SHIOBAN
(16
anni dalla Dissoluzione della Faglia)
Quando aveva
toccato con i piedi la
terra, Shioban si era chinata ed aveva rimesso il suo pranzo dritto sul
terreno, evitando di poco i suoi stivaletti di cuoio. Non era la sua
prima
volata in cielo, anzi ne aveva accumulate un po’ sulle
spalle, ma il suo stomaco
– e la sua testa – sembravano non abituarsi mai.
“Oh” aveva esclamato una donna alle sue spalle.
Shioban si era tirata su, era
stata la prima a scendere dall’imbarcazione. Aveva vomitato
due volte mentre
erano in viaggio, abbracciata alla balaustra ed aveva deciso, appena
atterrati,
di non voler mai più tenere un piede sulla nave, per almeno
il resto del
pomeriggio.
“Mi pare di comprendere che non gestisci bene i
viaggi” aveva commentato la
donna che l’aveva raggiunta, mettendole una mano cordiale su
una spalla. “Se
gli uomini fossero fatti per volare, avremmo le ali” aveva
borbottato Shioban.
“Sciocchezze, gli uomini fanno tantissime cose per cui non
sono costruiti”
aveva risposto l’altra, con un tono non curante. Con
l’unico fiammeggiante occhio
d’ambra aveva rivolto lo sguardo allo splendido veliero
volante da cui erano
appena scesi.
L’Alcione.
Nonostante il nome dell’uccello, ciò che
sventolava sulle vele dell’albero
maestro era lo stendardo della famiglia reale di Ravka Drago Incorano
della
Regina, a quattrozampe, con le fauci aperte, squartato nel primo e nel
quarto
quadrante, l’Aquila Bicefala del Re Consorte, leggermente
più contenuto, nel
terzo e in ultimo un sole raggiante, nel secondo quadrante
più piccolo
completava la triade.
Un tempo l’aquila era simbolo del regno, ma le cose erano
cambiate. A Shioban,
però, i draghi piacevano di più.
La nave era un bilandro di dimensioni modeste, con
un albero maestro a
vela quadrata e uno di mezzana a randa, ignorando le vele laterali
retrattili,
che permettevano il volo. L’Alcione poteva andare sia per
cielo sia per mare –
come l’uccello di cui portava il nome – ma
raramente veniva utilizzata per
quello scopo. In mare esistevano i pirati di ogni luogo, di ogni dove,
anche
sotto la superficie dopo la costruzione degli Squali, in cielo
… c’era gente,
ma decisamente meno.
Shioban si era
forzata di
rispondere, con fatica, con un sorriso di circostanza.
“Lasciami aggiustare il
tuo aspetto o spaventeremo i bambini” aveva detto la donna
attirando la sua
attenzione, in quel momento il luccicante occhio ambra era fisso su di
lei.
Shioban aveva
annuito, “Di solito
mi prendo un quarto d’ora di lunghi respiri, ma sono molto
curiosa” avev ammesso,
presentando il volto; aveva affrontato già abbastanza viaggi
in volo da sapere
che la sua pelle avesse raggiunto una tonalità
più vicina al verde che il
solito roseo pieno che sfoggiava di solito.
“Se riuscissi a far passare la nausea” aveva
proposto Shioban, “Chiedi al tuo
amico healer, come si chiama Vladimir?”
aveva considerato quella, mentre
apriva la sua borsa da viaggio, per permetterle di recuperare i
materiali con
cui lavorava per plasmare l’aspetto. Shioban trovava quel
talento
incredibilmente intrigante, in realtà trovava tutto quello
che aveva a che fare
i grisha, davvero interessante. “Vladyslaw,
ma noi lo chiamiamo
semplicemente Vlad” aveva risposto Shioban.
Aveva
sollevato lo sguardo per
permettere alla donna di giocare con le sue guance – una mano
al suo viso, ed
una stretta al petalo di una rosa rossa – accompagnata da un
leggero
pizzicorino, mentre lei aveva osservato gli altri scendere dal pontile.
Come
fosse stato evocato Vlad si era palesato davanti ai suoi occhi. Stava
scendendo
dal ponte dell’Alcione, con un passo lento e cadenzato, per
nulla turbato dal
turbolento viaggio. La kefta rossa scarlatta, che portava aperta sul
petto,
come fosse stata un cappotto, ondeggiava ai picchi del vento. In quella
maniera
Vlad sembrava quasi un nobile signore, con uno svolazzante mantello.
Quello che a Shioban piaceva in Vlad era il fatto che era sempre
elegante,
prima di essere qualsiasi altra cosa, anche un grisha,
d’altronde era un Effimov,
un’antica e illustre famiglia di Ravka ovest.
Aveva un viso olivigno e capelli neri, agitati e mossi – come
le onde
increspate del mare – lunghi fino alle spalle. Suo padre era
Pavel Effimov,
signore di Kyoska e ammiraglio di divisione della marina ravkiana
– per questo
che fosse in cielo o in terra, Vlad si trovava a casa su una barca
– e della
sua concubina suli heartrender. Era da lei che
aveva eredito i suoi
poteri e gli occhi attenti. Vlad l’aveva guardata e le aveva
fatto l’occhiolino,
amichevole come sempre. Non era il primo viaggio su un aliante che
facevano
assieme.
Erano ormai
due anni che lavoravano
fianco a fianco.
“Ti
piace questo tuo Vlad?” aveva
chiesto divertita la tailor, mentre si occupava di
sistemare la sua
pelle in un colore che somigliasse al chiarore di una rubiginosa.
“Molto
e non in quella maniera” aveva risposto senza indiscrezione,
dicendo il vero.
Sapeva che triunviro era una donna sfacciata, elegante, ma senza peli
sulla
lingua.
Era avvampata
dopo, però. Quando
Vlad aveva raggiunto il fondo della passerella e si era messo a
strillare con
quel suo tono sempre vigoroso, autoritario, verso gli altri.
Così, dalla
sommità, baciato dal sole stesso era apparso: Igor.
Nonostante il suo aspetto
splendente, il suo viso era contratto in un’espressione
seccata. Shioban aveva
dovuto distogliere lo sguardo, anche se Igor non l’aveva
degnata neanche di uno
sguardo, non aveva degnato nessuno dei presenti di
un’occhiata, preferendo
guardare con espressione contrita il panorama misero che quella landa
offriva.
“Lui, però, d’altro canto
…” era stato invece il commento della donna, con l’occhio
ambra di Ravka aveva studiato per bene il ragazzo in kefta
blu. Igor
sfoggiava la sua migliore espressione accigliata e sofferente,
“Parla poco, sta
sulle sue ed ha sempre la testa rivolta nei libri, così mi
è parso
sull’Alcione?” aveva indagato la donna.
Shioban aveva
sorriso appena, piena
di vergogna, “Sì, Igor è
così” aveva commentato. Non era bellissimo, aveva
un
naso dritto ed appuntito, tutto di lui era spigoloso, dal mento, alle
spalle,
perfino lo sguardo. La donna aveva sorriso, aveva labbra rosee
tormentate da tagli,
i segni del suo martirio, anche se non era una santa.
“Comprendo, comprendo”
aveva considerato, voleva esserci gioco, ma l’occhio si era
inumidito, “Anche
mio marito era così”. Non aveva idea se la
conversazione potesse proseguire o
meno, perché era accaduto altro.
“Shioban,
potresti approfittarne
per farti sistemare la tua gobba sul naso” aveva strillato,
qualcuno, invece,
osceno ed assolutamente indisciplinato. Shioban aveva deragliato lo
sguardo
verso chi aveva parlato: Gavrilo in tutto il suo selvaggio splendore!
Shioban
si era sporta per fargli la linguaccia, “Non ti muovere o
invece di piene
guance rosse, ti ritroverai una fronte bitorzoluta” era stata
bacchettata dalla
donna.
Gavrilo aveva saltato a pie pari il ponte, atterrando
sull’erba e per un
miracolo dei santi non si era ferito, “Guarda che non ti
riparerò un’altra
volta quella caviglia!” lo aveva ammonito Vlad, subito,
“Se ti fai male
zoppicherai da qui ad Os Alta” lo aveva avvertito.
Gavrilo aveva
riso scacciando la
voce di Vlad con un movimento della mano. Era un otkazat’sya,
ma la questione non
sembrava averlo mai turbato. La
prima
volta che Shioban lo aveva visto, aveva avuto di lui l’idea
fosse una persona
di ferro, forgiata dalle ascetiche regole monastiche richieste ai
seguaci dell’Apparat,
monaci-soldati, ma era bastato che sfuggisse di poco
all’occhio della
disciplina perché prendesse vizzi ed un’attitudine
più molleggiante. La
giacca d’ordinanza dei Soldat Sol, bianca
spessa con il sole oro-e-rosso sulla schiena era lasciata aperta, sulla
camicia
di lino grezzo ed i calzoni di pelle della divisa. Aveva occhi
allungati unico
ricordo del suo sangue Shu, ma con l’iride nero pece.
“Ai miei tempi i soldati
del sole erano diversi” aveva confidato la donna piena di
divertimento. “Gavi è
un modello tutto suo” aveva dichiarato Shioban.
Le piaceva Gavrilo, era decisamente una persona vivace con cui avere a
che fare,
era certa che se si fossero conosciuti nel campo
d’addestramento sarebbero
divenuti migliori amici fin dagli albori. La donna aveva sorriso con
confidenza, “Il tuo naso va bene anche così,
secondo me, se vuoi posso renderlo
perfetto, certo” aveva considerato quella.
Shioban si era
morsa un labbro, “Mi
piace il mio naso, sono diciannove anni che lo ho lì, mi
sembrerebbe strano
altrimenti. Potresti, però, sollevare l’arcata
sopraccigliare sinistra, ho una
leggera asimmetria nel volto” aveva considerato quella.
“Va benissimo” era
stata insospettabilmente accontentata Shioban. Una mano aveva raggiunta
l’altra
ed aveva spinto la ragazza ad inclinare il capo in diverse direzioni,
perché le
sopracciglia potessero essere studiate da ogni angolazione.
Nel mentre,
Shioban aveva osservato
gli ultimi due membri dell’Alcione scendere a terra. Le
sorelle Rurik, non
erano gemelle, ma si somigliavano come due fiocchi di neve. Come era
d’uopo
aspettarsi da due grisha erano alte, bellissime e potenti. Indossavano
con
orgoglio e nobilita d’animo le loro kefte blu pavone,
broccate di
grigio-argento. Nonostante la lunga fatica della traversata, ambedue
sembravano
intenzionate a mostrarsi irreprensibili. Bianche come il marmo
cesellato, con
zigomi alti, labbra piene, occhi plumbei e capelli biondo-fragola, che
scendevano in morbide onde. L’unica notabile differenza
andava ritrovata in
Anastasja, la minore, leggermente più bassa, che portava
stritolato intorno alla
gola una girocolla ricavata dalla lisca sottile del corpo di una
murena,
saldata in ferro grisha.
Shioban aveva saputo Asja stava cercando raggiungere la
capacità di tidemaker.
Era possibile d’altronde. Dal simile al simile,
la materia di cui tutto
era fatto ed altre frasi che Shioban aveva sentito ripetere infinite
volte.
Si chiedeva se quello fosse vero, dal simile al simile, dove doveva
collocarsi,
allora, lei?
“Ecco, fatto, ora hai delle splendide sopracciglia
simmetriche, per quanto
andrebbero rifatte da principio. Però non sembri
più uscita dritta dalla Faglia
e non terrorizzerai nessun bambino” aveva scherzato la donna
con le mani nel
suo viso. Ormai, quella frase non era che un modo di dire, come un
altro, ma
lasciava lei, sempre confusa, inorridita. Shioban, del Nonmare non
aveva nessun
ricordo, se non una fitta, nerissima, coltre di nero. Aveva tre anni
quando Novakirbisk,
la sua città, era stata fagocitata per intero, ma lei e la
sua famiglia – per
un fortuito caso del destino – non era stati in
città e, poi, sua madre non ne
aveva voluto sapere di tornare lì, di avvicinarsi ancora.
Shioban ci era
tornata, con suo
padre, quando aveva sei anni, non ricordava tutto benissimo, ricordava
di aver
camminato per l’arena arida, tra gli scheletri delle
VeleSabbia, della città e
delle speranze infrante.
E poi aveva avuto quindici anni, quando aveva compiuto il Cammino dei
Pellegrini ed aveva portato corone di fiori alle chiese del Sole e
acceso
candele al Senzastelle, lì, nell’Agroverde[1].
Dove un tempo era stata
la morte ed il deserto, ove, in quel momento, sorgeva la vita con una
potenza
virulenta.
E nonostante non ci fosse più nulla a testimoniare il
non-mare, di vivo e di
concreto, ma solo ricordi e racconti, la faglia somigliava ad un brutto
ricordo
doloroso che sanguinava in Ravka, che qualcosa di tangibile, che era
stato vero.
Però
di una cosa era certa Shioban,
per quanto dovesse somigliare ad uno straccio usato, scesa
dall’Alcione, era
certa che l’aspetto di chi avesse affrontato la Faglia
dovesse essere quello
della donna che le parlava.
Le avevano detto che un tempo Genya Saffin era stata, probabilmente, la
donna
più bella del mondo ed aveva pagato il coraggio e la
ribellione con la sua
bellezza. Per Shioban era un pensiero stupido, per lei Genya Saffin era
ancora
la donna più bella del mondo. I suoi capelli erano del rosso
più vivo che
avesse mai visto ed il suo occhio d’ambra era il
più intenso di tutta Ravka.
L’Occhio
d’Ambra del
triumvirato – dicevano.
Era stata l’agente segreto dell’Oscuro e amica di
Sankta Alina, seguace del
Korol Renzi e fedelissima della Sankta Koroleva, membro del triumvirato
grisha,
quando ancora i grisha erano diffidati. Aveva rovesciato una dinastia
che
governava da secoli. Re, nobili, generali, santi, tutti passavano ma
Genya
Saffin rimaneva.
Imperitura come la pietra. E le cicatrici erano il simbolo del suo
coraggio, di
chi si era opposto con fervore ad ogni tiranno che avesse incontrato.
“Grazie”
aveva detto alla fine Shioban.
Genya Saffin le aveva sorriso ancora prima di accompagnarsi a Vlad,
prendendolo
per un braccio, l’healer era stato
incredibilmente felice di
accompagnare la donna. Era una leggenda fra loro, inoltre, una volta il
giovane
grisha le aveva confidato che avrebbe tanto voluto avere Genya Saffin
come
maestra, ma era piuttosto negato come tailor,
nonostante tutta la buona
volontà.
Shioban aveva
fatto passare il
pollice sul suo sopracciglio sinistro, per sondare se si sentisse
diverso o
meno al patto, pareva tutto drammaticamente uguale. “Solo tu
potevi avere la
più talentuosa tailor del mondo e
l’hai usata per curare un difetto
neanche visibile” aveva considerato Gavrilo, mettendole una
mano sulla spalla,
“Mi piace la mia gobbetta al naso, ci sono
affezionata” aveva risposto lei,
sorridendo divertita.
Poi il sorriso divertito di Gavrilo si era raffreddato e la presa
intorno alle
sue spalle si era sciolta subito, quando aveva scorso Igor guardarli,
“La
posizione, Soldat Sol, noi siamo qui come vicari della Corona e
dell’Apparat”
li aveva rimproverati.
Gavrilo si era
irrigidito ed aveva
annuito, raggiungendo Vlad e Genya passo marziale. Il suo atteggiamento
duro
era rimasto impassibile anche davanti alle domande delle sorelle Ruskin.
“Di solito la gente tende a considerarci meglio quando siamo
meno formali”
aveva commentato Shioban. Igor non lo sapeva, ovviamente, usualmente li
accompagnava per noia, per girare, per vedere luogo nuovi, rifornire la
sua
collezione di libri, appuntarsi cose che avrebbero potuto interessarlo.
Ogni
tanto li rendeva invisibili davanti a qualche mezzo ad aria troppo
audace.
Però,
era ovvio, che le cose
dovessero essere diverse in quell’occasione.
Igor stesso aveva dato voce ai suoi pensieri, “Non
è strano?” aveva chiesto, aveva
il forte accento di Ravka ovest, come Shioban, ma era l’unica
cosa che avessero
mai avuto in comune; “Sono strane un sacco di cose, a quale
ti riferisci
esattamente?” aveva domandato con finta ingenuità,
lisciando con le mani la sua
kefta.
Non era come quella dei grisha, certo resisteva ai proiettili come le
loro –
così come la giacca da Sol Soldat di Gavrilo– ma
era di un azzurro acceso, come
un cielo di un dipinto di DeKappel, non era broccata ne aveva filature
particolare, un unico colore omogeneo che l’avvolgeva.
L’unico tratto
distintivo era dato dal drago oro sul fondo bianco, inquadrato su uno
scudo,
sulla schiena – come simbolo del suo servigio alla corona.
Shioban aveva
sistemato sul cuore due spille commemorative.
“Che
la Razrushhost sia
voluta venire qui, con noi?” aveva domandato Igor, ignorando
il suo gioco. “Non
mi chiedo mai le ragioni delle persone potenti. Conoscono sempre
più di quanto
ci diranno mai” aveva considerato con un sorriso di
circostanza Shioban. Ovviamente
Igor aveva ragione, era abbastanza inusuale che una persona come Genya
Saffin,
membro del triunvirato, amica e consigliera della Regina Drago, avesse
voglia
di accompagnare un gruppo spaurito come loro, in un viaggio in quella
landa
semi-sconosciuta di Ravka.
“Sei stupida allora. Conoscenza è
potere” aveva commentato Igor, secco,
aggrottando le sopracciglia. “Sì, è
strano. Evidentemente qui vicino deve
esserci qualcosa di interessante. D’altronde tu sei qui, nel
cortile, invece
che essere stesso in plancia a farti un bagno di sole mentre
leggi” aveva
commentato Shioban.
Ovviamente era stato strano, quando pronti alla partenza avevano
ricevuto una
comunicazione da Os Alta che gli aveva informati di un nuovo
passeggero.
Shioban si era aspettata un giovane soldato o … be,
chiunque, ma non la Grande
Genya Saffin in persona. Ma così era stato.
Igor era
trasalito a quel commento,
“Mi è stato detto di comportarmi adeguatamente al
mio rango” si era
giustificato, con le guance arrossate di indignazione, raggiungendo
anche lui
il resto di loro, seguito a ruota da Shioban. Prima della comunicazione
di
Genya, anche Igor aveva ricevuto un messaggio ed aveva dovuto
incontrare
l’Apparat in persona. Era strano il modo in cui agiva lui e
quelli come lui,
alcuni di loro erano praticamente grisha come gli altri, ma altri erano
quasi
Soldat Sol, fedeli e seguaci dell’Apparat Vladim che altro.
Forse era perché il
culto di Sankta Alina era il Culto di Ravka per eccellenza,
più di quello di
Sankt Ilya o della Regina Sankta Vivente. Per Shioban era strano, ma
forse, per
quanto mirabolanti fossero le gesta della Regina, il suo essere ancora
viva,
tangibile, umana non le regalava quell’assolutismo
ultraterreno che il martirio
e la parusia regalavano ad Alina Della Faglia.
Genya aveva
condotto la fila
dell’equipaggio, verso il loro luogo di incontro. Era un
edificio niente male, sembravano
i resti di un palazzo nobiliare, ma molto più pieno di vita
e colori. Al posto
di arzigogolati giardini, organizzati in corridoi di siepi e cespugli,
presentava grandi parchi alla maniera delle isole erranti.
Le pareti della villa erano di mille colori vivaci, stuccate nuove. E
quel
posto brulicava di vita e di gioia.
Due persone l’aspettavano all’ingresso di un
cancello aperto. Uno era un
giovane uomo, poteva avere qualche anno in più di Shioban,
era carino. Occhi
grandi, pieni di vita, un’espressione calorosa sul viso
formata da un sorriso
dolce.
Lei era
più breve di statura ma più
grande d’età, una donna intera e matura, aveva
capelli scuri, di un colore
intenso. I suoi occhi erano scuri ma scintillanti di vigore e fulgidi
d’amore.
Genya aveva sciolto la presa da Vlad e si era diretto verso la donna,
si erano
abbracciate come vecchie amiche, poi aveva guardato anche il ragazzo.
“Com’è
che diventi sempre più bello Misha?” aveva chiesto
Genya.
Il ragazzo era gradevole, con gli occhi limpidi e
l’espressione rilassata,
“Mangio un sacco di verdura” aveva risposto. Genya
aveva tirato un buffetto
delicato sulla spalla del giovane, prima di rivolgere lo sguardo
nuovamente
alla donna. “Ma cosa hai fatto ai tuoi capelli?”
aveva chiesto Genya con espressione
piuttosto accigliata, “Li ho tinti” aveva replicato
l’altra con espressione
quasi divertita. “Sì, grazie, questo lo vedo.
Quello che mi chiedo … non hai
trovato un modo?” aveva chiesto quella, sollevando con un
dito i capelli
dell’altra, “Ehi” si era difeso il
giovane uomo che era sulla porta, “Si, è
stato Misha ad aiutarmi” aveva spiegato Alina, “E
sì, non possiamo godere della
compagnia di una talentuosa sarta, quindi, ho ricorso ad una vecchia
tintura
per capelli” aveva ghignato l’altra, tirandole uno
buffetto sulla mano per
farle lasciare i capelli. Genya aveva sorriso, “Ricordami di
sistemarli prima
di andare via. Non si dica che un’amica di Genya Saffin sia
impresentabile”
aveva dichiarato.
“Non
si dica” le aveva fatto il
verso l’altra.
“Ora hai la tua
risposta” aveva detto Shioban,
guardando le due. Genya aveva preso il polso, delicatamente, della
donna e
l’aveva guidata verso di loro, seguita poi dal giovane uomo.
Poi la donna aveva
fatto le presentazioni dovute, senza sbagliare neanche un nome, come se
fossero
stati suoi vecchi amici e non avesse dimenticato il nome di Vlad
qualche
momento prima. La donna aveva sorriso educata e gentile, era stata
amichevole,
stringendo le loro mani. Aveva guardato con estrema
curiosità la kefta azzurra
di Shioban – entrata in vigore probabilmente dopo
l’ultimo censimento in quella
zona – ed ovviamente Igor. Come d’altronde, non si
poteva?
Igor indossava
il blu brillante
degli etherealki, ma l’abito era istoriato con motivi
oro-rosso. Tutti sapevano
cosa volesse dire.
I Sun
summoner.
La padrona di
casa si chiamava Marina,
gestiva lei l’orfanotrofio di quel piccolo villaggio, assieme
al suo compagno –
aveva portato i ragazzi più grandi (che avevano
già affrontato il censimento) a
caccia quella mattina presto, ma che sarebbe rincasato presto, come
aveva
tenuto a sottolineare – ed il giovane uomo di nome Misha. Nel
corso degli anni,
in quel mestiere Shioban era stata accolta in ogni sorta di maniera,
con
aspettativa, intolleranza, qualsiasi cosa tra quelle due oscillazioni
del
pendolo, ma mai con così tanta famigliarità.
Marina aveva fatto preparare per loro, dalle cucine, un buon banchetto,
non
così lauto e fasto, ma degno di rispettare
l’ospitalità ravkiana del sud.
Sul tavolo
aveva fatto mettere
oltre al kvas anche latte, miele e quant’altro. Ekaterina
Ruskin, si era scolata
da sola due boccali di latte speziato caldo, per recuperare la fatica
del
viaggio. “Per caso ha anche della jurda?” aveva
chiesto sfacciata. “Certo!”
aveva cinguettato Marina, mandando un giovane ragazzo a prenderlo.
“Potete
rimanere qui quanto tempo desideriate, sono contenta di dire che qui
Keramzin
abbiamo letti vuoti” aveva detto con orgoglio la donna,
guardando i suoi
bambini.
Shioban aveva
osservato la scena, i
bambini erano per lo più ravkiani, qualche Shu o mezzo-Shu.
Però non erano
tanti, non come quando lei era piccola e gli orfanotrofi erano
strapieni di
bambini figli della guerriglia di confini, della guerra civile, della
guerra
della jurda, della faglia. Shioban era felice che nonostante non
fossero pochi
i bambini erano un numero esiguo rispetto quanti avrebbero potuto
essere.
“Credo ci abbia invitato per tenersi più tempo, la
signora Saffin” aveva
sussurrato Gravilo nell’orecchio di Vlad. “Ed anche
se fosse, qui mi piace un
sacco” aveva ridacchiato Anastasja, mentre beveva latte e
miele.
Lei doveva riconoscerci una certa dolcezza, calore, aveva sempre avuto
l’impressione che quei posti fossero tetri e tristi.
Si era voltata
verso Igor, che come
sempre stava studiando l’ambiente al suo meglio, i suoi occhi
erano stati
incantati dall’enorme ritratto che dominava sulla lunga
tavolata da pranzo.
Sankta Zoia dva Urga[2],
con le due dita sollevate
in posizione orante e sulla chioma scura portava la sua corona drago.
Per
Shioban era davvero un ottimo ritratto, l’artista aveva
fermato l’espressione
orgogliosa della Regina Santa, riproducendo perfettamente la giusta
tonalità di
blu. Era diversa dalle altre rappresentazioni che aveva visto della
donna, per
prima cosa la mano che l’aveva dipinta non sembrava eccelsa,
così come la
rappresentazione non pareva di carattere adulatoria, ma tragicamente
reale in
qualche modo. L’imperfezione della mano era acquietata dalla
riproduzione
dell’espressività. Non
era solo il
preciso blu più degli occhi della Santa Vivente, ma anche la
severità e la
fierezza della posa, dello sguardo.
Chiunque
l’avesse dipinta aveva
guardato il viso della Regina con i propri occhi, per abbastanza tempo
da
catturare su tela la sua austerità. “Ti
piace!” aveva parlato una bambina,
attirando la sua attenzione, non era lontana da Shioban, “Lo
ha fatto la
mamma!” aveva dichiarato con orgoglio. Shioban aveva fatto
scattare lo sguardo
verso Marina la tenutaria che parlava con Genya e ridevano di una
battuta di
spirito di Ekaterina e di quello che aveva l’impressione
fosse un giovane
maestro. Forse Marina era stata amica anche della Regina Drago oltre
che del triumviro.
Si chiedeva, com’è che una persona che aveva avuto
amici tanto importanti fosse
finita lì, così defilata …
Poi aveva
riportato lo sguardo
sulla bambina.
Era,
ovviamente, la figlia di Marina,
non poteva essere altrimenti, anche se non si fosse dichiarata tale,
aveva la
stessa curva morbida del volto, il naso piccolo e delicato e gli occhi
grandi pieni
di calore. C’era qualcosa di qualcun altro, ovviamente, come
iridi turchesi,
quasi iridescenti, labbra piene e rosa. “Molto
bello” aveva considerato Shioban.
Era una bambina forse sui dieci anni, forse anche meno, magra ma in
salute, con
capelli scuri e lunghi che le scendevano come un mantello spesso sulla
schiena.
“Sì, un’ottima mano” aveva
considerato Igor, circostanziale, anche se non era
vero. Non nella maniera in cui lo pensava Shioban.
Il sun summoner era devoto all’Apparat
più di quanto lo fosse alla
Regina. Non conosceva, non aveva visto anzi, come Shioban lo sguardo
fierissimo
della Regina Zoya da così vicino da apprezzare quanto fedele
fosse quel quadro.
Un altro
bambino aveva parlato, era
più piccolo della ragazzina – sicuramento meno di
dieci anni – aveva gli occhi
allungati degli Shu, lo stesso colore del miele e capelli nerissimi
come una
macchia di pece, attirando la loro attenzione.
“Puoi… fare quello?” aveva
domandato pieno di aspettativa. Alla sua richiesta si erano appellati,
altri
fanciulli smaniosi.
“Bambini!”
li aveva richiamati
all’ordine Marina, notandoli vicinissimi a loro due.
“Queste persone sono qui
come emissari della corona non per intrattenerci” aveva
considerato materna, li
aveva richiamati ma senza un aspro rimprovero, prima di rivolgersi a
loro,
“Perdonateli: i bambini non hanno mai visto un sun
summoner da queste
parti” aveva spiegato lei, la sua voce si era incrinata.
“Pensavo che Sankta
Alina fosse di Keramzin” aveva considerato Gavrilo.
Un’espressione tesa si era
formata sul viso di Marina, “Circa” aveva
considerato, “Era dei Due Mulini, in
realtà, ogni anni portiamo i più grandi a fare un
pellegrinaggio alle rovina e
alle cascate di fuoco” aveva considerato Misha. “Ci
piacerebbe molto andare”
aveva vagliato Igor, ammiccando a Gavrilo. “Avete sentito il
sole” aveva
risposto l’altro. C’era stata un gentile sorriso
che aveva illuminato il
salottino, “Certamente, domani, se vorrete, prima di
ripartire” aveva concesso
Marina.
“Quindi
la kefta azzurra?” aveva
domandato Marina, “È la kefta di rappresentanza di
quello che potrebbe essere
definito i rimasugli del primo esercito” stava spiegando
Genya, alla donna,
“Anche se ormai non esiste più un primo o un
secondo” aveva detto didascalica il
triumviro. “Azzurro è sempre stato il colore di
Rafka” aveva valutato Marina.
Shioban aveva
ascoltato quel
discorso parzialmente, le piaceva indossare un kefta, li rendeva tutti
uguali,
sebbene in combattimento risultasse forse troppo impostata, anche i
grisha non
le indossavano più durante gli scontri, preferendo tenerle
come rappresentanza,
favorendo l’uniforme regolare dell’esercito con i
loro colori di appartenenza.
“Pensavo che, visto, le recenti teorie della materia, aveste
cominciato a
sperimentare nuovi colori?” aveva proposto.
“Qualche grisha ultimamente collauda.
Alcuni squaller e tidemaker si
trovano affini. Ogni tanto spunta
fuori una Kefta blu con istori argento-azzurri” aveva
cominciato, “Alkemi
e Durast lo sono sempre stati” aveva
considerato Marina. Genya aveva
annuito, con l’occhio giallo pieno di tormento –
Shioban sapeva che il suo
defunto marito era stato un fabrikator –
“Sì, ormai i nostri decori sono
totalmente opzionali. Anche noi sarti stiamo rivalutando, stavo
pensando di
passare dal rosso al porpora, per specificare meglio questo essere a
metà con i
materialki, ma starebbe malissimo con i miei capelli” aveva
considerato il
triunviro.
Shioban si era
allontanata con la
risata di Marina a riempirle le orecchie; aveva deciso di non
disturbarle, era
ovvio fosse un incontro tra due vecchie amiche ed aveva preferito
lasciare
così, sedute su morbidi divani nel loro privato.
Ekaterina e
Anastjasia invece
avevano deciso di accettare la proposta di Marina e concedersi un
meritato
riposo, dalla Palude Dorata, il viaggio era stato insospettabilmente
lungo,
anche con la jurda erano crollate, nonostante tutto il loro impegno
nell’apparire
impeccabile. D’altronde ambedue erano state istruite dal
triunviro Andrik, il sankto
asimmetrico. Vlad, compagnia che Shioban avrebbe apprezzato
tantissimo,
aveva deciso di farsi scortare per la tenuta da Misha e lei lo aveva
lasciato ai
suoi riti di seduzione. L’healer non
nascondeva mai il suo appetito. Era
un uomo vorace.
Aveva
perciò cercato Gavrilo e Igor.
Si aspettava di trovare il primo ad intrattenere l’orda di
bambini con qualche
racconto trucolento o uno eroico, o una pessima combo di entrambi,
mentre il
buon Sun summoner per fatti suoi, seduto
sull’erba a leggere qualcosa di
suo gradimento. Igor amava così tanto leggere che un giorno,
Shioban lo aveva
scoperto gustarsi anche le carte catastali di Sikursk; non aveva fine
la sua
fame di conoscenza né alcun discernimento, evidentemente.
Ogni informazione,
ogni nozione, andava ingurgitata.
Una volta lo aveva anche sentito desideroso di andare alle Rovine
dell’Arcolaio
per raccogliere tutto quello che doveva essere rimasto, di libri,
volumi e
pergamene.
Invece, si era
dovuta dichiarare sorpresa;
i due erano insieme. In una parte del Parco Errante, Marina aveva fatto
costruire un gazebo in legno bianco, abbastanza grande
perché una tavolata per
quindici persone potesse trovare riparo dal sole estivo di Ravka. Il
tavolo
però era stato messo da parte e tutti i bambini sedevano a
semicerchio.
Tutti i loro
occhi erano per Igor,
c’era anche qualche precettore della casa, un po’
in disparte, che si fingeva
disinteressato ma che continuava a guidare gli occhi verso Igor, come
una
falena attirata dalla fiamma. Il grisha stava intrattenendo i bambini
con sfere
luminose, mentre il Soldat Sol lo osservava posato ad un pilastro di
legno, con
gli occhi sognanti. Erano tutti devoti uomini alla corona di Ravka, ma
Gavrilo
aveva un giuramento sacro che lo legava ai miracolati di Ravka, il cui
potere
era sorto dopo il martirio di Sankta Alina.
I prescelti.
Se Shioban ci
pensava a lungo era
strano che non ci fossero sue icone, erano comunque vicini al luogo
della sua
nascita e dove era vissuta. Forse Marina e suo marito non erano poi
troppo
credenti. Il tributo a Sankta Zoya, era il tributo ad una amica,
realizzava.
I bambini
sembravano completamente
rapiti dalle movenze di Igor, aveva dita lunghe ed ogni suo movimento
sembrava
delicato. Le sfere crescevano e diminuivano di grandezza ed
intensità, così
come la posizione con una certa sequenzialità, non ne era
sicura ma aveva
l’impressione che Igor stesse suonando, senza note, senza
voce, ma solo con la
luce. Intensità, grandezza, ritmo. E nel farlo stava
sorridendo ed era così
carino quando lo faceva, peccato sorridesse poco o niente. Si era
avvicinata
con lentezza al gazebo di legno, mentre osservava i bambini chiedere
con
vivacità di dare alla luce le forme più svariate.
Non aveva
raggiunto il gazebo, però,
spaventata di rompere quell’equilibrio. Per un secondo, un
solo secondo, aveva
giurato che gli occhi intensi di Igor l’avessero raggiunta,
ma era stato un
secondo. Il rumore del cancello l’aveva distratta. Si era voltata osservando un
uomo, con una
carabina legata sulle spalle, aprire il cancello, dietro di lui
c’era un
ragazzetto sui sedici anni, che teneva una cestina ed un fucile a
spalla,
seguito da una coetanea, alta che teneva con un bastone i resti in un
cinghialotto legato a reggere l’altra estremità
c’era un ragazzo, altissimo. Il
chiudi-fila era una ragazzina che non poteva avere neanche quattordici
anni.
“Oh”,
aveva esclamato l’uomo,
guardandola. Aveva dei vibranti occhi azzurri, come il cielo riflesso
sull’acqua pulita, la stessa tonalità della figlia
di Marina, immaginava perciò
che fosse il marito di Marina. I quattro ragazzi alle sue spalle
avevano
drizzato la schiena, “Sei una grisha?” aveva
chiesto immediatamente la giovane
alta che teneva la prima parte della canna. “No, sono un
soldato” aveva
risposto calma, “Caporale Maggiore Shioban Veleski, di stanza
… ad Os Alta”
aveva detto con fervore. Era una menzogna, ma non aveva il permesso di
divulgare ai civili la posizione della sua base. “Io sono
Shevich Rosen, il
marito di Marina” aveva dichiarato l’uomo,
ammiccando a sua moglie che aveva
abbandonato il salottino, per unirsi in giardino, in compagnia di Genya
Saffin.
“Loro sono: Rebah, Stygor, Yue e Andrej, i miei
ragazzi” aveva detto.
“E vedo che avete preso un cervo per cena” aveva
commentato con estrema
allegrezza Marina, “Nonostante avessimo già una
dispensa piena” aveva aggiunto.
“Non
ero uscito con quell’intento”
aveva ammesso colmo di imbarazzo Shevich, “Però
sapevo sarebbero arrivati”
aveva aggiunto, ammiccando proprio a Shioban. “Comunque non
è stato facile!”
aveva dichiarato subito la ragazzina di quattordici anni, Shioban
immaginava
dovesse essere Yue, aveva occhi tondissimi, ma screziati di oro Shu,
“Sì, ma
sono stati tutti bravi, Andrej ha un vero futuro da
tracciatore” aveva detto
Shevich, le sue parole erano pesanti sulla lingua. Il ragazzo con il
cestino
era arrossito, aveva delle delicate efelidi sulle guance che lo
rendevano
adorabile “Il tracciatore è un mestiere
terribilmente sopravvalutato” aveva
replicato Marina. “Ci sfama solamente” si era
lamentata Rebah, “Adesso basta, andremo
in cucina a scuoiarlo, Genya vuoi farmi compagnia?” aveva
chiesto Martina, con
una certa imperiosità.
Genya, durante questo scambio, si era avvicinata ed aveva baciato sulle
guance,
piena di calore, di Schievich. Il triunviro aveva battuto gli occhi,
Shioban
non era abituata a vedere nessuno così autoritario con la rovina,
neanche la regina drago.
“Secondo
te vivo ancora a piccolo
palazzo perché adoro scuoiarmi la cena da sola?”
aveva domandato retorica la
grisha, ma lo sguardo scuro e pieno di devozione dell’altra
era bastato perché
cedesse, “Marina, se non abitassi in un posto così
dimenticato dai Santi, mi
trasferirei qui solo per come mi guardi” aveva sentito Genya
dire, mentre Rebah
e Stygor portavano via il cervo.
“Quindi
vi porterete via qualcuno?”
aveva chiesto subito affamata Yue, “Non sono ancora stati
testati” era stata la
pigra risposta di Shioban, prima di aggiungere, riconoscendo uno
sguardo pieno
d’apprensione, “Anche se risultassero grisha, il
servizio militare obbligatorio
è stato sospeso” l’aveva rassicurata.
Shevich aveva messo le mani sulle spalle della ragazzina, paterno,
“Ne abbiamo
già parlato” le aveva detto bonariamente,
“L’addestramento a grisha può salvare
un nostro fratello, dai pericoli e da se stesso” aveva
ripetuto come una
cantilena la ragazzina. Questo era inaspettato.
Ravka era
sempre stata la patria
dei grisha, il posto dove ognuno di loro si sentiva a casa. Avevano un
luogo,
il palazzo, un ruolo, il secondo esercito, ma il mondo era sempre stato
spaccato in due. Solo negli ultimi anni, dopo la Santa Regina Grisha,
la
percezione era cambiata, ma ancora di quei tempi la gente era sempre
poco
entusiasta di sapere che i loro figli lo erano. Shioban aveva sorriso
verso
Shevich, “Sì” aveva confermato.
“Ehi guarda!” aveva detto Andrej, attirando lo
sguardo della ragazza su Igor ed i suoi giochi,
“Andiamo!” aveva esclamato subito
la ragazzina rianimata dal desiderio, “Screanzati i
funghi!” aveva urlato
dietro il padre putativo, ritrovandosi poi la cestina tra le mani.
“Scusali, di
grisha se ne vedono anche a Keramzin ma di sun summoner
pochi” aveva
confidato.
“Credo
abbiano paura di girare così
vicino al confine di Shu-Han” aveva ammesso Shioban,
“Può esseri in vigore il Concordato,
ma certe abitudini sono due a morire” aveva considerato.
L’accordo era stato istituito, in vero, tra Makhi Kir-Taban e
Nicolai Lanstov,
ma nessuno dei due governava più, non con
quell’assolutismo prima. La regina
Makhi era stata retrocessa a co-reggente – e Shioban aveva
sentito alla Palude
che qualcuno commentava che il suo governo non era stato legittimo
– e Nikolai
si era rivelato un figlio spurio ed era passato da Re Legittimo a Re
Consorte.
Shevich
aveva guardato
quasi rapito i giochi di luce, e lei aveva visto nel suo sguardo un
ricordo.
D’altronde conosceva Genya, forse aveva servito nel primo
esercito, forse aveva
visto la Sankta Alina della Faglia ed i suoi giochi di luce
… forse Shioban
stava fraintendendo.
Mentre i
ragazzi più grandi ed
alcuni servi della casa si erano impegnati nella preparazione del cervo
e della
cena – anche Shevich sarebbe voluto andare ma sua moglie lo
aveva convinto a
rimare. Shioban aveva l’impressione che lui fosse
terribilmente preoccupato
dalla loro presenza (il suo atteggiamento appena Rebaj si era
allontanata si
era fatto molto meno sicuro) – mentre la signora della casa
si era occupato di
radunare i bambini, tutti i bambini, anche quelli non in età.
Erano
quindici, esclusi quattro più
grandi che si erano chiusi in cucina.
Avevano scelto
come luogo una delle
sale da pranzo della tenuta. Abbastanza grande perché non
fosse necessario
spostare il tavolo perché fossero comodi. Oltre i bambini e
loro, nella stanza
c’erano tutori incuriositi e servi. Sembravano tutti molto
ansiosi. Il più
grande tra i bambi lì presenti era un giovanotto di tredici
anni con
un’espressione contrita, che continuava a far saettare gli
occhi blu su tutti
loro.
Normalmente era Shioban che parlava con la folla, ma in quel momento
con loro
era presente la leggendaria Genya Saffin, così aveva chiesto
alla donna se
avesse voluto farlo lei. “Santi del cielo, no, parlare con i
bambini non è uno
dei miei molti talenti” aveva ammesso Genya, con un sorriso
quasi nervoso.
Non era quello
che aveva sentito
Shioban da Vlad, ma forse la donna non voleva solo imporsi.
Così Shioban si era ritrovata in piedi di fronte i bambini,
con Vlad alla sua
sinistra con espressione calma e rilassata e la signora Marina alla sua
destra.
“Salve,
giovane figli di Ravka,
come già sapete noi siamo qui per stabilire se tra voi ci
saranno dei grisha”
aveva cominciato a parlare, “Eseguirò io
l’esame, sono Shioban, membro
dell’esercito di sua maestà la regina e mi
assisterà in questa prova il
guaritore Vladimir” aveva parlato in maniera informale
Shioban, anche se Vlad
era un soldato quanto lei ed anche di un grado superiore. “La prova
sarà semplice, prenderò la vostra mano
e valuterò la vostra condizione” aveva stabilito.
Quello era;
solo un amplificatore. Umano.
Una rarità, dicevano.
Gli
amplificatori umani erano rari,
per lo più erano grisha, ma Shioban era un’abbandonata.
“A volte capita
che con qualcuno sia più difficile di altri, in quel caso
sarà necessario fare
un piccolo taglio, non preoccupatevi è sempre un caso raro
ed abbiamo il buon
Vlad per questo. Se qualcuno di voi, risulterà un grisha, ci
occuperemo di
prove più pratiche per stabilirne l’ordine di
indole. Per Materialki ed
Corporalki potremmo anche qui … e la specializzazione
probabilmente sarà
impossibile da determinare ora e qui, ma ci vorrà del tempo,
vedere le vostre inclinazioni.
Per gli etherealki sarebbe il caso di andare in giardino, questa
è una bella
casa e nessuno vorrebbe distruggerla” aveva dichiarato con un
sorriso calmo.I
bambini avevano ridacchiato a quella battuta.
Aveva deciso di saltare la parte in cui spiegava che gli ordini era una
visione
leggermente arcaica, che in quegli anni i grisha stavano cominciando a
sperimentare. Come la Regina Zoya che governava tre – le
più note – su cinque
delle discipline degli etherealki e qualcosa di materialki, oppure
Genya Saffin
che con le sue abilità di plasmare-le-forme era a
metà tra un corporalki ed un
materialki. O anche solo Anastasja.
Un ragazzino
aveva sollevato la
mano, poteva avere sui nove anni massimo, magro, con le guance secche e
grandi
occhi verdi, “Puoi parlare” aveva
concesso.“Se fossimo … ecco …
grisha?” aveva
chiesto.
“Quello che desiderate. Potete rimanere qui, unirvi alla
scuola del Piccolo
Palazzo, dove vi sarà insegnato ad usare il vostro potere,
se vorrete entrare
nell’esercito ad una certa età potrete, se vorrete
restare a studiare potrete
rimanere, se vorrete tornare qui o andare ovunque; esistono molti
luoghi oggi
dove si insegna ai grisha e no, il mondo vi appartiene. Magari qualcuno
di voi
è un etherealki ma scoprirà di avere una
propensione per i numeri ed il denaro
e vorrà studiare per bene” aveva ammesso, prima di
dare la parola a Vlad,
quella parte spettava a lui.
“Potete
anche rimanere qui. So che
esistono grisha tutori che insegnano, non so se ne abita qui uno vicino
e se la
signora Rosen ha intenzione di assumerne uno” aveva
cominciato a dire posato,
con quella sua eleganza innata. Shioban poteva vedere che una macchia
rosa
puntellata, svettava appena sotto il colletto della camicia, sulla
pelle caramello.
“Ma una cosa
è certa: dovrete allenarvi. La
piccola scienza ci nutre, un grisha che non manifesta i suoi poteri si
ammala.
E come le vostre braccia e le vostre gambe, avete bisogno di usarle,
sempre,
per muovervi” aveva spiegato gentile, “O si
atrofizzeranno. Così sono i poteri”.
I bambini la ascoltavano come se le sue parole fossero state di miele.
“Va
bene, bambini, cominciamo. Niente di tutto questo deve farvi
paura” aveva detto
Marina, battendo le mani, infondendo calma e gentilezza. Era luminosa,
Shioban
non sapeva neanche spiegare come.
“Pensate a Zaara, che anche se ha
giurato la scorsa primavera alla regina, continua a tornare a
trovarci” aveva
spiegato calma, poi aveva chiamato la prima persona.
Era stato il
ragazzino di tredici
anni silenzioso ma con gli occhi blu accesi. Shioban aveva toccato
delicatamente il suo polso e non aveva sentito niente.
“Peccato” aveva detto
lui. Shioban aveva cercato di sorridere, comprensiva, perché
conosceva quella
delusione, “Non necessariamente. Puoi diventare un bravo
medico senza essere un
healer, così come stoppare un cuore o dare fuoco a
qualcuno” lo aveva cercato
di consolare.
“Cambiare una faccia?” aveva chiesto il bambino,
“Con una scorta di cosmetici e
paraffina” aveva dichiarato Shioban, arruffandoli i capelli.
Il ragazzo non era
stato molto contento, ma era sembrato più sollevato a quegli
ultimi commenti.
Poi aveva chiamato anche gli altri. Alcuni bambini erano sembrati
turbati di
non esserlo ed altri anche contenti. Aveva avuto bisogno di tagliare
una
ragazzina, ma anche quel fremito di resistenza si era rivelato nulla
– paura di
essere qualcosa.
Aveva trovato
un grisha.
Un ragazzino,
con del sangue
fjerdiano, che a dodici anni era alto come uno di sedici. Aveva tenuto
il suo
polso per bene, poi aveva sorriso, “Puoi andare vicino a
Gavrilo. È quel Soldat
Sol, con l’espressione da pesce-lesso sulla
faccia?” aveva domandato retorica. Il
ragazzino aveva annuito, e così aveva fatto.
Shioban aveva sentito Marina trattenere il respiro, perché
aveva capito. Altri
due bambini e poi era rimasta solo la figlia dei due tenutari.
“Drina
su, tranquilla!” l’aveva
incalzata la madre con dolcezza ed amorevolezza, dando un colpetto
gentile alla
spalla della figlia. La ragazzina si era voltata verso i suoi compagni,
ma
Shioban aveva riconosciuto che il suo sguardo cercava quello di suo
padre. Shevich
era posato contro una parete con sguardo leggermente preoccupato. Aveva
cercato
di sorridere verso sua figlia incoraggiante, ma non c’era
abbastanza sicurezza
in lui.
Marina si era chinata sulla figlia e le aveva messo le mani a coppa sul
viso,
materna, “Moya Milaia[3]
non hai nulla di cui preoccuparti” le aveva detto, dandole un
bacio dolce sulla
fronte. La ragazza aveva sfacciatamente rivolto lo sguardo al padre, in
cerca
di qualcosa. L’uomo si allontanato dal muro e si era
avvicinato alla bambina,
calmo. Aveva sussurrato qualcosa all’orecchio della figlia.
La madre che si era cucciata davanti a Drina, si era sollevata. Shioban
vedeva
solo il retro di una chioma scurissima, ma immaginava che
l’espressione sul suo
volto non dovesse essere serenissima.
Il padre aveva
condotto Drina
davanti a Shioban, lasciando Marina indietro.
Quando lei
aveva visto il viso
della donna, aveva potuto riconoscere un’espressione mista
sul viso, tristezza
e tradimento. “Io, noi, non crediamo sia
n…” aveva cominciato a dire Shevich,
“Sono una grisha. Lo so” aveva dichiarato la
bambina con convinzione,
sollevando il polso con sicurezza verso Shioban. Lei aveva annuito,
“A volte
capita che i bambini se ne accorgano da soli” aveva
commentato, prendendole
delicatamente il polso, “Un mio amico ha fatto esplodere le
tubature della sua
casa a soli sei anni” aveva aggiunto, ricordando quel
racconto. Voleva mettere
a suo agio la bambina. Drina, però, non sembrava nervosa,
aveva uno sguardo
avido, mentre rivolgeva l’attenzione alle dita di Shioban;
però con la mano
libera, teneva le dita del padre.
Shioban aveva
chiamato e, poi,
aveva sentito la risposta. Non ne aveva mai sentita una così
potente, brutale
quasi. “Wow” si era lasciata sfuggire senza
controllo, “Decisamente sì!” aveva
esclamato colpita Shioban.
Drina era arrossita, voltando il capo verso il padre e poi anche verso
la
madre, quasi colpevole. Marina
era in
viso chiara come la cera, si era avvicinata con un passo lento, quasi
timoroso,
“Si … si sa cosa?” aveva chiesto con un
principio di ansia. “Adesso vediamo,
per tutti e due. Sempre se Drina non sappia già cosa
è” aveva considerato.
Il ragazzino
di sangue Fjerdiano si
tirato su, preso in contropiede. Tutti gli occhi della stanza erano su
Drina.
La ragazzina aveva sollevato una mano, stendendo però solo
due dita, un gesto
incerto, aveva strizzato gli occhi e corrugato la fronte come se quello
che
stesse facendo le costasse fatica, per concertarsi … per un
po’ non era
successo nulla, ma poi un rumore aveva rotto il silenzio di respiri
strozzati
che aveva accolto il salone.
Un bottone d’osso della kefta verde di Shioban era caduto per
terra, aveva
strappato i fili che lo sostenevano.
“Materialki” aveva detto Marina, prima ancora di
lei, il suo tono era stato
quasi funereo. Probabilmente, addirittura una durast
già conclamata.
Shevich
si era voltato verso la
moglie, mentre riportava la bambina verso di lei. Shioban si era
chinata per
raccogliere il suo bottone.
Il ragazzino
mezzo-fjerdiano, Kos,
si era rivelato un inferno. Shioban era costata una buona
mezz’ora di chiamate,
gli aveva tenuto la mano mentre Ekaterina lo spingeva a richiamare alle
sue
mani tutti gli elementi. Vlad
aveva
fatto partire una scintilla ed il ragazzino aveva evocato il fuoco la
prima
volta. Era costato un albero.
“Ecco perché dovremmo portarci un
tidemaker!” aveva esclamato indignato Igor,
mentre Anastasja si impegnava ad usare l’acqua del pozzo per
spegnarlo, con
estrema fatica. Ekaterina invece aveva tirato via l’ossigeno
da quel punto
dell’aria per riuscire a spegnerlo. “Bene quel che
finisce bene!” aveva
dichiarato Yue, “È pronta la cena se qualcuno non
vuole dare fuoco a
qualcos’altro!” aveva esclamato la ragazzina iena
di vigore.
Il tavolo era
stato imbandito modo
che tutti gli abitanti del castello potessero di nuovo riunirsi per la
cena.
Alcuni ragazzini continuavano a tirare buffetti di congratulazioni
sulle spalle
di Kos che era rosso e pieno di gioia.
Shioban aveva sorriso, mentre prendeva posto al tavolo.
Gavrilo aveva
fatto per sedersi
accanto a lei ma era stata Genya ad accomodarsi, rubandoli
sfacciatamente il
posto, “Perché non ti siedi vicino a quella
maestrina lì, ti trova molto carino”
aveva dichiarato subito, facendo ridacchiare il Soldat Sol,
“Io ho fatto un
voto, mia signora, ma una bella vista non si nega a nessuno”
si era defilato
Gavi. Lei aveva ridacchiato, guardando Genya di sottecchi, non
l’aveva più
vista dopo la prova della piccola Drina, si era isolata a parlare con i
genitori della bambina. Forse nessuno di loro si aspettava che fosse
una
materialki, o una grisha in generale, forse erano pronti a vedere i
bambini che
crescevano andare via ma non il sangue del loro sangue. Eppure,
continuava a
pensare al sospiro di Marina quando aveva detto Materialki, come una
condanna.
“Posso
farti una domanda, Shioban?”
aveva chiesto Genya con un tono basso e misurato, “Non credo
potrei impedirle
di fare alcunché, moia razrushost”
aveva risposto Shioban, “La chiamata
di Drina, quanto era forte?” aveva chiesto, il suo tono era
terribilmente serio.
I suoi occhi avano raggiunto la ragazzina, sembrava pallida e nervosa,
mentre
il ragazzino con origini Shu, che cercava di tirarla su. Anche la
signora
Marina e suo marito continuavano a lanciare sguardi preoccupati alla
figlia,
forse timorosi che scegliesse di andare al Piccolo Palazzo.
“La chiamata non
tanto, la risposta, è stata sfolgorante!
Probabilmente la più potente
che io abbia mai sentito” aveva ammesso. Aveva cercato di
mettere a fuoco nella
sua memoria se c’era mai stata un’altra risposta
così secca, così focosa, ma
non le veniva in mente. Genya si era morsa un labbro, pregna di
preoccupazione.
Fu evidente a
Shioban, che le
mancasse qualche informazione.
[1]
All’interno del Grishaverse non viene dato nessun altro nome
alla Faglia (oltre
nonmare) specie dopo la sua … uhm … bonifica?
Però, ecco, mi sembrava coerente
che nessuno si rivolgesse più a quel luogo così.
Ho scelto Agro Verde per
ovvissime ragioni,
[2]
Santa
Zoya del Vento
[3]
Mia
Ragazza Dolce, riferendosi alla Wiki del rafkiano