Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: innominetuo    06/12/2022    7 recensioni
Essere medico in un reparto militare composto da potenziali martiri non dev’essere di certo una passeggiata. Meti questo lo sa bene.
Ma si sa: ci sono vocazioni e vocazioni, non sono tutte uguali.
Alcune sono un po’ più folli e disperate di altre.
Ma può andar bene… anche così.
(Questa fanfiction è scritta per puro diletto e senza scopo di lucro alcuno, nel pieno rispetto del diritto d'Autore)
N.B. La presente fan fiction è pressoché ultimata, ragion per cui le pubblicazioni saranno - salvo imprevisti di varia natura - regolari e nel fine settimana.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Cuori in volo'
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(This image is from a google search, no copyright infringement intended)


 
Meti riuscì a tornare in caserma solo dopo qualche giorno: per poter giustificare la sua assenza protratta un po’ oltre la licenza accordatale da Hervert, pensò bene di procurarsi un certificato medico di malattia da un collega di Mitras, un tronfio medico che annoverava tra i suoi pazienti potenti aristocratici e ricchi borghesi.

La visita del dott. Duke Fernsby le costò una piccola fortuna, cosa che le fece storcere il naso.

Si era ripromessa che, nei limiti delle sue possibilità, anche le persone più povere e sfortunate dei Sotterranei avrebbero potuto veder garantite in loro favore le migliori cure del caso. La salute era un diritto di tutti, ricchi e poveri.

Lo doveva alla piccola Isabel Magnolia, mai dimenticata.

La sua assenza protratta era dovuta al fatto che l’incontro con Kenny l’avesse turbata parecchio e che non fosse stata subito in grado di riacquistare un minimo di equilibrio e di autocontrollo. Quell’uomo era stato lì lì per violentarla e solo grazie al suo disperato tentativo di spiazzarlo nominando Levi era riuscita a scongiurare tale pericolo. Se fosse tornata alla base il giorno dopo a quella disgraziata sera avrebbe sì rispettato i termini della licenza, ma non sarebbe stata capace di giustificare il suo pallore, le mani tremanti e gli occhi gonfi e rossi per le molte lacrime versate per la paura, la vergogna e l’umiliazione provate: già Hanji si sarebbe messa in allarme, nel vederla in tale stato, per non parlare di Hervert e, ovviamente, di Smith.

Ancora molto pallida ma composta, ed ostentando una sicurezza che era ben lungi dal provare, Meti ritornò quindi alla sede dell’Armata Ricognitiva in metà mattinata. Per sua fortuna, a quell’ora tutti i soldati erano occupati con lo studio delle strategie di ricognizione insieme ai Capisquadra, e con le sessioni di allenamento. Senza che quasi si incontrasse con anima viva, si rintanò senza indugio nei suoi alloggi, per disfare i bagagli e conservare alcuni documenti personali; dopodiché si recò da Ron Hervert per consegnargli il certificato medico.

«Hmmm… emicrania dell’arteria basilare ed atassia, eh?» Hervert lesse, compunto, la diagnosi della certificazione.

«Sì. Ho raccontato al dottor Fernsby il mio periodo di amnesia e la forte cefalea di cui soffro ormai da qualche giorno, dopo essere guarita dalla febbre cerebrale. È concorde con me sul fatto che tale stato di malessere sia normale e che perdurerà ancora per un po’ di tempo. Mi ha consigliato qualche giorno di riposo assoluto, per questo ho tardato un po’ a tornare. Spero che non ci siano problemi a livello di protocollo… anche se non posso farci nulla, per questo mio stato di malattia» concluse, in un tono un po’ troppo piccato.

Ron non rispose subito, limitandosi ad osservare perplesso la collega più giovane, di sotto in sopra le lenti degli occhiali.

Meti non gliela raccontava giusta.

Era molto tesa, sulla difensiva, dallo sguardo sfuggente. Per non parlare di quanto fosse pallida e sciupata, i capelli in disordine, gli occhi segnati da profonde occhiaie. Per il momento l’avrebbe tenuta d’occhio, sospettando che lo strano atteggiamento della donna fosse da attribuirsi a qualche problema di tipo psicologico… solo che, se davvero si fosse trattato di un male dell’anima e non del corpo, avrebbe potuto fare ben poco, senza la collaborazione di Meti stessa. Decise di darle fiducia e di attendere che la collega si decidesse ad aprirsi di sua volontà, senza forzature esterne.

Solo che… Erwin Smith sarebbe stato in grado di comportarsi in modo analogo, e di pazientare ancora?

I sentimenti del Comandante per Meti non erano più un mistero, per lui: da tempo aveva avuto sospetti sulla vera entità dei rapporti tra Smith e la giovane collega. Quando poi Meti era stata male a seguito dell’ultima ricognizione, ogni dubbio sulla natura della loro relazione era stato fugato: Ron non avrebbe mai immaginato che il compassato ed inappuntabile giovane ufficiale potesse rivelarsi tanto angosciato per Meti, se non in virtù di un sentimento che andasse ben oltre i rapporti di cameratismo tra commilitoni.

«No, non ci saranno problemi, figurati. Provvederò io stesso a regolarizzare la questione, non devi preoccuparti.»

«Ti ringrazio. Allora io vado in ambulatorio, oggi mi sento abbastanza bene. Ci sono delle visite da fare?»

«Sì, un paio di reclute ieri si sono leggermente ferite durante le sessioni di allenamento, ci sarebbe da controllare lo stato delle loro medicazioni. Poi una ragazza lamenta dei forti dolori di stomaco, ieri le ho prescritto un antispasmodico, ma preferirei che anche tu le dessi un’occhiata. Ecco… qui ci sono le loro cartelle mediche.»

Meti prese le cartelle, e si congedò con un lieve sorriso.

La prospettiva di poter passare la mattina visitando dei soldati la fece sentire bene, l’amore per il suo lavoro era sempre stato, per lei, l’unico balsamo capace di lenirle le ferite dell’anima… anche quelle più profonde.

****

Per tutta la giornata se ne era rimasta rintanata nell’ambulatorio, evitando persino di condividere i pasti in refettorio e limitandosi a mangiucchiare delle gallette, tra una tazza di tisana e l’altra.

Fu solo a tarda sera, quindi, che Meti si ritirò nelle sue stanze. Dopo aver coccolato Princess di ritorno dalle sue sessioni di caccia a topolini e lucertole, che durante la sua assenza era stata curata da Petra, si ripromise un lungo bagno caldo, prima di andarsene a dormire.

Aveva però dimenticato di fare i conti con qualcuno.

All’atto di aprire la porta per recarsi ai bagni femminili, infatti, andò a sbattere contro il torace di Erwin.

«Scusami…» farfugliò, apertamente a disagio.

Erwin aggrottò la fronte. La sua espressione non palesava nulla di buono. Senza attendere un cenno di invito da parte di Meti, la scostò delicatamente ma entrò con aria decisa nella stanza.

«Dobbiamo parlare. Ora.» enunciò, in tono calmo ma severo.

Meti sospirò. Senza dire nulla, andò a sedersi sul piccolo sofà del suo studiolo.

Erwin prese una sedia e la pose dinnanzi a Meti, per poi sedervisi a cavalcioni, appoggiando gli avambracci sullo schienale. Fissando la donna corrucciato, le fece intendere, e da subito, che non era in vena di scherzi… cosa che fece subito mettere Meti sulla difensiva.

«Stavo andando a fare il bagno…»

«Mi dispiace, ma le tue abluzioni dovranno attendere per un po’. Ho bisogno di capire cosa stia succedendo.»

«Ma nulla… non sta accadendo nulla…»

Erwin dette in un moto di stizza.

Non era la prima volta, da che la conosceva, che Meti si chiudesse a riccio, rendendo difficile interagire con lei. Solo che adesso cominciava a provare un senso di frustrazione non indifferente. Sentiva di meritarsi maggiore chiarezza e sincerità dalla sua donna.

«Nulla, mi dici: certo, come no. Sparisci per giorni senza degnarti di dirmi il motivo e senza nemmeno salutarmi. Ritorni e te ne stai per conto tuo: se non fosse stato per Hervert, che mi ha avvisato del tuo ritorno, spiegandomi il motivo della tua prolungata assenza e del fatto che non stai bene di salute, io ora sarei completamente all’oscuro di quello che combini. Appunto, dicevo: Hervert mi accenna che sei molto pallida e smunta. E adesso che ti osservo non posso che confermare la descrizione del tuo aspetto. Ma naturalmente non sono degno di sapere direttamente da Milady cosa le stia accadendo» concluse in tono ironicamente amaro, alzandosi, i lineamenti contratti e i pugni serrati, senza smettere di fissare la donna con sguardo cupo.

Meti si alzò a sua volta, angosciata. Si rese conto di rischiare di perdere Erwin, a causa del suo stupido comportamento.

Lo abbracciò, stringendolo a sé.

«Perdonami. Io… voglio cercare di spiegarti, se vuoi ascoltarmi…»

Scoppiò in lacrime. Il suo pianto da silenzioso divenne sempre più violento, sino ad esplodere in singhiozzi convulsi. Erwin temette che Meti stesse per avere un attacco isterico. La strinse a sé, cercando di calmarla con parole rassicuranti, come se fosse una bambina.

«Meti… ma cosa ti succede? Parla una buona volta, o non so come fare per aiutarti!»

«Scusami… ora mi calmo… sembro una sciocca…» mormorò lei, tra un singhiozzo e l’altro.

«Smettila di scusarti, e dimmi piuttosto cosa ti sta accadendo.»

Erwin scostò da sé la donna, prendendola per le spalle e cercando un contatto visivo con lei.

Meti annuì, tirando su con il naso.

Si sentiva una perfetta stupida, una ragazzina piagnucolosa. Altro che donna adulta e medico competente! Lei stessa non si sopportava per niente, in quel periodo. I suoi continui sbalzi di umore erano diventati assolutamente incontrollabili. Di sicuro l’aggressione di Kenny a fondo sessuale l’aveva turbata molto più di quello che cercasse di nascondere a se stessa.

Erwin la ricondusse al sofà e le si sedette accanto. Dopodiché rimase in silenzio, attendendo con pazienza. Finalmente Meti riuscì a ricomporsi. Timidamente, prese una mano dell’uomo e la racchiuse tra le sue.

«Mio padre è stato ucciso. So che è così, anche se mi state ancora sottacendo la verità. Del resto, io non sono morta per mano dello stesso sicario solo per pura fortuna. Ad ogni modo, lo hanno voluto eliminare per via delle rivelazioni che mi fece poco prima…» disse con voce arrochita.

Erwin si alzò per andare a versare un po’ d’acqua da una brocca in un bicchiere, per poi tornare a sedersi accanto alla sua donna.

«Mi dispiace per tuo padre. Credimi. Forse avrei dovuto contemplare questa evenienza… contavo sul fatto che essendo un nobile non sarebbero arrivati a tanto… ma l’omicidio di Lovof avrebbe dovuto essermi di monito.» le disse in tono raddolcito, circondandole le spalle ed accostandola a sé, mentre Meti beveva un sorso d’acqua dal bicchiere.

«Grazie…» mormorò lei.

Sospirò.

Alzò su Erwin uno sguardo spento, cosa che strinse il cuore di Erwin in una morsa feroce. La sua donna soffriva, e lui si sentiva impotente ad aiutarla.

«I Giganti… sai cosa sono quei mostri maledetti? Esseri umani. Come te e me» al che Meti bevve un altro sorso d’acqua.

Erwin balzò in piedi e andò su e giù per lo studiolo, con aria meditabonda, tormentandosi il mento. Meti lo seguì con lo sguardo. Quando l’uomo riuscì a recuperare il suo consueto aplomb e si risiedette accanto a lei, continuò.

«Non so come accada, mio padre questo non seppe spiegarmelo… ma mi precisò che i Giganti sono come delle… proiezioni fisiche di esseri umani, uomini e donne, che restano incapsulati all’altezza della nuca: ecco perché se con le spade li colpite in quel punto muoiono… è perché praticamente uccidete la persona “ospite” al loro interno che li manovra… un po’ come accade per i burattinai che tirano i fili delle marionette… capisci, ora?»

«Immaginavo qualcosa del genere, dato che assumono comunque delle fattezze umane… e dato che uccidono solo esseri umani… del resto, il peggior nemico dell’Umanità siamo noi stessi, no? Homo homini lupus

Sorrise tristemente. Guardò Meti negli occhi con aria perplessa.

«Ma perché tutto questo odio nei confronti del nostro popolo? E tuo padre come faceva a sapere di questo?»

In quel preciso istante Meti si odiò profondamente.

Ma intendeva proseguire per la strada della menzogna, che si era prefissata dopo lunghe riflessioni, per pura e semplice paura.

Kenny l’aveva pesantemente minacciata di morte e sapeva che, in ogni caso, sia il killer che i dannati Reiss avrebbero ben potuto decidere di uccidere non solo lei stessa, ma anche Erwin e chissà quante altre persone venute al corrente della verità.

Avrebbe rivelato al suo uomo solo parte dei fatti, in modo da fornirgli sì qualche informazione utile, ma senza andare a fondo e senza correre troppi rischi. Aveva capito a sue spese che con i Reiss ci fosse ben poco da scherzare. Trattenne un brivido di terrore e di disgusto, poi, ripensando alle pesanti mani di Kenny sul suo corpo e al suo sguardo lascivo.

«A queste domande che gli feci pure io, lui mi rispose con un nome: Grisha Jaeger. Mi ha detto che costui conosce tutta la verità sui Giganti: chi sono i loro “ospiti”, da dove provengono, perché ci vogliono morti… e così via. Stava poi per dirmi altro, ma… non ha fatto in tempo…» mormorò, odiandosi una volta di più per la bugia.

Erwin annuì, meditabondo.

«Ma come faremo a trovare questo tizio? Ti ha detto dove trovarlo?» le domandò poi, perplesso.

Meti chiuse gli occhi per un momento, come per raccogliere le idee.

«Ecco… mio padre mi disse che è un medico, proprio come me.» si scostò, impaziente, una ciocca dalla fronte, che la infastidiva “Ho già controllato l’albo dei medici di Mitras: non c’è nessun medico nella capitale con tale nome. Questo non mi stupisce, perché conosco, più o meno, e anche pur solo di nome, tutti i medici del Wall Sina, e non ricordavo nessuno con questo nome. Dobbiamo cercarlo negli altri distretti, anche in quelli più periferici…»

«Ne parlerò con Dot…» soggiunse Erwin.

Meti annuì, con un leggero sorriso

«Pixis ha degli agenti segreti molto in gamba… vedrai che lo troveranno…»

Erwin la guardò intensamente negli occhi. Poi, senza dire nulla, egli si alzò, prendendo in braccio Meti, la quale protestò debolmente.

«Erwin, io…»

«Ssst…»

I baci di Erwin le mozzarono in respiro.

«Adesso voglio prendermi cura di te.» le sussurrò, tra un bacio e l’altro.

La condusse a passo deciso in camera. La posò sul letto con estrema delicatezza, come se fosse fatta di cristallo, e cominciò a spogliarla, inframmezzando i suoi lenti gesti con baci e carezze.

«Meti… la mia Meti… mi sei mancata da morire…»

Meti lo accolse nelle sue braccia, grata di essere amata da un uomo che adesso sentiva di non meritare fino in fondo.

Il peso della menzogna sapeva che prima o poi l’avrebbe schiacciata: ma per il momento credeva di fare la cosa giusta, temendo le conseguenze di una rivelazione più completa, così come gliela aveva fatta suo padre.

Si abbandonò all’amore di Erwin, rispondendo alle sue carezze e ai suoi baci con tenero ardore.

Cercava costantemente un contatto visivo con i suoi occhi, come per chiedergli un silenzioso perdono. La verità è che non voleva perderlo: non voleva rimanere da sola, di nuovo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggerlo, nei limiti delle sue possibilità. Avrebbe fatto di tutto, anche fronteggiare nuovamente Kenny Ackerman, se fosse stato necessario, pur di non vedersi strappato dalle braccia anche il suo Erwin.

Questi, d’altro canto, aveva perfettamente intuito che Meti non gli avesse detto tutta la verità: ormai la conosceva abbastanza bene per sapere che non fosse molto brava a mentire.

Ma come aveva già fatto intendere a Dot Pixis, non voleva forzarla.

Capiva che Meti fosse addolorata per la morte del padre e che se ne sentisse in colpa.

Soprattutto, Erwin aveva sentito tutta la sua paura.

Meti era proprio terrorizzata, questo per lui era ben chiaro. Erwin era un militare addestrato, aveva imparato da tempo a decodificare il linguaggio del corpo e i segnali che le persone rilasciavano, anche senza accorgersene. E Meti era chiaramente sulla difensiva, molto rigida e tesa. La sua paura era palpabile, la si poteva annusare.

Del resto, la crisi di nervi di cui era stato testimone poco prima era sintomatica di una situazione di forte stress emotivo: cosa di cui egli doveva tener conto.

Ma non era affatto adirato o deluso.

Provava anzi compassione e comprensione per lei.

Meti aveva visto morire suo padre sotto i suoi occhi, lei stessa era stata gravemente ferita… e, chissà… magari era stata pure minacciata di morte. Per ora doveva farsi bastare quanto lei avesse deciso di rivelargli, che non era poi tanto poco: almeno, adesso si sapeva cosa fossero davvero i Giganti e quale pista seguire, con il tizio, Grisha Jaeger, da lei citato.

Pensava a queste cose, mentre la accarezzava con infinita tenerezza.

«Aspetta… lascia fare a me.» gli sussurrò lei.

Si puntellò sui gomiti per tirarsi su, da che era distesa, per mettersi a cavalcioni sull’uomo: guardandolo negli occhi e reggendolo come se fosse un bambino, lo fece lentamente distendere, per ricoprirlo di teneri baci.

Ecco la cicatrice più estesa, proprio all’altezza della spalla destra… Indugiò su di essa con le labbra, per poi discendere sul suo petto e poi più giù, per tutto il corpo del suo amato...

Erwin gemette di piacere, stupito dall’audacia sinora mai dimostrata dalla sua pudica amante.

Si amarono a lungo, come a voler supplicare la notte di non finire mai…



*Note dell'Autrice: Ovviamente nell’universo di Paradise dubitiamo tutti che si conoscesse il latino; semplicemente, ho voluto immaginare che esistesse un antico detto, magari in protoeldiano, con un significato simile. Prendetela come mia licenza poetica…
  
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