Nei giardini che nessuno sa
3. Levi. Levi e
basta.
Da quando era nato suo
figlio Kuchel, mai, neppure una sola volta si era pentita della scelta che
aveva fatto.
Quel bambino era il suo piccolo eden e
l’aveva resa felice. Anche vendere il suo corpo aveva acquistato un altro
significato, che glielo rendeva meno penoso e più accettabile.
«Che cosa sta facendo il mio piccolo Levi?» gli chiese, di rientro nella stanza
dove lo aveva lasciato qualche ora prima.
Il bambino, orgoglioso, le mostrò una serie di piccoli origami fatti con della
carta riciclata dalla madre per lui. Era molto ingegnoso e lei lo aveva abituato
a tenersi occupato. Per diverse ore era impegnata a lavorare e voleva che non si annoiasse, o peggio, che tentasse di
uscire da solo.
«Ma sono bellissimi! Dopo andiamo all’apertura(1), e vediamo se
oggi c’è il sole!» gli disse. Poi gli si avvicinò, delicatamente gli scostò i
capelli dagli occhi, lo strinse a sé e lo baciò copiosamente sulle guance.
Lui abbracciò con slancio la sua mamma e si lasciò coccolare tutto soddisfatto.
Levi era un bambino sereno e anche molto buono. Kuchel lo riempiva di amore e attenzioni.
Ogni notte gli sussurrava una dolce filastrocca per fargli prendere sonno. Dormivano
nello stesso letto. La donna gli aveva cucito con pezze e stracci una specie di
coniglietto. Aveva due bottoni diversi come occhi, e tanti scampoli colorati
come corpo: Levi lo adorava. Lo aveva chiamato Jizo(2) ed era fermamente convinto che fosse una specie di angelo custode, che
vegliava su di lui l’intera notte.
Sua madre faceva sempre tardi, ed era fondamentale che lui stesse tranquillo e dormisse. Per questo Kuchel aveva
speso una piccola fortuna e gli aveva comprato anche un carillon.
«È magico, sai?» aveva detto al piccolo Levi «Tu dormi, e prima che finisca di
suonare la mamma sarà tornata. Ma se per caso ritardassi e tu ti svegliassi,
basta farlo ripartire, io lo sentirò, così appena possibile arriverò da te».
Questo piccolo stratagemma aveva funzionato, anche perché Levi adorava sua
madre, e pendeva dalle sue labbra. Del resto era una delle pochissime persone
con cui si poteva relazionare. Era un bambino molto solo, ma vivendo dentro un
bordello non poteva essere altrimenti. Malgrado ciò la a sua vita era
abbastanza piena, questo anche grazie a Kuchel che si impegnava moltissimo con
lui nel poco tempo libero che aveva.
Tra le tante cose che gli aveva insegnato, una molto importante era l’igiene
personale e la pulizia della stanza dove vivevano.
Ogni giorno, prima che lei andasse a
lavorare, gli metteva una specie di bandana in testa e un fazzoletto legato
dietro la nuca a protezione della bocca, poi insieme si mettevano a togliere
sporco e polvere.
«La pulizia è fondamentale. Ricordalo. Così non prolificano i germi, né i topi,
né gli scarafaggi» e poi canticchiava: «Se puliamo in allegria, sporco e
malattia fuggiranno via!».
Per lui era quasi diventato un gioco. La vedeva poco, ma quando erano insieme, Kuchel
dedicava tutto il suo tempo a lui e Levi ne era felicissimo. La sua mamma era
il suo mondo. Un modo bellissimo, profumato, dolce e pieno di amore. Era
assurdo, ma era un bambino molto più amato e seguito di tanti altri che
vivevano situazioni certamente più agiate della sua.
Era abituato ad aiutare anche in cucina, per esempio pelava le patate per la
zuppa di pane e verdure, che mangiavano la sera. Lui, in piedi sulla sedia
accanto alla mamma, ne sbucciava una, lei tutte le altre ma lo lodava e lo
faceva sentire importante.
Kuchel però aveva presto notato che Levi aveva un’insana attrazione per i
coltelli. Ogni tanto si fermava ad osservarli rapito, cercava di specchiarsi
nella lama, e poi li lucidava in modo quasi ossessivo. Questo la turbava,
perché gli ricordava Kenny e la cosa non le piaceva per niente.
«Devi stare attento a non farti male. Servono solo per tagliare le patate, le
cipolle e il pane» lo ammoniva, anche se lei stessa se ne portava sempre uno
dietro, per difendersi da eventuali clienti violenti.
«Luccica!» aveva detto lui con quegli occhi grigio-blu così vivi e brillanti.
Kuchel aveva cercato di non dare troppo peso alla cosa, ma si era ripromessa
che quando fosse stato più grande gli avrebbe parlato in merito. Non voleva che
Levi diventasse come Kenny.
Non faceva altro che raccomandarsi. Gli spiegava che vivevano in un modo
difficile e talvolta crudele, la violenza inevitabilmente faceva parte di esso,
ma non poteva, né doveva diventare una scusa per fare gratuitamente del male
agli altri. Gli diceva che da grande avrebbe forse dovuto difendersi, ma che
per nessun motivo avrebbe mai dovuto usare la violenza per sottomettere gli
altri, o per trarne qualche vantaggio.
Voleva che questi concetti gli si instillassero nella mente, tanto da diventare
uno stile di vita. Voleva solo il meglio per lui. Per questo, gli stava anche
insegnando a leggere e scrivere. Voleva che fosse istruito, che usasse la sua
intelligenza. Lo voleva elevare rispetto alla media delle persone che vivevano
nella città sotterranea.
Un tempo, ne era certa, suo figlio sarebbe diventato un grande uomo.
***
Il tempo
scorreva veloce e Levi cresceva a vista d’occhio.
Alcuni giorni scorrono in
una routine consolidata, altri invece sono destinati a diventare indimenticabili.
Quello in particolare, Levi, se lo sarebbe portato addosso, come un marchio, per
tutta la vita.
Sua madre stava preparando il tè per entrambi.
Era un loro rito. Ogni giorno alla stessa ora metteva a bollire l’acqua sulla
stufa. Lui intanto prendeva le tazze e le metteva sulla tavola. Poi prendeva i
biscotti al burro che Kuchel preparava una volta a settimana e li disponeva con
cura su un piattino sbeccato, quindi si sedeva e attendeva. La guardava mentre
con cura preparava quell’infuso così buono che a lui piaceva tanto.
Kuchel canticchiava sommessamente, sorridendo. Quella vita non era più così
tanto infame. Aveva il suo bambino. La sua ragione di vita. Il suo più grande
amore. Stava mettendo da parte più soldi possibili per poter un giorno comprare
la sua libertà e quella di Levi. Sarebbero usciti per sempre dalla città
sotterranea per dare una svolta alle loro esistenze. Magari si sarebbero
spostati da Mitras. Potevano trasferirsi a Trost, o a Shiganshina, chissà.
Era così piena di fiducia, tutto le sembrava migliore e finalmente si concedeva
di pensare al futuro con speranza e gioia.
Levi la osservava mentre versava l’acqua calda e fumante sulle foglie secche
del tè. Nell’aria si sprigionava quell’aroma speziato, particolare, che gli
solleticava le narici, facendogli anticipare la fragranza di quel liquido fulvo,
che di lì a poco avrebbe sorbito con calma. Lui non mangiava mai i biscotti con
il tè. Gli piaceva gustarlo da solo e molto caldo.
Se avesse dovuto associare sua madre ad un odore, sarebbe sicuramente stato
quello del fresco pulito del bucato e quello del tè.
Una volta pronto l’infuso, si sedeva anche lei. Stavano in silenzio, uno di
fronte all’altra e se lo assaporavano in santa pace. Gustandosi la speciale
magia di quel momento particolare tutto loro. Ogni tanto si guardavano e da
sopra le tazze i loro occhi si incontravano sorridendosi.
Dopo aver bevuto decisero che sarebbero usciti.
Ogni volta che andavano in giro per la città sotterranea era una festa. Si
preparavano con cura. Levi era sempre pulito e pettinato, poi sua madre era
solita mettergli un foulard bianco al collo che lo faceva assomigliare ad un signorino. Anche Kuchel si vestiva in un
modo molto rispettabile e ordinato. Ci teneva a farlo crescere con una certa
propensione alla dignità personale. Non era detto che perché abitassero in una
specie di ghetto, sottoterra, non potessero ambire ad essere persone migliori,
decorose e, perché no, anche ambiziose. Avevano il sacrosanto diritto ad aspirare
ad una vita migliore di quella.
Ma quel giorno purtroppo cambiò il corso del loro destino.
Kuchel, poco prima che uscissero, ebbe una reazione molto strana e molto
spaventosa.
Improvvisamente le si irrigidì il volto. Non riusciva ad aprire la bocca, né a
parlare. Levi si spaventò a morte. Lei, che era ancora padrona di sé, scosse la
testa come per rassicurarlo e gli strinse il braccio, quindi si lasciò cadere
sul letto.
La cosa, purtroppo, si rivelò ancora più grave di quello che sembrava al
momento.
Nei giorni a seguire Kuchel non migliorò. Anzi peggiorava a vista d’occhio.
Levi smarrito e ostaggio della paura, cercò comunque di reagire.
Si dava un gran da fare, tentando di farle abbassare la febbre che era salita
altissima, facendole impacchi sulla fronte con una pezza bagnata. Ma la donna aveva
sempre forti spasmi e non riusciva a mangiare.
Lui stava costantemente vicino alla sua mamma. Le teneva la mano, le carezzava
i capelli, le parlava. Lei, come poteva, cercava di tranquillizzarlo, ma sempre
più spesso aveva questi spasmi terribili che ormai le inibivano anche la
parola.
Più passava il tempo, più Kuchel si aggravava.
Levi era nel panico totale.
Il padrone del bordello pensando che Kuchel avesse contratto una malattia
infettiva, aveva tassativamente proibito al bambino di uscire dalla camera e
nessuno poteva andare da loro. Solo Madame Bijou, mossa a pietà, ogni
tanto gli lasciava del cibo e dell’acqua fuori della porta.
Inizialmente aveva procurato loro anche del laudano(3), ma quella medicina si rivelò del tutto inefficace.
Intanto sua madre non riusciva a mangiare e farla bere era un’impresa ardua. Le
bagnava le labbra con uno straccio umido, diversamente non era possibile farle
assumere acqua.
Purtroppo però qualsiasi cosa intentasse, niente sembrava portare giovamento.
Levi non sapeva più che fare. Ad un certo punto, al culmine della disperazione,
si convinse assurdamente che forse la mamma stava male perché la stanza non era
abbastanza pulita.
Sì, doveva essere quello il problema, pensò fiducioso, del resto glielo diceva
sempre quanto fosse importante l’igiene.
Si mise in testa che se avesse pulito e sanificato tutto alla perfezione, la
malattia se ne sarebbe andata via, proprio come gli canticchiava sempre Kuchel
quando facevano le pulizie.
Così si mise la pezzola in testa e il fazzoletto alla bocca e cominciò a pulire
come un forsennato.
Spolverò e spazzò più e più volte ogni singolo angolo della stanza, la stufa,
il lavabo. Poi, inginocchiatosi in terra, prese a strofinare con forza, come se
volesse scrostare il pavimento fino a consumarlo. Era disperato e metteva tutte
le sue energie, la sua paura e la sua rabbia, in quell’azione ossessivo compulsiva,
che avrebbe dovuto calmarlo, ma che invece non riusciva neppure a stancarlo al
punto di smettere.
Ogni tanto alzava gli occhi, per scorgere qualche miglioramento, ma sua madre
sembrava stare sempre peggio. Aveva la bocca serrata e lo sguardo vitreo
rigirato all’indietro. Sembrava in trance. Ad un certo punto si era alzato di
scatto da terra ed era andato ad accendere il carillon magico. In un moto di disperazione sperava che quella
musica la svegliasse, la riportasse a lui.
Lacrime di sconforto gli pungevano gli occhi, ma non si dava per vinto, si
rimise in ginocchio e continuò a lottare, pulendo ostinatamente, con tutta la
forza che aveva in corpo.
Si ripeteva come un mantra: Se pulisco
tutto, la malattia andrà via. Se pulisco tutto, la malattia andrà via.
Quella follia durò due giorni e due notti.
All’alba del terzo era stremato, aveva le galle sulle mani e sua madre era
morta per una crisi respiratoria.
Levi aveva urlato così forte che tutti avevano capito. Poi aveva pianto così tanto
da restare senza voce e senza lacrime.
Era scivolato a terra con gli occhi sbarrati dal terrore. Non era pronto a
questo distacco e soprattutto lo atterriva la consapevolezza di essere rimasto
completamente solo in quel mondo ostile, in cui nessuno era venuto ad aiutare
né lui, né la sua mamma.
Con lei se n’era andato via tutto il suo mondo. Non sapeva niente dell’esterno,
della vita. Per Levi la realtà era Kuchel, il bordello e le uscite una volta a
settimana. Non c’era altro nella sua piccola e ingenua realtà.
Temeva, perché era molto intelligente, che non l’avrebbero più fatto uscire da
quella stanza. Erano certi che la donna avesse una malattia infettiva, ma si
sbagliavano per fortuna.
Kuchel era morta di tetano e non avrebbe potuto infettare nessuno.
Levi però ne era ignaro ed era convinto che presto, quel morbo mostruoso
avrebbe ucciso anche lui. Era solo questione di tempo, quindi rassegnato rimase
a terra, seduto, abbracciato alle proprie ginocchia, accanto al letto di morte
di Kuchel, aspettando il suo turno.
Passarono diversi giorni.
Se ne stava lì: affamato, disperato, ma soprattutto rassegnato, con le forze
che lo stavano lentamente abbandonando. Aspettava che la morte venisse trovarlo
e se lo portasse via, invece arrivò qualcun altro.
Un giorno, quando era sul punto di cedere all’oblio, la porta si aprì ed entrò
un uomo molto alto. Aveva i capelli lunghi, un cappello in testa e una valigetta
in mano.
Come se non lo avesse notato, si era subito diretto al letto dove giaceva sua
madre.
Sembrava molto preoccupato del suo aspetto.
« Kuchel è davvero impressionante come tu sia
diventata magra…» aveva detto Kenny con un sincero velo di dispiacere, che gli aveva
offuscato la voce.
Levi che era accucciato nell’ombra «È morta» gli disse con un filo di voce.
Era sporco, magro, affamato. Sembrava anch’egli più moribondo che vivo.
Quell’uomo dallo sguardo tagliente si era girato e aveva visto quel mucchietto
di ossa abbandonato sul pavimento. Un bambino dal viso magro e affilato, in cui
spiccavano due occhi incredibilmente blu, tristi e sofferenti. La fame lo stava
consumando.
Rimase molto colpito. Avvertì qualcosa che gli era estraneo, ma che potrebbe definirsi
un moto di pietà.
«Come ti chiami?» gli chiese infine.
Sapeva da sua madre come rispondere a quella domanda. Glielo aveva detto
mille volte. Si era sempre raccomandata e lui avrebbe sempre fatto tesoro delle
sue parole e dei suoi insegnamenti, ora e nel tempo avvenire.
«Levi. Levi e basta» replicò stanco.
Quella risposta colpì Kenny come uno schiaffo. Forse quella fu una delle poche
volte in cui ebbe una sorta di rigurgito di coscienza, una cosa che somigliava
lontanamente ad un senso di colpa verso sua sorella. Si mise a sedere a terra,
all’altezza del bambino. Lo guardò. Rifletté sul fatto che anche se adesso,
grazie a lui, gli Ackerman non erano più perseguitati, non valesse comunque la
pena di usare quel cognome.
Si ritrovò a dare ragione a Kuchel, anche se l’aveva cercata proprio per dirle
che erano finalmente liberi da quella spada di Damocle.
«Io sono Kenny. Kenny e basta. Conoscevo tua
madre» gli disse.
«Sei… » stava domandando il bambino.
«No, non sono tuo padre. Ma da oggi mi prenderò cura di te».
Levi non seppe spiegarselo se non molti anni più tardi, ma istintivamente fu come
sollevato che quell’uomo non fosse suo padre.
Kenny si occupò delle esequie del corpo di Kuchel. Levi insistette tanto perché
Jizo fosse sepolto con la sua mamma, e lui aveva acconsentito. Dopo che Kenny
si fu occupato della faccenda, come promesso, tornò a prenderlo.
Levi uscì da quel bordello con solo tre cose: il foulard bianco, una scatola di
tè e il carillon magico.
La sua vita era giunta ad una svolta epocale, ma questo lui non poteva saperlo.
Solo il tempo avrebbe scritto il suo destino, rendendo giustizia a Kuchel e al
suo coraggio di madre, che aveva permesso di donare a quel mondo infame il
soldato più forte dell’umanità.
Il testo
sotto la fanart è tratto dalla canzone di Renato Zero che da anche il titolo
alla fic stessa: Nei giardini che nessuno sa. Questo capitolo è dedicato alla mia amica Lou
(innominetuo) lei sa il perché! Grazie di tutto! ♥
(all rights are property of their respective owners)
Le elaborazioni grafiche invece sono opera mia :D
Disclaimer
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.
Kuchel, Kenny e Levi (purtroppo) non mi appartengono, ma sono proprietà di
Hajime Isayama.
NOTE
(1) Parlo spesso dell’apertura nelle mie fic quando descrivo
la città sotterranea, da me chiamata anche ghetto. Credo che sappiate tutti
cosa è dato che appare nell’OVA “A Choice with no regrets” ed è appunto uno buco da
cui si intravede l’esterno (più che altro il cielo) e da dove entrano anche gli
uccellini, uno dei quali viene salvato da Isabel proprio nel primo episodio del
suddetto OVA.
(2) Jizo secondo la tradizione
giapponese è custode
dei bambini, ma significa anche ventre della terra che richiama la città
sotterranea
(3) Nel ‘450 il laudano era un “medicinale” a base
di oppio e alcool, veniva utilizzato per trattare numerosi disturbi medici,
soprattutto come analgesico.
Come avrete notato il dialogo tra Levi e Kenny è (quasi) identico a quello
dell’anime. Ovviamente l’ho adattato alle esigenze della mia storia.
LE NOTE
DELL’AUTRICE
Un saluto a chi sta leggendo!
In questo capitolo ho inserito alcuni dei miei headcanon più ricorrenti su
Levi. Chi ha letto le mie storie sicuramente li ha riconosciuti. Come ad
esempio il rito del tè tra lui e Kuchel, o il carillon.
Mi rendo conto che questa breve storia possa essere risultata forse pesante o
troppo triste, ma avevo voglia di scriverla e l’ho condivisa con piacere con
voi. Le mie storie sono così: nascon da sole, io non posso che mettermi al loro
servizio e raccontarle. Vado dove mi porta l’ispirazione.
Ho parlato molto di Levi e continuerò a farlo perché è il personaggio di Snk
con cui empatizzo di più.
Di lui ho già scritto qui: L.A. CONFIDENTIAL {Confidenzialmente Levi
Ackerman}
Ringrazio chiunque abbia dedicato un po’ del suo tempo a leggere questa fic e
in particolare ringrazio chi ha voluto lasciarmi le sue impressioni ♥ e chiunque abbia messo la
storia fra seguite-ricordate-preferite 🌼
Non siate avari con gli autori (non parlo solo di me, ma di chiunque voi
leggiate) scriviamo unicamente per passione e le vostre impressioni sono spesso
la benzina per la nostra creatività. Condividiamo le nostre storie proprio per
avere uno scambio con chi le leggerà, su una passione comune, perciò non siate
timidi diteci la vostra! 😉
Colgo l’occasione
per augurare buone ferie a tutti, mi ritroverete presto con una nuova storia,
ma questa volta basta tragedie, anzi! 😁