sapere di averla perduta. Lei era così pura e così bella… sì,
bella. Anche se non ho mai visto il suo viso, so che era bella. Era bella come
il fiore di lillà.
Era
come un raggio di sole.
- You are my sunshine, my only sunshine… - mi
esce dalle labbra. È un soffio così flebile, così debole,
che quasi non lo sento. È una canzone così vecchia, quella che mi è tornata in
mente, da non riuscire a ricordare dove io l’abbia sentita la prima volta. Ma
la canto, e la canto nonostante la mia voce sia debole ed il mio fiato sia
corto nei miei polmoni, perché scopro che cantare mi fa sentire meglio. Cantare
mi aiuterà ad affrontare le mie ultime ore di vita sulla terra. Voglio che i
miei ultimi giorni di vita sulla terra siano all’insegna della musica. Perché
come mi disse una volta Rue, in un tempo lontano che quasi non ricordo di aver
vissuto, la musica è la cosa più bella che esista al mondo.
- You make me happy when skies are gray
You’ll never know dear, how much I love you
Please don’t take my sunshine away…
Ho
cantato per alleviare le mie ultime ore di vita sulla terra, ma a quanto pare
la terra non ha alcuna intenzione di lasciarmi morire. Le persone che sono qui
fuori non hanno alcuna intenzione di lasciarmi morire. Lo capisco quando, dopo
almeno trentatré giorni di prigionia, la porta della stanza in cui sono
rinchiusa si spalanca. La luce invade la soglia della porta, una sagoma scura
entra e si avvicina fino ad arrivare davanti a me, che sono stesa e seminuda
sul letto. Una mano, calda e grande, si posa sulla mia, che tengo ancora
premuta sulla mia pancia vuota.
-
Ciao, dolcezza – dice la voce che appartiene alla sagoma scura. – Forza. Io
e te torniamo a casa.
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Saaalve dolcezze!
Vi chiedo scusa per l’ennesimo
ritardo con cui aggiorno la storia. Sono, al solito, ingiustificabile. Se siete
arrivati a leggere fino a qui vi ringrazio molto, soprattutto dopo tutto questo
tempo ♥
Vi ho lasciato un capitolo molto
corto, è vero, ma per quanto ci provassi non sono riuscita ad andare oltre
queste poche pagine. Non succede poi molto, e in qualche modo riflettono le
stesse cose che avevamo già letto ne Il canto della rivolta. Il prossimo
capitolo sarà più lungo, e dovrebbe arrivare anche presto perché è già scritto
;)
Ecco, a tal riguardo: non manca
molto, ormai. Ci stiamo avviando alla conclusione e da una parte non voglio che
finisca ç_____ç sarà per questo che aggiorno con così tanto ritardo? Chi lo sa!
A presto, prestissimo! Vi voglio
bene ♥
D.