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Autore: Francine    19/12/2022    2 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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27.



 

Kanon sogghignava. Stretto al suo collo, Seiya stava abbrancato a Milo come un naufrago stringe un relitto a cui aggrapparsi in cerca di salvezza.
«Io lo sapevo!», disse – urlò – Seiya, lo sguardo fisso in quelli di Milo, mentre il pontile sotto ai loro piedi scricchiolava pericolosamente. «Nessuno ha voluto credermi, nessuno, ma io. Lo. Sapevo!»
L’Unicorno alzò gli occhi al cielo; sì, Seiya avrebbe fatto notare fino alla fine dei tempi quel piccolo particolare – centottantasette centimetri per ottantotto chili. Non occorreva un indovino per saperlo, bastava conoscere Seiya. E l’Unicorno sembrava aver bisogno di tutta la pazienza di questo mondo. E dell’altro. Per cominciare.
«Okay, grazie, grazie di cuore, ma se volessi lasciarmi respirare…», disse Milo, liberandosi della stretta di Seiya e posando entrambe le mani sulle sue spalle. Così. Per sicurezza. «Sono felice di sapere che state tutti bene», disse, cercando di riportare l’ordine.
Shiryu annuì. «Siamo un po’ ammaccati, ma stiamo bene», disse. Poi i suoi occhi si posarono sui nuovi arrivati, due conigli usciti fuori da un cilindro.
Abracadabra, pensò Milo. E poi: Dove sono finite le vostre armature?

Era pronto a scommetterci il collo che le cose erano andate secondo la prassi, ossia: Seiya era riuscito a sgattaiolare dal Santuario e quegli altri due lo avevano seguito per evitare guai più grossi. Restava solo da capire se e quando un Santo d’Argento – Shaina? – o, peggio ancora, d’Oro – Aiolia? – sarebbe apparso per riportarli indietro per un orecchio, come monelli bizzosi.
Ma c’era un particolare stonato in tutta la faccenda, e no, non era la mancata presenza di Shaina, Aiolia o Aldebaran. Nossignore. Quando un dio decide di giocare a dadi con te, è consigliabile che i pezzi da novanta restino a difendere il fortino. A ragionare. Il problema stava nel fatto che un Santo di Athena si porta sempre dietro l’Armatura. È come una moglie, una fidanzata, un’amante gelosa. Un Santo se la porta sempre appresso. Specie quando parte al salvataggio di Athena. Loro tre, no. Polo, camicie, jeans e scarpe da tennis. Tre adolescenti a spasso su una spiaggia solitaria invece di stare in classe, a scaldare il banco. Quindi, si chiedeva lo Scorpione, mentre Seiya iniziava ad approcciarsi a Kanon come se si fossero separati la sera prima alla fine di una cena in una trattoria fronte mare; quindi, che fine hanno fatto le vostre armature? E, cosa più importante, che ci facevano loro tre su quella spiaggia?


Così, Milo decise di risolvere una cosa alla volta. Prima diresse tutti quanti in un luogo più sicuro di quel pontile male in arnese, poi fece le presentazioni.
«Virgo Athina», disse indicandola con un cenno del mento. «Lui, lo conoscete già.»
«Ti sei salvato», disse Seiya. Come se fosse quella la sua battuta d’entrata. Poi sorrise. «Mi fa piacere.»
Kanon annuì e rimase in silenzio.
«Dove sono le vostre armature?», chiese Milo. Il più alto in grado sono io, si ripeté, ben intenzionato a non lasciarsi scavalcare. Se e quando Kanon sarebbe rientrato a pieno titolo nella schiera di Athena, non lo riguardava; al momento, Kanon era solo un consulente esterno, e Milo era ben intenzionato a lasciare che le cose rimanessero tali. Non si sa mai, concluse. «E come avete fatto a…»
«Merito suo», disse l’Unicorno. Tanto per non fare tappezzeria. Si era voltato verso il loro deus ex machina, che aspettava con discrezione, appoggiato al baule della sua vettura, blu e lucida – questo era quanto Milo avrebbe saputo dire di quella automobile: era blu e lucida. Ma Camus, no. Camus avrebbe saputo elencare casa, modello, cilindrata e anno di produzione, e questo pensiero gli procurò una stretta al cuore. Sorrento aspettava, un completo di cotone con le maniche arrotolate e lo sguardo fisso sul mare, ma i sensi all’erta.
Ovvio, pensò Milo.
Ecco un altro problema di cui occuparsi. Sorrento della Sirena. Il suo salvatore. Che lo aveva depositato come un pacco – o un neonato extra large – sulla soglia di Kanon. Nonostante tutto.
E l’aria puzzava di piombo. C’era una resa dei conti prossima ad andare in scena e a Milo non interessava fare da arbitro. O da paciere. Avrebbero anche potuto saltarsi alla gola e risolvere la questione una volta per tutte, lì, su quella spiaggia. Lui non sarebbe intervenuto. Non erano affari suoi.
Ma se i loro contrasti – i contrasti di chiunque di loro – avessero in qualche modo interferito con la loro missione – ritrovare Athena sana e salva, e riportarla indietro, al Santuario – allora sì, che la faccenda lo avrebbe riguardato. Eccome. E non sarebbe stata una cosa piacevole.

Milo lasciò la spalla di Seiya e si avvicinò a Sorrento. Il quale, eseguendo una perfetta coreografia, si staccò dalla vettura e si voltò nella sua direzione, un sorriso franco e piacevole.
«Grazie per avermi salvato», disse Milo, porgendo la mano destra.
Sorrento ricambiò la stretta.
«È stato un piacere», e Milo sentì una genuina sincerità nelle sue parole. Sì, gli piaceva quel ragazzo in completo estivo su una spiaggia deserta di Thera.
«Vedo che ti sei ripreso. Ne sono contento», disse Sorrento. «Anche il mio Signore lo sarà. E a tal proposito…»
Si diresse verso il baule dell’auto. Fece scattare la serratura e si fece da parte, invitando Milo a dare un’occhiata. All’interno c’erano degli abiti, ripiegati con cura, ancora dentro la busta di cellophane. Qualcuno aveva avuto la delicatezza di rimuovere i cartellini.
«Spero di aver indovinato la taglia.» Sorrento lo esaminò dalla testa ai piedi, come a sincerarsi delle proprie scelte.
Milo gli rivolse un sorriso incerto.
«Il mio Signore vi aspetta. In un locale di Thera. In pubblico.», sottolineò. «Non è il caso di presentarsi in armatura, vero?»
Vero. Verissimo. Milo sbatté le palpebre e annuì. Eccolo qui, il deus ex machina. In completo color carta da zucchero e i mocassini da barca ai piedi, ma questo passava il convento. E Milo no, non era certo nella posizione di storcere il naso.
«Il mio Signore ama pensare a tutto», continuò Sorrento, tirando fuori dal bagagliaio della vettura una giacca e una camicia. «Il diavolo è nei dettagli, dopotutto…»
«Giustissimo», convenne Milo. Sì, Sorrento gli piaceva. Era un bene averlo come alleato. Fino alla prossima volta. «Sarà il caso di cambiarsi.»
«Concordo. Al mio Signore non piace aspettare» E a chi piace?, pensò Milo, armeggiando con i legacci dei coprispalle. «Purtroppo non avevo avuto notizia della presenza di…»
«Ha voluto accompagnarmi.» Io l’avrei lasciato volentieri su quello scoglio troppo cresciuto, ma…
«Io mi riferivo a lei», lo interruppe Sorrento, con uno sguardo divertito. Sapeva che Kanon si sarebbe unito al gruppo. E forse il suo Signore aveva dato precise istruzioni al riguardo. Lasciarlo nelle retrovie, ad esempio, come un gatto randagio a cui si allungano gli avanzi, nel cortile dietro casa. «Voi Santi di Athena! Avete sempre un asso nella manica», e si lasciò andare ad una risata franca. Scosse la testa. «Cambiati pure dietro l’auto. Io vado a fare conoscenza.»



Quando il concerto finisce i bambini restano sempre in trance, come se fossero ancora incantati dal suono del suo flauto. Sorrento non può fare a meno di sorridere guardando quei visetti e quegli sguardi che pian piano si allargano, non appena i loro cervellini si accorgono che lo spettacolo è finito.

Dov’è finita quella bella musica?, domandano i loro occhi smarginati, mentre qualcosa, dentro di loro – l’anima, pensa Sorrento – ne chiede ancora, ancora, ancora.

«Grazie a tutti», e con queste parole lui rompe l’incantesimo con cui li ha tenuti tranquilli per un paio d’ore. Certo, non hanno risolto i loro problemi, ma per quel breve lasso di tempo sono spariti. E il suo Signore è contento. Questo conta per lui. Vedere Julian sorridere. Tutto il resto sono questioni di lana caprina.

Qualche bambino chiede – ordina – «Ancora!», come se quella musica gli fosse tutt’ad un tratto necessaria – e questo rende Sorrento molto, molto orgoglioso come ogni musicista che si rispetti -; e il suo Signore li accontenterà. Li accontenta sempre. Ma c’è una procedura da rispettare, un cerimoniale, per così dire, ché Julian sarà anche un filantropo ed un benefattore, ma Poseidone ama il rispetto che si cela nelle piccole cose. Nelle giuste distanze. 

E Sorrento esegue. Sorride ai marmocchi – ché non può impedirsi di provare un po’ di sana soddisfazione – e cerca con lo sguardo il suo Signore, che annuirà, forse più soddisfatto di lui, e concederà un bis – o un tris – al pubblico. E poi a sera, davanti ad una bistecca al sangue, lo prenderà un po’ in giro, paragonandolo al Pifferaio di Hamelin. O ad una sirena. «Ma non quelle mezzo donna e mezzo pesce, nossignore», dirà. Come sempre. «Le vere sirene sono quelle del Mediterraneo. Uccelli con volto di donna e voce letale. Terrore di tutti i marinai. Tranne Odisseo, s’intende.»

E a quelle parole il cuore di Sorrento si stringerà un pochino – appena appena –; ma lo divertirà l’antipatia che il suo Signore tuttora prova per Odisseo. Anche nei panni costosi di Julian Solo, miliardario, filantropo e giramondo.

Quando si dice avere il dente avvelenato, pensa Sorrento, cercandolo con lo sguardo. Ed è in quel momento che il sorriso evapora, la mascella si serra e le dita stringono il flauto con tanta forza da fargli sbiancare le nocche.

Il suo Signore non lo sta guardando.

Forse il suo Signore non si è goduto una sola nota del concerto, con buona pace dei suoi polmoni, perché lo sguardo del suo Signore è perso ad osservare il bel viso di una ragazza. Lunghi capelli lisci, abito bianchissimo oltre il polpaccio, borsa a tracolla e sandali di cuoio. Una ragazza come tante ne puoi incontrare per le strade di Roma in un pomeriggio di inizio settembre, quando l’aria è ancora calda e sembra che l’autunno sia ancora molto lontano.

Quella ragazza è la padrona di casa. Che li ha raggiunti per pura cortesia sul sagrato della chiesa di periferia dove si è appena esibito. E quando lei ricambia lo sguardo di Sorrento – forse è stato troppo intenso e fastidioso e inopportuno? – sono occhi da rapace quelli che lo inchiodano sul posto. Occhi di civetta. E all’improvviso Sorrento sa come deve sentirsi un topolino mentre cerca di fuggire da quegli artigli mortali.

Mi strazierà, pensa, avvicinandosi al suo Signore, i bambini che si scostano al suo passaggio. Pazienza.

 

«Julian», gli dice – lo chiama -, «i nostri piccoli ospiti chiedono un bis. Li accontentiamo?».

Ad un ascoltatore distratto quella richiesta potrebbe sembrare un gioco tra amici, una commedia ben rodata; ma la ragazza dai lunghi capelli, l’abito bianco e la borsa a tracolla non è distratta. Mai. Non può permetterselo. Lei è sempre tre o quattro passi avanti, e Sorrento teme – e Sorrento sa – che la sua presenza non porterà niente di buono, per il suo Signore.

Non c’era una tregua in atto?, pensa, gli occhi sul viso distratto di Julian, ché non osa ricambiare lo sguardo di Athena. Non si può. Non è contemplabile che un uomo sfidi un dio. E se quegli scalmanati dei Santi di Athena sono abituati a sconvolgere tutte le regole di questo mondo e dell’altro – e, a parti invertite, anche Sorrento avrebbe rivoltato ogni angolo del cielo e della terra pur di salvare il suo Signore –, la Sirena sa qual è il proprio posto. E sa che non è saggio scherzare con gli dei e trattarli da pari a pari. Non è consigliabile.

«Ah.»

Julian sembra appena sceso da un altro pianeta. Plutone, forse. O forse un po’ più in là. Lo guarda prima come se la cosa non lo riguardasse, e poi come se non fosse compito suo decidere se concedere o meno questo benedetto bis — e non può dargli torto. Ma i marmocchi pigolano «Ancora, ancora, ancora» in un incessante stillicidio che mette ben presto a dura prova la scarsa pazienza del suo Signore. Il mare è lontano, una quindicina di chilometri almeno – tanti per i pendolari, una bazzecola per Poseidone –, e a Sorrento non piace l’idea della faglia che si aprirebbe al centro della città, portandosi appresso il Colosseo e mezza Roma.

«Li accontentiamo?», gli domanda, incalzandolo appena, quel tanto che basta per fargli credere di essere stato lui a decidere. Kanon agiva così. Sorrento lo ha capito troppo tardi. E Julian – non Poseidon, Julian – sembra essere vulnerabile a questo tipo di moina.

Julian sbatte le palpebre un paio di volte, confuso. Poi lancia uno sguardo ai marmocchi – che ora stanno pregando direttamente lui, e non più il musicista – e un sorriso incerto gli increspa le labbra.

«Signorina, signorina!» Qualcuno ha cominciato a pregare lei, e Julian sembra sollevato. «Signorina, per favore!»

Lei sorride ai bambini, e cerca Julian con lo sguardo. «Mi farebbe piacere ascoltare un altro bis», dice, lo sguardo di civetta che scivola via e si fissa in quello di Sorrento. «Se fosse possibile…»

«Ma certamente!» Julian è garrulo come un fringuello a primavera. «Torsten, lei è Saori, una mia amica d’infanzia.»

Sorrento annuisce, come da copione. «Torsten Schmerling.» Un piccolo inchino formale, e sorride. «Piacere.»

«Piacere mio», e lui sa che è sincera. Non è qui per combattere, no; ma quale che sia il motivo della sua apparizione a Roma, in un pomeriggio di fine estate, a Sorrento non piace trovarsela davanti. Soffiano venti di guerra, lo percepisce con una chiarezza quasi chirurgica. E lui farà di tutto perché non lambiscano il suo Signore.

«Vorrebbe ascoltare qualcosa di specifico?», le domanda. Tirandola in ballo come a dirle che la terrà d’occhio. Athena o non Athena. E lei lo sa. Se l’aspetta. Sarebbe stupido il contrario. Ed Athena è molte, moltissime cose; ma è tutto, fuorché stupida.

Anzi.

Lei sorride. Nicchia. Si ritrae. 

«Non saprei…» Pausa. «Purtroppo, mi vengono in mente solo brani per orchestra.»

«Lascia fare a Torsten», s’intromette Julian. Come un oste che suggerisce il vino – quello della casa, ovvio – ai propri avventori. Poi, rivolto a lui, dice: «Stupiscici.».

Non è una richiesta.

Così Sorrento, da bravo soldatino, annuisce, sorride al suo pubblico speciale, e torna sul sagrato della chiesa, tra gli «Urrà!» dei bambini, gli sguardi incuriositi degli anziani – seduti sulle panchine di pietra o affacciati alle finestre dei palazzi prospicienti – e la soddisfazione del suo Signore.

Sa già come andrà a finire.
Un ristorantino nella zona, quattro chiacchiere in amicizia e quel vino dolce che scende giù come acqua fresca. E una passeggiata per le strade deserte, l’eco dei loro passi sul porfido che lastrica ogni viuzza di questa città, per smaltire la cena e prolungare la serata il più possibile. E quando la luna piena splenderà alle loro spalle, e lui li seguirà a debita distanza, lei sgancerà la sua bomba.

E il mio Signore dirà di sì.

Julian o Poseidon, poco importa.
Lui le dirà di sì. E lei lo sa, altrimenti non si sarebbe presa il disturbo di attraversare l’Asia per una passeggiata tra amici.

Va bene, Athena, pensa Sorrento avvicinando le labbra al proprio strumento. Vengo a vedere il tuo gioco.

«A regazzì, facce sciòn sciòn!», grida qualcuno dal pubblico. E quando lui piega la testa da un lato, come un cane che non ha capito cosa voglia da lui il suo amato padrone, la piazza intona il brano. E lui adesso sì, che lo riconosce. “Sean Sean”. Ennio Morricone. Giù la testa. E gli pare che calzi più che a pennello. Che sia perfetto. Divinamente perfetto.

«Agli ordini», ribatte, e prima di mettersi a suonare lancia uno sguardo perfido ad Athena. Campo e controcampo. Come in un film di Sergio Leone.

Sì, nell’aria c’è odore di piombo.

Giù la testa, Torsten. Tieni giù la testa.


 

«Lui resta qui.»

Sorrento portò l’attenzione sulla presenza di Kanon solo quando Milo si presentò agli altri con indosso degli abiti civili: completo color crema di limone, mocassini da barca e cravatta blu. Aveva arrotolato le maniche della giacca, con la fodera giallo sole in bella vista.

Eccola lì, la rogna, la bomba pronta ad esplodere portandosi appresso tutta la linea di costa. Il tono di Sorrento – acciaio puro – evitò commenti da parte di Seiya sulla mise di Milo, ma lo Scorpione si ritrovò, suo malgrado, costretto a fare un passo avanti. Kanon si era irrigidito. La mascella. Le spalle. I pugni serrati. Gli occhi che mandavano lampi, tuoni e fulmini. Era chiaro che, nonostante tutti i buoni propositi, era pronto a scannarsi con Sorrento e a sistemare i vecchi dissapori una volta per tutte. Ma se pure Milo poteva capire le ragioni di Sorrento – e in un altro momento, in un altro tempo, forse glielo avrebbe anche tenuto fermo, Kanon –, si ritrovò a pensare che, al posto di Kanon, anche il suo autocontrollo sarebbe finito alle ortiche in uno schiocco di dita. Quale Santo di Athena si farebbe mettere da parte?, gli soffiò nell’anima la voce di Camus. Nessuno, gli rispose, in uno sbuffo. Perché, come al solito, Camus aveva ragione. Anche da morto.

Lo sentì sorridere, come avrebbe fatto se fosse stato ancora in vita. Sotto i baffi, quando nessuno vedeva, quando era più importante. Milo sbuffò. Non era certo quello il momento per una resa dei conti in perfetto stile Far West.

«E questo chi lo dice?», chiese Kanon.

Appunto, pensò Milo facendo un altro passo avanti. «Ci date un momento?», e prese Kanon sottobraccio, portandoselo sul pontile.

«Se pensi che io me ne resti qui, ti sbagli di grosso!», disse Kanon ad alta voce, liberandosi dalla sua stretta. E poi aggiunse: «Ma come ti sei conciato?!».

«All’ultima moda», ribatté Milo. Le sue mani presero i lembi della giacca e si lasciò ammirare. «Non ti piace?»

«Non è il mio genere», rispose spiccio l’altro. «Ma non cambiare discorso!»

«Hai cominciato tu», ritorse Milo. «Senti, a me non piace l’idea di prendermi un caffè con Poseidone, ma è quello che c’è da fare e io lo farò. E se hai tutto il cervello che millanti di avere», e Milo si picchiettò la tempia destra con un dito, «allora capirai da te che non abbiamo tempo da sprecare in beghe da cortile!»

Kanon sorrise, un accenno appena di denti bianchissimi. Spalle rivolte al pubblico, sussurrò: «Bene. Sorrento deve credere che io non sia un pericolo per il suo Signore.».

«Il suo Signore?», sibilò Milo.

«Poseidone», spiegò Kanon. «Sorrento non perderà il sonno appresso alle nostre disgrazie. Ma se c’è una sola, singola possibilità che Poseidone sia sfiorato dai nostri casini, sta’ tranquillo che non farà prigionieri.» Pausa. «Tu non faresti lo stesso?»

«Certo che sì», confessò lo Scorpione.

«Appunto. Un po’ di teatro non guasterà. Tu mi ricacci a cuccia e lui si sentirà sollevato», sibilò. Poi, a beneficio del suo pubblico, aggiunse, in un tono di voce più alto: «Senti…».

«No, senti tu…», lo interruppe Milo, dandogli corda. La corda con cui impiccarsi all’albero più alto. «Io e un paio di ragazzini andremo a parlare con Poseidone. Deve dirci qualcosa ed è il caso di starlo a sentire. No?»

Silenzio.

«Tu starai qui, a tenere d’occhio la signorina. Tu e Seiya…»

«Starai scherzando?!» tuonò Kanon, e Milo vide tutte le teste voltarsi nella loro direzione. Spudoratamente.

«Se mi porto Pegaso dietro, non caverò un ragno dal buco. Inizierà a tempestare Poseidone di domande e non voglio correre rischi.»

«Rischi?»

«Che a Poseidone si tappi una vena», rispose Milo. «È un rischio che io non voglio correre. Sai com’è…»

«Comprensibile. Ma…»

«Avrai modo e tempo di parlare con Poseidone», continuò Milo, andando a braccio. «Se e quando lui vorrà. Adesso non è il momento. O Poseidone avrebbe richiesto di parlare con te

Kanon tacque. Alzò la testa e si lasciò andare ad un sospiro profondo.

«Segui il generale. L’unica sua vera decisione autonoma è stata distruggere la propria colonna per salvare Poseidone», disse Kanon, dandogli un’informazione ben precisa circa il loro anfitrione: Sorrento era un bravo soldatino obbediente, ma non aveva la stoffa del generale. Un generale sa prendere decisioni, anche – soprattutto – scomode. Un generale non ha paura di essere autonomo. Ma Sorrento era troppo schiacciato dalla presenza di Poseidone, troppo intimorito per fare di testa propria e aggiungere sale alla minestra.

Sospirò ancora una volta e alzò le mani, in segno di resa. «D’accordo», sputò quella parola tra i denti come fosse ripiena di fiele. «D’accordo. Ma non farti fregare.»

 

Si chiama Takumaru Tatsumi. E se gli sguardi potessero uccidere, il giovane Julian Solo sarebbe stato incenerito più e più volte. Atomizzato, a voler essere pignoli. Lo detesta, e non ne fa mistero. Digrigna i denti quando, due tavoli più in là, lui fa una battuta e lei ride. Di gusto. Quasi fino alle lacrime.

Un padre che spia il primo appuntamento della figlia, pensa Sorrento, sorseggiando un bicchiere di vino bianco. Le fettuccine al ragù erano deliziose. E sì, forse il taverniere aveva ragione a caldeggiare un buon rosso corposo - quello della casa, ovvio - da sorbire con il primo. Ma a Sorrento il vino rosso piace. E, impegnato com’è a sorvegliare - con discrezione - il suo Signore e ad evitare che questo chaperon bizzoso gli tiri il collo, non se lo sarebbe goduto. Gli sarebbe andato di traverso. E al suo tavolo c’è già una persona nervosa.

Meglio evitare.

«Guardalo lì, come si pavoneggia!», sputa tra i denti Tatsumi. «Senza offesa, ma…»

«Capisco», dice Sorrento, annuendo. «Il mio Signore sa essere un po’... impetuoso.» 

È la parola più gentile che ha trovato per descrivere lo slancio cieco e furioso che fa muovere Julian quando ha deciso di fare qualcosa. Ma Tatsumi non sembra essere dello stesso avviso.

«Impetuoso?», chiede infatti, gli occhi strabuzzati quasi come se stesse avendo un infarto. «La prima volta che l’ha vista le ha chiesto di sposarlo. Sposarlo. Sedici anni, lui. Tredici appena, lei. Ma ci rendiamo conto?!»

Sorrento non può nascondere un sorriso. 

«In effetti», gli concede, mostrandogli i palmi delle mani. Ma non si spingerà oltre. Nossignore. E Tatsumi lo sa. «Credo abbia imparato la lezione», aggiunge sorseggiando il vino.

«Poseidon, forse», ribatte Tatsumi. S’è intestardito a mantenere il punto. La sua piccola battaglia in un mondo in cui le persone spaccano gli atomi schioccando le dita. «Julian? Lui non credo proprio.»

E sì, ha ragione lui. Julian è come la marea, che batte e leva senza sosta contro gli scogli. Lui ha tutto il tempo del mondo. Prima o poi, quelle rocce cederanno. Si smusseranno, si arrotonderanno, ma non si piegheranno. 

E forse è proprio la piccola, innocente Saori, lo scoglio capace di arginare il mare. Sta conversando con lui come fossero due vecchi amici - troppo vicini per essere solo compagni, troppo lontani per essere due fidanzati -, il piccolo scoglio che cede un po’ di sé al mare. Che non si accorge - che non si vuole accorgere - della trappola in cui sta per cadere.

Le donne sono un mistero più insondabile delle profondità oceaniche, sentenzia Sorrento tra sé e sé.

«Tutta questa storia non porterà niente di buono.»

Tatsumi ha bevuto troppo. È evidente dal colorito improbabile che ha assunto il suo viso, dalle parole che si lascia sfuggire, dalle occhiate che Saori gli rivolge da sopra l’orlo del proprio bicchiere. Cocacola. Una bibita gassata, zucchero e bollicine. Si addice di più ad un’adolescente della birra - delle birre - di Julian. Che dimostrerà anche diciotto anni, ma dovrebbe comunque restare sobrio, in un momento come questo.

Sorrento le sorride, come a dirle che va tutto bene. Julian pende dalle sue labbra e non è un tipo che ama essere messo in attesa. Un lampo negli occhi di Saori, come a volerlo ringraziare, e torna a tuffarsi nello sguardo di mare.

Tatsumi ha ragione, della ragione che solo il dono di Dioniso concede.

Tutta questa storia non porterà niente di buono.

 

Julian Solo li aspettava in un bar in cima ad una salita, su di una terrazzina affacciata sull’azzurra immensità dell’Egeo, spruzzata del bianco delle case e delle nuvole. Guardava l’orizzonte, lì dove cielo e mare sfumavano l’uno nell’altro, in un dialogo silenzioso e personalissimo. Come se si stesse esaminando allo specchio, una domenica mattina, prima di radersi, l’acqua calda nel lavandino, la schiuma da barba a portata di mano e la radio accesa in sottofondo.

Una cameriera - occhi neri, labbra morbide e capelli raccolti - li accolse come fossero clienti abituali, e indicò loro la macchia di luce assoluta in fondo al corridoio. «Benvenuti. Accomodatevi. Vi sta aspettando.»

E Milo obbedì.

Percorse il corridoio con Jabu e Seiya alle calcagna - Shiryu si era offerto di aspettare al posto di Pegaso, insieme a Kanon e Athina. «Dobbiamo parlare», aveva detto il Drago, e Milo aveva colto al volo l’occasione. 

Il mare scintillava in lontananza, come le scaglie di un pesce. Una cosa viva.

Julian si concesse un sorso d’acqua prima di voltarsi. Sorrise loro, mentre il mare gonfiava le onde e brillava e salutava a sua volta.

«Salve», disse. Una voce fresca, da adolescente. Quello che sarebbe potuto essere Milo - o Seiya, o Jabu o Shiryu - se Athena non li avessi reclamati a sé. «Accomodatevi, accomodatevi. Si sta così bene, qui…»

E con un cenno distratto indicò loro le sedie vuote attorno al tavolino, tornando ad osservare il mare. Obbedirono. La cameriera si materializzò alle loro spalle, armata di taccuino e matita.

«Cosa vi porto?»

«Portaci qualcosa di fresco, Dimi», rispose Julian. «Non ci vediamo da un sacco di tempo», e con queste parole tornò al suo dialogo silenzioso con il mare. Come se loro non fossero mai entrati in scena. Milo attese e, con sua somma sorpresa, anche Seiya si adeguò e tacque. Jabu aveva la prodigiosa abilità di fondersi con l’ambiente circostante. Come un ninja.

Dimi tornò. Lasciò sul tavolo una caraffa d’acqua, una di limonata, quattro bicchieri, e sparì in punta di piedi.

Solo a questo punto Julian tornò a quella terrazza bianco calce e ai suoi ospiti.

«Vi trovo bene», disse. Cortesie borghesi, certo. Ma da qualche parte bisognava pur cominciare. Il suo sguardo si soffermò su Jabu. «Non credo ci conosciamo.»

«Non ne abbiamo avuto l’occasione.»

Julian annuì. Sorrise a Seiya. «Non sei cambiato di una virgola», commentò, come se stesse esaminando un magnifico esemplare ad una fiera equestre. Pur se alato, un cavallo resta sempre un cavallo, si disse Milo. E lesse, negli occhi di Julian, un pizzico di rimorso. Come se avesse voluto aver creato lui quell'animale meraviglioso. Come se non avesse voluto regalarlo ad Athena. Un dono di resa, forse. Di stima. Amicizia. O chissà cos’altro. Perché lei era e sempre sarebbe rimasta la Fanciulla, intatta e incorrotta; e Milo sapeva che non c’è cosa che ingolosisce di più un maschio - mortale o divino che sia - di una fanciulla da conquistare. Un fiore raro da cogliere per ornarsi il bavero della giacca.

Poi Julian si soffermò su di lui e sorrise. «Ti sei fatto grande», disse; e nello sguardo dello Scorpione venne a galla l’idea che il giovane Solo avesse picchiato molto, molto forte la testa durante l’ultima scaramuccia con Athena.

«A Dio piacendo», ribatté, guardingo, ché no, non immaginava a cosa stesse alludendo. «Grazie per avermi salvato», si ritrovò a dire per la seconda volta, ché, se Sorrento era entrato in scena, lo si doveva a lui. Al suo interesse.

Julian fece un gesto distratto, come a scacciare una mosca fastidiosa. 

«Fa tutto parte del piano», disse, lo sguardo serio, troppo serio per un adolescente alle soglie della maggiore età. «Facciamo tutti parte di un piano più grande di noi. E la saggezza sta nel saper riconoscere quello che Tyche ha deciso per noi. Uomini o dei.»

E allora capirono, se mai ve ne fosse stato bisogno, che quello seduto al tavolino di un bar qualunque, affacciato su un panorama da cartolina, era non più Julian Solo, ma Poseidone. Il dio dei Mari. Il Signore dei Cavalli. Ennosigeo.

Milo strinse i pugni sulle ginocchia. Seiya si irrigidì sulla sedia. Solo Jabu rimase tranquillo, come se fosse la cosa più normale del mondo prendere un caffè con un dio.

«Non vi affogherò», ridacchiò tra sé e sé, un suono basso, come un gorgoglio divertito in fondo alla voce, ora più adulta. Più matura. La voce di un uomo. «Abbiamo un piano da portare a termine.»

E il Sigillo di Athena non ti trattiene dal restare in silenzio, ma non ti permette di andartene a spasso come Poseidone, pensò Milo.

Julian si staccò dallo schienale, disse: «Riempite i bicchieri. Non abbiamo tutto il pomeriggio, e Athena ha bisogno di noi.».

Quel noi suonò stonato alle orecchie di Milo, ma lo Scorpione si trattenne. Seiya, no. Seiya, invece, aggrottò le sopracciglia e ripeté: «Noi?», mentre Jabu riempiva i bicchieri di limonata.

«Noi.» Julian - Poseidone, o tutt’e due - non si scompose. «Noi siamo i partigiani. Athena la spia infiltrata.»

«Starai scherzando…» sbottò Seiya. Milo lo trattenne, piazzandogli una mano su un ginocchio.

«Non ho il tempo di scherzare», ribatté Poseidone. E il tono basso della sua voce li stava avvisando. No, il Signore dei Mari non era affatto in vena di scherzare. E no, al Signore dei Cavalli non andava a genio di trovarsi con gli ex nemici - gli invasori di Atlantide, gli assedianti, i distruttori delle Colonne dei Sette Mari e della città di Orricalco -, tanto quanto non andava a genio a loro. Ma, come aveva detto lui stesso all’inizio del loro incontro, quella era la parte che Tyche - o Ananche? - aveva loro riservato. E, come non si può tagliare un’onda, era superfluo opporsi al destino, giusto?

Giusto, si rispose Milo.

«Divino Poseidone…»

Altro gesto, come a dire “dacci un taglio”. «Julian», disse. «Athena… sarò franco con voi. Più di quanto lo sarei con i miei uomini».

Li fissò, uno per uno, mentre Jabu rimetteva a posto la caraffa di limonata. Poi, quando fu certo di avere la loro più totale e completa attenzione, Julian - Poseidone, o tutti e due - cominciò a raccontare.

 

«Ho ricevuto una visita.»

Saori butta lì questa informazione con la stessa grazia di una ballerina che attraversa il palcoscenico nel suo vaporosissimo tutù.
Saori ha ricevuto una visita. Non da una persona comune o da un suo sottoposto, saltato fuori da chissà quale pertugio. Ha ricevuto una visita da uno della loro stessa razza.

«Chi?», chiede Poseidone, il gorgolio delle correnti sottomarine che sale a galla.

«Il Viandante», soffia Saori, assaggiando un sorso di lemoncocco nella sera che profuma ancora d’estate. «Squisito!»

«Quando è successo?»

Il tono è quello di un amante preoccupato. Forse qualcosa di Julian - il palpitare lontano d’una scaglia lucente - sta galleggiando nell’anima del dio, si chiede Saori.

«Poco dopo il mio compleanno», gli risponde. «È apparso una sera alla mia finestra. Un po’ come Babbo Natale, ma in anticipo.»

«Non scherzare. Non è il caso.»

Lui la guida attraverso una strada secondaria, passando sotto ad un barbacane finemente lavorato e ad una lanterna dalla luce gialla. Una strada fiabesca. La guida verso la piazza che si apre in fondo, una fontana che zampilla giochi d’acqua nella serata settembrina, tra giovani liceali che indugiano fumandosi una sigaretta, godendosi gli scampoli dell’estate.

«Perché?», chiede lei. «La storia delle calze piene di dolciumi è una sua idea, dopotutto…»

Le labbra di Julian sorridono, Poseidone scuote la testa, i loro passi rimbombano bassi sul marciapiede.

«Vieni, sediamoci qui», le dice, strizzandole l’occhio e indicandole il bordo della vasca. «Come due vecchi amici.» 

E quando lei si accomoda sul marmo bianco, tra altre coppie come loro e comitive di amici muniti di sigarette o bicchieri, lui si toglie la giacca e gliela drappeggia sulle spalle. Il profumo del suo dopobarba l’avvolge. Una fragranza marina. Acqua. Sale. Vento. 

«Raccontami tutto», le dice, facendosi più vicino, il tono di un amante preoccupato. «Raccontami tutto. Per filo e per segno.»

Saori prende un altro sorso della sua bevanda, la assapora in punta di lingua e la ingoia. Poi comincia a raccontare. Della visita del Viandante. Del suo avvertimento. Della sua profezia. 

«Un paio di respiri d’eternità più tardi di quanto previsto. A cavallo dei millenni, forse. Ma avverrà. Arriverà nella tua casa. Come un ladro nella notte. E scorrerà il sangue sul candido marmo. Questo ho visto. Questo posso dirti.»

E poi del Fuoco, che se ne va a spasso per la Terra. Dell’apparizione di un’altra casta. Delle perplessità di Libra e delle incongruenze di Virgo. Del fatto che a Saori - ad Athena. O a tutt’e due - non piaccia affatto essere tirata in ballo per la manica del vestito. Di come non gradisca che gli altri trattino la sua giurisdizione come il proprio salotto. O il cortile in cui far pisciare il cane.

Saori racconta e Julian ascolta. 

Quando le parole sono finite, la piazza si è svuotata e le bevande sono ormai a temperatura ambiente. Il chiosco sarà ormai chiuso, pensa Julian dal fondo umido della propria coscienza. Pazienza. Poseidone ha ben altri pensieri a cui badare, ché la Fanciulla ha ragione: a nessuno verrebbe in mente di vietare l’accesso alla Terra, ché la Terra non è esclusiva proprietà degli Olimpi. E a nessuno sano di mente andrebbe di scatenare una guerra per queste scemenze, neppure a quella testacalda del Guerriero. Però la Fanciulla è nel giusto quando paragona la Terra al cortile in cui portare a passeggio il proprio cane, senza degnarsi di raccogliere quei maleodoranti souvenir che la povera bestia lascia tra le azalee e il prato all’inglese. La mente di Julian forma una parola. Condominio. E mostra a Poseidone di cosa si tratti. Il dio degli Abissi afferra il concetto, e sì, calza a pennello. 

Il Viandante ha sguinzagliato il Fuoco sulla Terra per i propri porci comodi - qualcosa che ha a che fare con quel bamboccio del Tuono; il Mare ne è sicuro. Vorrà che gli dimostri di essere un uomo, pensa. Desiderio logico. Ogni padre che si rispetti vuole accertarsi di aver seminato bene. Di aver tirato su qualcuno che può andare avanti sulle proprie gambe. Ed essere padre a sua volta. Scrollandosi di dosso una responsabilità enorme, come si fa con un sacco pieno di mattoni.

Ma quando si arriva a questo punto, ogni padre sa che deve farsi da parte e abdicare al proprio ruolo. Il Viandante lascerà che suo figlio segga sul trono dei Nove Mondi?

Poseidone ne dubita.
Anche se non perde occasione per qualche sgambata estemporanea, il Viandante non ha alcuna intenzione di rinunciare alle sue prerogative. Alle proprie funzioni. O non ci sarebbe più spazio per lui, conclude il Mare, pervenendo alle stesse conclusioni della Fanciulla.

«Immagino tu abbia un piano.»

Lo dice per buona creanza. Lui sa che lei ha già un piano. E lei sa che lui sa. E c’è una parte anche per lui, in questa sciarada. Altrimenti, Saori non sarebbe mai apparsa a Roma. Lui lo sa. Ma la buona creanza mantiene sani i rapporti. Li mantiene civili. Così lui chiede, pur conoscendo già la risposta.

Lei, infatti, sorride.

«Puoi giurarci.» Una smorfia ferina le incurva le belle labbra. «Le beghe del Viandante non mi interessano. I panni sporchi si lavano in famiglia, no? »

«Sagge parole», concede il Mare. «Quindi?»

«Quindi, voglio fargli passare la voglia di giocare un’altra volta questo tiro mancino.» Pausa. «Dobbiamo mandare un segnale. Tracciare una linea, un confine. Altrimenti, la prossima volta qualcun altro potrebbe avere la stessa, disgraziata idea. E a me non va a genio di dover riparare agli errori altrui. Vogliono la mia testa? Si accomodino pure. Io li aspetterò, a braccia aperte. Ma la cosa finisce qui.»

Il Mare la invita a continuare.

«In che modo?»

«Semplice», risponde lei. E forse semplice lo è davvero, ad avere il suo stesso punto di vista sulle cose. La sua stessa prospettiva. «Voglio rubare il Fuoco.»

 

Julian versò un altro bicchiere di limonata, a rinfrancarsi la gola riarsa dalle troppe chiacchiere. Non era abituato ad avere più di tre o quattro scambi di battute con Sorrento; ma il Mare doveva parlare, doveva fornire loro quanti più dettagli possibile, prima che il sigillo di Athena rinchiudesse il suo spirito nell’anfora per chissà quanto altro tempo ancora. Al Mare piaceva sentire il calore del sole, il profumo della salsedine, il tocco ruvido delle stoffe e il freddo del vetro. Gli piaceva essere vivo. E voleva assaporare quelle sensazioni fino all’ultimo momento possibile. All’ultimo respiro.

Quando ritenne che i Santi di Athena avessero avuto il tempo necessario e sufficiente per elaborare tutte le informazioni che aveva rovesciato sulle loro teste come una mareggiata improvvisa, Julian - Poseidone, o tutt’e due - li squadrò da capo a piedi. Il novellino stava soppesando anche le virgole del suo racconto, mentre Pegaso fremeva per parlare. Fosse stato un cavallo, la coda si sarebbe mossa, le narici si sarebbero allargate e gli occhi sarebbero andati da una parte all’altra, in attesa di scattare. Ecco perché gli piacevano i cavalli: non li puoi imbrigliare, come il mare, ma solo cavalcarli e assecondare il loro spirito, come si fa con le onde - con i cavalloni. Prevedere il loro comportamento. E agire di conseguenza.

Il silenzio e la calma di Pegaso sconcertavano Julian, che si attendeva tutt’altra reazione; ma l’attenzione del Mare era tutta per lo Scorpione.

La prima volta che ti ho salvato eri un moccioso che aveva un disperato bisogno di un pannolino pulito e di una madre sana di mente. Uno si distrae un attimo e guarda che succede. Guarda come sei cresciuto.

Le labbra di Julian sorrisero, come avrebbero fatto quelle di Kostas. Milo aggrottò le sopracciglia, perplesso. Fece per aprire bocca - e magari chiedere spiegazioni - , ma Julian lo frenò. «Ne riparleremo», tagliò corto. «È una promessa. Quando tutto questo sarà finito, vienimi a cercare, e, se io sarò ancora me stesso, ti racconterò tutto. Per filo e per segno.»

Lo Scorpione fece per ribattere qualcosa, ma Pegaso lo bruciò sul tempo.

«Hai scelto Milo per una ragione.»

«Certamente», rispose la voce di Julian, più bassa di un paio di ottave; più piena. «Athena mi ha chiesto di… preservare uno di voi. E io ho scelto lui.»

«Sì, ma perché?»

«Questo non riguarda te. Riguarda lo Scorpione. E me», rispose Poseidone. Coi cavalli bisognava dimostrarsi sempre in controllo, altrimenti ti avrebbero portato dove dicevano loro, e non dove dicevi tu. E Poseidone questo lo sapeva per esperienza. E chiudeva un occhio, quando gli Achei sacrificavano dei cavalli di legno, invece di quelli in carne e ossa, ché alle volte era un vero peccato dover affogare quelle bestie meravigliose. Meglio lasciarle correre libere. Meglio valeva che fossero ambasciatori del mare, un regalo ad una vecchia amante troppo presa dalla maternità per ricordarsi di essere ancora - da qualche parte sotto quelle vecchie sottane - una donna, e non solo una madre. 

«E adesso», aggiunse, dando una stretta leggera alle redini, «non è il momento adatto per affrontare questo discorso.».

«Quindi Athena sapeva di...»

Niente, era più forte di lui. Seiya - Pegaso - doveva discutere e combattere; non si sarebbe fatto domare tanto facilmente. Questo, Poseidone lo sapeva; ma, almeno, adesso aveva distolto lo sguardo per rivolgerlo dove aggradava al Mare.

«Kanon?» Julian non ebbe problemi a pronunciare quel nome. «Certamente. Anche lui fa parte del disegno di Tyche; ma i dettagli in mio possesso si fermano a questo punto.»

«Quindi, è tutto qui?», insistette Seiya. «Non ci credo!»

Si alzò di scatto, la sedia che cadde alle sue spalle, fissando Julian - Poseidone, o tutt’e due - con aria di sfida. 

«Certo che no. Non è tutto qui e non può essere tutto qui», rispose Julian, con una calma che stupì lui per primo. Ma funzionò, perché Pegaso perse parte della sua bellicosità e, incalzato dallo Scorpione, raccolse la sedia e vi si accomodò. Fremendo; ma era pur sempre un inizio. «Questa è solo la mia parte. Il mio ruolo. Io sono l’aiutante magico, non l’eroe. Quelli siete voi. E la principessa da salvare è Athena.» Pausa. «Chi sia l’antagonista ve l’ho appena rivelato. Adesso sta a voi mettere assieme i pezzi di questo rompicapo.»

Si concesse una risata, come se qualcuno avesse appena raccontato la barzelletta più divertente del mondo. E quando portò lo sguardo sui propri ospiti, non si stupì delle loro espressioni sconcertate. Come se stessero parlando con un invasato, e non con un dio. 

Ma c’è poi tanta differenza?, si chiese il Mare, aggiungendo: «Se vi fermate a pensare un momento, noterete che ci sono due costanti, in Athena. La prima, è il suo amore viscerale per i cavalli di Troia. E la seconda…» 

«È il suo desiderio di vivere come una persona normale», concluse Jabu.

Le labbra di Julian si arricciarono all’insù. Soddisfatte. E bravo il Novellino.«Con un conto in banca da capogiro, ma sì. Questo è il suo più grande desiderio. E anche il suo tallone d’Achille.»

Milo strinse i denti. «Pensate che il Fuoco…»

«Ti ho già detto di darmi del tu», gli rammentò Julian, stornando lo sguardo verso il panorama. «E sì, Athena potrebbe avere dei problemi. E sì, il Fuoco potrebbe approfittarne, e darle del filo da torcere, una volta tanto. E sapete perché? Perché quei due sono fatti della stessa pasta.»

«Ma se le cose stanno così, perché non l’hai fermata?» I pugni di Pegaso erano di nuovo stretti, le caviglie pronte a dare la spinta necessaria ad alzarsi, un’altra volta.

«Perché la conosci anche tu», rispose Julian, come se stessero parlando di una compagna di scuola o di un’amica in comune. «Quando si mette in testa una cosa, è più cocciuta di un mulo.» 

Si concesse un sospiro, scosse la testa e proseguì:«Sbaglio, Pegaso?».

«No. Ma tutta questa faccenda è una pazzia», ribatté Seiya. «Avresti dovuto…»

«Rinchiuderla da qualche parte?», lo stuzzicò Julian. «Oh, mi sarebbe piaciuto. Mi sarebbe piaciuto moltissimo, ma l’ultima volta che ci ho provato non è andata a finire bene.» Pausa. «E poi, chi avrebbe fermato il Fuoco?»

«Non mi torna una cosa», si intromise il Novellino, braccia incrociate e sguardo pensoso. «Chi è il Fuoco? Non mi risulta che sia un dio, ma una dea.»

«Per una volta dobbiamo cercare più a nord», rispose lo Scorpione.  «Ad Asgard. Dove il Fuoco è un dio e si chiama…»

«Non pronunceremo quel nome qui.» Affilato come una ghigliottina, il tono di voce di Julian - Poseidone, o tutt’e due - lo gelò sul posto. Come se quelle quattro lettere potessero insudiciare il momento, i loro vestiti, le loro anime. «Non è appropriato. Ma sì, hai visto giusto. E avete un aereo per Stoccolma tra poche ore.»

«No», protestò Seiya. «Dobbiamo tornare al Santuario, avvisare gli altri…»

Julian lo fissò, come a volergli sondare l’anima. Sbatté le palpebre un paio di volte, poi disse: «Secondo te, perché la tua Signora ha chiesto il mio aiuto?». Silenzio. Seiya si limitò a stringere i pugni sulle ginocchia. Lo sapeva, lo aveva capito da sé; eppure, voleva stornare lo sguardo da quel panorama poco piacevole. 

«C’è un infiltrato al Santuario.»

Seiya lo sputò tra i denti, come fosse veleno. Faceva male. Sapeva di fiele. Ma le migliori medicine non sono anche le più amare? Certo che sì, si rispose il Mare, scoprendosi quasi soddisfatto di poter rifilare una lezione a quel cavallo difficile da domare. Un pensiero meschino per un dio, senza dubbio; eppure, era così bello assaggiare i risvolti dell’essere un mortale, anche solo per una manciata di ore.

«Altrimenti non sareste sgattaiolati via per incontrarmi di soppiatto», rincarò la dose Julian. Si voltò verso Milo e aggiunse: «Il Fuoco ha fatto la sua mossa. Altro non so. La vostra Signora non ha ritenuto opportuno confidarmelo. Quello che mi limito a riferirvi è che la vostra è una missione in incognito. Sotto copertura. Dovete salvare Athena. E dovete farlo da soli. Non ti ha forse detto di trovarla?»

Seiya rimase di stucco, occhi smarginati e bocca socchiusa. «E tu come…»

Julian si concesse un sorriso compiaciuto, quello dell’attore navigato che sa di aver fatto colpo sul proprio pubblico. «La conosco bene», gli spiegò, con il tono paziente che si usa con gli allievi duri di comprendonio. Così come lei conosce me. Così come io conosco te, pensò. «Alla tua Signora piacciono gli indovinelli, i travestimenti e le sciarade. Tutte cose che inducono a pensare. E qual è il gioco che ti costringe a pensare? Te lo dico io. Gli scacchi.»

«Quindi, Athena…»

«Sta giocando a scacchi con il Fuoco. Lo sta tenendo occupato, dandovi il tempo di riorganizzarvi. Le partite possono durare anche ore. Giorni. Ma, fossi in voi, non cincischierei troppo. Il Fuoco non ama giocare pulito. »


 





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.

Note:
...mi verrebbe da chiedere a chi piaccia giocare pulito, ma questo farebbe di me una brutta, bruttissima persona, più di quanto io già non sia - e in questo sono bravissima. Credetemi.
Mi davate per morta. Lo so. E invece, come diceva Shaina qualche capitolo fa, la gramigna non muore mai. Ma a questo dovreste essere abituati.

Questo capitolo, a dire il vero, ha atteso talmente tanto che a momenti... non ci pensiamo. Credetemi, è meglio così.
I panni sporchi si lavano in famiglia. Che sia di sangue blu o plebea non cambia.
Sì, ho avuto - e sto avendo - delle beghe di condominio. Spero non si rifletta troppo in questo capitolo!
Il lemoncocco è una specialità dell'estate romana: si tratta di una bibita composta da limonata, spremuta di cocco e una manciata di misteriosissimi ingredienti, ricetta custodita gelosamente. Se passate a Roma d'estate ritenetevi moralmente obbligati ad assaggiarla.
Saori a Roma ve l'avevo già mostrata qui, tanto perché la mia smania di completezza sia soddisfatta e la smetta di infestare le mie notti.
E grazie di cuore al mio angelo custode, Sherry Vernet, che, in spirito alcolico, mi ha dato una grossa mano per il betaggio. Grazie. Sui ceci e sui cocci - rigorosamente verdi, rigorosamente di bottiglia.
E già che mi ci trovo, Buone Feste!
E mi raccomando: siate coscienziosi!

 

   
 
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