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Autore: Ciuscream    12/12/2022    10 recensioni
L’aria di quella notte che sboccia è fresca e frizzante; è refrigerio e panacea a quel groviglio rovente che gli attanaglia la gola. Espone il collo alla Tokyo ancora sveglia sotto di lui: lascia che il venticello gli soffi piano sulla pelle, la solletichi di una leggera pelle d’oca e l’effetto benefico sfumi fino alle sinapsi, anestetizzando quel loro ciarlare. Lo riscuote solo una voce, che arriva dritta da una figura che si dondola su una sedia, dal lato opposto a quello occupato da lui, i piedi intrecciati sul cornicione e il viso nascosto da un benevolo cono d’ombra.
“Non riesci a dormire, Wood?”

[Questa storia partecipa alla challenge "72 prompt in attesa del Natale" indetta da Mari Lace e Sofifi sul forum Ferisce più la penna – giorno #13 | Haikyuu!AU]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Marcus Flint, Oliver Wood/Baston
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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INTRO: Questa storia nasce e viene pubblicata in un periodo, per me, particolarmente complesso (anzi, mi scuso per averla pubblicata un giorno prima del previsto ma domani probabilmente non avrò modo/tempo di mettere mano al pc). Il risultato finale non è quello che mi aspettavo, o che speravo, quando ho scelto di lasciare il mio cioccolatino per la “72 prompt in attesa del Natale” Challenge indetta da Mari Lace e Sofifi sul Forum “Ferisce più la penna”, per la quale questa storia è stata scritta e pensata. Ma, finendo questa premessa che sa di giustificazione, volevo soltanto dire che ho scelto di parlare di Marcus ed Oliver perché, per me, sono i rivals to lovers per eccellenza ed essendo un trope che amo molto, il prompt dell’Haikyuu!AU mi portava direttamente da loro. Ho scelto di piazzare Oliver nel Nekoma (…non solo perché è la mia squadra preferita) ma perché i colori rimandano un po’ a quelli Grifondoro. Lo stesso motivo e il fatto che vengano chiamati una squadra di serpenti, mi ha fatto propendere per Marcus nella Nohebi, anche se non è una delle squadre di punta del fumetto. Ovviamente, nella storia ci sono alcune assonanze dei personaggi trapiantati con quelli del canon originale e anche le tappe di questo loro viaggio (dalle medie fino al liceo) ricalcano un po’ quello che è il viaggio anche di Hinata in Haikyuu. Non dico altro per non fare spoiler e un grazie grande a chi leggerà (in anticipo!). 
Vi abbraccio e vi auguro un Natale sereno, vicino alle persone che amate. 

EDIT: Questa storia partecipa inoltre agli Oscar della Penna 2024, indetti sul Forum Ferisce la Penna.



 


Colin Canon saltella impazzito da un piede all'altro, gli occhi carichi di un'elettricità palpabile e frementi di uno scintillio infestante; Oliver alza una mano a coprirsi gli occhi, tempestati dai flash che la reflex del ragazzino gli lampeggia in faccia, incurante. Prova a mettere qualche sillaba in fila ma non riesce – Colin lo inonda di un fiume incomprensibile, una parola che si affolla sulla successiva, mischiando lettere e trasformandole in qualche neologismo.

Colin, ti prego, fermati!”

Oliver prova a cercare di interrompere quel suo entusiasmo premendogli entrambe le mani sulle spalle ma finisce per tremare anche lui, contagiato da quella marea di vita, da quel terremoto che lo rende incapace di mantenere ben saldi i piedi a terra.

Allora è vero? È vero, Oliver? Saremo in finale, eh? Oliver? È vero? Finalmente batteremo il Nohebi e andremo ai nazionali, vero Oliver? C'è qualcosa che puoi dire per il giornalino del liceo, eh? Come capitano, intendo. Come capitano e come libero, insomma, sì... come Oliver!”

 

“L’arte del gioco”, di Oliver Wood

 

Sono rimpallate ovunque: nell'era in cui tutto è connesso, basta una scintilla per farsi dilaniare da un incendio. Così, quelle che sono le cinque regole d'oro che il Capitano Nekoma ripete e ripete prima di ogni allenamento, ogni partita – che sia un'amichevole, un riscaldamento o la vigilia dei Nazionali – adesso guizzano fuori da telefoni, computer, messaggi inoltrati, infiltrandosi proprio fino agli occhi e alle orecchie anche di chi voleva ignorarle. C'è chi adesso lo guarda con una luce nuova negli occhi, chi – un mezzo sorrisetto a tagliargli le labbra – lo chiama Sun Tzu da lontano, sventolando un volantino con quelle frasi stampate sopra. Qualcuno mostra il video ad un amico e ride, qualcun altro lo riguarda prima di andare a dormire perché, di quelle lezioni, sente di aver bisogno. Uno solo, invece, delle parole sembra dimentico; vede e rivede quel video senza suono, fissandosi solo sul modo in cui le labbra di Oliver si muovono, su come la pelle arrossata del viso segua la piega del suo sorrisetto orgoglioso – glielo strapperebbe, se potesse –, su come gli occhi scintillino della perentoria e irremovibile certezza di rubargli dalle mani un posto nei finalisti di Tokyo, nei prescelti che hanno conquistato i Nazionali. Su come, quegli stessi occhi, brillino della certezza che, a breve, starà tra coloro che lo hanno sconfitto e gli hanno portato via tutto.

Solo in quel momento, quando si accorge che si è ritrovato ad indugiare su quei tratti del viso, su quei connotati non spezzettati dalle righe della rete, mentre si accorge di aver immaginato di volerli tracciare con le dita, a sezionarli nei pezzi del suo annichilente – inconfessato – desiderio, lancia il telefono poco più lontano, a precipitarlo sul letto in cui vorrebbe precipitare lui (con lui). E si odia, per questo.

Quell'uno solo, quest'uno solo, porta il nome di Marcus Flint.
 

 
1. LA BRAVURA È COMPAGNA FEDELE SOLTANTO DELLA COSTANZA

                     
Il cielo inizia a bucherellarsi di qualche stella, offuscata da nubi buie e sottili. Oliver ha le braccia indolenzite, rosse di fatica, chiazzate e turgide dove la palla si è schiantata più volte. Non ha ancora voglia né intenzione di smettere, però. Non ha idea nemmeno lui da quanto tempo sia lì, da quanto tempo gli altri abbiano lasciato la palestra, da quanto il custode l'abbia chiusa, lasciandolo al freddo di una sera di primo autunno ad allenarsi in un andirivieni solitario tra lui e il muro scrostato, un valzer d'amore non corrisposto tra un libero e la nuda pietra.

Un rivolo di vento gli solletica il sudore che si è aggrumato alla base del collo ma non si accorge nemmeno dei piccoli brividi che questo gli sdraia sulla schiena: la sua testa – ogni pensiero, neurone, sinapsi – ha una sola ed unica foce. Un solo ed unico obiettivo.

Un solo, unico, assordante eco ad avvolgerlo: vincere.

Forse, con quella cieca e testarda risolutezza ci è nato; forse, il vedersi soffiare da sotto il naso il ruolo di capitano gli ha dato, altrettanto, una scarica di adrenalina e desiderio e invidia da far tremare i polsi. Forse, è semplicemente il suo segno zodiacale a renderlo così ostinato, o l’ascendente, o le altre stupidaggini che gli propina Angelina quando non ha più voglia di ascoltare, a lezione.

Forse, è che questa sarà la sua ultima occasione per vincere il torneo delle scuole medie; forse, sarà l’ultima opportunità di farsi ammettere al Liceo Nekoma. Forse, spera che il viso di Charlie sia là sugli spalti, ad applaudire di un rolling thunder particolarmente riuscito, pur nella sua forma rudimentale.

Forse.

O, forse, c’è una cosa più importante di tutto questo: non la vittoria, non la gloria, non un posto tra i migliori delle scuole medie della Prefettura. Piuttosto, la sconfitta – quella del Re del campo, di quel ragazzino dallo sguardo affilato e le spalle troppo, troppo, grandi per la sua età, di cui l’indomani dovrà parare ogni schiacciata; vedere il suo sguardo fiero piegato, vedere la sua palla parata e rispedita al mittente oltre quel muro fragile che è la rete, fino alla fine, fino a sconfiggerlo, è l’obiettivo che non confesserebbe mai, nemmeno a se stesso.

Oliver parla stretto tra i denti, così che soltanto lui – nel silenzio spaccato a sprazzi dal rumore della palla – possa sentirsi. Oliver parla stretto tra i denti ma le parole gli rimbombano in testa, come l'eco di mille schiacciate da Asso. Di quell'Asso. Di quel Re.

Perderai, Flint”

 

2. LA SCONFITTA È PARTE DEL PROCESSO PER ARRIVARE ALLA VITTORIA


L'arbitro fischia e, nel secondo interminabile che separa quel suono dal boato che esplode dal lato dei vincitori, i vinti avvertono tutto il peso del silenzio. Oliver rimane così, il viso a terra, le braccia protese, il pugno a pochi millimetri dall'ombra rimasta dove la palla si è schiantata, condannandolo.

Ha perso. Hanno perso.

Il palazzetto esplode poco dopo: voci che si sommano e si mischiano e Oliver non ne avverte nessuna amica. Non Charlie, non suo padre, non il Preside, non quella dei suoi compagni precipitati addosso a lui. Nulla – solo un rumore che si fa bianco, che sfuma oltre i timpani, oltre la protezione che ha messo tra lui e un inevitabile creparsi a metà. Non vuole piangere, non adesso; eppure sente spingere qualcosa nell'angolo più remoto di mente ed occhi. Sente mani aggrapparlo: braccia che gli circondano il petto, il collo, le mani e lo tirano su. Ma non vuole alzarsi: non vuole alzare lo sguardo, perché vedere loro, vedere lui, festeggiare di fronte alla sua, alla loro, sconfitta, è troppo da portarsi dietro. Un ricordo impresso in gesso bianco sulle pupille ora larghissime di un'emozione che non sa contenere.

Oliver ha quindici anni, quella sarà l'ultima partita delle scuole medie e qualcosa, al centro esatto dello stomaco, gli brontola di fastidio: è come una fame. Una fame molto più ancestrale, però – di vittoria, di vendetta, di rivincita.

Andiamo Oliver, dobbiamo metterci in riga”

 
Non sa di chi sia la voce ma si lascia trascinare. Allineato accanto ai suoi compagni, la lacrime a spintonare ai lati degli occhi, lascia che lo sguardo scivoli sulla barricata opposta, dall'altra parte di un campo che la minaccia del pianto gli rende sbiadito, acquoso, dalle figure quasi indistinguibili. Una in particolare, però, la riconosce anche dietro un velo di lacrime: spicca, più alto di una spanna dei suoi compagni, l'espressione arrogante che gli indurisce i tratti di ragazzino, un'espressione così acuminata che Oliver vorrebbe imparare a schiacciare solo per farci finire una palla sopra.

Sente una mano battergli sulla spalla.

Sei stato fortissimo, Oliver. Senza di te, la partita sarebbe finita molto prima”

Le parole gli scivolano lungo la schiena come un brivido caldo ma un sorriso non riesce a stirarsi sulle labbra.

 

*

Ci sono abbracci d'addio, saluti a mezza voce così che non diventino reali; ci sono mani che si stringono, altre che si battono sulle spalle, perché non c'è posto per un affetto ostentato in uno spogliatoio di quindicenni, tutti intenti a dimostrare ciò che la società chiede loro – di esser già uomini, di avere i tratti che gli sono stati affibbiati da quel cromosoma differente. Oliver, quindi, lascia su il suo sguardo serio, quasi la partita dovesse ancora giocarla, e – sacca in spalla – si avvia per il corridoio.

Non sa farlo: non sa pensare che sia tutto finito, che quella squadra non ci sarà più, che ci saranno compagni nuovi e legami nuovi da intessere, schemi da spiegare, da imparare da capo, equilibri da ristabilire e ruoli da riconquistare. Sarà di nuovo un primino, di nuovo in panchina, di nuovo chiamato a dimostrare.

Di questo, però, non vede l'ora.

 

Il silenzio che avvolge tutti loro sembra condito degli stessi pensieri, mentre i compagni di squadra sfilano tra i corridoi dritti e muti, come quello fosse il corteo funebre della loro finale. Si sente sfumare ancora qualche gridolino avversario dietro l'angolo, risate che si mischiano a squilli di tromba e battiti di tamburi. Un coro, un altro, un tifo che sfocia in un'allegria vera e propria, in una felicità palese e palpabile.

Oliver, dal canto suo, sente salire un conato.

 

Svoltano quello stesso angolo poco dopo e, davanti, trovano quello che si aspettavano – quello che non speravano: i loro avversari, cangianti di trionfo, ancora saltellano, battono le mani, abbracciano amici e parenti venuti ad ammirarli vincere. Si zittiscono solo qualche secondo dopo, quando inquadrano la loro piccola fila indiana – perdenti, sì, ma tutti ad occhi alti, conditi di sguardi taglienti, con promesse di rivincita incise nell'iride.

Il Capitano, quel Flint – Oliver gli pianta addosso il più minaccioso degli sguardi che il suo viso sbarbato riesce a partorire – fa un passo avanti; allunga una mano, stringe quella del loro, di Capitano, e poi si volta verso Oliver. Un secondo interminabile in cui due occhi si tuffano uno dentro l'altro e – ventimila leghe sotto le divise da partita – Guerre Mondiali scoppiano e finiscono in brandelli di secondi, in tregue provvisorie ed instabili.

Ti batterò anche la prossima volta”

Lo dice così, mentre la mano stringe quella di un Capitano che sta totalmente ignorando; lo dice così, da schiacciatore a libero, da Asso a Guardiano, da avversario ad avversario.

Oliver, a dispetto della sorpresa, assottiglia gli occhi; una rabbia sottile lo invade dal cuore ai capillari, facendogli formicolare le dita delle mani, facendogliele sentire vive come in partita.

Ne dubito. La prossima volta prenderò anche l'ultima”

Flint sorride ed è tutto ghigno; si scosta di lato per lasciarli passare. Lo sguardo di Oliver ancora fuso al suo, ancora confuso di quell'elettricità a cui non sa dare un nome.

Lo vedremo, Wood”

 

3. LA PAURA NON È NECESSARIAMENTE UN NEMICO: 
GOVERNA LA TUA, SFRUTTA QUELLA ALTRUI

 

I Nazionali, per Oliver, sono quell’orizzonte che sfuma nel sogno; quel sogno che, nei due anni precedenti, si è infranto contro un’alba particolarmente dolorosa, mentre quest’anno sembra farsi più palpabile, più vicino – a portata di braccio.

Oliver ha diciassette anni ed è al suo terzo anno al Liceo Nekoma. Finalmente, ora che anche i liberi posso fregiarsi di quel titolo[1], è stato nominato a furor di popolo Capitano. È da quel giorno che, ad una gioia feroce e selvaggia, nella pancia di Oliver si mescola un senso di responsabilità della stessa densità del granito, a pesargli proprio sulla bocca dello stomaco. Non gli ha tolto la fame, però. Men che mai quella di vittoria. Forse gliel’ha raddoppiata, gliel’ha spalmata su ogni terminazione nervosa.

Solo il sonno, ogni tanto, tentenna ed Oliver si ritrova con il naso sugli schemi, con gli occhi sullo schermo, in cui vede, rivede, analizza e scorpora ogni azione avversaria, sì da non rendere nulla invincibile, non nell’arco di un fotogramma brevissimo.

Gli sembra quasi ironico, però – ironico ai limiti del subdolo – che l’unico ostacolo a separarlo dai Nazionali, da quel sogno di cui sente il sapore dolciastro sulla lingua, sia lui, ancora lui, sempre e soltanto lui.

Non si sono più incontrati in una partita ufficiale: non ha più visto le sue spalle troneggiare oltre la rete, i suoi occhi dardeggiagli addosso occhiate che hanno ancora un retrogusto derisorio. Solo in qualche amichevole ha sentito il suo sguardo addosso, il rumore delle schiacciate infrangersi e rimbalzare sui muri della palestra, la sua risata acre, i suoi commenti sottovoce. Se prima Marcus Flint aveva la consistenza ruvida di un Asso, adesso che il Nohebi lo ha inglobato e fatto proprio, ha più la ferocia flessuosa di un serpente. Non avrebbe potuto trovare un posto migliore, in una squadra dai connotati diversi: lo trova perfetto incastrato tra denti aguzzi e veleno.

Come lui, del resto, è perfetto tra felini dagli artigli affilati, lo sguardo attento e l’intelligenza di leggere ogni avversario, prendere ogni dettaglio e renderlo un’arma di vittoria. A differenza di tre anni prima, Oliver si sente avvolto da una risolutezza cieca e incorruttibile, quella che ha preso l’eredità di Nekomata sulle spalle e ha lanciato lo sguardo dritto ad un futuro dimentico della Battaglia dei Cassonetti, con occhi tutti al Palazzetto di Tokyo.

 

Nel buio dell’albergo dove le squadre riposano, Oliver annusa il silenzio e sfila tra i corridoi resi quieti da una coltre di sonno. Scappa dalla sua testa, dove, invece, tutto fa rumore. Sembra una messinscena di emozioni confuse: ci sono le voci di adrenalina, paura, euforia, di una smodata e smisurata voglia di vincere – di rivincita –, tutte alimentate (tormentate) dalla consapevolezza che di chance non ce ne saranno altre. Un ora o mai più che ha il peso di mille pianeti da reggere, tutti a premere sul suo collo da Atlante. 

Avverte il gracchiare leggero di qualcuno che russa, la musica fastidiosa e passeggera di un’auto che sfreccia all’esterno, sente voci che sono soltanto sue e che ripetono cosa, come, quando. Gli ripetono di fare attenzione al n. 6, alla sua battuta macinatrice di ace. Ripetono di sistemare il muro all’altezza perfetta per quel centrale tanto alto. Ripetono di non farsi ingannare mai dalla mano sinistra di Marcus Flint, mancino in un mondo di uguali, per non fargli scombinare – come ha sempre fatto – ogni suo piano. Perché nonostante gli anni abbiano anestetizzato il ricordo, la finale di molti anni prima ancora brucia sulla lingua di un sapore più acre della sconfitta in sé.

 

Oliver spalanca la porta finestra e si getta sul terrazzino, con un calore equivoco che adesso gli avvampa alla base del collo e un’impotenza palese di fronte al suo allagante espandersi.

L’aria di quella notte che sboccia è fresca e frizzante; è refrigerio e panacea a quel groviglio rovente che gli attanaglia la gola. Espone il collo alla Tokyo ancora sveglia sotto di lui: lascia che il venticello gli soffi piano sulla pelle, la solletichi di una leggera pelle d’oca e l’effetto benefico sfumi fino alle sinapsi, anestetizzando quel loro ciarlare. Lo riscuote solo una voce, che arriva dritta da una figura che si dondola su una sedia, dal lato opposto a quello occupato da lui, i piedi intrecciati sul cornicione e il viso nascosto da un benevolo cono d’ombra.

Non riesci a dormire, Wood?”

Le sillabe sottintendono solo una leggera malizia, strisciata tra le lettere, ad incastrarsi tra i loro spazi. 

Non serve che dica altro: avrebbe potuto riconoscere quel tono o le fattezze di quel corpo anche in una luce molto più fievole.

Oliver si ricompone alla svelta e lancia gli occhi in quella direzione, la lingua che si prepara a quello che si preannuncia un’anteprima dello scontro di domani, le mani strette – le nocche imbiancate – alla ringhiera che dà sul vuoto.

“Potrei farti la stessa domanda, Flint”

Questo slaccia l’intreccio dei piedi e li pianta a terra, con una grazia che non si confà a quella sua stazza. Si alza, imita la sua posizione, si appoggia al ferro umido di brina nello stesso modo in cui fa Oliver. Adesso, la luce di un lampione poco lontano gli illumina il viso: è forse la prima volta che lo vede tanto da vicino. È forse la prima volta che lo vede così. Per questo, non si fa troppe domande sul perché il cuore abbia perso un battito o ne abbia voluti accumulare troppi nello spazio di uno soltanto.

Marcus sorride, un ghignetto divertito, le braccia conserte, l’aria di chi vuole godersi uno spettacolo.

“Beh, allora? Fammela, no?”

Oliver sente, però, che le parole si sono incastrate da qualche parte, sul fondo della gola; erose, forse, da quel calore che è tornato prepotente, che nemmeno il vento adesso sembra chetare, che nemmeno una volontà strenua riesce a sputar fuori.

Inghiotte a vuoto.

Marcus sorride, di un sorrisetto che mescola altre tinte a quella solite mentre Oliver si sente sezionare, tratto a tratto, da quel suo sguardo. Ha connotati diversi, però; sembra depauperato dalla ferocia che scintilla durante le partite, che ha visto in quei fotogrammi che ha mangiato – troppi secondi in cui ha indugiato soltanto sul suo viso, sulla fronte sudata, sulla fatica a strizzargli gli occhi – e che adesso invece manca. Oliver intravede uno sguardo più morbido, quasi coperto da un velo di… qualcosa. Non saprebbe dire cosa.

“Non riesci a dormire?”


La domanda gli esce fuori con un tono tutto diverso da quello di poco prima; è come se fosse la domanda più semplice del mondo, fatta ad una persona che si conosce bene, ad un amico, ad un compagno. Oliver se ne rende conto di quanto quel ragazzo dai capelli scurissimi, scarmigliati sugli occhi, dalla mascella dura, lo sguardo affilato, gli occhi che appena si allungano dandogli un sentore più orientale del suo, sia stato per lui, alla fine, un compagno. Di incubi, forse. Di rabbia. Di paura – del terrore allagante e malsano della sconfitta. Ma anche uno sprone, sempre presente. Anche quando i muscoli lanciavano la loro resa, le braccia erano stanche di vedersi torturate dalla palla, Oliver vedeva quegli occhi e trovava ancora la forza di continuare.
 

Trovarselo lì, davanti, non come avversario ora ma solo come Marcus, lo frastorna appena di emozioni che non riesce a classificare.

No. Mi fai compagnia?”

C’è qualcosa che frizza in quelle sue iridi; qualcosa di magnetico, qualcosa di inclassificabile, qualcosa che gli muove i muscoli da sé, portandolo ad annuire leggero.

Marcus si avvicina di un passo e Oliver può osservarlo meglio: sotto la felpa bianco verde della Nohebi, ha un pigiama leggero, azzurro, con un disegno stupido che lo fa sorridere appena. Sembra così… umano. Umano e bello, si trova a pensare, con un tremito che gli scuote le mani.

Non ha le fattezze bestiali dello schiacciatore più forte della Prefettura; non ha la solita stazza intimidatoria, il solito sorrisetto tagliante, le solite mascelle contratte da fatica e determinazione. È solo lui, normale. Normale come Oliver non lo ha mai visto prima; normale come Oliver sperava di non doverlo vedere mai. Bello.

Scuote la testa, dando voce ad un pensiero tutto suo, un pensiero che ha nascosto per anni, celato dietro l’entusiasmo e l’ammirazione e la ricerca di una guida. Solo di Charlie lo ha pensato prima. Ha pensato che fosse… bello da guardare. Tanto da volergli allungare una mano sul viso, tanto da voler saggiare coi polpastrelli la consistenza dei suoi capelli ramati. E adesso si ritrova lì, anni dopo, di fronte alla persona che – anni prima – ha infranto il suo primo sogno reale, che gli ha insegnato quanto possa trascinare in avanti la paura. Quanto questa sia formica che sposta pesi enormi – quanto questa abbia spostato tutto il peso della sua cieca determinazione.

Si ritrova davanti a lui e, di nuovo, vorrebbe saggiare con le dita la morbidezza delle sue labbra grandi, sentire la piccola cunetta della cicatrice che ha sulla guancia sinistra, scivolare lungo il pendio del suo naso drittissimo.

Marcus lo guarda e Oliver ha l’impressione che possa leggere ogni suo pensiero, che possa scovarne di uguali in altri anfratti della testa, che possa scoprirlo e usare di nuovo quelle armi contro di lui. Magari questa bolla d'improvvisa confidenza è un trucco; magari vuole rabbonirlo, vuole conquistarsi la sua debolezza – per schiacciarlo di nuovo, domani. Per ribadire che il vincitore è lui. È lui il grande Re.

 

La portafinestra che dà sul terrazzino si spalanca con un gesto frettoloso ed incurante. Capelli color rame si affacciano, ad incorniciare un viso gonfiato dal sonno e sporcato di sorpresa.

“Oliver! Ci chiedevamo dove fossi sparito”

George ha lo sguardo impastato da sogni che ancora sfumano dietro le iridi e ci mette qualche secondo a focalizzare quello strano duo che si staglia su una Tokyo silenziosa e luminosa. Vicini – ma non troppo.

“Ehi, c’è qualche problema?”

D'improvviso, la sua espressione muta; lo sguardo si fa sottile, si fa minaccia velata, si fa incomprensione.

Oliver scuote la testa alla sua domanda con lo sguardo che resta incagliato a quello di Marcus.

”No, stavo giusto tornando dentro”

Il Capitano Nohebi non si volta nemmeno a guardare il nuovo arrivato; le iridi sono ancora tutte per Oliver, condite adesso da un disappunto leggero, da sopracciglia aggrottate in modo impercettibile, da promesse sporcate. Poi fa spallucce, lo sguardo che torna duro.

“Allora... a domani”

Oliver annuisce e muove un passo indietro, verso George, rimasto a metà tra l’interno e l’esterno, bloccato da quel qualcosa di elettrico e inspiegabile che sembrava aleggiare nell'aria.

“Rientra, Flint. Non vorrei che domani dessi la colpa al mal di gola, quando perderai”

Marcus muove gli occhi su George adesso e lo sguardo cambia d’improvviso tonalità. Torna scuro – torna il suo, torna quello di un capitano di serpenti – e si trincera dietro qualcosa di granitico e impenetrabile. Ritorna la sua stazza, la sua durezza, l'arroganza a segmentargli i tratti. Torna il Marcus che conoscono tutti – un po' Re, un po' bestia. Allunga il busto verso il gemello, il corpo contratto in un fascio di muscoli nervosi, allertati. Oliver lo fissa un po' con sorpresa, un po' con curiosità. Un po' con gratitudine, per aver mostrato a lui altro.

“E tu chi cazzo sei?”

 

4. IN CAMPO, I TUOI COMPAGNI SONO FRATELLI: FIDATI DI LORO PIÙ CHE DI TE STESSO

L'arbitro fischia e, nel secondo interminabile che separa quel suono dal boato che esplode dal lato dei vincitori, i vinti avvertono tutto il peso del silenzio. Oliver rimane così, il viso a terra, le braccia protese, il braccio arrossato nel punto dove la palla, con violenza, si è schiantata. La schiacciata mancina, la schiacciata impossibile da fermare davvero, la schiacciata di Flint.

Ce l'ha fatta. L'ha fermato.

Ce l'ha fatta.

Questa volta, il boato è per lui. Per lui e per Fred, che ha trasformato quella ricezione sporca in un punto, nel punto finale. Nel punto della vittoria. Il boato è per lui, per Fred e per tutti gli altri. Per ogni punto accumulato – uno alla volta, strappati in un tiro alla fune estenuante – in cinque set di fatica, e sudore, rabbia e paura, adrenalina e squadra

Hanno vinto, tutti loro. Uno per uno.

Oliver si sente scosso da una gioia senza nome, gioia che si fa liquida e prende a sgorgare oltre l’orlo delle ciglia, ad inondargli le guance. Non c’è vergogna o timidezza in quel pianto che spunta irrequieto, liberatorio, che scende, conquista la sua pelle calda, mischia acqua salata ad acqua salata e diventa fiume di felicità allagante. 

Aveva immaginato – mille ed una notte – di arrivare lì. Riuscirci, però, ha un sapore ancora più buono, più morbido, che scalda il palato, il cuore, le mani e gli occhi. Oliver si sente di fuoco, affogato da mani che stringono, abbracciano, da visi gemelli trasformati dalla sua stessa, identica, feroce, gioia.

Solo per un secondo tutto si acquieta, solo per un secondo Oliver dimentica tutto: dalla vittoria, al punto finale, ai Nazionali, al fatto che sappia giocare a pallavolo. Dietro la rete, le spalle dritte e spesse a ricever pacche, Marcus lo guarda. La vede, la rabbia ai lati degli occhi, ad affossarli di righe sottili. La vede, quanto brucia sulle mani strette in pugno, quella sconfitta, quel punto parato. Eppure, stritola la bottiglietta che ha nella destra ma lui resta compatto, immobile, di marmo. E lo guarda. Non con astio, non con fastidio. 

Lo guarda, e basta.

Il resto, Oliver lo sa, non può permetterselo.

*

Lo spogliatoio gronda di gioia e sudore e calzini sporchi e fatica. Un groviglio di odori a pizzicare le narici, rombi di grida a stridere sui timpani, un caldo rovente ad allagargli la pelle. Oliver non sente nessuno di questi – ogni senso è ovattato, confuso. Fred e George fanno scoppiare petardi fuori dalla finestra ed Harry li guarda nella sua gioia più composta. È l’unico del primo anno in squadra, anche se per loro è il Piccolo Fulmine. Oliver lo guarda con un senso di gratitudine a galleggiargli nello stomaco: senza di lui, oggi non avrebbe questo. Si ferma su ognuno di loro e per ognuno di loro avrebbe fiumi di parole inutili e confuse e felici e grate. Li ama tutti, uno per uno. Li abbraccerebbe, bacerebbe, sposerebbe. Uno ad uno. La sua squadra.

Finalmente, il Liceo Nekoma ai Nazionali.

Finalmente, Marcus Flint sconfitto.

Si accorge, però, con un po’ di sorpresa e un po’ di fastidio, che questo pensiero non gli dà più tanto conforto. Non ne ricava la soddisfazione che vorrebbe. Degli anni passati ad odiarlo – a usare il suo viso come l’equivalente di un bersaglio per freccette – non rimane nulla. Anzi, l’idea che lui adesso pensi altrettanto, un po’ gli accartoccia lo stomaco. Non baratterebbe nulla in cambio di quella vittoria – darebbe alle fiamme ogni suo videogioco! – però, dalla sera prima, da quei brevi attimi affacciati su Tokyo, c’è qualcosa che gli ronza in testa, che gli scivola sui nervi e lo rende… lo rende qualcosa.

Ride di quella sua incapacità di trovare parole. È tutto un qualcosa. È tutto bello e nuovo. È tutto mescolato e triturato e perso in emozioni scomposte. Chiude la sacca, dopo averci ficcato dentro a forza l’ultima ginocchiera. Si rende conto che, nel brusio della sua testa, non si è accorto che lo spogliatoio si è fatto silenzioso. Sente scoppi provenire dall’esterno, probabilmente la festa sta scemando lì, con le scorte di Fred e George da Capodanno cinese a far detonare l’aria. 

Per questo, quando una porta sbatte delicatamente dietro di lui, non si stupisce, non fa domande. Occhieggia solo uno sguardo intorno, a vedere se qualcuno abbia dimenticato qualcosa sulle panche spoglie.

“Alla fine, avevi ragione”

Quello che Oliver avverte in mezzo al petto, non sa se sia l’effetto del suono di quella voce o il basso di un petardo che è rimbalzato fra le costole. Sa solo che lo ha sentito da tutte le parti – testa, piedi e ritorno. E tutto il resto è un non sapere, tutto un non volersi fare domande, tutto un rimandare quelle inevitabili. Si volta, lo vede, lo trova. 

“Su cosa?”

Parla piano, come se ci fosse della profana sacralità in quello strano incontro, come se fosse arrivata la volta buona per esorcizzare i tratti duri del suo volto.

“Mi hai battuto”

“Ti abbiamo battutto”

“Non perderti nei dettagli”

Marcus muove qualche passo avanti e, anche nell’aria satura di sudore, il suo profumo si spande rapido. Una goccia cade dalle ciocche ancora bagnate, fresche di doccia, inebriate di bergamotto e Oliver la guarda planare al lato del suo naso dritto, prima di vederla piovere nello spiazzo sopra il suo labbro superiore. 

Si rende conto – con terrore – di averlo fissato troppo.

Ma Marcus non sembra ridere di questo suo tentennamento, anzi – sembra piuttosto bearsene, quasi tronfio di quelle attenzioni che adesso hanno lasciato gli ormeggi dell’astio. Muove ancora qualche passo in avanti, gli occhi su Oliver che ha ancora pollice ed indice stretti alla zip della sacca – immobile. Marcus cammina e non aggiunge altro; Oliver sente il silenzio premergli sui timpani, nell’altitudine della sua confusione. Parla senza pensare.

“Quindi? Sei venuto a farmi le congratulazioni?”

Un sopracciglio svetta, gemello, su uno e sull’altro viso; Marcus non ride, però. Un angolo delle labbra si alza ma sembra piuttosto un gesto riflesso, di stizza forse, magari di curiosità. Nulla, comunque, che abbia a che fare con ilarità di sorta. Lo raggiunge, con due passi brevi.

“Chissà, forse”

Adesso, Oliver deve alzare appena il viso per guardarlo negli occhi: occhi scurissimi, capelli altrettanto, pelle di un tono più buio della sua, come baciata da un sole perenne. Tutto, però, di lui sembra ghiaccio – sembra pericolo, quello dei serpenti da cui il Nohebi prende il nome.

D’improvviso, poi, con uno sgomento che Oliver sente salire come bile, Marcus prende ad avvicinare il viso al suo: lo fa con una lentezza che non ha nulla della premura, piuttosto dell’estenuante gioco dell’attesa, del voler vedere fin dove si possa spingere, fino a quali punti gli è concesso arrivare, fino a dove sa, sente di aver diritto di accedere. 

Oliver spalanca gli occhi ma schiude le labbra e il respiro si fa faticoso come dopo una scia di set point falliti. Lo recapita direttamente sulla pelle di Marcus, caldo, tremante.

Se ne rende conto: lo sta aspettando. Lo aspetta come si aspetta quella schiacciata che sai che non potrai parare ma che rimani, sul posto, fermo ad attendere.

Oliver rimane immobile anche quando la scia di shampoo, bagnoschiuma, deodorante si fonde in un unico aroma, tanto annichilente da fargli tremare le gambe e gli sale dalle narici dritta al centro del cervello. Centimetri, che sono millimetri, che sono attimi, che sono… 

Marcus si allontana da lui, rapido, un ghigno a tagliargli il viso, gli occhi scintillanti di una luce ferina. Osserva il volto di Oliver perso in quell’attesa, in balia di un’estasi delicata, nelle grinfie di un desiderio che sa di aver acceso – che non voleva far altro che accendere. 

Il ghigno, ora, gli si fa più ampio – si fa vittoria.

“O, forse, sono venuto a prendermi la rivincita, Wood”

 

5. GLI AVVERSARI SI POSSONO TEMERE O DA LORO SI PUÒ IMPARARE QUALCOSA: LA DIFFERENZA STA QUASI SEMPRE NELLA PROSPETTIVA



 


NOTE: [1] Ho letto (ma le mie informazioni in merito sono scarse) che è solo dal 1° gennaio 2022 che i liberi possono essere anche capitani della squadra. Immagino possa essere una regola tutta italiana, che nel contesto in cui ci muoviamo possa essere diverso, ma passatemi la licenza poetica ai fini della storia – era un dettaglio che mi è piaciuto molto e che mi sembrava importante per gli eventi di cui ho scritto. 

 
   
 
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