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Autore: Dorabella27    10/08/2022    17 recensioni
Qualche tempo fa vi avevo accennato a una breve long - perdonate l'ossimoro - in cui sarebbe ricomparso un personaggio romanzesco e filmico che ha già fatto capolino un paio di volte nei miei racconti, inserito in un contesto diverso da quello di Versailles e di Parigi. Ecco qui: una ff un po' gotica, e scoprirete presto perché, un po' rosa, con qualche tocco di mistero, e qualche brivido: e noi sappiamo bene che si può rabbrividire per tanti motivi, vero?
Immaginate un risveglio imbarazzato, in una locanda, poco lontana da una città del Nord della Francia: come sono finiti lì Oscar e André, e perché si sono messi in viaggio?
La premessa è piuttosto breve, ma i capitoli successivi saranno più corposi.
Ciao a tutti e buona lettura!
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Marie Antoinette, Oscar François de Jarjayes
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7 – Capitolo 6 - L’Orfanello
 
Mai vestizione fu più imbarazzata di quella del mattino successivo.
 
Oscar aveva aperto gli occhi molto presto, alle prime luci dell’alba, dopo averli chiusi, con affanno e come guardinga, solo dopo molto tempo da quando aveva proferito l’ultimo ringraziamento ad André, l’ennesimo grazie, grazie per... la sua sollecitudine, la sua sollerzia, la sua attenzione, e anche per la sua discrezione, per il suo saper vedere senza chiedere, sentire senza domandare, senza esercitare quella improntitudine curiosa che tutti si sentivano, presto o tardi, autorizzati a usare con lei.
 
Aveva tenuto a lungo gli occhi spalancati nel buio, esitando persino a girare la testa, nel timore che André, anche se immerso nel buio, cogliesse il movimento del suo capo e capisse che la sua compagna di letto non dormiva.
 
Mentre stava con gli occhi spalancati sul nero della camera, Oscar si tormentava
all’idea che André, che aveva così signorilmente mentito, discreto come era sempre, l’avesse sentita invocare e gridare disperata il nome di Fersen:
all’idea che quel segreto che le artigliava il cuore e lo spirito non fosse più così segreto;
all’idea che proprio André, proprio lui, dovesse alfine avere scoperto quello che ella da anni cercava di soffocare, di non mostrare, di negare;
all’idea che quel sentimento, destinato, certo, a rimanere inespresso e segreto, fosse comunque un’offesa, un insulto nei confronti della sua Regina e della lealtà che le era dovuta;
perché anche se Maria Antonietta di Asburgo-Lorena non avesse mai saputo, come non doveva sapere, nulla di quell’amore che Oscar – oh, poteva giurarlo! – aveva cercato di tacitare in ogni modo, di strangolare sul nascere, lei, Oscar François de Jarjayes, lo sapeva benissimo che cosa provava, lo sapeva benissimo come pensava al conte di Fersen, e in questo le sembrava che la sua devozione alla Regina ne fosse incrinata, resa opaca e torbida, priva di quella brillantezza adamantina che il confortante tribunale della coscienza le aveva sempre presentato.
 
Se anche nessuno avesse mai saputo nulla, lei, Oscar, sapeva che cosa provava: e se ne sentiva in colpa, terribilmente. Crimen maiestatis ... le frullava nella mente ... e anche, peggio, tradimento di un’amica, di uno spirito semplice e puro e bello, e ingenuo, anche; di un’anima che, sbalzata nella Corte più malignamente pettegola d’Europa, senza difese e senza risorse, aveva, dopo anni di solitudine, trovato qualcosa di bello, un sentimento vivo, e ricambiato; e lei, Oscar, ne  suo spirito, glielo insidiava, glielo invidiava ... glielo voleva strappare?
No, certo che no.
 Ma solo provare quel che solo Maria Antonietta era autorizzata a provare era un delitto. E ancora più grave perché era davanti alla sua coscienza che Oscar doveva rispondere. Non si pecca forse, le avevano insegnato tanto tempo prima, in pensieri, parole, opere e omissioni?
E se i pensieri vengono per primi, in questa successione, non è forse perché sono la forma più grave di peccato, quella da cui tutto trae origine?
Scosse la testa, e continuò a vestirsi, con gesti lenti, sottilmente imbarazzati. André, che le voltava le spalle, mentre Oscar, riemersa da dietro il paravento, si allacciava lo jabot e la giacca dell’uniforme, le rivolse uno sguardo che lei intercettò, distogliendo però subito lo sguardo, e abbassando le palpebre. “Come devono fare le ragazze modeste e bennate”: le risuonarono nelle orecchie, provocandole un accenno di sorriso amaro, le parole di sua sorella Clothilde, la voce sempre argentina, ma fredda e antipatica, ogni sillaba scandita con estenuante precisione, e compiacimento, mentre spiegava a Oscar quel che le avevano insegnato in convento le monache circa la postura di una demoiselle ben educata, e perché, invece, quella dell'ultimogenita di casa Jarjayes, seduta con la gamba destra inclinata di sghimbescio sulla sinistra, con il gomito appoggiato alla coscia e il palmo della mano a sorreggere il mento, fosse assolutamente proibita alle signorine come lei, Clothilde, e a tutte coloro che un giorno avrebbero fatto il loro ingresso a Corte.
"Versailles?!", l'aveva interrotta sarcastica Oscar, aggiungendo, sprezzante: "Non metto piede in quel luogo!", fiera dell'espressione scandalizzata che si era dipinta sul volto di Clothilde.
 
Finito di vestirsi, Oscar prese la porta, dicendo solo: “Ora scendiamo a fare una buona colazione, André: sarà una giornata lunga”.
 
E mentre l’oste si affaccendava intorno a loro, proponendo caffé, cioccolatte, persino the, o un più robusto inizio di giornata a base di pane e formaggio e un distillato locale di buona qualità, Oscar taceva, sorseggiando il suo caffé, mentre André cercava di rispondere alle domande del padrone del locale, e poi della cameriera, Marianne, che si avvicinava compita e sorridente esibendo un bricco lucido e bollente, ma, soprattutto, intenzionata a chiedere dove fossero diretti quei due viaggiatori così insoliti e distinti.
 
“A Lille: abbiamo un appuntamento nella casa di Place du Lion d’Or 6”, disse André, con semplicità, mentre girava il cucchiaino nella chicchera.
Un boato di ceramica che si infrange coprì quasi le ultime parole del giovane, che si girò di scatto: Milène, l’altra cameriera, aveva lasciato cadere il vassoio con le tazze che stava portando a un tavolo affollato, e si teneva il volto fra le mani, gli occhi sgranati. Nel frattempo, gli altri avventori, che avevano assistito alla scena, si erano volti tutti, inspiegabilmente, non verso la servetta, ma verso André, scrutandolo con espressione indefinibile, fra il curioso e l’incredulo.
 
Subito dopo, Mylène si riscosse. “Perdonate, perdonatemi!”, disse, disperata, rivolta all’oste, agitando la mano destra e insieme chinandosi sui cocci di ceramica, mentre il taverniere, rivelando un fare sollecitamente paterno su cui Oscar e André non avrebbero scommesso una livre, si affrettò, con uno straccio, a raggiungere la ragazza, aiutandola ad asciugare il lago di caffé e rassicurandola: “Tranquilla, Mylène, tranquilla. Vedi bene che non è successo niente: qualche tazza rotta e nulla più. Lascia fare a me, qui: tu va’ in cucina e prenditi qualcosa di forte!”.
E, senza farselo ripetere due volte, la ragazza si alzò e volò letteralmente in cucina.
 
Oscar aveva distolto lo sguardo, prima ostinatamente concentrato sul caffé che fumava nella sua chicchera, e aveva piantato con fare inquisitorio gli occhi in faccia a Marianne, immobile come una statua di cera, una mano a reggere il bricco del caffé e l’altra sul cuore, una smorfia incredula e spaventata sul volto.
André, allora, con dolcezza, si era alzato aveva sfiorato il braccio della ragazza e l’aveva invitata a sedersi fra lui e Oscar.
“Mia cara ragazza, mi scuserete certo se ho detto qualcosa che non va  ...”
“Non ci andate, Monsieur, non ci andate! Vi prego; non ci andate laggiù!”
Ora Marianne aveva posato il bricco sul tavolo, e, rivolta ad André, gli stringeva il braccio con la mano sinistra, mordendosi il labbro con i denti, gli occhi stravolti e pieni di pianto.
 
“Dove non dobbiamo andare, Mademoiselle? A Lille?”

        “In Place du Lion D’Or numero 6”, soffiò Marianne disperata, ignorando bellamente Oscar, che fissava la nuca della ragazza incredula e indispettita di essere, forse per la prima volta nella sua esistenza, trascurata a quel modo, come se fosse inesistente.
 
“E perché mai, Mademoiselle, non dovremmo andarci?”, chiese sorridendo André, con il tono più rilassato e tranquillo del mondo.
 
“Perché vi farà diventare pazzi!”, disse, fra le lacrime, Marianne.
 
“Chi ci farà diventare pazzi, Mademoiselle?”, chiese Oscar, in tono freddo e indagatore.
 
A quella domanda, Marianne si volse di scatto, e, senza lasciare la mano che artigliava il braccio di André, rispose, il viso a meno di due pollici da quello di Oscar: “La casa! LA CASA! LA CASA DI PLACE DU LION D’OR NUMERO 6! Quella casa è ... è maledetta!”.
Nel frattempo, il padre, arrivato, reggendo cocci e strofinaccio bagnato, al tavolo dei tre, aveva lanciato alla figlia un’occhiata silenziosa, facendo sì che Marianne si alzasse e, senza una parola, corresse in cucina, raggiungendo Mylène.
Poi, sedutosi di fronte a Oscar e André, e deposti i cocci sul tavolo, aveva detto, imbarazzato.
 
“Dovete scusare mia figlia, e anche la piccola Mylène: si sa, le donne ... così sensibili, sono facilmente impressionabili”.
 
Era un brillìo d’ira quello che André, con la coda dell’occhio, aveva colto nelle iridi di Oscar, che fissava il taverniere con aria intenta e concentrata?
 
“E quindi, si tratta solo di vecchie superstizioni?”, chiese Oscar,con tono severo.
 
“Oh, no, Messieurs, no”, rispose l’oste, diretto a tutti e due. “Perché, vedete ... nessuno a Lille , uomo o donna, vecchio o giovane che sia, entrerebbe ed entrerà mai a cuor leggero nella Casa dell’Orfanello!”
 
“La Casa dell’Orfanello?”, domandò Oscar, interessatissima, come se lo scetticismo avesse lasciato il posto al desiderio di sapere.
E poi, dopo una breve pausa, fissando l’oste neglio occhi: “Monsieur, che cosa  c’è nalla casa di Place du Lion d’Or numero 6?”
“Ecco, vedete...”. L’oste, a dispetto dell’età e della corporatura ursina, sembrava imbarazzato come un bambinetto che non ha studiato la lezione, colto in flagrante dal maestro: era com se non trovasse le parole. Infine, prese coraggio: “Nessuno a Lille entrerebbe ed entrerà mai nella Casa dell’Orfanello a cuor leggero!”, esclamò l’uomo.
“Questo, ce l'avete già detto, Monsieur. Ma perché mai?”, gli chiese André:
“Oh, beh, è una lunga storia...”, bofonchiò l'oste, come a voler tagliar corto.
“E noi la ascolteremo con pazienza”, rispose André, allungando le gambe sotto il tavolo  e mettendosi a braccia conserte, l’espressione concentrata, mentre Oscar, allontanata la chicchera con la mano destra, si portava la mano sinistra, il gomito puntato sul tavolaccio rigato e macchiato, a sostenersi il mento, le dita che sfioravano le labbra nervosamente mentre ascoltava l’incredibile storia dell’oste.
 
“Vedete, Colonnello de Jarjayes, anni fa comprò, o comunque si stabilì nella casa di Place Du Lion d’Or numero 6 una giovane famiglia: lui era il figlio di un droghiere, o di un mercante di stoffe, arricchitosi con i suoi commerci, ma lei, la sua gentle moglie, era la figlia illegittima di un grande principe, che aveva sempre voluto tenere segreta la sua nascita, ma che l’aveva riccamente provveduta di mezzi: vigneti in Provenza, o in Normandia, e terre, e castelli in Piccardia, o in Bretagna ...”
“Un po’ vago come inizio di una storia vera!”, provò a scherzare André, con un sorriso.
“Non si scherza con queste cose, Monsieur!”, lo rimbeccò l’oste, severo. “Non si scherza! Mai”. E poi continuò il suo racconto, torcendosi le mani: "La giovane moglie aveva ricevuto una gran dote, e i due coniugi avevano un bambino, bellissimo, con i capelli neri come l'ala di un corvo, e gli occhi azzurri come il cielo. La povera signora aveva raccontato alla balia che, purtroppo, per l’imperizia della levatrice e del medico che l’avevano assistita durante il parto, non avrebbero potuto avere altri figli, e quel bambino era il solo erede di tutti i beni della famiglia.
La giovane madre non aveva parenti in vita, o meglio, non aveva parenti che potessero e volessero palesarsi per tali, visto che era stata allevata come una damda dell’alta società, ma aveva trascorso praticamente tutta la sua vita in collegio; mentre il giovane marito, orfano e solo, aveva solo uno zio, che i due buoni genitori avevamo nominato tutore del loro figlioletto, contro ogni evenienza luttuosa che avesse potuto accadere loro.
Lo zio del marito, che i due giovani invitarono a vivere con loro, per dare al loro bimbo il calore di una famiglia con un vecchio zio che potesse essere una sorta di nonno affettuoso, era in realtà un uomo avido e malvagio: ben presto maturò il proposito di impadronirsi delle ricchezze della giovane famiglia. Inspiegabilmente, la giovane madre iniziò a dimagrire e deperire: a nulla servirono i consulti e l’opera dei medici più illustri, che non riuscirono a venire a capo del misterioso male della donna, la quale, in breve tempo, morì.
Il marito, com’è naturale, dopo la morte di una moglie giovane, bellissima e amatissima, perse ogni voglia di vivere, di uscire di casa, financo di mangiare e di alzarsi dal letto. Ma, dopo alcune settimane, fu chiaro che le radici del male di quel giovane uomo non affondavano solo nel crepacuore e nello spirito addolorato per la perdita della sua amata: vi era nella sua afflizione un’origine fisica, un male che nemmeno in questo caso alcun medico poté curare, e che lo portò ben presto alla tomba, accanto alla sua amata; né mancò chi credesse che lo zio disonesto e rapace avesse fatto ricorso, per affrettare la morte del nipote e prima della sua sposa, a qualche misterioso veleno, come l’Acqua Tofana, che non lascia tracce.
Il vecchio zio, dunque, restò  a vivere in quella casa con il bambino, rimasto solo al mondo: o meglio, solo al mondo, eccetto quel vecchio parente. E che il Signore mi perdoni, ma sarebbe stato molto meglio se quel povero piccino fosse stato davvero solo al mondo, senza parenti! Ora, lo zio, diventato tutore del bambino, e amministratore dell’ingente fortuna che il piccolo avrebbe ereditato di lì a qualche anno, una volta cresciuto, non trovava altri ostacoli alle sue bramosie, se non una comprensibile prudenza: giacché l’orfanello era un bimbo bianco e rosso da fare invidia al figliuolo di un re, e godeva di ottima salute, e non sarebbe stato credibile se avesse perso la vita a poca distanza dai suoi genitori, e magari a causa di una malattia misteriosa e dal decorso inspiegabilmente veloce. No, il piano  di quell’uomo malvagio fu più perfido e sottile”.
L’oste fece una pausa, deglutì, come se facesse fatica a trovare le parole giuste per proseguire, poi si coprì gli occhi con la mano, e continuò:
“Ebbene, se, agli occhi di tutti, il contegno di quell’uomo mostruoso era impeccabile, quando passeggiava per i viali della città con il nipotino e la bambinaia, in realtà il tutore, una volta dentro le mura di casa, si comportava ben diversamente: la notte, infatti, tutta la servitù doveva lasciare il palazzetto di Place du Lion d’Or – tale era il vincolo che quell’anima nera aveva imposto, compensando codesta strana soluzione con ricchi salari – e allora si mostrava il vero volto di quel mostro di tutore, che rinchiudeva l’orfanello in una gabbia, collocata in quella che avrebbe dovuto essere la sua stanza; poi, spento il caminetto e ogni lampada, e lasciato il bambino al freddo e al buio, quello zio crudele chiudeva la stanza a chiave e si ritirava nel suo appartamento.
Immaginate, Messieurs, il pianto e la disperazione, il freddo e il senso di abbandono di quel bambino; ma nessuno poteva sentire i suoi pianti, nessuno poteva tendergli una mano; e così, l’orfanello iniziò a deperire, farsi sempre timido e tremebondo, impaurito dal mondo e dagli uomini, come riscontravano i passanti che lo incrociavano nelle sue sempre più rare passeggiate per i viali cittadini; sino a quando, il freddo patito in quella camera ghiacciata gli fece prendere una polmonite e il bambino, già debilitato, morì.
Ma la notte stessa, dopo il suo funerale, mentre, al caldo sotto le coperte del suo fastoso letto a baldacchino, si apprestava a prendere sonno senza che la sua coscienza nera avesse un solo sussulto, lo zio ebbe un’amara e spaventosa sorpresa: non appena spenta la candela che aveva sul comodino, si vide ai piedi del letto, evanescente, ma ben riconoscibile, la figura dell’orfanello, che, con un sorriso, gli chiedeva di giocare con lui, come aveva fatto tante volte in vita, senza che mai quell’uomo perfido e malvagio l’avesse mai degnato di attenzione, o di un moto di affetto.
 
L’uomo urlò, per il terrore, ma in casa non c’era servitù – retaggio delle vecchie abitudini contratte per dissimulare il suo piano criminoso -, ma la piccola figura non si dissipò; anzi, protese le braccine verso lo zio, il quale prese a urlare pazzamente, e poi, presa di slancio la porta, si precipitò nel salotto,  quindi in cucina, e di lì nella sala della musica: ma, quale che fosse la stanza in cui entrava, ci trovava sempre l’Orfanello, sorridente, che protendeva le braccine verso lo zio e lo invitava a venire a giocare con lui.
A questo punto quell’assassino senza cuore, terrorizzato, si sedette in un angolo della sala della musica e, copertosi le orecchie e chiusi gli occhi, iniziò a gridare e piangere, sino a quando le forze non gli vennero meno e cadde in deliquio. La mattina dopo, la governante e la servitù , che, come sempre, arrivavano in Place du Lion d’Or numero 6 alle otto e mezza in punto, trovarono il vecchio tutore ancora in camicia da notte, in un angolo della sala, con gli occhi sbarrati e come istupidito e contratto.         Venne chiamato un medico; dopo di che, con fatica, l’uomo fu messo a letto, nonostante le membra rigide come uno stoccafisso. Dalla sua bocca non uscivano parole, gli occhi erano sbarrati, il polso accelerato. Il medico diagnosticò una forma subitanea di paralisi e portò l’uomo all’Hotel Dieu, dove quell’essere spregevole finì i suoi giorni poco tempo dopo, senza mai aver più articolato parola.
Ma l’Orfanello, lui, rimase per sempre a vagare in quella casa, a cercare, negli occupanti di quelle stanze, la compagnia, il calore, e l’affetto che non aveva avuto in vita. E per questo nessun cittadino di Lille potrebbe mai soggiornare o accettare di mettere piede nella casa di Place du Lion D’Or numero 6!”. Così concluse il taverniere, alzandosi dalla tavola e lasciando Oscar e André con passo affrettato, e, parve ai due, anche con le lacrime agli occhi”.
 
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E così, abbiamo fatto indirettamente conoscenza con la presenza che alberga nella casa in Place du Lion d'Or 6 a Lille. La storia dell'Orfanello, che ho debitamente rielaborato, è un classico dei racconti di fantasmi: vi consiglio in materia il bel saggio di F. Camilletti. Avrete, ovviamente, riscontrato delle volute incongruenze in questa storia, come sempre ce ne sono nelle storie di fantasmi. Ora, però, il quesito è: che cosa attende davvero Oscar nella misteriosa dimora in Place du Lion d'Or?
   
 
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