Anime & Manga > Lady Oscar
Segui la storia  |       
Autore: settembre17    24/06/2022    16 recensioni
Si parte dalla liberazione dei soldati, ma si torna anche un po’ indietro e si va avanti. Fino a che punto? Si vedrà. L’avvertimento è uno solo: tutto quello che troverete forzato è spudoratamente e volutamente forzato!
“E sento di essere un uomo. Penso che un uomo sia una cosa molto importante, forse più importante di una stella. Questa non è teologia. Non mi sento portato agli dèi. Ma provo un nuovo amore per quello scintillante strumento che è l’anima umana. È una cosa bella e unica nell’universo”.
(J. Steinbeck, La Valle dell’Eden)
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, Altri, André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Portate pazienza perché ancora per qualche capitolo si procede su due piani temporali: il primo va dal 23 giugno (data dell’accusa di tradimento) al 30 giugno (la liberazione dei soldati), il secondo dal 30 giugno in avanti.
Un grazie di cuore a tutti voi che leggete!
Sett.
 

Una questione

 
24 giugno 1789
 
Quella mattina, dopo aver salutato Bernard, sentiva finalmente un po’ di pace e una speranza per la sorte di suoi soldati. Era sempre stata così, lei: doveva dare concretezza ai suoi pensieri per sentirsi a posto. Non le bastava pensare, lei doveva agire. Era fatta così. Benché solo la sera prima avesse rischiato di morire per mano di suo padre, benché la sera prima fosse stata a un soffio da rivelare il segreto del suo cuore davanti a tutti, più forte in lei era stato il senso del dovere, la responsabilità che avvertiva per la sorte dei suoi soldati.
Così, accantonando tutto, si era concentrata su una strategia che li potesse salvare. Poi, una volta presa la decisione di chiedere aiuto a Bernard, aveva contato i minuti che la separavano da quell’incontro.
Certo, aveva lasciato in sospeso la questione che più sentiva premere nel suo cuore, ma non perché fosse secondaria, piuttosto perché in un qualche modo confuso sentiva che quella questione meritava tutte le sue forze, tutta la sua concentrazione, tutta sé stessa senza distrazioni.
 
Così quando finalmente, vestita in borghese per non dare nell’occhio e con un cappello a larghe falde calcato sul capo, si era seduta in una taverna deserta di fronte a Bernard, aveva visto il suo piano prendere forma e consistenza: si trattava di radunare una folla intorno alla prigione dell’Abbazia, di far capire allo Stato maggiore dell’esercito e ai sovrani che, se i dodici soldati non fossero stati liberati, quella folla avrebbe potuto essere pericolosa. Molto pericolosa. Lei avrebbe garantito l’ordine, Bernard avrebbe coinvolto il popolo.
Lei e Bernard si erano stretti la mano, poi lui aveva buttato là:
“Mi piacerebbe molto che una testa come la tua lavorasse per noi”.
Lei aveva fatto uno di quei sorrisi enigmatici da Monna Lisa e aveva così nascosto un istintivo disagio per quell’uscita. Noi chi?, si era chiesta per un istante. E poi: perché quando vedeva Bernard, nonostante lui le dimostrasse un’aperta amicizia, arrivava sempre un momento in cui avvertiva in sé stessa, in lontananza, un’ombra di diffidenza, quasi di muto rancore? Forse perché trasferiva su Bernard la diffidenza che nutriva verso Robespierre che di Bernard era il mentore e il riferimento politico? O perché non riusciva mai del tutto a passare oltre, a superare il fatto che da lui dipendeva la cecità di André?
 
In ogni caso ora si trattava solo di aspettare. Bernard aveva detto che avrebbe organizzato tutto in modo da passare all’azione entro qualche giorno: ci voleva tempo per informare Robespierre e gli altri, per parlare al popolo e per convincere una sufficiente quantità di persone a radunarsi intorno alla prigione per chiedere a gran voce la liberazione dei dodici soldati. Ripassò mentalmente il piano: lei avrebbe garantito l’ordine, ma sarebbe stata veloce a comunicare allo stato maggiore quando quell’ordine sarebbe stato minacciato. A quel punto, così lei confidava, piuttosto che rischiare una sommossa e dare un ulteriore pretesto alla furia popolare, i soldati sarebbero stati rilasciati.
Un azzardo?
Si passò la mano sulla fronte: ancora quello strano sudore freddo… ebbe un brivido che attribuì agli eventi delle ultime ore.
Per cacciare i brutti pensieri si mise a camminare senza una meta, infilando vicoli rumorosi e sporchi, allontanandosi dalle strade principali, perdendosi volutamente nei meandri della città, come se fosse possibile, per qualche momento, non essere lei.
 
Ora che il destino dei suoi soldati non era più nelle sue mani, mentre i rumori della strada si attutivano e venivano relegati nella sua coscienza a un brusio indistinto di sottofondo, quella questione gigantesca, quella che la sera prima era quasi esplosa nello studio di suo padre, la assediava da ogni parte. E più lei la soffocava e fingeva di ignorarla,
lo sto facendo da mesi, o forse addirittura… da anni…
subordinandola sempre a qualcos’altro, al suo dovere, alle incombenze, alla politica, alla Francia, più quella questione era sempre lì: immobile e paziente aspettava, ben acquattata intorno alle pareti del suo cuore. Bastava un momento di incoscienza, di stanchezza, di debolezza, che quella invadeva tutti i suoi sensi con una prepotenza ogni volta maggiore.
Quella questione, da mesi lo ammetteva senza finzioni, aveva il nome di André Grandier, il nome che da sempre era l’eco di qualunque azione lei compisse, di qualunque emozione lei provasse.
 
Svoltò in una stradina in salita e, una volta arrivata in cima, si fermò a guardare indietro la Senna che scorreva placida sotto di lei. Aveva il fiato un po’ corto, in effetti: del resto erano giorni che non si riposava decentemente. E poi il sole che impietoso batteva sulle strade ancora allagate dal temporale della notte prima non faceva che rendere l’aria soffocante, il respiro corto. Pareva di respirare gocce d’acqua insieme all’aria; avvertì per un istante il desiderio di respirare con la bocca, come un pesce che boccheggia.
Tornò con il pensiero a lui.
Sapeva di dover affrontare quella questione, anzi, voleva affrontarla, e l’avrebbe fatto, certo che l’avrebbe fatto. Quando i suoi soldati sarebbero stati al sicuro... In fondo si trattava solo di qualche giorno…
Calciò un ciottolo verso il lato del vicolo e si riparò all’ombra di un grande lenzuolo steso sopra di lei e immobile nell’aria ferma.
Assaporò con languore l’assenza di André: quando lui era lontano era dolce desiderarlo vicino, l’aveva provato tante volte negli ultimi tempi.
 
Quella questione, rifletté cercando di tornare alla razionalità, era decisamente… grande. Grande. Troppo grande.
Era una cosa da affrontare senza altre distrazioni, era una cosa che avrebbe risucchiato e annullato tutto il resto. E lei proprio non poteva, in quel momento, permettersi di annullare tutto il resto. Lei aveva delle responsabilità, responsabilità verso altre persone. Non è che non affrontava quella questione per paura, no! Paura di che cosa, poi? No, no. Lei voleva, voleva da mesi affrontarla, ma farlo avrebbe voluto dire mettere sé stessa davanti a tutto e a tutti, mettere quello che voleva al primo posto, voleva dire spostare il suo dovere in secondo piano. E lei non era così, non era mai stata così.
Anche la sera prima…, dio! Aveva dovuto aggrapparsi al tavolo e conficcare le unghie nel legno per non correre ad abbracciarlo, a sollevarlo da terra, a urlare davanti a suo padre quanto lo amava! E se non fosse arrivato quel messo l’avrebbe fatto, perché suo padre stava per uccidere André. Stava per compiere l’unico gesto che mai, mai, lei gli avrebbe perdonato.
 
Sentì un brivido sulla schiena sudata. Si bagnò le labbra e le morsicò per far affluire un po’ di sangue, di sicuro dovevano essere bianche.
Poi si incamminò di nuovo scendendo in direzione del Louvre, ma lasciandosi inghiottire da strade mai viste prima, seguendo solo il filo dei suoi pensieri e i battiti del suo cuore.
L’unica certezza che la confortava era che, in tutto quel contorto ammasso di rovi che era la sua vita, André era ancora capace di scorgere una rosa.
Ma come fai, André? Come ci riesci?
Sentì che la commozione stava per avere il sopravvento e il suo cuore si colmò di una muta gratitudine. Anche se non si erano detti una parola, la sera prima, André aveva capito il suo silenzio. Ne era certa. Non doveva spiegare ad André perché aveva taciuto, perché non aveva risposto alla sua dichiarazione con un’altra dichiarazione. No, André sapeva. André sapeva e capiva. Sì, era così.
“Ancora qualche giorno, una volta liberi i soldati”, mormorò.
Si lasciò andare al pensiero di essere baciata da André. Le capitava spesso ultimamente.
 
Ma poi un colpo di tosse improvviso la riportò alla realtà e lei sentì ogni sogno sfasciarsi.
Non c’è nessun futuro per noi, André!
L’amore tra una nobile e un uomo del popolo! Come avrebbero potuto gestire il loro amore nel mondo, nel tempo, nella società in cui vivevano? Impossibile! Che cosa aveva detto suo padre? “Un nobile per sposarsi deve chiedere il permesso al re!”: un’assurdità, certo, ma quella era anche la verità. Un dato di fatto. Ma che cosa stava vagheggiando lei? Che cosa si immaginava?
Non c’è via d’uscita, André…
 
E poi…, un groppo nella gola si mischiava al sapore ferroso della sua saliva, … e poi lei stava male. E André non doveva saperlo, non doveva.
Sarebbe andata da Lassonne. Sì, aveva bisogno di un responso, di un verdetto, di una sentenza. Aveva bisogno di sentire la parola formata da quelle quattro lettere che ogni sera le danzavano beffarde e orribili davanti agli occhi, quelle lettere che le facevano terrore e che falciavano ogni sogno, ogni futuro.
 
t-i-s-i
 
Fu allora, quando ancora stava elencando per la millesima volta i sintomi che la portavano dritta a quel pensiero, fu allora che alzò lo sguardo nella piazza in cui sbucava il vicolo in cui si era fermata.
Qualche tempo dopo si sarebbe chiesta se quel suo vagare senza meta fosse in realtà un modo astuto della sorte di portarla proprio lì. Un segno del destino.
Si ritrovò infatti in una piazza che non vedeva da anni, di fronte a una chiesa maestosa che lei e André avevano visitato da bambini: la chiesa di Saint-Eustache.
 
La prima volta che André ha visto Parigi…
Il generale aveva portato entrambi in quella chiesa imponente a visitare, oltre alla celebre tomba di Colbert, il sacro luogo dove un piccolo Luigi XIV aveva ricevuto la sua prima comunione, e ancora il sepolcro di ammiragli e generali che avevano fatto la storia della Francia: “Ricordi, Oscar?, qui è stato pronunciato il discorso funebre per il Grand Turenne!”, aveva esclamato il generale gonfiando il petto.
La prima volta di André a Parigi…
Erano passati poco meno di trent’anni da quel giorno e la sua memoria, nello sbucare in quella piazza assolata, risvegliatasi come da un sonno profondo, riusciva a disegnare solo immagini slegate e dai contorni sbiaditi: vie, piazze, giardini, chiese, ponti che si susseguono alla rinfusa nel sobbalzare allegro della carrozza scoperta e, nitidissimo, il ricordo del volto di André, la bocca socchiusa per lo stupore e gli occhi sgranati e attenti che paiono attratti da persone indaffarate, bambini che giocano; voci, suoni, odori che tutti insieme gli dipingono sul volto espressioni buffe e stupite.
André, a Parigi.
 
Nemmeno se ne accorge, ora, che sta sorridendo e arrossendo, lì nella piazza, e che quel rossore e quel sorriso la rivelano al vecchio fioraio come una donna:
Mademoiselle, prego! Un bel mazzo di fiordalisi? Paiono del colore dei vostri occhi!”, mostra pochi denti e tante gengive in un sorriso cortese e allegro.
“Che cosa? io… oh, no, no, grazie… davvero… no”, è così imbarazzata, all’improvviso.
“Come volete, mademoiselle”, le fa un inchino traballante e indietreggia fino al banchino di fiori.
Lei resta allora a guardare lo spettacolo di quella piazza, quella chiesa e la sua facciata, le vetrate colorate che catturano i raggi del sole e lo restituiscono al selciato che pare colore dell’oro, e ricorda ancora una cosa, piccola davvero: un André bambino con il naso all’insù che mormora estasiato: “Mi pare di essere nel posto più luminoso del mondo!”
 
“Scusate, monsieur, scusate…”, venne bruscamente riportata al presente dalla voce di un giovane.
Si spostò contro il muro di un caseggiato sulla destra della facciata della chiesa per lasciar passare due ragazzi intenti a trasportare una pesante scrivania su un carro parcheggiato lì vicino.
Dopo averla faticosamente issata tornarono verso l’androne dell’edificio a lato della chiesa, un caseggiato signorile con i tetti spioventi in ardesia che ricordavano quelli di place des Vosges, di quel blu grigiastro che sotto il sole battente pare quasi azzurro; l’ombra li inghiottì solo per qualche istante, poi ne uscirono reggendo casse di legno:
“Mi viene il magone se penso che ce ne torniamo a casa…” disse uno che portava al collo un vivace fazzoletto giallo.
“Già, ma vivere qui a Parigi sta diventando pericoloso, Luc. È meglio tornare a Issy-l’Évêque, dammi retta”.
“A Issy di sicuro non succede niente!” disse Luc con aria delusa.
“Può darsi, ma almeno si beve bene!”
I due scoppiarono in una risata e si avviarono di nuovo verso l’androne dove li aspettava un uomo anziano, magro e un po’ curvo, vestito con cura e di tutto punto nonostante il caldo. Non portava la parrucca e teneva quel che restava dei suoi capelli pettinati all’indietro, dalla fronte verso la nuca, il naso era pronunciato ma dal profilo dritto e nella sua postura leggermente protesa in avanti, nel suo sguardo che seguiva l’andirivieni concitato dei due ragazzi, Oscar lesse la bontà dei vecchi, la bontà che un po’ si vergogna di sé stessa e si nasconde dietro gesti bruschi.
Senza pensare a quello che stava facendo, si staccò dal muro della casa sull’altro lato della via e avanzò verso quel gruppo di persone, attirata dai volti sorridenti, così diversi dai volti tirati e rabbiosi che ormai ogni giorno era costretta a vedere, e da una strana forza che non capiva bene. Non era da lei quel farsi avanti con sconosciuti, non era da lei, eppure…
Si fermò a pochi passi da loro e finse di osservare attentamente il muro esterno del caseggiato.
“… fate buon viaggio, e state attenti, mi raccomando.”
“Ma certo, Monsieur Dunant, e appena saremo arrivati vi scriveremo, promesso!”
“Avete già dei nuovi inquilini per l’appartamento?”
“Oh, chi volete che prenda in affitto una casa in centro a Parigi di questi tempi? Bisognerà aspettare l’autunno… se arriveremo all’autunno”, aggiunse abbassando la voce.
“Su, monsieur, siate fiducioso! E state sicuro che un appartamento bello come questo non c’è in tutta Parigi, appena i tempi saranno tranquilli avrete la fila di gente qui fuori!”
“Addio, ragazzi miei, fate buon viaggio”.
“Addio, monsieur! Salutate da parte nostra Lucille!”
“Dite a vostra figlia che ci mancheranno le serate a suonare il piano e a cantare insieme! Addio, addio, e grazie di tutto!”
Oscar vide il carro che si allontanava attraversando la piazza, mentre Monsieur Dunant restava a sventolare il fazzoletto con la commozione negli occhi.
E si commosse anche lei, anche se quella gente nemmeno la conosceva, anche se non era da lei commuoversi, anche se stava perdendo tempo perché doveva andare al più presto in caserma.
Diede un’ultima occhiata a quella facciata e a quelle finestre che sembravano chiamarla misteriosamente e poi si avviò verso il suo dovere.
 
Arrivò in caserma quasi a mezzogiorno, indossò l’uniforme lasciando la giacca un poco aperta e si avviò spedita nel suo ufficio.
Con sollievo gustò la frescura che quelle mura spesse riuscivano a conservare fino al primo pomeriggio, quando il sole invece iniziava a battere impietosamente sulle vetrate.
Sentì che aveva il battito accelerato per il caldo appena patito ma che le dita erano fredde.
“Non sto bene…”, pensò, “dovrei andare da Lassonne… No, oggi non posso. Siamo di pattuglia sull’Île de la Cité oggi pomeriggio. Non posso, non posso andare da Lassonne… quando i miei soldati saranno liberi, quando saranno liberi penserò a Lassonne, sì.”
Poi prese una busta sigillata posta al di sopra di tutta la sua corrispondenza, riconobbe il sigillo e subito si impensierì: era una lettera dell’alto comando dell’esercito. Una lettera che proveniva dal generale Bouillé.
La aprì e la scorse velocemente, poi l’appallottolò con furia e la gettò a terra stizzita:
“Ma ti rendi conto?”
In quella stanza, però, non c’era nessuno, o meglio, c’era lei, da sola. E quella domanda, che d’istinto le era scappata fuori dalla bocca, era rivolta all’unica persona che sempre aveva avuto al suo fianco, alla quale non aveva mai dovuto raccontare nulla perché tutto avveniva mentre erano insieme.
Così, con la giacca semislacciata e il passo spedito, uscì dal suo ufficio e si diresse alla camerata di André, si affacciò e gli fece un cenno che lui immediatamente capì.
Quando furono fuori, in corridoio, lui le chiese:
“Stai bene? Dove sei stata stamattina?”, era preoccupato.
“Da Bernard, poi ti spiego. Senti, piuttosto: Bouillé ha scritto. Ha affidato a un altro reggimento il pattugliamento di oggi all’Île de la Cité. Noi dobbiamo stare qui, a disposizione in attesa di ordini!” Aveva gli occhi furenti, i pugni chiusi davanti al petto di André e la voce che faticava a mantenersi bassa nel silenzio del mezzogiorno.
“Me lo aspettavo. Al momento siamo un reggimento poco affidabile, Oscar.” André sapeva che non bastava il perdono della regina per reintegrare pienamente Oscar agli occhi del generale: i giorni successivi sarebbero stati cruciali.
André aveva ragione, pensò lei.
E poi si ritrovò a pensare che forse anche Bouillé aveva ragione: era affidabile, lei?
 
Tra il 2 e il 3 luglio 1789
 
Marcel detestava oziare e non aver nulla da fare. Gli bastava anche una buona partita a carte, con avversari degni naturalmente, perché la sua mente potesse sentirsi occupata e assorbita del tutto, perché la vita fosse sopportabile.
Lui quelli come Grandier, che stava a volte ore intere a fissare il fondo del materasso della branda sopra la sua, un po’ li invidiava: rimanere solo con i suoi pensieri era per Marcel un’abitudine perduta, un lusso che mai più si sarebbe potuto permettere, un dolore da schivare con qualsiasi espediente.
Quando si accorse che la partita a carte lo stava annoiando, si rivolse ad Alain:
“Sono stati già comunicati i turni di guardia?”
“Sì, tu puoi dormire stanotte. Io no invece, mi tocca la ronda”.
“Con Grandier?”
“Credo di sì, non so”.
“Se vuoi ci vado io al posto tuo. Non ho per niente sonno e non dormirei comunque”.
“E invece faresti bene a dormire. Hai una faccia che non si può vedere. E l’altro giorno quasi te la facevi sotto in quella cella! Va’ a dormire, Marcel, da bravo”.
Marcel cacciò l’insofferenza sotto un’alzata di spalle e si buttò sulla branda.
 
“Ehi, amico, sono qui” disse Alain ad André che stava sistemando il fucile sulle spalle.
“Oh, ciao Alain. Sei pronto?”
“Pronto, andiamo”.
Percorsero più volte avanti e indietro lo stretto camminamento scavato nelle mura massicce della caserma, fermandosi di tanto in tanto e scambiandosi cenni di intesa in seguito ai quali stavano in ascolto, puntando gli occhi nell’oscurità e trattenendo il fiato per sentire ogni minimo rumore.
Dopo un po’ decisero che tutto era tranquillo anche quella notte e la tensione del turno di guardia lasciò il posto al loro consueto scambio di monosillabi:
“Qui?” disse André indicando il muro vicino alla torretta di sud-est.
“Sì…”, Alain appoggiò il fucile al muro.
“Vuoi?” disse Alain tirando fuori uno stecco di legno dalla tasca.
“No”, André rise: quante volte aveva rifiutato gli stecchini di Alain?
“Dai…”, Alain batté due volte sul muro vicino a lui per dire ad André di mettersi in quel punto.
“Dio…” disse sottovoce André appoggiando le spalle al muro e facendo uscire con un soffio tutta la stanchezza che si sentiva addosso.
 
“Potevi chiedere a Marcel di sostituirti, sei a pezzi”, constatò Alain.
“Non che Marcel fosse in gran forma, eh…”
“Ma lui è un ragazzino… un ragazzino idiota”.
“E dai, Alain. Non è facile per lui”.
“Sì, ma deve smetterla di ubriacarsi e di dormire con chiunque, deve smetterla. Un giorno o l’altro finirà accoltellato da qualche parte o morirà di chissà quale malattia schifosa…”
“Sì, forse se non si fosse arruolato sarebbe finito così. Ma ha fatto bene ad arruolarsi, la disciplina militare lo aiuta… Non devi preoccuparti, Alain, ne uscirà. Se la caverà”.
“Non sono preoccupato per Marcel. Non mi preoccupo più di nessuno, io. Vuole crepare? Che crepi. Ad ognuno la sua libertà. Vuoi soffrire? Vuoi morire? Fatti tuoi”.
Calò di nuovo il silenzio mentre André lasciava appositamente risuonare quelle ultime parole di Alain, come se il buio le potesse amplificare e farne sentire tutta l’assurdità. Ma Alain, da quando aveva perso la sua famiglia, pareva sempre impegnato nello sforzo di non affezionarsi a nessuno, di ammantare di indifferenza o di cinismo ogni gesto o pensiero gentile che, a dispetto di tutto, il suo cuore ancora gli dettava.
Alain ascoltò il buio e riascoltò così le sue ultime parole che ancora aleggiavano nell’aria. Scosse la testa infastidito e si allontanò verso la balaustra esterna, come se un rumore insolito avesse improvvisamente catturato la sua attenzione.
 
Dopo poco tornò e si sedette vicino ad André che in quella luce fioca pareva molto pallido.
“Così lei ti ama, eh?”, Alain andava sempre dritto al punto, non era capace di girarci intorno.
André non rispose, ma sentì che ora alla stanchezza si univa anche la sofferenza del cuore e dubitò di riuscire a reggere entrambe.
“Alain…”
“Siete due idioti”.
“Lo sai che non è così. Non è possibile… per lei”.
“Beh, dovrebbe esserlo, invece”.
André meditò se lasciar cadere nel vuoto anche quella frase di Alain, ma le forze lo stavano abbandonando e con loro anche quella resistenza, quel pudore che lo tratteneva sempre dal parlare di lei. O forse aveva solo voglia di sentire risuonare le sue parole nel silenzio della notte, per cacciare via, lontano, anche solo l’illusione di un sogno.
“Alain, lei è una contessa, anzi, a dire il vero, è un conte. Tutto quello che ha ottenuto nella sua vita, quello che la rende Oscar, quello che le permette di essere il nostro comandante, deriva dal fatto che è nobile. E che agli occhi di tutti deve essere un uomo. Certo, se non fosse nobile e se non fosse stata cresciuta come un uomo sarebbe comunque…”, esitò immaginandola vestita da donna e pronta per un ballo, gli occhi che si schermano dietro un ventaglio, le spalle nude e la vita sottile, così facile da cingere in un abbraccio leggero, “… ma non sarebbe Oscar”, gettò indietro la testa e chiuse gli occhi con forza. Poi proseguì parlando piano:
“In ogni caso convivere con una condizione così mi sembra un fardello non da poco. Lasciare spazio ai sentimenti per lei vorrebbe dire rinunciare a troppo, a tutto… Non ne vale la pena, non credi? E io non sono davvero nessuno”.
“Tu non credi davvero alle stronzate che stai dicendo”.
“E poi c’è suo padre. Non sottovalutare quanto per Oscar conti suo padre”.
“Il generale Jarjayes…” Alain mimò una voce minacciosa e profonda con tono canzonatorio. Poi sputò a terra lo stecchino e, con il volto ridente di Diane che stava lì, a mezz’aria tra la luna e qualche manciata di stelle, gli chiese:
“E dimmi… tu l’hai mai vista ridere? Ma ridere di cuore, ridere con la bocca aperta, ridere da tenersi la pancia, capisci? Ridere non come ridono i nobili, i maschi, i militari o chi ti pare: hai presente? Ridere e basta.”
“Sì… l’ho vista…” i ricordi si impossessarono di lui e lo travolsero.
Alain si passò l’indice su una palpebra, poi disse:
“Ah, allora ride ogni tanto! e dimmi… con chi era quando l’hai vista ridere così?”
André non rispose: c’era sempre lui quando lei rideva così, solo lui. Ma questo non gli dava conforto, anzi, aumentava la sua tristezza.
 
Ripresero a camminare in silenzio, un’altra ora a perlustrare il buio. André sentì che qualcosa non andava in lui, ma nascose la preoccupazione al suo compagno.
Lo spicchio di luna era alto sulle mura della caserma dei soldati della Guardia e dopo qualche altro giro di ronda Alain decise che avevano camminato abbastanza. Si fermò, appoggiò il fucile al muro e si sedette di peso:
“Dio, che stanchezza…”
André lo seguì in silenzio, il passo malfermo e un conosciuto sudore freddo che gli ghiacciava le mani.
“Fa caldissimo, anche se è notte… Non ne posso più di questa giacca…!” Alain si sfilò la giacca e si aprì la camicia sul petto cercando un refolo d’aria che lo ristorasse. Ma poi si accorse che da minuti André non aveva detto una parola, così, nella penombra, cercò con gli occhi il suo volto.
Era pallidissimo, sembrava che tremasse. E si teneva la testa come se le sue mani potessero fermare un dolore che lui non voleva rivelare.
“Ehi, amico, che hai?” Alain si avvicinò e lo prese per le spalle allarmato.
Ma André non parlava e le sue tempie erano bagnate di sudore così come la sua fronte che lui reggeva con la mano aperta a coprire tutto l’occhio sano.
Allora Alain capì:
“Non ci vedi, vero?”
André scosse la testa con disperazione, poi si accasciò lungo il muro e con i respiri mozzati cercò di riprendere possesso di sé.
“Vedo tutto sempre più scuro, Alain… mi sembra che mi stia scoppiando la testa…”
“Lo sai che cosa dobbiamo fare, vero?”
“Non azzardarti a dire una parola a Oscar, mi hai capito?” il vigore con cui aveva pronunciato quella frase troncò ogni possibile discussione e Alain rinunciò ancora una volta a imporsi.
“Senti, amico, questa tua condizione… io ci ho pensato sai mentre ero in prig… ehi! Chi è là? Hai sentito anche tu quel rumore?”
“Sì… sì… l’ho sentito. Qualcuno si sta avvicinando, Alain… alla tua destra, attento!”
Alain si voltò in tempo per sferrare un pugno poderoso verso una sagoma indistinta che si era avvicinata al suo fianco e che ora giaceva a terra dolorante:
“Sei pazzo Alain??? Sono io!”
“Marcel??”
“Sì, Marcel… o quello che resta del giovane parigino un giorno chiamato Marcel Laroche… Quasi mi ammazzi con quel pugno, ahia…” Marcel si alzò in piedi a fatica mentre Alain si massaggiava la mano:
“Che ci fai qui, idiota, dovresti essere in branda a quest’ora!”
“Non riesco a dormire. Se uno di voi vuole un cambio…”, disse lui facendo spallucce e poi grattandosi oziosamente l’angolo della bocca.
André si alzò e passò vicino a entrambi:
“Allora io ne approfitto e me ne vado a dormire”, disse con aria noncurante, “la settimana scorsa ho fatto gli straordinari per colpa vostra!”, forzò una specie di risata e poi si avviò verso la porta tastando sempre il muro con il dorso della mano sinistra.
Alain non disse niente e lo guardò sparire, inghiottito nel buio dei suoi pensieri, nel buio della caserma, nel buio della notte, nel buio futuro che attendeva tutti e che mai era parso così precario sotto quel cielo parigino.
 
“Che ha Grandier?”
Alain fece spallucce.
“Si vede che sei preoccupato, capo”, la voce di Marcel si fece più bassa. Quando parlava così, con quel timbro così caldo e dolente, Alain sentiva di fidarsi ciecamente di quel ragazzo cresciuto troppo in fretta.
“Temo che André… non ci veda più tanto bene… Marcel, se lo dici a qualcuno, giuro che ti strappo le…”, concluse con il solito tono spiccio per smorzare la gravità di quello che era uscito dalle sue labbra.
“Guarda che io so mantenere i segreti, capo. Lo so che tutti mi prendono per uno allegro, ma credo che tu sappia… quanto mi sforzi di essere allegro per non…”, scosse la testa pensando a Joss che d’inverno, dietro a una finestra dai contorni appannati dal vapore, si spiaccicava il naso sul vetro e faceva una boccaccia a lui che passava per strada con la solita carriola delle consegne. Lo aspettava sempre a quella finestra…
“Lo so, Marcel. Hai più avuto notizie di… di lei?”
“Di Joss… no. No”, non si poteva illudere, non poteva proprio.
“Mi dispiace, amico”.
Marcel tirò un po’ su col naso e poi alzò lo sguardo limpido su Alain:
“Senti, a proposito di Grandier… una volta conoscevo un tizio con un occhio solo, sai?”
“Ah sì?”
“Pare che sia difficilissimo abituarsi ad avere un occhio solo… tu lo sai da quanto tempo è in quello stato?”
“No… non lo so… sicuramente da più di un anno, quando è arrivato qui già era così…”
“Io gli ho guardato la cicatrice una notte, mentre dormiva…”, Marcel aveva assunto un’aria saputa, come se avesse in serbo una buona carta da giocare.
“Scusa, ma tu te ne vai in giro di notte a guardare gli altri che dormono?”
“Lo sai che per me dormire è un problema, capo… comunque, la cicatrice di Grandier è abbastanza recente secondo me… direi… un anno e mezzo? Mi sa che gli fa ancora male… In ogni caso io non mi preoccuperei troppo, scommetti che domani prima di sera sarà lì a scribacchiare su quel suo minuscolo quaderno nero? Se ha davvero dei problemi di vista, mi spieghi come fa a scrivere tutti i giorni quasi al buio appoggiato al cuscino della sua branda?”, le parole di Marcel furono accompagnate da un’occhiata furbescamente eloquente.
Ma Alain alzò le spalle con indifferenza per chiudere in fretta il discorso. Non voleva dare spazio a sciocche speranze, perché la cecità di André l’aveva ormai accettata e non avrebbe avuto la forza di illudersi per poi crollare di nuovo nella certezza che il suo amico avrebbe perso per sempre la luce.
Eppure le parole di Marcel, Alain non l’avrebbe mai detto ad alta voce, gli avevano dato da pensare.

 
   
 
Leggi le 16 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Lady Oscar / Vai alla pagina dell'autore: settembre17