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Autore: Signorina Granger    08/12/2022    7 recensioni
INTERATTIVA || Iscrizioni chiuse
L’Arconia è un elegante condominio dell’Upper West Side abitato da maghi e streghe di diverse età, nazionalità ed estrazione sociale. Dopo l’inaspettata scoperta di un cadavere alcuni di loro si uniranno per indagare sull’accaduto, finendo col riportare a galla i segreti di più di uno dei loro vicini. Del resto, quanti possono affermare di conoscere davvero chi gli abita accanto?
[Dal testo]
“C’è una cosa che non capisco: la gente che non vuole vivere nelle grandi città per colpa della criminalità. Qualsiasi appassionato di true crime sa che non è così. Ammettiamolo: nessuno ha mai trovato 19 cadaveri nel giardino di un palazzo di 15 piani. Magari giusto un paio.
Qui hai gli occhi di tutti puntati addosso, siamo tutti ammassati e accatastati uno sopra l’altro.
Come quelli che, come me, vivono all’Arconia.”
[La storia prende ispirazione dalla serie tv omonima]
Genere: Comico, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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In questo capitolo (e da questo punto della storia in poi) troverete un paragrafo collocato prima del titolo. Volevo sottolineare che non si tratta di un errore, ma di una scelta voluta per riprendere l’usanza delle serie tv di inserire una breve scena, di solito slegata dal resto della narrazione, prima della sigla e del vero e proprio inizio dell’episodio. In questa storia i rimandi alle serie comedy e alle sitcom sono infiniti, e visto che in questo tipo di serie la prima scena è spesso abbastanza nonsense questi paragrafi iniziali saranno sempre piuttosto deliranti.
Questa volta è toccato a Moos, Orion, Gabriel e Leena, vedremo chi saranno i prossimi.
Buona lettura!

 




 
Leena doveva recarsi a casa di Eileen al sesto piano, sia per farle visita sia per farsi consegnare con gioia un po’ dei calamari fritti che l’amica aveva preparato per cena. Leena non aveva mai dovuto cucinare in vita sua essendo crescita con degli Elfi Domestici, e accoglieva con sollievo ogni occasione in cui poteva esimersi dal dover provvedere personalmente alla propria alimentazione. La strega stava aspettando l’ascensore, in piedi davanti alle porte dorate chiuse e il piede destro che non la finiva di tamburellare sul pavimento, quando finalmente quelle si aprirono consentendole di gettare un’occhiata all’interno dell’abitacolo.
Un sorriso si fece subito largo sul bel viso della strega quando scorse ben tre volti noti, ed entrò nell’ascensore salutandoli allegra, di ottimo umore in previsione di tutti i calamari fritti che si sarebbe potuta gustare di lì a breve:
“Ciao ragazzi! State tutti salendo?”
“Sì, stiamo tutti tornando dal lavoro.”
Moos sorrise gentilmente alla strega mentre Orion, dietro di lui, trangugiava caffè da un bicchiere di carta e Gabriel se ne stava appoggiato alla parete di metallo tenendo in mano a sua volta una tazza nera termica da viaggio e l’aria di chi ha avuto una giornata orribile:
“Oggi ho dovuto tatuare delle dannate sedicenni che non avevano idea di che cosa volessero… Se mi chiedono un altro “Carpe diem” questa settimana potrei avere una crisi isterica. Detesto tatuare i minorenni, ci sono sempre i genitori in mezzo che mi assillano, come se il permesso firmato non me lo avessero dato loro.”
“Se ti consola, io ho dovuto sistemare il cadavere di una signora anziana, e aveva questo dannato anello che non riuscivo a toglierle…”
Il pulsante del sesto piano era stato già premuto da Moos, pertanto a Leena non restò che appoggiarsi alla parete mentre Moos faceva spallucce con nonchalance, impaziente di rimettere piede nel suo appartamento e potersi gettare sul suo comodo divano e Gabriel, udite le parole dell’amico, rabbrividiva abbassando gli angoli delle labbra in una smorfia schifata:
“Bleah, che schifo, risparmia i dettagli.”
“Il tuo lavoro dev’essere così interessante! Ti capitano mai vittime di omicidi violenti?!”
Leena guardò Moos con sguardo sognante, gli occhi scuri spalancati e pieni di vivo interesse. Era piuttosto insolito che qualcuno si dimostrasse così interessato al suo lavoro e Moos non poté che stupirsene, guardando la vicina con la fronte aggrottata, ma prima che potesse dare una risposta l’ascensore si fermò al quinto piano.
“Chi deve andare al quinto?”
Accigliato, Orion fece vagare lo sguardo tra i presenti mentre Gabriel si allungava per gettare un’occhiata critica alle file di pulsanti, dove gli unici ad essere illuminati erano il 6, il 7 e il 9, ovvero i piani dove lui, Moos e Orion vivevano.
“Nessuno di noi aveva premuto il pulsante.”
“Allora qualcuno deve salire, ma perché le porte non si aprono?”
Leena spostò lo sguardo da un vicino all’altro prima di puntarlo sulle porte chiuse, accigliata, imitata ben presto da tutti i presenti. Per qualche istante nessuno dei quattro parlò, consentendogli così di udire una voce femminile proveniente del corridoio del quinto piano chiedere, forse a qualcuno accanto a lei, perché le porte non si aprissero.
Non fu per nulla difficile riconoscere quella voce, per Orion, che come in un dejà vu ricordò di aver già vissuto una situazione del tutto simile: l’astronomo spalancò inorridito gli occhi scuri prima di abbracciare il suo bicchiere di caffè con fare protettivo, spostando preoccupato lo sguardo dai vicino fino alle porte chiuse dell’ascensore.
“Porco Galileo, è lei!”
“Lei chi?” Leena al contrario non aveva riconosciuto la voce, e spostò perplessa lo sguardo sull’astronomo mentre anche Gabriel, realizzato a sua volta chi si trovasse a due metri da lui, indicava le porte chiuse con orrore:
“L’odiatrice del caffè!”
“Chi?!”
“Quella indiana! Ma lei abita all’ottavo piano, che cosa ci fa qui?!”
Possibile che quel giorno tutti gli astri si fossero allineati contro di lui? Orion sbuffò sonoramente mentre gettava un’occhiataccia al soffitto, maledicendo la sua cattiva stella mentre Gabriel, voltatosi verso gli altri, indicava preoccupato la sua tazza termica prima di sussurrare qualcosa:
“E io ho il caffè!”
“Anche io!”
“… Anche io…”
Moos deglutì a fatica mentre estraeva lentamente il suo thermos dalla borsa a tracolla di cuoio da lavoro, guardandolo preoccupato e chiedendosi come potersene disfare in quell’ambiente tanto ristretto mentre Orion, dietro di lui, continuava a spostare ansiosamente lo sguardo da un vicino all’altro formulando i pensieri più drammatici possibile:
“E se lei ha ucciso Montgomery e ora entra e ci vede col caffè e ci uccide tutti?!”
“Non può ucciderci tutti, siamo in quattro, lei è da sola!”
Gabriel scosse la testa, liquidando il discorso con un gesto della mano mentre fuori dalle porte la voce di Kamala continuava soffocata a far loro visita, anche se nessun capì che cosa stesse dicendo, troppo impegnati a parlare tra loro com’erano.
“Ok, sentite bene, io non posso morire oggi, devo mangiare i calamari fritti e poi in generale devo incontrare Daniel Craig prima di morire! Ma io sono inglese, io amo il tè, dite che se glielo dico mi risparmierà?”
Forse la sua nazionalità le avrebbe salvato la vita, si disse pensosa Leena mentre si appuntava di parlare con l’accento british più marcato possibile quando le porte si sarebbero finalmente aperte. Orion si lamentò del suo non essere inglese e della sua piuttosto scarsa passione per il tè mentre Gabriel, deciso a porre fine il più rapidamente possibile a quella giornata eterna, indicava spazientito le porte chiuse alle sue spalle:
“Assassina o meno io la sua pantomima sul caffè la voglio evitare, ho già avuto una giornata di merda e se sento una predica da quella hippy non rispondo delle mie azioni.”
“Inizierà a parlare dei chakra aperti e chiusi come l’altra volta!”
Orion gemette mentre si accasciava contro la parete, desiderando di sparire o di fondersi con essa mentre Gabriel, inorridendo solo all’idea, scuoteva la testa con decisione:
“Glieli apro io i chakra, se mi devo sorbire di nuovo quella predica!”
“Idea, trasformate il caffè in tè matcha con la magia! Lei ha proprio l’aria di una che beve quella roba.”
Leena sorrise compiaciuta mentre schioccava le dita, certa di aver avuto la migliore delle idee, ma quegli ingrati dei suoi vicini non sembrarono dello stesso avviso: mentre Moos cercava inutilmente di capire cosa stesse succedendo fuori dall’ascensore Orion quasi svenne e Gabriel ebbe un mancamento solo all’idea di dover sacrificare il suo preziosissimo caffè per colpa dell’odiata vicina:
“Che eresie vai dicendo, il caffè non si tocca!”
“E poi il tè matcha fa schifo!”
“State zitti, non la sento più!”
Le parole di Moos riuscirono finalmente a riportare il silenzio all’interno dell’ascensore, mentre tutti e quattro fissavano le porte chiuse cercando di concentrarsi su eventuali rumori e voci provenienti dall’esterno. Dopo qualche secondo di silenzio Leena, la fronte aggrottata, inarcò un sopracciglio e diede voce alla sua ennesima, anche se poco convinta, teoria:
“Forse non è lei la vera assassina, forse è arrivato quello vero e l’ha uccisa.”
“Certo, un assassino veramente intelligente, ammazzare qualcuno di lunedì sera, alle 19, davanti agli ascensori!”
 
Sembrava che le porte avessero subito semplicemente un piccolo guasto – anche se Orion lo interpretò più come un segno di come il destino avesse cercato di impedirgli di trovarsi faccia a faccia con Kamala, fallendo miseramente – e dopo qualche minuto, quando si aprirono, la minuta e sorridente figura di Kamala si stagliò davanti ai loro occhi.
Ma come si poteva sorridere di lunedì sera? Perché sorrideva sempre? Gabriel non poté fare a meno di trovare fastidioso il suo buonumore mentre la strega li raggiungeva, come sempre con addosso vestiti colorati e con la sua cascata di lucenti e setosi capelli neri a ricaderle sulla schiena. Leena, che se la ritrovò di fronte, gettò un’occhiata carica d’invidia ai suoi capelli liscissimi mentre Orion cercava di nascondere il suo bicchiere di caffè senza grande successo.
Fortunatamente per Leena e Moos l’ascensore si fermò al sesto piano appena pochi istanti dopo l’ingresso di Kamala, e la strega e il mago non esitarono a lasciare l’abitacolo sotto gli sguardi carichi d’invidia di Gabriel ed Orion. Leena, tuttavia, aveva appena messo piede fuori dall’ascensore per recarsi finalmente a casa di Eileen quando Kamala, la fronte aggrottata, si guardò attorno con leggera perplessità:
“Non sentite anche voi odore d caffè?”
Gabriel imprecò mentalmente sia in inglese sia in spagnolo, Orion deglutì a fatica e si strinse più che poteva contro la parete sperando di passare inosservato mentre Leena, voltatasi preoccupata verso i vicini, si affrettava a far sapere a Kamala come lei fosse inglese e, dunque, una grandissima fan del tè.
L’indiana la guardò visibilmente confusa, del tutto certa di non aver capito, ma prima che Leena potesse dire altro le porte iniziarono a chiudersi e Moos la trascinò via verso le porte degli appartamenti: l’ultimo scorcio che i due ebbero sull’interno dell’ascensore fu l’espressione truce sul viso di Gabriel mentre Kamala guardava con disapprovazione la sua tazza termica.
 
 
 
 
Capitolo 6
Il club del delitto
 

Domenica 19 settembre
9 am

 
 
Quella domenica mattina era iniziata decisamente per il verso sbagliato, per Domnhall Byrne: non solo la notte precedente aveva a stento chiuso occhio, trascorrendola praticamente in bianco, ma la mattina seguente aveva a malapena avuto il tempo di bere un caffè prima che il telefono iniziasse a squillare forsennatamente.
In piedi davanti al lavandino e allo specchio circolare, il rasoio in mano e la schiuma bianca a ricoprirgli metà del viso, Domnhall ruotò il capo per indirizzare il proprio sguardo sul telefono, che aveva lasciato sul bordo del mobiletto sospeso del lavabo, quasi con espressione implorante, pregandolo di non mostrargli sul display luminoso un qualche contatto di lavoro, anche se a giudicare dall’ora lo ritenne alquanto probabile.
Tecnicamente quel giorno Dom non avrebbe dovuto lavorare, ma essendo schivo da tutta la vita di un eccessivo senso del dovere si ritrovò comunque a riporre il rasoio e a prendere il telefono con un sospiro, perfettamente consapevole di come il suo lavoro funzionasse.
“Meggy, che succede?”
Cinque minuti dopo Dom aveva già posto fine alla telefonata e si stava lavando via la schiuma dal viso senza essersi raso, maledicendo la sua domenica di relax andata in fumo mentre si vestiva, recuperava la bacchetta e Appellava la giacca prima di uscire, diretto all’Upper West Side.
 
Materializzarsi a New York rappresentava un’impresa ardua, quasi impossibile apparire in un qualche angolo della città senza che nessuno se ne rendesse conto visto quanto era sempre affollata. Proprio per questo motivo Dom ormai da anni aveva imparato ad apparire nel luogo che rappresentava più di ogni altro l’essenza di ciò che i newyorkesi evitavano con solerzia: i bagni della Metropolitana.   
Dopo essere comparso nel bagno deserto Domnhall, che non ne avrebbe toccato la porta nemmeno se si fosse trovato vittima della Maledizione Cruciatus, la spinse con un calcio e uscì, unendosi al marasma di newyorkesi che percorreva l’atrio della fermata, ai quali si univa qualche turista reso immediatamente riconoscibile dalla tipica espressione spaesata di chi si approccia alla gigantesca Metropolitana della Grande Mela per la prima volta. Domnhall si diresse senza esitazione verso le scale per tronare in superficie, salendo i gradini due alla volta fino a ritrovarsi sul marciapiede davanti alla fermata 86th Street della linea IRT Broadway-Seventh Avenue. Per sua fortuna la fermata si trovava sulla stessa via dell’Arconia e dopo appena un paio di minuti di camminata Domnhall raggiunse la facciata dall’edificio e l’ampio ingresso, scorgendone gli enormi cancelli di metallo con dettagli laccati d’oro spalancati. Una silhouette a lui familiare stava in piedi davanti a quegli stessi cancelli, impegnata a chiacchierare con l’uomo in divisa verde bottiglia e con un bicchiere di carta in mano.
“Ciao Meggy.”
Quando si fermò alle spalle della collega Domnhall si sforzò di parlare con un tono pacato e che non rendesse troppo evidente la sua frustrazione per il trovarsi lì di domenica mattina, anche se era certo che fosse condivisa anche dai colleghi. La strega sentendo la sua voce ruotò su se stessa per voltarsi verso di lui, indirizzandogli un sorriso e allungandogli il bicchiere:
“Ciao. Caffè?”
Dom ne aveva bevuto uno solo poco prima, ma decise che ne avrebbe avuto bisogno e accettò grato il bicchiere che Megan gli offriva, dopodiché entrambi salutarono il portiere esterno e attraversarono con rapide falcate il breve tunnel che portava al cortile interno.
“Due portieri. Pazzesco. Chissà quanto costa vivere qui. Sento il conto in banca che si svuota solo a pensarci.”
Domnhall era d’accordo, ma mentre Megan si guardava attorno ammirata non disse nulla e si limitò a portarsi il bordo del bicchiere alle labbra per prendere un sorso di caffè, sentendolo piacevolmente scivolargli lungo la gola e scaldarlo.
“Mi spieghi di preciso che è successo?”
“Beh, in realtà esattamente quello che ti ho detto al telefono. Una signora sostiene che qualcuno si sia introdotto a casa sua, ieri. Ma francamente non penso proprio che fosse l’assassino.”
Domnhall si chiese da cosa derivasse la convinzione della strega, ma decise che glielo avrebbe chiesto più tardi e dopo aver sorseggiato un altro po’ di caffè preferì indagare a proposito dell’assenza del terzo collega:
 “Walt dov’è?”
“L’ho lasciato dentro con lei con la scusa di venire ad aspettarti fuori, in realtà la signora mi mette in soggezione e me la sono filata. Walt mi ha già scritto che sono in debito di milioni di caffè e ciambelle. Probabilmente lo salderò quando andremo in pensione, ma ne sarà valsa la pena.”
Mentre Megan si stringeva nelle spalle Dom rise, dopodiché vuotò il bicchiere e lo lasciò scivolare in un cestino quando vi passò davanti senza smettere di camminare, diretto verso l’ingresso dell’edificio. Qualche inquilino del palazzo probabilmente li riconobbe, a giudicare dalle occhiate che lanciarono nella loro direzione, ma Dom non ci badò mentre si fermava davanti alla porta, consentendo all’anziano portiere di aprirla per farli entrare.
“Grazie.”
Mentre varcava la soglia Domnhall si rivolse all’uomo, che ricordava chiamarsi Lester da quando ci aveva parlato la sera in cui avevano trovato il corpo di Montgomery Dawson, con un lieve cenno del capo prima di riportare lo sguardo davanti a sé, percorrendo l’enorme ingresso con gli occhi verdi per cercare tracce del suo collega.
Subito scorse Walter impegnato a parlare con una donna minuta, anziana e con i corti capelli candidi come la neve, puntando senza esitazione nella loro direzione mentre ruotava leggermente il capo verso Megan per chiederle di ricordargli il nome della strega: ricordava chiaramente di aver parlato con lei dopo l’apparente suicidio di Montgomery, ma quel giorno aveva parlato con talmente tante persone da rendergli impossibile associare ogni nome ad un volto.
“Ripetimi come si chiama.”
“Emily Turner. Inglese, vedova, credo che il marito fosse un medico famoso.”
Megan sibilò quelle parole muovendo a malapena le labbra appena prima che lei e il collega si fermassero davanti a Walter – che li guardò traboccando sollievo e probabilmente resistendo alla tentazione di abbracciare commosso Domnhall e ringraziarlo di essere arrivato – e alla Signora Turner, che smise di parlare con il più giovane del trio per posare i freddi occhi cerulei sul bel volto dal lineamenti cesellati di Dom.
“Salve Signora Turner. Abbiamo parlato la settimana scorsa, si ricorda?”
“Mi ricordo Detective Byrne, certo. Stavo dicendo al suo collega che qualcuno è entrato a casa mia, ieri, ma dubito fortemente volesse uccidermi. Ne ho parlato con l’amministratrice del palazzo e dopo la morte del figlio dei Dawson ha subito dato di matto e chiamato voi, ma non penso proprio che quella persona volesse uccidermi.”
Il tono pacato, quasi apatico, e l’espressione affatto preoccupata, solo piuttosto seria, della donna sorprese non poco Dom e lo costrinse a sollevare scettico un sopracciglio, chiedendosi come potesse essere così tranquilla, specie a seguito della morte di un ragazzo che abitava sopra di lei:
“Come fa a saperlo?”
“Beh, se avesse voluto lo avrebbe fatto. Io vivo da sola.”
Emily Turner inarcò un sopracciglio a sua volta, guardandolo come se gli stesse spiegando un’ovvietà, e Dom invidiò i suoi nervi d’acciaio, che di rado gli capitava di scorgere quando lavorava ad un’indagine, prima di parlare con tono pacato a sua volta:
“Forse voleva solo sottrarle qualcosa, l’ha sentita entrare in casa ed è scappato.”
All’udire le sue parole la Signora Turner scosse vigorosamente la testa, lasciandolo ancora più di stucco mentre Walter e Megan seguivano lo scambio di battute in silenzio, senza osare interromperlo. Se già l’atteggiamento rilassato della donna lo aveva stupito, ciò che di lì a breve la strega pronunciò fu in assoluto ciò che Domnhall meno si sarebbe aspettato di sentire in una simile circostanza:
“Lei non ha capito, Detective Byrne. Io so benissimo chi è stato.”
 
 
*

 
Domenica 26 settembre
Due giorni dopo il blackout

 
 
Quando la porta del bagno bianca venne bruscamente spalancata con una spinta nubi di vapore caldo fuoriuscirono dalla stanza per disperdersi nel resto dell’appartamento insieme alle note di A Sunday kind of love emesse da delle casse acustiche poggiate sulla consolle nera vicino all’ingresso, accanto ad un giradischi a valigetta.
Niki uscì dal bagno calpestando il parquet con i piedi nudi, canticchiando la seconda strofa della canzone insieme alla voce di Etta James mentre con la mano destra si passava lentamente un pettine in mezzo ai capelli bagnati partendo dalla radice e con la sinistra puntava la bacchetta contro la propria testa, lasciando che il vapore caldo emesso dalla punta le asciugasse i capelli. Quando vide Carrie e Mira correrle incontro mentre Sam piagnucolava davanti alle quattro ciotole vuote disposte in fila accanto alla lavastoviglie Niki si allontanò la bacchetta dal capo per puntarla contro i pensili della cucina, agitandola pigramente per far sì che un enorme sacco di croccantini riempisse le ciotole delle sue gattine. Subito anche Mira e Carrie corsero a loro volta verso le ciotole per fare colazione sotto lo sguardo divertito della padrona, che si spostò verso il divano color caramello senza smettere di canticchiare e di appiattirsi i capelli sul lato destro della testa. Scorta la piccola Lottie acciambellata su un cuscino Niki si chinò e la sollevò con una mano, stampandole un bacio sulla testa prima di portarla a sua volta in cucina, depositandola davanti alla sua ciotola per permetterle di mangiare prime che le altre si appropriassero anche della sua razione.
La strega rimase brevemente in piedi alle spalle delle gatte, controllando che non si azzuffassero per il cibo mentre continuava ad asciugarsi i capelli con la magia e a farsi scivolare dalle labbra quasi in automatico il testo della canzone. Mentre le gatte finivano di mangiare Niki si spostò verso il frigorifero, ne staccò un foglietto bianco dalla superficie e dopo esserselo infilato nella tasca della felpa nera si diresse  verso l’ingresso, si infilò calzini e anfibi e recuperò occhiali da sole e l’overshirt di pelle nera dall’appendino.
“Ci vediamo dopo piccole.”
Niki spense il giradischi, allontanando la puntina dal vinile che smise gradualmente di girare, e il 13B tornò ad essere avvolto dal silenzio più totale mentre la strega si infilava gli occhiali da sole e chiudeva la valigetta nera del giradischi. Gettata un’ultima occhiata alle gatte, tutte e quattro impegnate a vuotare le rispettive ciotole, Niki aprì la porta dell’appartamento e uscì, avendo cura di sollevarsi il cappuccio sulla testa mentre attraversava il lungo corridoio dalle pareti bianche per fermarsi infine davanti alla porta del 13E e bussare energicamente.
 
 
Domenica 19 settembre

 
“Allora, lei sostiene di esserne certa, ma senza prove non possiamo interrogare proprio nessuno. Di impronte in bagno non ce ne sono, ma anche la Signora Turner era certa che non ne avremmo trovate. L’unica cosa certa è che hanno usato il suo rossetto. Per una cosa del genere non ci avrebbero mai chiamati, ma dopo la morte di Montgomery Dawson la gente qui si allarmerà per ogni cosa.”
Megan stava percorrendo il viale di ghiaia che l’avrebbe condotta all’esterno dell’edificio tra Domnhall e Walter tenendo le mani infilate nelle tasche, lo sguardo pensoso e i lunghi ricci scuri a ricaderle sulla schiena. Era piuttosto certa che la Signora Turner avesse ragione e che se qualcuno avesse voluto ucciderla lo avrebbe fatto, ma tutta la situazione conservava qualcosa di molto bizzarro, prima tra tutti la reticenza palesata dalla donna nell’indicare chi, secondo lei, era stato l’artefice del gesto.
Walter, che camminava alla sua sinistra, smise di scrutare le finestre del tredicesimo piano alle sue spalle e portò invece lo sguardo sulla collega, guardandola inarcando un sopracciglio prima di parlare con tono dubbioso:
“Ma perché non ha detto chi è stato? Ha detto di saperlo, no?”
“Forse non vuole sollevare un polverone. Sarà una di quelle faide idiote tra vicini, forse vuole risolversi la questione da sola, sapendo che senza prove non puoi davvero accusare nessuno. Tu che ne pensi, Dom?”
Dopo essersi debolmente stretta nelle spalle la strega sollevò leggermente la testa per rivolgersi al collega, che invece camminava guardando fisso davanti a sé, le sopracciglia leggermente aggrottate a dar vita ad un’espressione concentrata e al tempo stesso quasi cupa sul suo viso:
“Penso che chiunque sia stato abita quasi di certo sul suo stesso piano, o al massimo in quello inferiore o superiore, o avrebbe sentito il baccano delle scale antincendio. Ha ammesso di non ricordare se aveva chiuso completamente tutte le finestre prima di uscire, sarà entrato da lì. Dubito che volessero ucciderla, quindi spero che a nessun altro venga in mente di fare scherzi imbecilli come questo, così non dovremo continuare a correre qui per una finestra imbrattata.”
“Però era divertente, se chiunque l’abbia fatto e la Signora Turner davvero si detestano.”
Walter si strinse nelle spalle mentre infilava le mani in tasca a sua volta, assumendo un’espressione sorpresa quando si rese conto di come entrambi i colleghi lo stessero guardando con rassegnata eloquenza:
“Che c’è? Non dico che va bene, dico che è stupidamente divertente! Di sicuro invidio i nervi di quella donna, io dopo un omicidio, sapendo che qualcuno è entrato in casa mia, mi trasferirei.”
“E lo credo bene, il mese scorso sono venuta a casa con te per portare gli scatolini dell’ultimo caso a cui abbiamo lavorato, da uno è sgusciato fuori un ragno e lo hai fatto uccidere a me. Cuor di leone.”

 
8 pm

 
Le voci giravano più rapide che mai all’Arconia da quando Montgomery era morto, e Mathieu non aveva tardato ad apprendere di come molti avessero visto gli stessi Auror che avevano parlato con tutti loro a seguito dell’apparante suicidio del ragazzo conversare con la Signora Turner, e subito si iniziò a vociferare di come qualcuno si fosse introdotto a casa della donna.
Mathieu era di ritorno dalla passeggiata serale con Prune e stava attraversando in tutta calma il cortile, lieto che anche quel lunedì fosse ormai giunto al termine, quando udì quelle voci da piccoli gruppi o coppie di vicini che si erano radunate su alcune delle panchine. Sentendo il nome della sua vicina e degli Auror a Mathieu si era rapidamente gelato il sangue nelle vene, ma aveva dato foggio della sua miglior faccia di bronzo e aveva attraversato il cortile insieme al suo alano senza battere ciglio o fermarsi a parlare con nessuno, salutando Lester e varcando l’ingresso a passo svelto per raggiungere gli ascensori.
Fu un sollievo per il mago trovare l’ascensore vuoto quando le porte dorate gli si aprirono davanti e il canadese non esitò ad infilarsi all’interno dell’abitacolo insieme a Prune. Premette il tasto del quattordicesimo piano e mentre l’ascensore saliva e Prune gli si sedeva accanto iniziò ad arrovellarsi sulle voci appena sentite e su ciò che aveva sentito dire a Niki il giorno prima a proposito di come la Signora Turner non avrebbe mai potuto dimostrare il loro essere stati a casa sua.
Mathieu ricordava di aver tenuto i guanti per tutto il tempo, e così la sua vicina. Era anche certo che la donna non li avesse visti, avevano raggiunto la parte del terrazzo di Carter che proseguiva lungo la facciata laterale dell’edificio prima che lei potesse sporgersi dalla finestra, togliendosi dunque dal suo campo visivo. In effetti, anche risalendo a Niki sarebbe stato estremamente difficile risalire anche a lui, visto e considerando che nessuno, tantomeno la Turner, li aveva mai visti scambiare due parole. Mathieu accarezzò distrattamente la testa di Prune mentre l’ascensore si fermava al quattordicesimo piano, sperando ardentemente che la sua vicina, seppur bizzarra, non si fosse sbagliata.
 

 
Carter non si ubriacava mai, aveva sempre vantato una resistenza all’alcol invidiabile, ma forse la sera prima, a giudicare dal mal di testa con cui aprì gli occhi nell’ultima domenica di settembre, lui e Sasha avevano bevuto un paio di bicchieri di troppo. Pur non essendosene affatto pentito – anzi, aveva sentito l’impellente bisogno di dimenticare il più rapidamente possibile il penoso appuntamento che aveva avuto e dal quale era fuggito chiamando in soccorso il suo migliore amico – quando aprì gli occhi, svegliato sia dall’insistente bussare alla porta, sia da Sarge che pensò bene di assalirlo mettendo le zampe anteriori sul letto per leccargli la faccia, il giornalista non poté far altro che passarsi una mano sulla fronte dolorante, gemendo sommessamente e cercando al contempo di scostarsi l’ingombrante cane e il suo affetto di dosso:
“Sarge, Sarge, lo so che mi ami, ma smettila di leccarmi la faccia! Ora mi alzo e ti do da mangiare…”
Sospirando gravemente Carter si scostò le lenzuola di dosso e si alzò, camminando svogliatamente a piedi nudi sul pavimento fino a raggiungere la rampa di scale a sbalzo che dal soppalco dove si trovava la sua camera lo avrebbe portato al pian terreno.
Prima di riempire le ciotole di Isla e Sarge Carter tuttavia si diresse verso l’ingresso, desideroso di aprire la porta, di far cessare quel rumore tanto fastidioso e di scoprire chi gli stesse rompendo le palle di domenica mattina.
“Che c’è?”
Carter spalancò la porta di casa senza curarsi particolarmente della sua abitudine di dormire in mutande, i capelli biondi spettinati e un’espressione visibilmente seccata sul viso. Niki, ritrovatoselo davanti in quelle condizioni, inarcò un sopracciglio con evidente scetticismo e sbattè le palpebre un paio di volte prima di alzare gli occhi al cielo rassegnata, dicendosi che avrebbe dovuto aspettarselo:
“Ti spiacerebbe vestirti?”
“E a te spiacerebbe non rompere di domenica mattina, per di più all’alba?”
“Sono le 8.30.”
Alba, appunto.”
Per una frazione di secondo, mentre osservava i capelli color grano arruffati di Carter e l’aria frastornata impressa sul suo viso, quella tipica di chi si è appena svegliato, Niki si ritrovò sinceramente ad invidiare il suo bel vicino: lei dormiva talmente poco che nel corso di certe settimane l’alba, quella vera, la poteva ammirare un giorno sì e l’altro pure, tanto che il fascino di quel fenomeno naturale era svanito ai suoi occhi già un discreto numero di anni prima. Per un istante Niki si chiese come fosse svegliarsi dopo aver dormito per più di quattro ore di fila, finchè non si strinse nelle spalle e tornò a rivolgersi al vicino con tono pacato:
“Questione di punti di vista, io sono sveglia già da quattro ore e nel mentre ho letto un intero libro della Christie. Ad ogni modo, sono venuta a riscattare il mio premio.”
Mentre Carter rifletteva su come lui fosse andato a letto esattamente quattro ore prima Niki si sfilò la mano destra dalla tasca della felpa e ne estrasse il foglietto bianco che, Carter poté rapidamente appurarlo con orrore, riportava qualcosa scritto indiscutibilmente con la sua grafia.
Il buono per trascorrere una giornata con Carter
Per la prima volta in vita sua, Carter maledisse il suo egocentrismo.
“Lo avevo rimosso. Non pensi che potremmo far finta che non esista?”
Carter guardò speranzoso la sua vicina, implorandola di ricordarsi di quanto lo trovasse poco simpatico – cosa che lo lasciava semplicemente basito, ma forse quella mattina avrebbe anche potuto tornargli utile – per permettergli di farlo tornare a letto e di dedicarsi ad una mattinata di lettura e relax. Niki sembrò rimuginare seriamente sulla sua proposta e si rivoltò il foglietto tra le dita per darci un’occhiata, ma dopo una breve ponderazione si strinse nelle spalle e tornò a guardarlo attraverso le lenti scure degli occhiali accennando un sorrisetto appena percettibile con gli angoli delle labbra:
“Immagino che potremmo. Ci stavo riflettendo, sai, ma ora che vedo come sei felice di vedermi penso che sarebbe ingiusto privarti della gioia di poter passare del tempo con me. Direi che possiamo ridurlo a mezza giornata e basta.”
“Bene. Ma prima devo vestirmi. E non pensare che la “giornata” abbia una valenza in stile Pretty Woman!”
Carter diede le spalle alla vicina sbuffando per tornare di sopra e recuperare i suoi vestiti mentre Niki, entrando in casa, si chiudeva la porta alle spalle. Sarge la raggiunse scodinzolando, e la strega non tardò ad inginocchiarsi davanti al cane per prendergli la testa tra le mani e accarezzarlo dolcemente senza riuscire a celare il suo stupore mentre guardava Carter salire le scale lamentandosi sommessamente:
Tu hai visto Pretty Woman?”
 
 
Carter stava morendo di fame, tanto che dopo essersi vestito, aver sfamato i suoi amati animali e aver appurato con orrore di essersi scordato di fare la spesa il giorno prima e di avere dunque la dispensa vuota aveva quasi letteralmente trascinato Niki fuori dal suo appartamento per uscire e poter andare a fare colazione, rischiando una fattura quando la strega aveva fatto scivolare il braccio esile dalla sua stretta con un gesto brusco e gli aveva intimato minacciosa di non toccarla mai più senza il suo consenso.
Niki era stata costretta a salutare a malincuore i piccoli pelosi del suo vicino mentre lo seguiva fuori dall’appartamento, consolandosi all’idea di potersi gustare litri di caffè caldo di lì a breve: di certo la bevanda avrebbe rasserenato la compagnia di Ken, anche se in fondo Niki era deliziata dall’idea di averlo buttato giù dal letto e di avergli guastato la domenica.
 
 
Quella mattina Mathieu era salito in ascensore di ottimo umore, lieto di averlo trovato vuoto e di potersi dunque godere almeno qualche piano di pace e di solitudine, senza dover per forza sentir parlare di morti, suicidi o pettegolezzi vari del palazzo. Il tragitto verso il pian terreno era tuttavia appena iniziato quando l’abitacolo si arrestò fino a fermarsi solo al piano inferiore, e all’apertura delle porte dorate l’illusione di Mathieu, che reggeva il guinzaglio azzurro di Prune con una mano, si spezzò mostrandogli un duo piuttosto inaspettato: Carter, che aveva tutta l’aria di essere appena stato scaraventato giù dal letto e di non aver dormito molto, e Niki, che come sempre indossava gli occhiali da sole e il cappuccio della felpa sollevato. A Mathieu non sarebbe dispiaciuto farsi qualche piano in santa pace, ma alla vista di quei due non riuscì a sogghignare apertamente:
“Oh, la strana coppia. Non riuscite a stare lontani a lungo e state andando ad un appuntamento? Che carini.”
“Riditela meno, Mike. Ciao Prune!”
Niki varcò la soglia dell’ascensore sfoggiando la sua consueta inespressività sia in viso sia nel tono di voce, le mani infilate nelle tasche della felpa nera, ma quando i suoi occhi si posarono sull’alano sorrise e il suo tono mutò radicalmente, facendosi improvvisamente molto più allegro e acuto mentre Carter si trascinava dietro di lei consentendo alle porte di chiudersi e di riprendere il tragitto verso il pian terreno.
Niki allungò una mano verso Prune e gli chiese di darle la zampa, sorridendo allegra e accarezzandogliela dolcemente quando l’alano obbedì. La strega asserì come “la giornata stesse proseguendo bene avendo incontrato due bellissimi ragazzi già di prima mattina”, e all’udire quelle parole Carter, che nel frattempo si era appoggiato alla parete di metallo con la schiena, si rivolse a Mathieu con un basso mormorio dubbioso:
“Parla di noi o dei cani?”
“Difficile dirlo.”
Mathieu ruotò la testa per volgere lo sguardo su Niki e Carter lo imitò, studiando in sincro la vicina impegnata a far sapere a Prune quanto quel giorno fosse carino. Dopo una breve riflessione il canadese infine annuì, serio, e tornò a rivolgersi all’amico con tono piatto:
“Sicuramente dei cani.”
Non mi sono mai sentito tanto sminuito invita mia.”
Carter guardò Niki scuotendo la testa con disapprovazione, sinceramente offeso dalla scarsa considerazione della vicina, e Mathieu annuì gettando a sua volta un’occhiata amareggiata in direzione della strega, conscio di non aver mai ricevuto un trattamento del genere in tutta la sua vita:
“Nemmeno io.”
Quel palazzo strabordava di cani carini, ma sfortunatamente i padroni si stavano rivelando uno più suscettibile e vanesio dell’altro, tanto che Niki si vide costretta a gettare un’occhiata spazientita ai due da dietro le lenti degli occhiali senza smettere di accarezzare la testa di Prune:
“Che palle che siete, siete carini anche voi, contenti?!”
“Lo sarei di più se non dovessi passare la mattinata con te, ma è un inizio.”
 
 
“Senti Niki, sei sicura che non ci fosse nulla nell’appartamento della Turner che potesse far risalire a noi? Domenica scorsa gli Auror sono stati qui, alcuni vicini l’hanno vista parlarci.”
Quando Niki ebbe finito di fare le moine a Prune e sembrò essere tornata normale – ovvero seria, cupa, silenziosa e scontrosa – Mathieu le si rivolse gettandole un’occhiata dubbiosa e un poco preoccupata, quasi temendo di trovarsi la Turner e i suoi pappagallini fuori dalla porta per accusarlo di essersi introdotto a casa sua in compagnia della sua acerrima nemica. Le sue parole portarono la strega, che dopo la sessione di coccole a Prune si era appoggiata scompostamente alla parete con le gambe lunghe distese davanti a sé, le caviglie incrociate e le mani in tasca, a staccare gli occhi dal display numerico dell’ascensore per ripotarlo su di lui, senza però rispondere alla domanda e ponendogliene invece una a sua volta:
“Quale Auror?”
“Credo Byrne, continuo a sentir parlare di “quello bello” con aria sognante.”
Mathieu aggrottò la fronte, chiedendosi il perché di quella domanda mentre Niki tornava a guardare il display annuendo piano, mormorando pensosa qualcosa rivolgendosi più a se stessa che a lui mentre Prune si faceva coccolare felice da Carter:
“Lo sapevo.”
“Lo sapevi?!”
Mathieu parlò strabuzzando gli occhi azzurri, chiedendosi come la vicina potesse saperlo. Stava iniziando a chiedersi se per caso la strega non possedesse una qualche sorta di potere paranormale quando Niki, serissima, annuì tornando a guardarlo da dietro le lenti scure:
“Ma certo. Insomma, era ovvio già dalla sedia, che a quella piacessero quelli più giovani, vecchia marpiona. Fossi in voi starei in guardia, potremmo avere una svolta alla Amanda Lear da queste parti.”
Mentre Niki faceva spallucce con la massima nonchalance bramando mentalmente la terza colazione della sua giornata e Carter si chiedeva chi fosse Amanda Lear, Mathieu si domandò perché nessuno in quel palazzo capisse mai ciò che diceva: era forse colpa del suo accento? Avrebbe dovuto iniziare a studiare dizione?
“Ma non era questo quello che volevo dire!”
 
 
La giornata stava iniziando malissimo, e Mathieu ne ebbe la conferma quando giunti al pian terreno le porte si aprirono e davanti ai tre si stagliò nientemeno che la figura minuta della Signora Turner, il cui sguardo subito indugiò su Niki facendosi più gelido che mai. Carter si fece piccolo piccolo contro la parete alle sue spalle chiedendosi come facesse una figura così minuta ad incutere tanto timore, Prune cercò inutilmente di nascondersi dietro a Mathieu e quest’ultimo si sforzò in tutti i modi di non assumere un’aria colpevole mentre Niki, al contrario, distendeva le labbra in un sorriso rilassato. La strega si staccò mollemente dalla parete di metallo e con un appena un paio di falcate attraversò l’ascensore, uscendo dall’abitacolo sempre con le mani infilate nelle tasche ma non senza premurarsi di rivolgersi prima alla sua vicina prediletta:
“Ehilà, Lady Bird. I Toy Boy come se la passano?”
Niki parlò ruotando leggermente il capo per appena un paio di secondi, giusto in tempo per poter scorgere l’effetto delle sue parole sul viso dell’anziana strega prima di sogghignare divertita e superarla, addentrandosi in tutta calma nell’ingresso semivuoto.
La Signora Turner, dopo aver fulminato Niki con un’occhiataccia, riportò lo sguardo sull’interno dell’ascensore e i suoi occhi cerulei indugiarono gelidi su Carter e Mathieu, che dopo aver assistito paralizzati allo scambio parvero improvvisamente ridestarsi e si affrettarono a seguire Niki, uscendo rapidissimi dall’abitacolo e salutando la vicina senza osare guardarla in faccia facendo del proprio meglio per non ridere.
 

 
*

 
Ma cosa le era venuto in mente quando aveva pensato di andare a correre al parco, quella mattina? A cosa stava pensando, si chiese Eileen mentre si fermava con sollievo sulla porzione di marciapiede davanti all’ingresso dell’Arconia respirando affannosamente, le guance di solito pallidissime leggermente arrossate dallo sforzo. E pensare che avrebbe potuto starsene comoda comoda sul divano a leggere, o a guardarsi qualcosa sul PC, si disse la strega mentre attraversava il breve tunnel che conduceva al cortile interno sciogliendosi la coda di cavallo ormai malconcia in cui aveva legato i capelli prima di uscire per rifarsela, le AirPods nere infilate nelle orecchie e il telefono nella fascia da braccio del medesimo colore allacciata sopra alle maniche della maglia assorbente blu notte che indossava.
Eileen stava attraversando il cortile percorrendo uno dei due vialetti di ghiaia che lo costeggiavano, camminando tra aiuole e panchine, quando sul bordo della fontana di pietra scorse una silhouette particolarmente familiare. Anche se moriva dalla voglia di sfilarsi le scarpe e di buttarsi sotto la doccia alla vista di Leena, che stava tracciando delle linee su un blocco da disegno, invece di procedere verso l’ingresso la spagnola si diresse senza esitare verso l’amica per salutarla, sorridendo quando la britannica udendo i suoi passi sollevò la testa e guardò verso di lei:
“Ehy!”
“Ehy. Che fai?”
Dopo aver raggiunto l’amica Eileen spense la musica sul telefono e sedette accanto a lei sul bordo della fontana, guardandola accennare al blocco da disegno mentre lo chiudeva con una debole stretta di spalle:
“Perdo tempo disegnando vestiti che sogno di possedere, niente di che. Sei andata a correre? Ammiro la tua forza di volontà.”
“Sì, non ho idea di dove l’ho trovata, e me ne sono pentita.”
Eileen sollevò le gambe doloranti allungandole più che poteva con una leggera smorfia, bramando il momento in cui si sarebbe gettata sul suo comodissimo divano per non lasciarlo mai più. E moriva dalla voglia di bere un altro caffè bollente.
“Ti va di accompagnarmi il libreria? Devo comprare un po’ di roba da Barnes & Noble(1).”
La sede di Barnes & Noble dell’Upper West Side era forse una delle loro mete preferite di tutto il quartiere, e Leena aveva appena formulato la domanda quando vide Eileen irrigidirsi prima di voltarsi di scatto verso di lei, i grandi occhi eterocromi improbamene accesi dall’interesse: l’immagine del divano sparì rapidamente dalla mente dell’informatica, lasciando spazio a quella di decine e decine di scaffali meravigliosamente carichi di libri di tutti i tipi. Eileen era una nerd semplice, pertanto le librerie esercitavano un’enorme attrattiva su di lei, senza contare che la catena di librerie era nota anche per il suo contare al suo interno delle caffetterie, fattore fondamentale per determinare l’entusiasmo della spagnola.
“Compriamo libri e poi ci beviamo dei Frappuccini giganti al caramello?”
“Chi sono io per negartelo?”
Leena distese le labbra carnose in un sorriso divertito mentre Eileen, ricambiando entusiasta, scivolava giù dal bordo della fontana per affrettarsi a salire fino al suo appartamento dimenticandosi del dolore alle gambe provato fino a poco prima: di certo pur di tornare nel cortile in fretta e potersi precipitare in libreria avrebbe corso fino al suo appartamento più di quanto non avesse fatto a Central Park.
“Mi faccio la doccia e torno, farò prestissimo, aspettami qui.”
Leena non aveva nessuna intenzione di muoversi da lì e promise all’amica che l’avrebbe aspettata, guardandola allontanarsi fino a sparire dietro la porta dopo aver salutato Lester prima di tornare brevemente al suo disegno. Le ci era voluto parecchio per ambientarsi nella metropoli più famosa degli States, e forse non ci sarebbe mai riuscita del tutto, ma era stata innegabilmente fortunata ad aver trovato un’altra incorreggibile nerd come lei.

 
*

 
Usciti dall’Arconia e salutato Mathieu – o, nel caso di Niki, Prune – Carter aveva appreso con sollievo che lui e la vicina concordavano quantomeno su un aspetto, ovvero l’impellente necessità di mettere qualcosa sotto i denti e di bere una generosa dose di caffè bollente. Il giornalista aveva così fame che si era lasciato condurre ovunque Niki volesse senza obbiettare, gioendo mentalmente quando si era ritrovato davanti ad un pittoresco panificio con una vetrina che strabordava di torte e cupcake di tutti i gusti.
Scegliere tra un cupcake al cioccolato e uno al gusto Red Velvet non era concepibile per Carter, specialmente quando era a stomaco vuoto da ore, pertanto aveva deciso di ordinarne uno per gusto e Niki, ritrovatasi vittima dello stesso dilemma, aveva finito con l’imitarlo.
“Allora ogni tanto qualche buona idea ce l’hai, dopotutto.”
Niki aveva disteso le labbra in un tiepido sorrisetto mentre si sistemava più comodamente contro lo schienale della sedia, incrociando le lunghe ed esili braccia al petto mentre Carter, sforzandosi di non offendersi, le scoccava un’occhiata stizzita e un poco sostenuta dall’altra parte del tavolo di legno quadrato che avevano occupato in un angolo silenzioso davanti alla vetrina.
“Se mi conoscessi sapresti che io sono pieno di ottime idee. Tu, al contrario, sei piena di preconcetti verso di me.”
“Beh, siamo qui. Sorprendimi, James Carter Cross, dimmi qualcosa di te che non so.”
Il sorriso che Niki gli rivolse era carico di sfida e Carter, competitivo com’era, decise di accoglierlo senza riserve, annuendo mentre appoggiava le braccia sul tavolo per sporgersi leggermente verso la vicina:
“Gioco delle venti domande.”
“Che sarebbe?”
“Non lo dice il nome, genia? Ci facciamo 20 domande, così ci conosciamo meglio.”
“Va bene, tanto già che dobbiamo passare qualche ora insieme… Ma niente di troppo personale.”
Niki si strinse nelle palle con noncuranza, sollevando le lunghe braccia fasciate dalle maniche di pelle dell’overshirt per stiracchiarsi
“Hai tre veti, fatteli bastare. Comincio io. Non penso che tu al momento stia lavorando, quindi come ti permetti di vivere dove vivi?”
“Vendo foto dei piedi su WizardFans(2).”
Carter si sarebbe aspettato pressoché qualsiasi risposta, tutte fuorché quella, e guardò la vicina spalancando gli occhi in un misto di sorpresa, orrore e ammirazione mentre Niki continuava a guardarlo standosene impassibile con le braccia strette al petto.
“Davvero?!”
“No. Non capirò mai perché nessuno capisce quando scherzo. Ad ogni modo, ho guadagnato a sufficienza negli anni passati, fattelo bastare.”
Forse nessuno lo capiva perché aveva sempre la stessa identica espressione sulla faccia, ma Carter evitò di farglielo sapere – doveva passare diverse ore con lei, non ci teneva a farla incazzare – e decise di rilanciare con la domanda successiva mentre la vicina giocherellava osservando pensosa la scatolina di legno che conteneva le bustine di zucchero.
“E non pensi mai a cosa farai dopo?”
Niki smise di muovere la scatola e si fermò, sollevando il capo per guardare la strada fuori dalla vetrina le auto, i passanti e gli edifici di fronte. Per un istante non parlò, finchè non si strinse nelle spalle senza smettere di guardare fuori:
“Questa è una bella domanda. Non lo so. C’è stato un periodo in cui non dovevo pensare al dopo.”
Carter la guardò, confuso e chiedendosi quale fosse il significato di quella risposta tanto criptica, ma prima che potesse indagare a riguardo seguendo il suo istinto giornalistico una cameriera raggiunse il loro tavolo con i caffè e i cupcake, distogliendo momentaneamente l’attenzione di entrambi dalle domande per indirizzarla su qualcosa di infinitamente più importante, ovvero il cibo e il caffè.
“Meno male, stavo morendo!”
Carter sospirò mentre guardava sognante i bellissimi cupcake che aveva davanti, affrettandosi a togliere la carta da quello al cioccolato per addentarlo mentre Niki, davanti a lui, si portava l’enorme tazza di triplo espresso alle labbra senza premurarsi di zuccherarlo prima di sospirare e guardare adorante la sua bevanda calda prediletta:
“Vorrei tornare indietro nel tempo e sposarmi chi ha inventato il caffè.”
“E se fosse stato un cesso?”
“Chi se ne frega, avrei avuto caffè gratis a vita! Queste si chiamano priorità. Allora, dimmi… nella tua famiglia vi chiamate tutti con il nome di un Presidente?”
Niki distese le labbra nel primo vero sorriso della giornata – forse di tutto il weekend – mentre Carter, al contrario, si rabbuiò in viso: se avesse ricevuto un dollaro per ogni volta in cui si era sentito porre quella domanda, sarebbe stato ancor più ricco di quanto non fosse.
“Sì. Mio fratello si chiama Lincoln, mio padre Fitzgerald per via di Kennedy. Non ridere.”
“E chi ride?”
 
“Non posso stare ad ascoltarti se dici certe stronzate, mi rifiuto!”
Tutto sommato la colazione di Carter e Niki era iniziata con il verso giusto, e sarebbe anche proseguita nel migliore dei modi se solo Carter non si fosse sognato di chiedere a Niki quali fossero i suoi romanzi preferiti di Agatha Christie.
“Ovviamente “Se morisse mio marito”.”
“Perché ovviamente?”
“Perché è geniale. L’omicidio perfetto, il prodotto di una mente perversa, sì, ma sicuramente superiore. il tuo? Non dire Dieci piccoli indiani, ti prego, è scontato.”

“Allora “L’assassinio di Roger Ackroyd”.”
Quello era stato il punto di non ritorno, o meglio quando Niki aveva dichiarate come quel romanzo fosse fortemente sopravvalutato.
“Non è sopravvalutato, è geniale, ha rivoluzionato l’intero genere letterario!”
Carter fece appello a tutto il suo autocontrollo per non lanciare il cupcake contro Niki per l’offesa ingiuriosa rivolta ad uno dei suoi libri preferiti in assoluto, ripetendosi come sarebbe stato un vero spreco non gustare una simile delizia. Niki invece non si scompose, continuando a rigirarsi la tazza tra le lunghe dita affusolate mentre lo guardava tenendo i gomiti ossuti piantati sul bordo del tavolo.
“Certo, i due capitoli finali. Quelli sono dei capolavori, ma il resto? Il resto è banale, a tratti noioso, vale la pena di leggerlo solo per il finale sconvolgente.”
“Il finale vale l’intero libro, punto.”
 
Più le domande si susseguivano, più Carter e Niki appuravano con una certa dose di sconcerto quanto le loro personalità si stessero rivelando simili sotto molteplici punti di vista.
“Lo sai, sei bravo a mascherare la tua vera personalità. Non si direbbe che sei un nerd asociale, sotto la faccia da surfista californiano.”
Dopo aver appreso di come Carter detestasse andare alle feste, men meno andare a ballare o in generale essere coinvolto in occasioni che richiedevano elevate interazioni sociali Niki si vide costretta a rivalutare il suo vicino, che le gettò un’occhiata torva mentre la guardava raccogliere distrattamente un po’ di glassa al mascarpone dal suo cupcake quasi ancora del tutto integro.
“Non sono californiano, sono dell’Indiana. Questo ti insegnerà a non fermarti alle apparenze, anche se è qualcosa che mi sento ripetere da tutta la vita.”
“Mea culpa. Quindi la tua famiglia vive in Indiana?”
“Tranne mio fratello maggiore che vive qui anche lui, sì. La tua dove vive?”
Carter prese il manico della sua tazza per gustarsi un altro sorso di caffè – il secondo – mentre Niki, gli occhi verdi ancora puntati sul suo cupcake, smetteva momentaneamente di far girare il cucchiaino attorno alla glassa. La strega restò in silenzio per un lungo istante, prima di riprendere a muovere il dorso del cucchiaio in modo da raccogliere la crema sotto lo sguardo leggermente preoccupato di Carter, che dal suo silenzio intuì di averle rivolto una domanda scomoda.
“Da nessuna parte.”
Carter non riuscì a stabilire se ad atterrirlo di più fosse stata la risposta in sé o il tono pacato con cui Niki la pronunciò, con una calma e una tranquillità che stridettero non poco con le parole che uscirono dalle labbra della strega. Mentre Niki continuava a giocherellare pensosa con il suo cupcake senza mangiarlo Carter la guardò senza sapere che cosa dire, se non la cosa più banale in assoluto, mentre lo stomaco gli si stringeva in una sensazione fastidiosa: per quanto potesse non avere un legame idilliaco con la sua famiglia, a parte sua nonna, non riusciva ad immaginare di vivere la sua vita senza nessuno di loro.
“Mi… Scusa, mi dispiace.”
“Non dispiacerti, non erano belle persone.”
Niki si portò finalmente il cucchiaio alle labbra per assaggiare la glassa, lasciando che il suo sapore dolcissimo le avvolgesse la bocca mentre la strega cercava di non focalizzare il proprio sguardo sull’espressione di Carter. C’erano poche cose che faticava a tollerare quanto quella specie di compassione sui visi altrui, ragion per cui affondò il cucchiaio nel cupcake per dividerlo a metà affrettandosi a porgli una domanda a sua volta:
“Che cosa ti spaventa?”
Quella domanda e quel repentino mutamento di argomenti destabilizzò un poco il giornalista, che inizialmente guardò la vicina aggrottando le sopracciglia color miele quasi chiedendosi se non avesse capito male. Ma in fondo lui stesso non avrebbe affrontato volentieri argomenti del genere a voce alta, ne era perfettamente consapevole, e decise di assecondarla e di rivelarle persino uno degli aspetti della propria persona che meno tollerava e che più lo aveva sempre messo a disagio: se lei si era anche solo un poco aperta con lui, tanto valeva che ricambiasse.
“Ho paura del sangue. E sì, mi imbarazza molto, ma non posso farci niente. Mi sarebbe piaciuto fare l’Auror, se non fosse stato per questo piccolo inconveniente. Tu di che cosa hai paura?”
Di nuovo Niki esitò mentre guardava fuori dalla vetrina, e Carter, al tempo stesso grato che la vicina si fosse esentata dal prenderlo in giro per la sua emofobia, si chiese ancora una volta che cosa le passasse per la mente. Dopo un paio di istanti Niki tornò a guardarlo, stringendosi nelle spalle prima di rispondere con la massima semplicità e portarsi alle labbra la metà del suo cupcake color ciliegia:
“Dei fantasmi.”
“Dei fantasmi?”
Niki non sembrava il tipo di persona in grado di farsi spaventare da un fantasma, anzi, Niki sembrava il tipo di persona che deride chi si fa suggestionare facilmente, e Carter la guardò perplesso chiedendosi se non lo stesse semplicemente prendendo in giro, ma la strega annuì a conferma delle sue parole e si strinse nelle spalle prima di tornare a guardarlo e ad appoggiarsi allo schienale della sedia:
“Penso che non ci sia niente di più spaventoso dei fantasmi.”
Ancora una volta Carter non era del tutto sicuro di che cosa lei volesse dirgli, ma temendo di ripetere una gaffe simile a quella commessa poco prima decise di accantonare la sua curiosità, di tacere e di lasciar perdere.
 

 
*

 
Esteban si trovava sul suo terrazzo da almeno un’ora, una felpa nera larga addosso e dei jeans ricoperti da tracce di terra che avrebbero avuto decisamente bisogno di una lavata, così come le sneakers che utilizzava per dedicarsi al giardinaggio, un tempo bianche e ormai praticamente grigie.
I lunghi capelli mossi raccolti per evitare che gli scivolassero davanti agli occhi dandogli fastidio, il ragazzo si stava dedicando premurosamente alle sue numerosissime piantine, che a voler ben vedere costituivano anche un’eccellente fonte di guadagno. Quando sentì abbaiare Esteban smise di tastare la terra sotto ad una pianta per accertarsi che fosse sufficientemente umida e sollevò la testa per puntare lo sguardo sulla finestra più vicina, scorgendo Mocio intento a guardarlo dietro al vetro, le zampe anteriori poggiate alla base della finestra.
Esteban gli intimò di restare lì e di non muoversi – ci mancava solo che al suo amato cane venisse la malsana idea di annusare in giro e di mangiarsi la marijuana – e anche se i suoi occhi erano celati da una soffice coltre di pelo bianco Mocio sembrò comunque offendersi parecchio, tanto che il cane sparì dal campo visivo del padrone smettendo di appoggiarsi alla finestra con le zampe anteriori e andò indignato alla ricerca delle pantofole di Esteban per nascondergliele.
“E non nascondermi le ciabatte!”
Esteban sapeva di parlare a vuoto, e alzò gli occhi scuri al cielo – il povero Mocio non aveva ancora capito che il padrone essendo un mago avrebbe potuto trovare le sue pantofole in uno schiocco di dita, ma spesso e volentieri Esteban fingeva di non trovarle per dargli soddisfazione e permettergli di riportargliele personalmente – prima di tornare a concentrarsi sulla sua coltivazione casalinga. Per quanto il suo “orticello” fosse ben riparato dagli sguardi altrui in qualche occasione era capitato che qualche vicino si fosse affacciato e lo avesse visto al lavoro. In quelle occasioni, quando di norma Esteban riceveva occhiate cariche di disapprovazione, lui si limitava a sorridere amabile e a salutare con un cenno della mano guantata: da qualche mese a quella parte la coltivazione della marijuana era stata legalizzata nello Stato di New York, pertanto il fatto che qualche vicino potesse adocchiare le sue piante non gli recava alcun tipo di preoccupazione. Certo, legale o no a sua madre non lo avrebbe raccontato in ogni caso, ma quello era un altro discorso.
Il ragazzo si sfilò il guanto dalla mano destra per recuperare il telefono dalla tasca posteriore dei jeans e controllare l’ora, strabuzzando inorridito i grandi occhi castani quando appurò di essere, come al solito, in ritardo:
“Ma quando è passata un’ora?! Perché finisce sempre così?!”
Aveva dei clienti da incontrare, e come al solito era in ritardo. Esteban ripose il telefono prima si sfrecciare rapido verso la portafinestra che aveva lasciato socchiusa, sfilandosi le scarpe sporche prima di entrare in casa e correre verso il bagno, dove trovò tutti i flaconi rovesciati sul pavimento e Mocio dentro la vasca da bagno insieme alle sua pantofole, visibilmente soddisfatto del suo operato.
“Mocio, esci subito o il bagno lo faccio anche a te!”
Bastò quella minaccia per allarmare il cane, che subito balzò fuori dalla vasca e sfrecciò fuori dal bagno per andare a nascondersi dietro al divano.
 
 
*

 
Barnes & Noble
2289 Broadway

 
 
Dopo aver varcato la soglia dell’enorme libreria a due piani, una delle più frequentate dell’intero quartiere, Eileen e Leena si erano divise come da loro abitudine, dirette in reparti diversi del settore adibito alla narrativa. Quasi tre quarti d’ora dopo Eileen aveva passato al setaccio il reparto della fantascienza e con ben quattro libri tra le braccia decise di poter andare alla ricerca della sua amica, sapendo anche fin troppo bene dove trovarla.
Non era un’impresa ardua rintracciare Leena Zabini se ci si trovava all’interno di una libreria, ed Eileen puntò senza esitazione verso le file di scaffali adibite ai gialli certa di scorgere da un momento all’altro la lunga chioma di ricci della britannica. Leena, in effetti, sedeva sul pavimento standosene appoggiata allo scaffale dietro di lei, impegnata a leggere l’aletta anteriore del volume che teneva in mano con le gambe fasciate dai jeans blu notte lunghe distese e i piedi avvolti da dei mocassini neri incapaci di star fermi. La fronte della strega presentava una piccola ruga che la solcava verticalmente lo spazio tra le sopracciglia, e nella sua espressione Eileen riconobbe facilmente la concentrazione e il criticismo che l’amica riversava sempre nella lettura della trama di un libro nel tentativo di capire se si sarebbe potuto rivelare di suo gusto o meno.
Accanto a Leena giaceva una piccola torre composta da cinque volumi impilati uno sopra l’altro, ed Eileen sorrise mentre le si fermava accanto, le braccia cariche a sua volta:
“Trovato qualcosa di interessante, direi.”
“Oh, sì, sai, Niki e Carter mi hanno fatto entrambi una lista di quelli che secondo loro sono i migliori libri della Christie tra quelli che mi mancano, ho pensato di prenderne un po’. Qui invece ho quelli che ho trovato qui.”
Leena tornò a concentrarsi sull’aletta anteriore del volume, un grosso tomo di almeno seicento pagine, dopo aver accennato ad una seconda torre di libri che si trovava alla sua sinistra e che fino a quel momento Eileen non aveva notato. Erano entrambe destinate a spendere buona parte dei loro soldi in libri, e quando la spagnola espresse quel pensiero a voce alta la britannica, chiuso il libro, annuì cupa sospirando:
“Terribilmente vero. L’altra notte ho sognato di entrare in libreria e di avere una gift card infinita. Allora tiravo fuori tutta la mia wish-list più unga del Bill of Rights e spendevo l’inverosimile, ma poi mi sono svegliata e mi sono ricordata che se facessi qualcosa del genere dovrei mangiare pane e acqua per una settimana. Bene, penso che prenderò anche l’ultimo libro di Joël Dicker(3), è l’unico dei suoi che mi manca.”
Leena si alzò, raccolse a fatica tutti i suoi libri con l’aiuto di Eileen lamentando la necessità di iniziare a disporre dei carrelli all’interno delle librerie e le due poterono così dirigersi verso le scale mobili, trascinandosi a pagare sforzandosi di non guardarsi attorno sugli scaffali ricolmi per evitare di cadere in ulteriori tentazioni.
 
Dieci minuti dopo le due streghe sedettero una di fronte all’altra ad uno dei tavolini quadrati della caffetteria, un paio di giganteschi bicchieri di carta con tappi di plastica a cupola pieni di caffè e panna davanti e i loro nuovi libri accatastati nelle borse di carta su una sedia vuota.
“Con questo la mia corsa va a farsi benedire, ma ne vale la pena.”
Eileen svitò il tappo di plastica e raccolse gioiosa una montagna di panna e caramello con il cucchiaio mentre Leena al contrario frugava nella propria borsa per cercare la sua penna con le bandierine del Regno Unito – per qualche motivo che ancora fatica a comprendere portarsi in giro piuma e calamaio gettava sconcerto nei Babbani circostanti e aveva dovuto iniziare a comprare penne a sfera – e il suo immancabile blocchetto.
“Stasera dobbiamo vedere gli altri per fare il punto della situazione, ma vorrei iniziare ora. Barry White sembra una persona normalissima, ma non mi convince.”
“Un dentista di nome Barry? Non mi convince.”
Eileen scosse la testa con disapprovazione mentre raccoglieva un altro po’ di panna, liquidando rapida il discorso e promettendo a Leena di spiegarle il motivo più tardi di fronte all’occhiata stranita dell’amica. a volte era proprio faticoso essere amica di una che del mondo Babbano non ne sapeva quasi nulla, letteratura a parte.
“Lui e la ex, non mi ricordo il nome, di Montgomery si conoscono, abitano vicini e Carter pensa che al nostro dentista lei potrebbe interessare.”
“Beh, lei è bellissima. E lui non mi sembra di averlo visto con nessuna di recente, credo sia single, quindi potrebbe anche essere. A meno che non sia gay.”
Eileen aggrottò la fronte e inarcò un sopracciglio, chiedendosi come svelare l’arcano mentre Leena, di fronte a lei, schioccava le dita prima di indicarla con l’indice, seria in volto:
“Dovremmo mandare una strafiga a provarci con lui per scoprirlo. O uno strafigo, dove viviamo noi sembra un’agenzia di modelli.”
“Beh, vacci tu!”
“No, io lo conosco di vista, mi salta la copertura! Stasera ne parliamo con gli altri.”
Annuendo con convinzione Leena si affrettò a segnarsi un appunto sul suo blocchetto, sotto ad una riproduzione del viso di Daniel Craig circondata da cuoricini, ed Eileen la lasciò fare mentre continuava a sorseggiare in tutta calma il suo caffè: non solo aveva due anni di esperienza alle spalle a suggerirle come fosse del tutto inutile cercare di dissuadere Leena Zabini da un’idea, ma moriva anche dalla voglia di vedere chi si sarebbe offerto tra i loro vicini di gettarsi in quell’impresa. Per qualche motivo puntava sui ragazzi.

 
*
 

Naomi Leigh Broussard si fermava di rado a riposarsi, anche durante il weekend, quando molto di frequente si ritrovava a girare come una trottola per quarantott’ore consecutive. Anche quella domenica si era alzata presto – qualcosa nei confronti del quale la strega provava una sincera e molto sentita avversione fin da quando frequentava Ilvermorny –, aveva portato Sundance a spasso e dopo essere rientrata all’Arconia si era immediatamente messa ai fornelli per concludere l’opera iniziata come da tradizione il giorno prima: cucinare tutto il necessario per la settimana successiva. Il tutto con le puntate di un reality a farle compagnia in sottofondo, s’intende.
Naomi si era fermata solo per pranzare e per dare da mangiare ai suoi amati animali, e aveva appena incantato spugna e detersivo affinché lavassero autonomamente tutte le pentole e gli utensili da cucina che aveva utilizzato, ora impilati all’interno del lavello, quando sentì qualcuno bussare alla porta. Sollevata di aver finito di cucinare, specie perché di lì a breve avrebbe dovuto uscire, Naomi si affrettò a raggiungere la soglia del grande appartamento, quasi completamente bianco e arredato in stile Antebellum, e aprì la porta, sorridendo quando si trovò davanti il volto del suo migliore amico:
“Ciao Moosy! Cavolo, ho appena pranzato, se fossi venuto un po’ prima avremmo potuto mangiare insieme. Vieni dentro, sto finendo di sistemare.”
La strega subito si spostò di lato per far passare l’amico, che le sorrise di rimando e la guardò chiudergli la porta alle spalle mentre Sundance gli andava incontro scodinzolando e tutti gli aromi che avevano invaso soggiorno e cucina gli solleticavano piacevolmente le narici.
“Non preoccuparti, non ti volevo disturbare, so che devi uscire a breve. Da questo assurdo mix di profumi direi che hai preparato di tutto.”
“Come sempre, ma l’anatra questa volta mi ha fatto quasi uscire matta. E sai che non posso sbagliarla, o mia nonna in qualche modo lo saprà e arriverà di corsa per tirarmi le orecchie. Vuoi una tazza di tè?”
Naomi si diresse verso la cucina e Moos la seguì, annuendo e accettando di buon grado la sua offerta mentre Sundance gli trotterellava accanto scodinzolando, guardandolo adorante in cerca di coccole. Naomi incantò il bollitore affinché si riempisse d’acqua da solo per poi sfrecciare su un fornello, posizionandosi dietro all’isola della cucina per finire di ricoprire con la carta stagnola la sua collezione di casserole di ceramica di tutte le forme e dimensioni che, contenenti tutto ciò che aveva cucinato quella mattina, ricoprivano per metà la superficie di marmo dell’isola.
Subito Moos si propose di aiutarla per fare prima e si posizionò dall’altra parte del mobile in modo da trovarsi di fronte all’amica, che gli sorrise grata e scosse la testa con un lieve cenno del capo mentre lo guardava con occhi pieni di affetto:
“A volte mi dico che non lo merito proprio, un amico come te.”
“Non essere ridicola.”
“Io ridicola non lo sono mai, Moosy. Iniziare a vivere qui grazie a te è sempre stato infinitamente meno spaventoso. Questa città era spaventosa, all’inizio, quando mi sono trasferita dopo la laurea, specie considerando che avevo appena rotto con Hyram… Poter contare su di te è stato fondamentale per ambientarmi.”
Naomi distese le labbra carnose in un sorriso che Moos ricambiò quando il ragazzo sollevò brevemente lo sguardo dalla carta stagnola per posarlo su di lei, poco avvezzo ad accettare i complimenti. Sette anni in classe insieme e non avevano mai realizzato di come la zia di Naomi possedesse un appartamento nello stesso palazzo dove viveva suo nonno, finendo col scoprirlo solo diversi anni più tardi, quando Naomi gli aveva scritto informando l’ex compagno di scuola del suo imminente trasferimento nella Grande Mela, più precisamente a Manhattan. Quando aveva spiegato all’amico che sarebbe andata a vivere nell’appartamento di sua zia nell’Upper West Side Moos aveva accolto la notizia con entusiasmo, felice all’idea di avere la sua vecchia amica nel suo stesso quartiere, finendo col stupirsi non poco quando lei gli aveva scritto l’indirizzo, consentendogli di realizzare che presto sarebbero diventati vicini a tutti gli effetti. Se chiudeva gli occhi Moos riusciva ancora a rivedere gli scatoloni di Naomi, molti dei quali contenenti enormi e spaventosi tomi di materia legislativa, riversati nell’ingresso, il sorriso dell’amica quando lo aveva visto e il modo in cui era corsa ad abbracciarlo dopo due anni trascorsi senza mai vedersi, uno slancio d’affetto piuttosto raro quando si parlava di Naomi Leigh Broussard. Per molti anni il suo unico vero amico nel palazzo era stato Monty, o almeno fino all’adolescenza, e l’apparizione di Naomi all’Arconia era stata per lui una manna dal cielo: non si era mai sentito tanto solo come dopo la morte di suo nonno, quando ormai non poteva più contare nemmeno su quello che a lungo era stato il suo migliore amico.
“Fidati, anche per me è stato importante averti qui. Quando nonno è morto il palazzo sembrava desolatamente vuoto, prima che arrivassi.”
Naomi gli sorrise come a volergli dire che lo sapeva, che le dispiaceva di non aver avuto modo di conoscere il nonno di cui aveva sempre tanto sentito parlare, dall’amico come da parte di sua zia. Naomi sorrise ma non disse nulla, non ce n’era bisogno, e Moos ricambiò prima di chinare il capo, distogliendo lo sguardo dal viso dell’amica per tornare a concentrarsi sulla casserole di forma circolare contenente un gâteau di patate che aveva davanti.
Quando ebbero finito e le scorte di Naomi furono riposte ordinatamente all’interno dell’enorme frigo – la strega persisteva a lanciare occhiate malinconiche in direzione dell’elettrodomestico fin da quando aveva messo piede a casa di Kamala Sharma, rimpiangendo amaramente il frigo della sua vicina – e il tè fu messo in infusione nell’acqua calda Naomi e Moos si spostarono dalla cucina al soggiorno con un vassoio fluttuante al seguito, occupando il divano bianco mentre Sundance appoggiava la testa sulle gambe della padrona, sia perché in cerca di compagnia, sia perché particolarmente interessato al piattino di biscottini al burro e noci che Naomi sistemò sul tavolino da caffè.
“Vai in Connecticut da lei o viene a trovarti Margaret?”
“Ci vediamo qui, la zia vuole fare shopping e prima prendere il tè al Plaza. Naturalmente non le diremo che ne ho già bevuto una tazza qui con te.”
Naomi lasciò che la teiera servisse da sé lei e l’amico riempiendo le loro tazze, dopodiché sollevò con delicatezza la propria e soffiò piano sulla bevanda calda e ambrata prima di tornare a guardare Moos, chiedendosi se la sua visita celasse un intento particolare. A giudicare dal suo piede, che continuava a picchiettare ritmicamente sul pavimento, e dal modo in cui Moos osservava pensoso il tè nero la strega dedusse di non essersi sbagliata, e distese le labbra in un sorriso dolce prima di parlare con il tono gentile che riservava quasi esclusivamente a lui:
“Vuoi parlarmi di qualcosa, Moosy?”
 
In effetti Moos era giunto fino alla porta dell’appartamento di Naomi con il preciso intento di condividere con lei un’informazione che aveva acquisito il giorno prima, qualcosa su cui continuava incessantemente a rimuginare. In fondo lo aveva sempre saputo, che Monty non si era ucciso, e quell’informazione lo confermava, ma recitare quelle parole a voce alta le avrebbe rese infinitamente più reali, accrescendo la sua inquietudine: lui e Monty avevano smesso di essere amici molto tempo prima, ma sapere che il suo ex migliore amico fosse tanto odiato da qualcuno al punto da essere ucciso lo faceva comunque sentire malissimo.
“Montgomery era mancino. E quando lo hanno trovato stringeva quel coltello da cucina nella mano destra.”
“Chi te l’ha detto?!”
Naomi di certo non si aspettava una rivelazione tanto precisa sulla morte del suo ex vicino, e all’udire quelle parole strabuzzò sbigottita gli occhi verdi, rimettendo di scatto la tazza sul piattino appoggiato sul tavolo per riporre tutta la sua attenzione sull’amico. Moos aprì di riflesso la bocca per rispondere, per spiegarle di aver chiesto ad un suo vecchio amico, il nipote della migliore amica di sua nonna che da qualche tempo lavorava al Dipartimento degli Auror del M.A.C.U.S.A., ma prima che potesse emettere un suono la strega sembrò cambiare idea, sollevando una mano per bloccarlo sul nascere e scuotendo la testa con un cenno nervoso del capo:
“Anzi, no, non dirmelo, è illegale condividere informazioni su un caso, forse è meglio che io non lo sappia. Sei sicuro?”
“Sicurissimo.”
“Ma la sua famiglia non ci ha fatto caso?! Non l’ha trovato sua madre?”
“Suppongo che fosse troppo sotto shock.”
Moos sollevò la mano destra per grattarsi nervosamente il retro del collo e al contempo distolse lo sguardo dal viso dell’amica, concentrandosi invece sul tappeto ai piedi del divano mentre cercava in tutti i modi di non pensare alla madre di Montgomery, forse la donna più gentile che avesse mai incontrato in vita sua, che ritrovava il suo adoratissimo ed unico figlio in un lago di sangue dentro la sua vasca da bagno.
E pensare che lui ancora non era riuscito a trovare la forza di andarla a trovare, la donna che da bambino gli comprava torri altissime di gelato e gli leggeva le storie quando si fermava a dormire a casa loro. Provava vergogna per se stesso.
Naomi lo conosceva troppo bene per non immaginare come si sentisse, e allungò la propria mano per stringere quella dell’amico guardandolo dispiaciuta e preoccupata al tempo stesso, invitandolo silenziosamente con quella stretta a non sentirsi in colpa.
“Stasera lo dirai agli altri?”
“Sì. È strano, sai. Ho sempre saputo che non si era ucciso, ma adesso che è certo… Credevo che mi avrebbe fatto sentire meglio sapere la verità, invece no. È orribile pensare che qualcuno lo odiasse tanto, anche se so che non era la persona migliore del mondo. E ai suoi genitori dovrei dirlo?”
“Dev’essere una sofferenza indicibile pensare che il proprio figlio volesse togliersi la vita, ma forse sapere che è stato ucciso li tormenterebbe ancora di più, si accanirebbero sulla ricerca di un colpevole, e se non dovessero trovarlo non riuscirebbero mai a superarlo. Non lo so, Moosy.”
Per una volta persino Naomi non aveva una risposta e non aveva idea di come l’amico avrebbe dovuto comportarsi, loro che da sempre si scambiavano consigli su qualsiasi aspetto. Amareggiata per la propria scarsa utilità Naomi scosse leggermente il capo iniziando ad accarezzare distrattamente la soffice testa color miele di Sundance poggiata sulle sue gambe, osservando pensosa e con le sopracciglia aggrottate un punto indefinito del divano su cui sedeva mentre Moos, di fronte a lei, dopo una breve riflessione annuiva, parlando con tono fermo e risoluto:
“Forse dovrei lasciare che glielo dicessero gli Auror. È meglio che il mio amico non lo dica o potrebbe finire nei guai, ma in qualche modo devono sapere che era mancino. La verità deve venire fuori.”
 

 
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Carter si sentì scuotere da un leggero brivido mentre con la mano libera si sistemava il cappuccio della felpa nera sul retro del bavero dell’amata giaccia di pelle del medesimo colore e con l’altra stringeva il bicchiere di carta di Starbucks con il suo nome scarabocchiato sopra a pennarello. L’estate a New York era finita e i segnali della città non avrebbero potuto essere più chiari, dal brusco abbassamento della temperatura che lo aveva costretto a ritirare fuori dall’armadio la giacca di pelle, alle foglie degli olmi di Central Park che da verdi e rigogliose stavano rapidamente iniziando a seccarsi e a scurirsi, rendendo il parco ricco di sfumature giallastre che si mischiavano a quelle verdi delle piante ancora rigogliose.
Carter era nato e cresciuto in Indiana, godendosi le sue estati calde e soleggiate, e già da bambino l’autunno era stata di gran lunga la stagione che meno aveva sopportato, con le sue piogge e il cielo quasi perennemente ingrigito dalle nuvole. Per quando il successivo trasferimento a New York avesse migliorato la percezione che aveva di quella stagione – persino lui doveva ammettere che l’autunno, in quella città, fosse meraviglioso – continuava a preferirle quelle calde, in particolar modo l’estate. Il foliage di New York poteva anche essere una meraviglia per gli occhi, ma per lui nulla poteva competere con il calore del Sole estivo e con la possibilità di starsene per ore in spiaggia.
Dopo essere rimasto per diverso tempo al chiuso Carter percepiva l’aria molto più fredda di quanto in realtà non fosse, e si affrettò a portarsi il bicchiere di carta alle labbra per scaldarsi con un sorso di caffè senza smettere di procedere lungo l’ampio viale alberato semi-deserto affiancando Niki, che aveva già vuotato il suo poco prima e ora camminava con falcate lunghe e rilassate tenendo le mani sprofondate nella tasca centrale della felpa nera.
“Stagione preferita?”
Quando Carter si voltò verso la strega vide che Niki camminava tenendo il capo leggermente chino, i grandi occhi verdi che scrutavano pensosi il suolo che stava iniziando lentamente ad ospitare le prime foglie cadenti. Per una volta non si era sollevata il cappuccio della felpa sulla testa e alcune lunghe ciocche di capelli castani erano scivolati fuori dal bavero dell’overshirt di pelle, incorniciandole il viso e muovendosi ad ogni suo passo.
“Autunno. La tua?”
“Estate, decisamente. Mi mancherà la spiaggia e fare surf… per fortuna la palestra dove vado ha la piscina. Non capirò mai perché tanta gente ami l’autunno.”
“È difficile vivere qui e non amarlo.”
Mentre Carter riprendeva a sorseggiare con calma il suo caffè Niki sollevò la testa, osservando le file di olmi che circondavano uno dei più noti viali di Central Park, The Mall. The Mall, con le sue infinite file di panchine di legno, le statue e gli olmi che lo costeggiavano che in autunno si tingevano di ogni possibile sfumatura di arancione. Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta in cui vi aveva messo piede che credeva quasi di averlo dimenticato, quel luogo, appurò Niki mentre faceva correre lo sguardo sulle file di panchine e sulla statua più vicina a lei e a Carter, che riconobbe come quella di Sir Walter Scott.
“Per me è più che altro un perenne cumulo di freddo, pioggia, umidità e suole infangate. Non so che cosa ci trovi la gente di così poetico.”
Carter aveva appena pronunciato quelle parole con una debole stretta di spalle quando Niki all’improvviso si fermò, costringendolo a fare altrettanto per non superarla: il giornalista si voltò verso la vicina aggrottando le sopracciglia, ma prima che potesse chiederle per qualche motivo si fosse fermata si rese conto di come stesse osservando pensosa qualcosa che si trovava a pochi metri da loro. Seguendo la direzione dello sguardo di Niki Carter si ritrovò ad osservare a sua volta una delle tante statue che costeggiavano il viale, e pur non riconoscendo l’uomo che la città aveva voluto omaggiare ebbe l’impressione che davanti agli occhi della sua vicina, a giudicare da come Niki stava osservando la statua, si stessero proiettando immagini molto distanti dal presente. Qualunque cosa stesse rivivendo Niki Carter la vide ritornare alla realtà appena un paio di istanti dopo, quando fece scivolare lo sguardo dalla statua fino al suo viso prima di stringersi nelle spalle, parlando con il suo consueto tono quasi del tutto inespressivo:
“Io aspetto la pioggerella d’autunno per nascondermi tra le persone, nel grigio della città, sparendo e perdendomi nei ricordi. L’autunno permette di fare cose che in altre stagioni non sono possibili, credo.”
Niki smise di guardarlo per chinare lo sguardo verso il suolo ai suoi piedi, abbassandosi per raccogliere una foglia gialla caduta mentre Carter, al contrario, continuava ad osservarla con gli occhi azzurri pieni di curiosità: pur trovandola molto poco simpatica era innegabile che il cripticismo della sua bizzarra vicina lo incuriosisse non poco.
“Tu vivi all’Arconia da sei mesi, ma sembri conoscerla bene questa città. Hai già vissuto qui?”
“Sono nata qui. Poi me ne sono andata, sono tornata solo l’anno scorso.”
Niki rispose senza guardarlo, fissando invece la foglia a quattro punte mentre la rigirava facendosi roteare lo stelo tra le dita. Aveva appena parlato quando si chiese perché avesse risposto con tanta sincerità alla sua domanda, qualcosa di totalmente inconsueto quando si sentiva rivolgere domande sul suo passato, sentendo la pressione dello sguardo di Carter su di sé mentre l’espressione del vicino si faceva improvvisamente stranita, quasi trovasse la risposta del tutto inaspettata:
“È strano.”
“Perché strano?”
Non era certo la prima volta in cui qualcuno giudicava bizzarro qualcosa che la riguardava, ma Niki sollevò comunque lo sguardo per riportare gli occhi verdi sul volto del vicino, osservandolo con un sopracciglio inarcato e sincera curiosità mentre Carter si stringeva debolmente nelle spalle tamburellando l’indice destro sul bicchiere di carta ormai vuoto:
“Dicono che per un newyorkese sia impossibile vivere in qualsiasi altro posto. Di solito è da fuori che la gente viene qui, ma quasi nessuno se ne va. Io vivo qui da “soli” sette anni e non so se riuscirei ad andarmene, non immagino se uno ci nasce.”
“Non sempre, a quanto pare.”
Niki si strinse debolmente nelle spalle facendo vagare lo sguardo sulle chiome degli alberi che li circondavano, dove il verde iniziava a mescolarsi con i colori caldi dell’autunno. Carter era sicuro che se le avesse chiesto perché se ne fosse andata e dove non gli avrebbe risposto, osservandola con le sopracciglia color grano leggermente aggrottate mentre un lieve sussurro, forse rivolto più a se stessa che a lui, si levava dalle labbra di Niki:
“Era da tantissimo tempo che non lo vedevo.”
“Cosa, l’autunno?”
Senza smettere di rigirarsi il sottile stelo della foglia tra l’indice e il pollice Niki smise di osservare la chioma dell’imponente olmo che le stava davanti per tornare a posare gli occhi su Carter, accennando un lievissimo sorriso divertito sollevando gli angoli delle labbra di fronte al sincero straniamento del vicino prima di scuotere la testa e parlare con tono pacato:
“No, cretino. L’autunno qui. Diventerà sempre più bello.”
“Sì, carino, ma freddo e umido.”
“Beh, in fin dei conti non potevamo avere gli stessi gusti proprio in tutto.”
“Non vedo cosa abbia di tanto speciale, tutto qui.”
Carter fece spallucce prima di riprendere a camminare lungo il viale, deciso a raggiungere la celebre scalinata che li avrebbe condotti alla Bethesda Fountain mentre Niki, alle sue spalle, invece di seguirlo esitava chinando nuovamente lo sguardo sulla foglia che stringeva tra le dita.
“L’automne est le silence avant l’hiver.(4)
All’improvviso, mentre osservava la foglia roteare, ricordò esattamente quando era stata l’ultima volta in cui aveva passeggiato lungo The Mall in autunno, quando le foglie secche si staccavano dai rami e fluttuavano fino a poggiarsi sulle panchine, sulle statue e sul suolo del viale. Quando puntò nuovamente lo sguardo ai piedi della statua di Sir Walter Scott riuscì quasi a rivedere una bambina con lunghi capelli castani disordinati, il capo chino e lo sguardo fisso sul foliage in cerca delle foglie più carine mentre una voce alle sue spalle la chiamava, intimandole di sbrigarsi. Riuscì quasi a vedere la bambina, le piccole mani piene di foglie, voltarsi per correre dalla donna che la chiamava, ma cercò in tutti i modi di non soffermarsi su quel volto e di scacciare quel ricordo a lungo rimasto sopito per farlo ritornare in un angolo remoto della sua memoria. Quasi senza rendersene Niki allentò la presa sullo stelo della foglia fino a farsela scivolare dalle dita, lasciandola cadere mentre sollevava la testa verso il cielo grigio che quel giorno sormontava New York, inspirando profondamente e costringendosi a sbattere più volte le palpebre per ricacciare indietro gli sgraditi accenni di lacrime che li avevano inumiditi.
Carter nel frattempo si fermò qualche metro più avanti, voltandosi accigliato verso la vicina che non si era incamminata dietro di lui: per un attimo pensò seriamente che la vicina se ne fosse andata lasciandolo nel bel mezzo di Central Park da solo, ma in realtà Niki non si era mossa e stava ancora in piedi vicino alla ringhiera di metallo che delimitava i confini del viale, il capo sollevato verso l’alto come se stesse guardando il cielo.
“Ci sei?”
“Sì. Arrivo.”

 
*

 
Hotel Plaza
 
 
Quando il portiere in divisa le spalancò la porta con i bordi laccati d’oro, permettendole di varcare la soglia dell’Hotel, Naomi si sentì immediatamente pervadere da una sorta di piacevole tepore che strabordava di lusso e una gran dose di denaro. Benchè l’enorme Hall del palazzo fosse meravigliosa Naomi non si attardò ad ammirarla, affrettando invece il passo per raggiungere uno dei ristoranti dell’Hotel, The Palm Court, dove nel pomeriggio ospiti e non potevano usufruire di uno dei migliori servizi di tè che Naomi avesse mai gustato in tutta la sua vita.
Il rumore dei tacchi attutito dagli spessi e morbidissimi tappetti – che, Naomi ne era certa, costavano quasi quanto l’intero mobilio del suo appartamento – che ricoprivano quasi interamente il parquet della Hall, Naomi si diresse senza esitare verso l’enorme porta a doppia anta spalancata dagli inserti dorati che conduceva alla sala del ristorante gettando un’occhiata al proprio orologio da polso, pregando di non essere in ritardo.
Fortunatamente non fu difficile individuare sua zia, che la stava aspettando standosene seduta su una delle alte sedie dell’enorme bancone che si trovava esattamente al centro della sala, dandole le spalle. Naomi si stampò un bel sorriso sulle labbra mentre la raggiungeva, fermandosi accanto a lei mentre le sfiorava una spalla con la mano:
“Ciao zietta. Sei arrivata in anticipo?”
Di norma quando si incontravano zia Margaret le stampava due sonori baci sulle guance, ma non quel pomeriggio: quel pomeriggio la donna si voltò verso la nipote, la studiò impassibile per un istante e infine annuì, insolitamente seria.
“Sì, mi annoiavo a casa e sono venuta prima, peccato che bere un drink a quest’ora sia sconveniente. Vieni, sediamoci.”
La donna scivolò giù dalla sedia con una grazia che Naomi invidiò profondamente – quando le capitava di dover sedere su quelle orribili trappole la sua statura la costringeva a ritornare con i piedi per terra con la stessa grazia di uno Yeti –, superandola per dirigersi verso il gran numero di tavoli circolari che le circondavano, tutti apparecchiati e con un gran numero di palme disseminate per la sala.
“Va tutto bene zia?”
Naomi si affrettò a seguire Margaret per non rischiare di perdere la zia dietro ad una palma, guardandola farle sbrigativamente cenno con la mano di muoversi senza voltarsi mentre puntava un elegante cameriere in divisa per chiedergli di condurle al loro tavolo.
“Sì Naomi Leigh, vieni!”
Naomi Leigh? Sentirsi chiamare con il suo nome completo da Margaret la fece inorridire: solo sua madre la chiamava così, di norma. La faccenda doveva essere seria, e all’improvviso Naomi ebbe l’impressione che sua zia non le avesse chiesto appuntamento solo per spettegolare, mangiare mini sandwich e scones e fare shopping.
 
Quando finalmente ebbero preso posto una di fronte all’altra, circondate da palme e da quelle che riconobbe con una rapida occhiata come le mogli casalinghe dell’Upper East Side, tutte intente a ciarlare di cameriere, scuole private e tate, Naomi chiese nuovamente a sua zia di che cosa volesse parlarle, ma Margaret asserì seria che “prima il tè doveva essere versato e l’alzata per dolci servita”, facendo cadere predala nipote della più terribile impazienza: Naomi attese nervosamente che il tè venisse servito, e quando finalmente tazze, teiera fumante e alzata per dolci strapiena furono sul tavolo non aspettò nemmeno di essersi riempita la propria per poter rinnovare la sua domanda.
“Perché sembri strana? Qualcuno sta male? La villa è andata a fuoco?”
“No, niente del genere, stiamo tutti benissimo e la villa anche. No, voglio che mi parli del figlio di Nathan e Joanna.”
Mentre Margaret si riempiva la tazza bianca di acqua calda per mettere in infusione il suo tè nero Naomi la guardò esitando, cercando di capire di chi la donna stesse parlando fino ad azzardare un’ipotesi con tono dubbioso:
“Intendi i Dawson?”
“Perché, sono morti altri ragazzi nel palazzo?”
“Non ricordo i nomi di tutti i condomini zia, non vivo lì da un’eternità come ci hai vissuto tu! Beh, che cosa vuoi sapere?”
Naomi imitò la zia riempiendosi la tazza di acqua calda, distogliendo accuratamente lo sguardo dal suo viso mentre Margaret, preso uno scone per imburrarlo, agitava nervosamente il coltello con impazienza:
“Che cosa è successo, questo voglio sapere! Sono ancora sconvolta, l’ho visto crescere quel ragazzo, me lo ricordo quando era piccolo, saliva in ascensore e scombinava i viaggi di tutti premendo tutti i pulsanti che poteva per poi scappare alla prima fermata. Quando l’ho saputo non ci potevo credere, che Montgomery fosse morto.”
“Pare sia un suicidio.”
Naomi parlò con il tono più vago e disinteressato di cui era capace mentre riversava tutta la propria attenzione sull’elegante alzata per dolci di porcellana, scegliendo con fin troppa cura qualche mini sandwich assaggiare tra l’ampia scelta che aveva davanti. Sua zia la conosceva talmente bene da farle temere che avrebbe potuto intuire che cosa stava facendo solo con un’occhiata.
Ridicolo.”
Margaret prese la sua tazza e se la portò alle labbra scuotendo la testa con decisione, inducendo la nipote a guardarla inarcando un sopracciglio: allora i suoi strambi vicini non erano gli unici a pensarlo, e sua zia aveva vissuto all’Arconia abbastanza a lungo da rendere la sua opinione degna di essere ascoltata.
“Come fai a dire che è ridicolo?”
“È da un po’ di anni che non vivo all’Arconia e va bene, non puoi sapere che cosa passa per la testa di una persona se non la conosci davvero, ma ho visto quel ragazzo praticamente ogni giorno per quasi tutta la sua vita. Era molto ricco, un bellissimo ragazzo, aveva una famiglia che lo adorava, poteva fare ciò che voleva. Aveva tutto, perché uccidersi? Joanna sarà a pezzi, poverina, non amava nient’altro come amava Montgomery.”
Margaret scosse la testa parlando con tono grave, gli occhi scuri puntati sulla tovaglia bianca che ricopriva il tavolo mentre la sua mente vagava sulla sua ex vicina e su suo figlio. Naomi annuì mentre sentiva lo stomaco stringerlesi in una stretta spiacevole, non volendo nemmeno immaginare quanto dovesse star soffrendo la donna mentre la zia, preso un altro sorso di tè, tornava a guardarla seria:
“Lo hai detto a Rory? Erano amici, se non ricordo male.”
Ebbe un effetto strano, per Naomi, sentir pronunciare il nome del fratello da parte di un altro membro della sua famiglia, che spesso e volentieri, i suoi genitori in primis, dalla condanna di Gregory aveva iniziato a comportarsi come se uno dei loro membri non fosse mai esistito. Dopo una breve esitazione, in cui i pensieri della strega vagarono fino al fratello maggiore, la ragazza annuì, giocherellando con il cucchiaino d’argento della zuccheriera senza guardare la zia in volto:
“Sì, certo. Non l’ha presa bene, quando glie l’ho detto è rimasto impietrito, poi si è alzato e ha interrotto la visita prima del tempo, ha detto che voleva stare da solo per un po’. Non sono più andata a trovarlo da quel giorno, penso gli serva il suo spazio.”
Naomi non sapeva quando di preciso sarebbe tornata a trovare suo fratello, ma in compenso sapeva di non avere molta voglia di parlarne, nemmeno con quella che senza ombra di dubbio era la parente con cui aveva un rapporto più stretto e confidenziale, pertanto non esitò a cambiare argomento mentre smetteva di giocherellare col cucchiaino per tornare a sedere composta sulla sedia e a ricambiare lo sguardo di Margaret, che la stava osservando dispiaciuta, come intuendo la natura dei suoi pensieri:
“Pensi che qualcuno lo abbia ucciso, se escludi il suicidio?”
“Tesoro, ti sconcerterebbe apprendere l’assurda varietà di gente, sia in senso positivo che negativo, che abita questa città. Non è così implausibile che qualcuno lo abbia ucciso, ci sono newyorkesi che hanno ucciso solo per ottenere un immobile più bello e grande del proprio. Ormai non mi stupisco più di nulla.”
Margaret si strinse nelle spalle mentre poggiava la tazza sul piattino per prendere a sua volta un mini sandwich sotto lo sguardo scettico della nipote, che guardò la donna inarcando dubbiosa un sopracciglio: benchè avesse il massimo rispetto delle idee e delle opinioni di sua zia, dubitava fortemente che uno dei suoi vicini avesse ucciso Montgomery solo per poter comprare il suo appartamento.
“Sì, beh… Non penso che qualcuno lo volesse morto per il suo appartamento, anche se immagino fosse meraviglioso.”
“Meraviglioso davvero, prima di comprare il mio… tuo, scusami, ne vidi qualche altro. Il 14B è davvero stupendo, non a caso per un po’ di anni, quando era giovane, prima di sposarsi la prima volta, volle viverci anche il Jack O’Hara, il figlio del proprietario. Ma ora immagino che venderlo sarà difficile, dopo questa storia. Sarebbe un peccato se restasse vuoto.”
“Non ci scommetterei. Come hai detto tu, questa città pullula di tipi strani. Sono sicura che più di qualcuno che troverebbe esaltante vivere dove qualcuno è stato ucciso.”
E Naomi, anche se naturalmente non ne fece parola con la zia, aveva anche idee molto precise a riguardo.

 
*

 
“Kei non viene, mi ha scritto che è andato a trovare suo fratello a Brooklyn per parlargli di Montgomery.”
Dopo aver letto il messaggio dell’amico Orion ripose il telefono all’interno della giacca nera e tornò a posare il proprio sguardo su Esteban, inarcando un sopracciglio quando vide come il vicino si stava guardando attorno:
“Stai aspettando qualcuno?”
“Sì, dovrei dare una cosa a Jackson.”
Esteban, incapace di star fermo durante l’attesa, stava in piedi accanto a lui accanto alle file di cassette postali dell’ingresso del palazzo, gli occhi scuri che saettavano a ripetizione dalla porta d’ingresso fino agli ascensori in attesa di scorgere Jackson. Quando finalmente scorse il veterinario uscire da uno degli ascensori e guardarsi attorno Esteban sollevò leggermente un braccio per farsi notare, guardando Jackson attraversare rapido l’ingresso per raggiungergli sospirando rumorosamente e visibilmente esasperato per qualcosa:
“Scusa, mia madre non mi mollava più.”
Ed era anche sua madre il motivo per cui aveva dato appuntamento ad Esteban nell’ingresso, senza dirgli di presentarsi alla sua porta: ci mancava solo che Marlene iniziasse ad assillarlo chiedendogli se si fosse trovato un fidanzato.
“Tranquillo, è davvero confortante non essere quello in ritardo per una volta. Tieni.”
Orion guardò in silenzio il vicino porgere una busta di carta da pacchi giallastra a Jackson, che la prese e la ripiegò su se stessa per potersela infilare nella tasca interna. Non osò chiedere che cosa contenesse, limitandosi a sorridere al vicino prima di chiedergli se volesse unirsi a loro e uscire.
Jackson aveva passato tutto il pomeriggio a giocare a basket ed era sinceramente esausto, ma sua madre stava rivoltando tutto l’appartamento per trovare il suo servizio da piatti preferito in previsione dell’arrivo degli ospiti che aveva invitato per cena, e la prospettiva di starsene fuori di casa si fece improvvisamente molto allettante.
I tre stavano attraversando il cortile interno del Palazzo quando fuori stava già iniziando a fare buio e ben presto s’imbatterono in Gabriel, di ritorno da un pomeriggio trascorso a casa di sua sorella e di sua cognata per fare da baby-sitter ai suoi nipoti. Orion, Esteban e Jackson decisero immediatamente di portarselo dietro e prima di poter anche solo provare a ribattere a ribattere Gabriel si ritrovò trascinato fuori dal palazzo mentre Esteban, sorridendo, asseriva di saper benissimo dove potevano andare.
 
 
“Tuo padre possiede questo posto? Fortunato.”
“Ne possiede anche altri due, in realtà, sparsi per la città… The Naughty Witch e The Mischievous Wizard. Ecco, tutti vostri, offre la casa naturalmente.”
Esteban lasciò che i bicchieri con i drink si librassero dal vassoio per disporsi autonomamente davanti a Jackson, Gabriel ed Orion, che non esitò ad arraffare una delle ciotole contenente le arachidi per iniziare a sgranocchiarne a manciate. Esteban occupò la sedia rimasta libera attorno al tavolo, salutando le cameriere che passavano loro davanti.
“Non ti interesserebbe gestirli, i locali di tuo padre?”
“Oh, no, papà se l’è messa via tempo fa, io sono allergico alle responsabilità e mi stano troppo in fretta per tenere in piedi un’attività commerciale, ma va bene così, mi piace quello che faccio.”
Esteban si strinse nelle spalle mentre raccoglieva una manciata di patatine, guardandosi distrattamente attorno mentre ripercorreva mentalmente gli anni della sua infanzia trascorsi a L’Avana, vissuti quasi interamente in locali simili a quello quando se ne stava seduto in un angolo a colorare i suoi disegni mentre sua madre ballava su un palco. Era proprio a L’Avana e dove sua madre si esibiva che i suoi genitori si erano conosciuti, ma della professione di Ernestina Esteban aveva smesso di farne parola apertamente fin da quando aveva messo piede a Castelobruxo per la prima volta, stanco dei commenti poco eleganti che i suoi coetanei erano soliti formulare rivolgendosi alla sua famosa quanto avvenente madre.
“E tua madre lavora qui anche lei?”
“No, Mamà vive a Cuba. Sono nato lì, ma quando ero piccolo i miei genitori si sono separati, mio padre è tornato qui e io sono rimasto a L’Avana con lei. Mi sono trasferito a New York solo dopo il diploma, per la gioia di papà. Voi siete tutti cresciuti qui?”
Esteban si mise più comodo sulla sedia, distendendo le gambe più che poteva mentre sorseggiava il suo drink frizzante e agrumato. Suo padre, in effetti, era stato così felice della sua decisione di trasferirsi a New York in modo da potersi vedere più spesso che gli aveva persino regalato l’appartamento all’Arconia, mentre Ernestina lo riempiva mensilmente di lettere e telefonate chiedendogli di raccontarle per filo e per segno ogni singolo dettaglio della sua vita, forse soffrendo un tantino la lontananza dal suo unico figlio.
Jackson annuì senza dilungarsi in particolari spiegazioni e a quel punto lui, Orion ed Esteban volsero lo sguardo su Gabriel, che si prese qualche istante prima di parlare come se gli servisse un po’ di tempo per decidere che cosa dire e cosa no:
“Io sono cresciuto ad Harlem. Ho, diciamo, due madri. È un po’ complicato.”
Per spiegare accuratamente la sua peculiare situazione familiare Gabriel impiegava sempre almeno dieci minuti, e non sempre il suo interlocutore riusciva comunque a comprendere il suo discorso. In quel momento non si sentiva particolarmente in vena di parlarne, tantomeno di parlare di suo padre, perciò il tatuatore si limitò a giocherellare con il suo bicchiere facendolo girare sul tavolo mentre Jackson ed Esteban, intuito che il vicino non fosse in vena di confidenze, volsero lo sguardo su Orion. L’astronomo li guardò incerto uno per uno, ma dopo una breve esitazione finì col stamparsi un sorriso allegro sul viso e stringersi nelle spalle, anche se per un istante Jackson ebbe l’impressione che Orion avrebbe voluto dire qualcos’altro:
“Io vengo da Marquette, nel Michigan, ma la mia vita fino ad ora è stata banale, ordinaria e noiosa, non vale la pena perdere tempo a parlarne. Piuttosto, parliamo di quello che avete trovato a casa di voi-sapete-chi. … No, non Voldemort, i nostri vicini, non fate quelle facce stravolte! Cavolo, servono dei nomi in codice al più presto.”

 
*
 
14D, un paio d’ore dopo
 
 
I suoi vicini avevano deciso di riunirsi quella sera per condividere con gli altri ciò che avevano trovato o appreso negli appartamenti dei “sospettati”, e poiché Niki aveva minacciato di ghigliottinamento chiunque si fosse azzardato a presentarsi un’altra volta alla sua porta a Mathieu, che tra tutti possedeva l’appartamento più grande, non era restato che proporre casa sua come punto di ritrovo. Essendosi trovati quasi a ora di cena avevano ordinato montagne di pizza su SmartOwl, ma visto e considerato che tutti lamentavano già un certo languore Mathieu si era visto costretto a setacciare la cucina in cerca di qualcosa da offrire ai suoi particolari ospiti.
Peccato solo che il vassoio di bretzel che era certo di aver depositato in cucina quella mattina, nonché di aver visto all’arrivo dei vicini, fosse improvvisamente scomparso nel nulla.
“Ma dove sono i bretzel?! Il vassoio era lì dieci minuti fa!”
Cose misteriose accadevano all’Arconia da qualche tempo, ma soprattutto a casa sua: un vicino entrava e cibo spariva a vagonate. Mathieu stava in piedi davanti ai pensili della cucina, aprendo e richiudendo ogni singolo armadietto chiedendosi se per caso non avesse infilato il vassoio da qualche parte prenda di una momentanea distrazione.
“Che cosa cerchi?”
Orion, che era stato momentaneamente allontanato dal soggiorno da Naomi avendolo accusato di “deturpare la simmetria e l’ordine cromatico della lavagna”, giunse in cucina con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni neri, osservando incuriosito il vicino mettere al setaccio l’ampissima stanza.
“I bretzel, sono spariti…. Carter!”
Colto da un sospetto improvviso il canadese si bloccò davanti al forno e si voltò di scatto in direzione di Carter, entrato proprio in quel momento in cucina dietro ad Orion per controllare che non ci fosse qualcosa da sgranocchiare sotto tiro. Il giornalista stava per chiedere all’amico se per caso non avesse una birra da dargli, ma l’occhiata indagatrice che Mathieu gli lanciò gli fece cambiare idea, portandolo invece a spalancare gli occhi azzurri e a sollevare entrambe le mani per rendere nota la sua innocenza: non aveva idea di che cosa il vicino stesse parlando, ma tanto valeva essere sicuri.
“Non ho fatto niente, giuro!”
“Non hai mangiato i bretzel?”
“Strano a dirsi, ma giuro che non li ho mai visti.”
“Ma dove sono finiti…”
Sbuffando amareggiato e iniziando a chiedersi se i bretzel non li avesse solo immaginati Mathieu tornò a dare le spalle ai due vicini per aprire il forno e controllare all’interno dell’elettrodomestico mentre Orion si rivolgeva a Carter chiedendogli se Naomi avesse cacciato anche lui. Di fronte al diniego del vicino Orion sospirò amareggiato, chiedendosi a voce alta perché Naomi avesse esiliato solo e soltanto lui mentre Niki, alle loro spalle, faceva il suo ingresso in cucina reggendo un vassoio bianco pieno di mini bretzel al sesamo e masticandone uno con la massima nonchalance. Prima che la strega avesse il tempo di dire qualcosa palesando la propria presenza Mathieu borbottò in francese qualcosa a proposito dei bretzel e della loro misteriosa sparizione, portando Niki a bloccarsi sulla soglia e a chinare allarmata lo sguardo sul vassoio che teneva in mano: la ragazza guardò i bretzel, guardò Orion e Carter che ancora non si erano accorti di lei, infine guardò Mathieu che fortunatamente le dava le spalle e decise di levare le tende, guardandosi rapida attorno per cercare un angolo dove piazzare il vassoio prima di sistemarlo silenziosamente sulla consolle di legno sistemata accanto all’ingresso, girare i tacchi e fuggirsene da dove era venuta.
Udito una sorta di fruscio alle sue spalle Orion si voltò, spalancando meravigliato i grandi occhi color cioccolato quando scorse il vassoio incriminato sulla consolle:
“Ehy, Mathieu, sono lì! Pazzesco che non li avessimo visti!”
 
 
Il mistero dei bretzel lo aveva scosso parecchio, pertanto mentre Naomi, Eileen e Jackie sistemavano la lavagna che Niki aveva portato a casa sua dopo averla rimpicciolita con la magia Mathieu sedette sul posto del divano vicino al bracciolo e Prune, che era solito dimenticarsi di non essere più un cucciolo da tempo, vedendolo accomodarsi subito si mise in piedi per trottare scodinzolando verso il padrone e sedersi sul divano accanto a lui, sistemandogli testa, zampe anteriori e tutta la parte superiore del corpo sulle gambe.  Era una scena vista e rivista – per fortuna il cane aveva imparato a non cercare più di salirgli in braccio – e Mathieu non provò nemmeno a scollarsi il suo peso di dosso, limitandosi ad accarezzargli affettuosamente la testa bianca e nera. Stava osservando il proprio cane, aspettando che tutti gli altri attorno a lui prendessero posto a loro volta, quando un rumore molto sospetto attirò la sua attenzione e lo costrinse a ruotare il capo alla sua sinistra, verso una delle due poltrone color petrolio allineate alle spalle della consolle realizzata con noce americano.
Quello che aveva sentito era inequivocabilmente il rumore di una masticazione e un attimo dopo Mathieu si ritrovò a puntare lo sguardo su Niki, che sedeva sulla poltrona tenendo le lunghe gambe accavallate e la mano destra sollevata davanti alle labbra, coprendosi così metà del viso.
La strega ricambiò il suo sguardo, ma rimase impassibile e continuò a masticare indisturbata mentre il vicino, al contrario, la studiava assottigliando sospettoso gli occhi chiari:
“Tu che stai ruminando?”
Niki si prese qualche istante prima di rispondere, continuando ad osservare Mathieu e a masticare prima di stringersi nelle spalle esili, assolutamente incurante di essere stata scoperta e pronta a negare spudoratamente:
“Una gomma.”
“Una gomma che scrocchia?”
Mathieu sollevò il sopracciglio destro e parlò con il tono più sarcastico di cui era capace, ma Niki annuì seria senza smettere di masticare, continuando a guardarlo di rimando senza battere ciglio:
“Sì, è della nuova linea di Tiri Vispi Weasley, è al gusto… pizza croccante.”
Per un singolo e breve istante Mathieu riuscì quasi a contemplare l’esistenza di quella gomma, chiedendosi perché mai nessuno ancora ci avesse pensato. Il tono inflessibile e l’espressione seria di Niki quasi riuscirono a convincerlo, finchè il mago non si disse che se davvero quella gomma fosse esistita lui di certo lo avrebbe saputo e comprata a pacchi:
“E i miei bretzel chi li ha mangiati?”
“Beh, non chiederlo a me, saranno anni che non tocco un carboidrato…”
“Ma se l’altro ieri al blackout ti sei mangiata due kg di bretzel!”
“Era buio, avrai visto una che mi somigliava.”
Mathieu, sempre più seccato, avrebbe voluto farle presente come di certo non ci fossero molte persone in giro che le somigliavano, tantomeno in quella stessa città, ma prima di poterle rendere note le sue dimostranze Naomi invitò tutti a prestare attenzione alla lavagna e Carter ed Orion emersero dalla cucina, il primo con una birra in mano e il secondo con un bretzel in mano.
Alla vista dell’Astronomi Niki subito lo indicò, sfoggiando la miglior finta espressione indignata di cui era capace mentre lo guardava scuotendo la testa:
“Orion, sbafarsi metà dei bretzel a casa di qualcun altro, ma non ti vergogni?”
Mentre Mathieu le scoccava un’occhiataccia Orion smise di masticare e guardò prima lei e poi il padrone di casa con gli occhi color cioccolato spalancati, sinceramente dispiaciuto per l’accusa subita:
“Ma è il primo che mangio, giuro!”
“Tranquillo Orion, lo so benissimo.”
Orion parve rincuorarsi mentre Mathieu gettava un’occhiata in tralice in direzione di Niki, che però sbadigliò con aria annoiata mentre Leena, richiamata da Naomi, appariva improvvisamente nel soggiorno dopo essere sparita per quasi un quarto d’ora. Dopo averla adocchiata la britannica corse da Niki, si chinò accanto alla sua sedia e le sussurrò qualcosa all’orecchio coprendosi le labbra con una mano, destando un’espressione di pura delusione sul viso dell’ex modella:
“Davvero?! Che delusione.”
Leena e Niki spostarono entrambe lo sguardo su di lui, visibilmente amareggiate, e Mathieu si domandò offeso che cosa ci fosse di tanto deludente in lui. Perché, poi, i suoi vicini serbavano quello strano atteggiamento nei suoi confronti? Niki era strana a priori, ma gli altri?
 
“L’ho già detto prima agli altri e lo ripeto. Servono dei nomi in codice, non possiamo rischiare che la gente ci senta chiamarla per nome quando siamo in giro!”
Quando Orion, seduto tra Jackson ed Esteban con ciò che restava del suo bretzel in mano, accennò alla lavagna e alle foto dei loro vicini Piper, che aveva occupato l’ultimo posto rimasto libero su uno dei divani color crema di Mathieu, si illuminò e sorrise allegra senza smettere di attorcigliarsi la lunga treccia bionda in cui aveva legato i capelli attorno all’indice:
“Perché non chiamiamo Jeremy “Figo astronomico
"? Lo trovo calzante.”
“Non è troppo riconoscibile?”
“Non è vero, qui è pieno di fighi, su quali basi qualcuno dovrebbe capire che stiamo parlando proprio di lui?”
Piper fece spallucce, del tutto certa che la sua idea fosse azzeccatissima, mentre Naomi, che teneva un pennarello in mano, osservava dubbiosa la foto del loro dirimpettaio:
“Non lo so… Qualche altra idea? La faccenda dei nomi in codice ha senso, in effetti.”
“Io ne ho uno per la Turner: Vecchia marpiona amante dei pennuti.”
Niki parlò dalla sua poltroncina verde senza alzare lo sguardo dallo schermo del suo telefono, continuando a giocare indisturbata a Candy Crush mentre Esteban, seduto sul divano accanto, volgeva dubbioso lo sguardo prima su di lei e poi sulla foto della suddetta vicina:
“In senso sconcio o letterale?”
“Come più ti aggrada.”
“Ma Vecchia marpiona amante dei pennuti è troppo lungo, i nomi in codice hanno senso se sono corti. E poi è riconoscibilissimo.”
Carter, che stava sgranocchiando ininterrottamente salatini da dieci minuti da un’enorme ciotola insieme ad Eileen, scosse la testa con disapprovazione parlando a bocca piena, ignorando l’occhiata torva che Niki gli lanciò dalla sua poltrona.
“Allora Vecchia marpiona e basta. O Vecchia stronza.”
“Sulla Turner ci torniamo dopo… proposte per Harrison Lee?”
“Il Manzavvocato!”
Piper sorrise sognante alla foto e ben presto la buona parte dei presenti si unì a lei, Naomi inclusa. Peccato solo che avesse vent’anni più di lei.
“Se finisce che è stato lui giuro che mi faccio arrestare anche io per finire in cella.”
Naomi diede le spalle ai presenti per scrivere il nome sopra alla foto dell’uomo, trattenendo l’impulso di disegnarci altri cuoricini attorno al viso dalla simmetria meravigliosamente perfetta, quasi l’avessero scolpito. Possibile che non ci fosse neanche l’ombra di avvocati con quelle sembianze, nello studio dove lavorava lei?
“Possibilmente da Domnhall Byrne.”
Eileen sospirò mentre un sorriso sognante le si dipingeva sulle labbra e il bellissimo viso dell’Auror tornava a prendere forma nella sua mente. Per qualche istante nessuno parlò, tutti impegnati, tranne Moos e Niki, a contemplare quell’immagine sublime, finchè la strega non ruppe il silenzio dopo aver finalmente battuto il suo precedente record:
“Attenti, secondo me lo ha puntato la vecchia.”

 
*

 
Le elucubrazioni dei suoi vicini erano state bruscamente interrotte dall’arrivo della cena, che era letteralmente planata nell’appartamento di Mathieu grazie ad un piccolo stormo di adorabili gufetti, che avevano retto le borse contenenti i numerosi cartoni di pizza a gruppetti di tre. Al contrario degli altri, tuttavia, Moos non era riuscito a godersi appieno la cena a causa dei pensieri da cui da giorni non riusciva a liberarsi e che lo tormentavano incessantemente.
Dal momento in cui era arrivata la cena gli altri avevano momentaneamente accantonato tutto ciò che ruotava attorno alla morte di Montgomery, ma per quanto si sforzasse lui proprio non ci riusciva. E aveva l’impressione di non essere l’unico ad avere altro per la testa, a giudicare da come Niki, seduta in un angolo del tavolo accanto a Carter, continuava a gettare occhiate al proprio telefono senza proferire parola e mangiando a malapena. Quando la strega si era alzata, sgusciando silenziosamente fuori dalla stanza quasi senza che gli altri commensali se ne accorgessero, presi com’erano a chiacchierare del più e del meno, Moos aveva aspettato qualche minuto prima di seguirla, convinto di come lei, in assenza di Kei, fosse l’unica tra i presenti con cui poter parlare di Montgomery.
Quando aprì la portafinestra e mise piede sull’enorme terrazzo di Mathieu Moos si sentì scuotere da un leggero brivido, non ancora abituato al freddo improvviso che aveva iniziato ad avvolgere New York da qualche giorno a quella parte.
L’ex Serpecorno accostò la finestra alle proprie spalle per impedire che il freddo potesse penetrare all’interno dell’appartamento e poi attraversò il terrazzo, illuminato dalle lampade applicate su tutta la lunghezza della facciata esterna dell’edificio e dalle luci accese della vasca idromassaggio. Moos superò la vasca quadrata e i tre divani color crema disposti attorno ad un basso tavolino, sotto al pergolato di legno, per raggiungere Niki, che si trovava in piedi davanti all’alta ringhiera di metallo dandogli le spalle. La strega stringeva il telefono in una mano e una sigaretta accesa nell’altra, impegnata a digitare frettolosamente qualcosa sulla tastiera, apparentemente del tutto incurante dell’improvviso calo della temperatura o della cena in corso all’interno dell’appartamento.
“Ti ho portato questa. Prima che di là si mangino tutto quanto.”
Niki smise di guardare lo schermo del telefono per voltarsi verso di lui, osservandolo brevemente prima di accennare un sorriso con gli angoli delle labbra e riporre il telefono all’interno della tasca della felpa dopo averne bloccato lo schermo:
“Grazie Bartimeus.”
 La strega allungò la mano libera per prendere una fetta di pizza al formaggio dal piatto che Moos le stava porgendo, ripiegandola su se stessa per addentarla mentre volgeva lo sguardo sugli alti palazzi illuminati di Manhattan.
“Puoi chiamarmi Moos. Quasi nessuno mi chiama Bartimeus.”
“È un nome curioso, in effetti.”
“Mio nonno si chiamava così.”
“Che cosa carina.”
Per un istante Moos si chiese accigliato se la strega non fosse ironica e si stesse prendendo gioco di lui, ma quando Niki tornò brevemente a guardarlo e di nuovo accennò un sorriso il ragazzo ebbe l’impressione che lo pensasse davvero: la strega aveva quel modo così piatto ed inespressivo di parlare, a volte, da rendergli difficile capire quando era seria o meno. Moos non disse nulla, guardandola tornare a volgere lo sguardo sui palazzi che si estendevano per decine di chilometri davanti ai loro occhi e addentare nuovamente la pizza. Niki masticò lentamente per qualche istante, prima di chinare lo sguardo sulla fetta che teneva in mano per osservarla distrattamente prima di parlare:
“Grazie per la pizza, ma suppongo che tu non sia qui solo per questo. Non fraintendermi, credo che tu sia la persona più gentile di tutti, qui, ma ho l’impressione che l’intenzione sia anche quella di chiedermi qualcosa.”
Dopo aver mandato giù il boccone Niki addentò nuovamente la pizza, continuando imperterrita a non guardarlo mentre Moos, accanto a lei, annuiva stringendo il metallo freddo della ringhiera con la mano libera.
“Tu pensi che qualcuno lo abbia avvelenato e che poi qualcun altro gli abbia… hai capito.”
Le sue parole, Moos se ne accorse immediatamente e non potè fare a meno di sollevare scettico entrambe le sopracciglia, sembrarono quasi divertire la sua vicina, che tornò a guardarlo sollevando gli angoli delle labbra fino a far prendere forma ad un sorriso a malapena percettibile con un luccichio divertito nei grandi occhi verdi:
“Tu apri la gente morta. Non dovresti avere paura di parlare della morte.”
“È diverso adesso.”
Per una manciata di istanti che a Moos parvero lunghissimi Niki non disse nulla, osservandolo in silenzio con la sigaretta a metà strada verso le sue labbra finchè non annuì, mormorando qualcosa con tono assorto senza smettere di osservarlo inespressiva:
“Sì. immagino di sì.”
Terminata la fetta di pizza Niki tornò a puntare lo sguardo davanti a sé e si portò l’estremità della sigaretta alle labbra per prendere una boccata, lasciando che il silenzio avvolgesse il terrazzo per qualche lungo istante mentre le voci dei loro vicini giungevano lontane dal soggiorno di Mathieu attraverso la porta-finestra socchiusa.
“Comunque certo, lo penso. Tu forse no?”
“Io non… Io non riesco a concepire l’idea che qualcuno potesse odiarlo a tal punto, credo. Forse è più difficile da assimilare questo che la sua stessa morte. Non ha senso, probabilmente, ma è così.”
“Penso che il modo in cui è morto dovrebbe farti sentire meglio.”
Niki si allontanò la sigaretta dal viso di qualche centimetro, la mano libera infilata nella tasca della felpa. Inclinò leggermente il capo verso l’alto mentre esalava una piccola quantità di fumo sotto lo sguardo sempre più sconcertato di Moos, che la osservò chiedendosi come un pensiero del genere potesse anche solo sfiorarle la mente:
“Come potrebbe farmi sentire meglio immaginarlo con gli occhi sbarrati, la gola squarciata e sangue ovunque?”
“Almeno è morto subito. Se lo avesse ucciso il veleno avrebbe sofferto indicibilmente. Per quanto riguarda lui…”
Niki si allungò nuovamente verso il vicino per prendere la seconda fetta di pizza, piegarla e addentarne la punta, riprendendo a masticare lentamente riprendendo a guardare dritto davanti a sé sotto lo sguardo di Moos che ascoltava in silenzio, curioso di sentire che cosa avesse da dire:
“Ti risulta davvero così difficile, immaginare che qualcuno lo odiasse a tal punto?”
“Sì.”
Quelle semplice parola gli scivolò dalle labbra quasi automaticamente, senza il suo controllo in un riflesso spontaneo, ma con una traccia di esitazione nel tono di voce. Quando subito dopo Niki si voltò per gettargli un’occhiata in tralice, quasi sapesse che cosa stesse pensando in realtà, Moos sentì le proprie dita stringere con maggiore intensità la fredda ringhiera di metallo, conscio di non essere poi così convinto della propria risposta e sentendosi al tempo stesso profondamente in colpa per tal motivo.
“Sicuro? Voi siete stati migliori amici. Per anni interi, per tutta l’infanzia e anche dopo. Finchè un giorno lui non ha deciso che ne aveva abbastanza, vero? Finchè non ha deciso che tu non eri abbastanza. E allora ha smesso di essere tuo amico, salvo quando gli faceva comodo.”
Non importava quanti anni potessero essere passati, le parole di Niki, che questa volta continuò ad osservarlo senza distogliere lo sguardo, furono dolorose quasi quanto i ricordi stessi di quegli eventi. Una parte di lui non era mai riuscita a perdonarlo per come lo aveva trattato ma all’improvviso, da quando Monty era morto, aveva iniziato a chiedersi se non ci fosse stato qualcosa che nel tempo avrebbe potuto fare per recuperare il loro vecchio legame. Ora che non c’era più alla sofferenza di molti anni prima per il modo in cui lo aveva trattato si univa anche quella dovuta alla consapevolezza che mai in nessun modo Monty avrebbe più fatto parte della sua vita. Moos si sentiva in colpa per essere rimasto per tanto tempo arrabbiato con una persona che ormai non c’era più e che un tempo era stata così importante per lui, e allo stesso tempo si sentiva orribilmente stupido: quando era morto Monty non faceva più parte della sua vita già da anni. Perché tanta tristezza?
“Non capisco come tu sappia tutte queste cose.”
Questa volta fu Moos a distogliere lo sguardo, profondamente a disagio nel dover affrontare l’argomento, e Niki sospirò rumorosamente scuotendo il capo prima di avvicinarglisi di un passo, guardando il vicino con disapprovazione ma anche con una punta di rammarico, quasi si sentisse sinceramente dispiaciuta per lui.
“Era uno stronzo, Bartimeus, in fondo lo sai anche tu. So che è difficile accettare la crudeltà di chi abbiamo amato, ma è la verità. Le persone sono così. le persone sono orribili, si prendono tutto quello che hai da dargli e poi ti buttano via. Siete stati amici per un sacco di tempo e poi lui si è comportato così. Questo che cosa ti dice di lui?”
Moos esitò, lo sguardo fisso sui lampioni accesi di Central Park, momentaneamente incapace di sostenere lo sguardo duro della strega. In fondo sapeva che aveva ragione, ma una parte di lui era rimasta talmente affezionata a Montgomery da ancora faticare a riconoscere quanto pessimo fosse stato nei suoi confronti.
“Immagino che se si è comportato così con me, dopo tutto quello che avevamo condiviso, può aver fatto molto di peggio ad altri.”
Quelle parole, anche gli costò pronunciarle, parvero finalmente soddisfare la vicina, che annuì con un lieve movimento del capo e accennò un sorriso quasi come fosse lieta di avergli finalmente sentito affermare la cosa giusta:
“Esattamente. Bisogna solo capire che cosa, a chi. Così magari capiremo perché qualcuno, forse più di qualcuno, voleva ucciderlo. Se qualcuno lo odiava davvero e perché.”
“Il fatto che sia stato avvelenato e poi, emh, accoltellato brutalmente, non suggerisce chiaramente che qualcuno qui lo odiasse?”
Per quanto si sforzasse Moos non riusciva a capire come la sua vicina ragionasse, e spesso nemmeno il senso più profondo di ciò che diceva. Cercò di immaginare una conversazione tra lei e Montgomery e non gli vennero in mente due persone più diametralmente opposte, né uno scenario più difficile da figurarsi. L’ex Serpecorno parlò con tono incerto e inarcando un sopracciglio, faticando ad immaginare che qualcuno fosse arrivato ad uccidere in quel modo brutale il suo vecchio amico se non perché spinto da una sincera avversità nei suoi confronti, ma Niki si strinse nelle spalle con un movimento a stento percettibile e si portò la sigaretta alle labbra tornando a studiare le luci dei lampioni accesi di Central Park, che da quell’altezza e distanza assumevano quasi l’aspetto di uno sciame di lucciole.
“Penso che un’enorme quantità di gente viva un’intera vita senza davvero sapere che cosa sia l’odio. L’odio non è disprezzo, non è antipatia e nemmeno rancore. È qualcosa di molto più profondo, difficile da sradicare una volta che si è insidiato, qualcosa che ti corrode, lento ed inesorabile, finchè non riesci a liberartene. Ma la gente a volte è molto più crudele, non sa che cosa sia davvero, l’odio, eppure uccide comunque. I motivi possono essere tanti.”
“Non riesco ad immaginare che si possa arrivare ad uccidere qualcuno senza odiarlo.”
“Perché tu sei una brava persona. Le persone sono molto più crudeli di così, ma tu di certo non hai mai odiato nessuno in vita tua. Non riesci ad odiare nemmeno lui, vero?”
Niki tornò a guardarlo accennando un sorriso, quasi provasse per lui una sorta di vaga tenerezza, e Moos, del tutto conscio di come la vicina avesse ragione, chinò lo sguardo sulla propria mano che stringeva la ringhiera. Era vero, per quanto il suo comportamento potesse averlo ferito e fatto infuriare non era mai riuscito a disprezzarlo davvero.
“Come fai a dirlo?”
“È piuttosto evidente. L’empatia non è mai stato il mio forte, ma riconosco un animo gentile quando lo vedo. Per quanto riguarda l’omicidio, i tre grandi moventi sono amore, denaro e vendetta. I primi due li escluderei. Oserei dire che qui quasi nessuno ha bisogno di denaro, e di certo Montgomery non è stato ucciso per un delitto passionale.”
“Perché lo pensi?”
Moos non la seguiva, ma iniziava a non sorprendersi nemmeno più, e si limitò ad osservare incuriosito il bel volto concentrato di Niki mentre la strega fissava assorta le luci di Manhattan, guardandola scuotere leggermente la testa prima di parlare:
“Il veleno è qualcosa di molto studiato, di premeditato con cura. Immagino che difficilmente una persona avrebbe tutto questo raziocinio, se dovesse uccidere per quel motivo. Forse avrebbe potuto esserlo se, non so, avessimo trovato Montgomery in fondo ad una scala, o spinto da una finestra. No, questo non è un delitto passionale. Chi ha avvelenato il suo caffè non lo conosceva bene, sappiamo solo questo, non era qualcuno che aveva un legame particolare con lui. È una persona crudele. Ma non avventata, e questo la rende più pericolosa di qualcuno che uccide spingendo giù da una rampa di scale, suppongo.”
“Quindi resta la vendetta?”
“Può essere. O forse no. Sono i tre grandi moventi, ma ce ne sono altri… Almeno altri due che la gente spesso non prende in considerazione, ma a mio parere anche più pericolosi.”
“E quali sono?”
Niki si portò la sigaretta alle labbra per aspirare un’ultima volta prima di allontanarsela lentamente dal viso, osservandola pensosa per qualche istante prima di recuperare la bacchetta dalla tasca dei jeans neri e farla sparire mentre il fumo le usciva lentamente dalle labbra dischiuse. Moos non si mosse, restando ad un metro da lei anche per tenersi a distanza dal fumo stesso, e la guardò in silenzio finchè la strega non tornò a guardarlo, scrutandolo in viso con attenzione con le sopracciglia arcuate leggermente aggrottate:
“Qual è la cosa che più di ogni altra spinge le persone ad agire?”
“Non saprei… L’amore?”
Niki sorrise e un brevissimo accenno di risata sarcastica si librò dalle sue labbra, portandola a scuotere la testa mentre picchiettava ritmicamente le lunghe dita della mano destra sulla ringhiera:
“Sì, se vivessimo in un romanzo di Charlotte Bronte. Ma noi viviamo nella frenetica, crudele New York, dove puoi accasciarti privo di vita sul pavimento della Metropolitana e nessuno verrà a soccorrerti. Tu sei nato qui, sai di cosa parlo. Aspettati il peggio dalle persone, Bartimeus, perché le persone sono il peggio. Sempre. No, ciò che ci fa agire in un modo piuttosto che in una altro è ben lontana dall’amore. Grazie per la pizza.”


Dopo aver pronunciato quelle parole Niki si congedò sotto lo sguardo sempre più perplesso di Moos, che la guardò dargli le spalle e infilarsi le mani in tasca per attraversare a ritroso il terrazzo e rientrare nell’appartamento di Mathieu sentendosi ancora più confuso rispetto a quando aveva varcato la portafinestra per parlarle.
Quando spalancò l’anta di vetro quanto le bastava per rientrare nell’immenso soggiorno di Mathieu Niki si sentì pervadere da una piacevole ondata di calore mentre il suono delle voci e delle risa dei suoi vicini si faceva al contempo più vicino ed insistente. La strega tuttavia non ci badò, tirando dritta verso la porta d’ingresso dell’appartamento invece di raggiungerli, fermandosi solo per un breve istante quando passò accanto al divano color crema dove Prune si era comodamente stravaccato dopo essere a lungo rimasto attorno al tavolo dove padrone e vicini stavano cenando per cercare di scroccare qualche pezzo di pizza:
Prune sollevò la testa bianca macchiata di nero appena in tempo per sentire la lieve carezza che Niki ci depositò, iniziando a muovere contento la coda mentre la strega ruotava il capo per guardare in direzione delle voci dei suoi vicini. Per un istante gli occhi di Niki scrutarono assorti ed un poco accigliati la parete, ma dopo una breve esitazione allontanò la mano dalla testa di Prune, che la guardò deluso ed implorante  per avere altre coccole con i dolci occhioni scuri spalancati:
“Ci vediamo ragazzone.”
Un po’ deluso, Prune la guardò superare il divano e allontanarsi fino a raggiungere l’ingresso, aprire la porta e sparire fuori dall’appartamento.
 
 



 
 
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(3): Scrittore svizzero
(4): “L’autunno è il silenzio prima dell’inverno”, proverbio francese
 
 
 
 
 
 
 
……………………………………………………………………………………………………….
Angolo Autrice:
 
Non sto più nemmeno a sottolineare quanto questo capitolo sia lunghissimo, perciò buonasera❤️
I quattro nomi che vi avevo chiesto di indicarmi un paio di settimane fa su IG mi sono serviti per scrivere il paragrafo introduttivo, pertanto mi ripeto chiedendovi di indicarmi quattro nomi tra quelli rimanenti (anche quello del vostro OC, se volete):
Carter
Eileen
Esteban
Jackson
Kei
Mathieu
Naomi
Niki
Piper
 
 
Grazie a tutte per le recensioni degli scorsi due capitoli, spero che anche questo sia stato di vostro gradimento. Penso che ci rivedremo su questi lidi tra Natale e Capodanno con il prossimo capitolo, nel frattempo vi auguro un buon weekend.
A presto,
Signorina Granger
   
 
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