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Autore: Old Fashioned    03/02/2023    10 recensioni
Una breve storia di guerra ambientata sul fronte orientale. I protagonisti sono alcuni personaggi secondari di "Perdizione" (https://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3766794&i=1).
Un piccolo reparto tedesco rimane isolato in territorio nemico: gli uomini dovranno trovare il modo di assistere i feriti, passare la notte approssimativamente incolumi e fronteggiare all'alba l'attacco del nemico.
Questa storia è stata scritta per Spoocky, che mi ha graziosamente concesso il permesso di pubblicarla sulla mia pagina.
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Carissimi lettori,
anche questa storia giunge alla sua conclusione.
Ringrazio tutti voi per avermi seguito e per aver reso viva questa vicenda con il vostro interesse e la vostra partecipazione.
Un ringraziamento speciale va ovviamente a chi è stato così gentile da lasciarmi anche un parere su quello che ha letto.
 
 
Capitolo 4
 
L’autoblindo è rovesciato con le ruote all’aria, dal serbatoio squarciato il carburante cola sull’asfalto e si allarga in una macchia che sotto il sole prende riflessi iridescenti. Per effetto del caldo torrido, da essa si levano vapori che fanno tremolare l’aria.
Con fatica Hofmann apre gli occhi e sbatte le palpebre per mettere a fuoco ciò che sta vedendo. Ci sono fumo, macerie, i pezzi contorti di un automezzo. Corpi riversi, alcuni dei quali immobili su lucide chiazza di sangue.
Si rende conto di una sensazione di bagnato, che gli appesantisce gli abiti e glieli fa aderire addosso. Prova a muoversi e percepisce la sensazione di qualcosa di vischioso.
Sangue, pensa dapprima con orrore. Non sente dolore da nessuna parte, ma non è certo un mistero che proprio le ferite più gravi conferiscano una sorta di anestesia. Lui stesso ha visto uomini perdere arti e accorgersene solo alla fine della battaglia.
Sono ferito?” prova ad articolare, ma quello che gli esce dalla gola è solo un mormorio roco.
A quel punto abbassa gli occhi sulla pozza di bagnato e si rende conto che è benzina: essa sta sgorgando a fiotti dal serbatoio e ruscella tutt’intorno a lui.
Cerca senza successo di spostarsi. Si gira e vede con orrore che la fiancata del blindato lo inchioda al suolo.
Chiama i suoi uomini, ma si accorge di non riuscire a emettere alcun suono. Li vede in lontananza, intenti a spostare i feriti o a raccogliere quanto è stato proiettato in giro dall’esplosione, ma nessuno sembra accorgersi di lui e dei suoi disperati tentativi di attirare la loro attenzione.
Poi uno dei soldati si accende una sigaretta e lascia cadere il fiammifero acceso.
Hofmann ne segue inorridito la parabola, lo vede rimbalzare a terra una volta, e poi atterrare sulla pozza di benzina.
Le fiamme si levano in un attimo, avide, feroci, di un giallo brillante. Il sergente se le vede venire incontro a spaventosa velocità, ne viene investito, le vede avventarglisi addosso. Un dolore urente comincia a dilaniarlo mentre lui si torce in preda agli spasimi.
Emette un lungo grido d’agonia.
 
L’urlo fece quasi sussultare il capitano Schultz. “Merda!” imprecò fra i denti l’ufficiale, quindi abbandonò il suo punto d’osservazione e tornò in fretta all’interno del palazzo diroccato.
Si avvicinò a Hofmann e si accorse che il giovane stava ansimando e tremando. Gli posò una mano sulla fronte e a bassa voce gli chiese: “Che c’è, Fritz?”
“Il fuoco,” boccheggiò Hofmann per tutta risposta. “Il fuoco… è dappertutto.”
“Ma no, non c’è nessun fuoco,” gli disse Schultz dandogli qualche buffetto il viso. “Era solo un incubo. Senti che freddo? Nessun fuoco.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Magari ce ne fosse un po’.”
“Signor capitano...” ansò il sottufficiale. A fatica fece scivolare una mano fuori dalla giubba che Schultz gli aveva disteso addosso e cercò di toccarlo. Sembrava che volesse accertarsi che fosse proprio lui, che non se ne andasse.
“Sono qui,” rispose l’altro stringendogliela piano. “Sono qui, Fritz, sta’ tranquillo.” Gli posò la mano libera sulla fronte e si accorse che stava bruciando. Gli sollevò la nuca, poi a tentoni cercò la borraccia e gliela avvicinò alle labbra. “Bevi un po’, forza.”
Hofmann mando giù qualche sorso.
“Bravo ragazzo,” approvò Schultz. “Ora fa silenzio, però. Non vorrai far arrivare qui i russi.”
“Nossignore.”
“Bravo. Cerca di dormire un po’, se ci riesci.”
Si voltò in direzione di una finestra sventrata da uno scoppio. Fuori era ancora buio pesto, il cielo era di un nero uniforme, punteggiato qua e là di flebili stelle. Cercò di scrutare il suo orologio da polso, ma la fosforescenza delle cifre era troppo debole e non riuscì a ricavarne dati certi.
Con un sospiro di frustrazione tornò a rivolgere la propria attenzione al cielo notturno. Sentiva accanto a sé il respiro stentato di Hofmann: il ragazzo doveva avere parecchie costole rotte, e di certo il buco che aveva nel fianco non aiutava. Si chiese quante possibilità di sopravvivere avesse, considerato il niente che era riuscito a fare per curarlo.
“Fritz, tieni duro,” sussurrò.
Si alzò, fece ritorno alla postazione. Per quanto ne conoscesse a memoria la quantità, tastò nel buio i nastri di mitragliatrice e calcolò mentalmente quanti minuti di fuoco avrebbero consentito.
“Raffiche brevi,” raccomandò al soldato addetto all’arma.
“Pensa che arriveranno signore?” La voce suonò straordinariamente giovane, Schultz ragionò che doveva essere quella di un diciottenne.
“Arriveranno, sì,” rispose il capitano, “ma noi saremo pronti a riceverli.” Batté una mano sulla spalla del soldato.
 

 
Welke si rannicchiò contro un muro, avendo cura di mantenersi nella zona più buia. Ora che i suoi occhi erano perfettamente abituati all’oscurità, distingueva nel nero della notte innumerevoli sfumature. Il cielo, per esempio, era come percorso da screziature grigiastre, e a ben guardare si faceva leggermente più chiaro verso l’orizzonte.
Le pareti degli edifici erano a loro volta grigie, più che nere. Quelle che di giorno erano bianche sembravano addirittura emanare una debole luminescenza, paragonate alle altre.
Se teneva una mano davanti a sé ne percepiva vagamente i contorni, se fissava con attenzione gli spazi aperti era in grado di cogliere la presenza di ostacoli.
Cercò di richiamare alla mente la mappa della città. Tenuto conto delle deviazioni che aveva dovuto fare per evitare pattuglie nemiche, ormai avrebbe dovuto trovarsi nelle vicinanze delle linee tedesche.
Si guardò intorno attentamente, quasi augurandosi che le sue pupille potessero diventare succhielli in grado di penetrare l’oscurità, ma ciò che lo circondava era solo buio e silenzio. Mai come in quella zona Minsk sembrava morta, mai abitata da anima viva.
Sembrava che la guerra avesse avuto luogo secoli prima, e che quelle fossero rovine di un tempo ormai remoto.
Si alzò un refolo di vento, che sibilando tra le macerie parve un lamento desolato.
Il soldato fece per riprendere la marcia, ma in quel momento qualcosa gli si puntò brutalmente tra le scapole, strappandogli un gemito di sorpresa e dolore.
Si irrigidì e di colpo si sentì la bocca secca. Deglutì a vuoto e alzò adagio le mani.
Cercò di voltarsi, ma la pressione tra le scapole si fece più dura, quasi sbilanciandolo in avanti. Welke strinse i denti, e l’unica cosa che riusciva con angoscia a pensare era che avrebbe tradito la fiducia del capitano Schultz.
Fece mente locale: le linee tedesche non potevano essere lontane e con quel silenzio i suoni si propagavano con grande facilità. Anche se lo avessero ucciso, non l’avrebbero certo portato via, e aveva pur sempre addosso il messaggio del capitano, che avrebbe fatto capire perché era arrivato fin lì.
“Camerati!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Alle sue spalle qualcuno disse qualcosa che aveva il tono aspro di un’imprecazione. Il calcio di un fucile lo colpì talmente forte da riempirgli la testa di campane e il campo visivo di luci bianche, tuttavia gridò di nuovo: “Camerati, sono qui!”
Salirono dei bengala nel cielo buio, sentì degli spari. Una mitragliatrice crepitò.
Di nuovo qualcosa lo colpì, non avrebbe saputo dire se era una botta o un proiettile. Crollò in avanti e sentì l’impatto del selciato contro il viso. Percepì un tramestio confuso, voci che gli parvero tedesche, poi perse i sensi.
 

 
All’orizzonte era comparsa una linea lattiginosa, di un grigio-bluastro livido. Schultz rabbrividì e di nuovo si passò le mani sulle braccia per scaldarsi: tutta l’umidità della notte sembrava essersi concentrata in quel dannato posto.
Col passare delle ore, dal fiume era anche salita una specie di nebbia malsana e puzzolente di limo, che strisciava rasoterra coprendo ogni superficie di una patina fredda e appiccicaticcia.
Per l’ennesima volta abbandonò la postazione difensiva e tornò nell’androne. Con l’approssimarsi dell’alba non vi regnavano più tenebre picee: sul pavimento era possibile distinguere vaghe sagome riverse, di chi non era di guardia e di chi era ferito troppo gravemente per compiere qualsiasi servizio.
Fece di nuovo un giro per controllare le condizioni di ognuno. Il soldato con la testa fasciata sembrava stare meglio, era immerso nel sonno e respirava regolarmente. Gli altri più o meno avevano ferite da lievi e moderate, per cui si erano in qualche modo arrangiati e dormivano gli uni addosso agli altri per scaldarsi a vicenda.
L'unico che versava in condizioni critiche era il sergente Hofmann. Si trovava in uno stato di dolorosa veglia, Schultz lo capiva dal respiro irregolare e dai movimenti, che denotavano l'infruttuosa ricerca di una posizione in cui il dolore fosse meno intenso.
Si chinò su di lui: il più giovane non diede nemmeno mostra d'essersi accorto della sua presenza. Anche nel buio si coglieva il pallore del suo viso come una macchia lattea, e pur coperto tremava di freddo.
Il capitano gli posò una mano sulla fronte, rilevando che la febbre aveva ceduto il passo a una cute fredda e sudata. Strinse le labbra: quello non era assolutamente un bel segno. Insinuò la mano sotto la giubba che gli aveva steso addosso e con orrore si accorse che c'era qualcosa di umido: durante la notte le ferite dovevano essersi riaperte e avevano intriso i pacchetti di medicazione e l'uniforme del sergente.
“Fritz,” mormorò. Gli sollevò la testa, poi prese la borraccia e gliel'avvicinò alle labbra, ma Hofmann non bevve. Rimase inerte contro di lui, ansando appena, e quando lo rimise giù non diede nemmeno un lieve gemito.
“Coraggio, Fritz, tieni duro,” gli disse. “Tieni duro, ragazzo. Fallo per il tuo capitano.”
Non giunse risposta.
 
Schultz si raddrizzò e si volse per l'ennesima volta verso la finestra, che contro il cielo ormai non più nero appariva come un buco informe, con un'anta che pendeva da uno dei lati.
Strinse gli occhi, annusò pensoso l'aria: gli parve di sentire un vago odore di tabacco, quando era sicuro che le sigarette della sezione fossero da tempo finite.
Raggiunse Altendorf e trovò anche lui all'erta. “Arrivano,” si limitò a sussurrare, “dia l'allarme generale. In silenzio.”
“Sissignore.”
“Tutti coloro che sono in grado di reggere un'arma dovranno combattere, i feriti troppo gravi saranno spostati in una zona più protetta.”
“Sissignore,” ripeté Altendorf. Si scambiarono un'occhiata: era chiaro che per i feriti gravi non si poteva fare altro. Se avessero vinto, in breve essi avrebbero ricevuto le cure necessarie, ma se fossero stati sconfitti, probabilmente chi di dovere avrebbe provveduto a finirli, e anche se non l'avesse fatto, i loro camerati avevano davanti solo pochi giorni di sofferenza e poi sarebbero morti comunque.
Controllò personalmente le armi di ognuno, spedì gli uomini ai posti di combattimento. Lui stesso si mise ad armacollo un MP40 e si infilò in tasca un paio di caricatori di riserva. Rivolse un'ultima occhiata a Hofmann, che due soldati stavano cautamente sollevando per portarlo altrove, e una ruga verticale gli si disegnò sulla fronte. Non si faceva illusioni: non avrebbero resistito a lungo in caso di attacco. Avevano poche munizioni e ancora meno uomini validi. Non sapeva a quanto ammontassero gli effettivi dei russi, ma di sicuro doveva essere un consistente multiplo rispetto a una dozzina di feriti esausti e male armati.
Scivolò all'esterno, verso una delle postazioni, e da lì si diede a osservare i dintorni.
L'oscurità stava cedendo il posto a un crepuscolo grigio, nel quale si cominciavano a distinguere le cose. Notò un armadio sfasciato che conservava due belle ante a specchio, una delle quali addirittura intatta. Considerò che doveva essere stato un mobile di pregio, di cui probabilmente la sua padrona – di certo aveva contenuto abiti da donna – era andata molto fiera.
Mentre era immerso in quei pensieri, notò che sulla lastra si stava riflettendo un movimento. Fissò lo sguardo in quella direzione e si accorse che erano soldati russi. Qualcuno stava cercando di portare avanti un attacco a sorpresa.
Si chiese perché usare tanti sotterfugi, quando avrebbero potuto semplicemente inondarli di piombo da lontano, ma prima che potesse elaborare una risposta echeggiò la prima raffica di PPD.
Come se quello fosse stato un segnale, tutt'intorno all'edificio diroccato si scatenò un inferno di fuoco. Colpi di ogni genere, più abbondanti che precisi, si abbattevano sulla costruzione, facendone volare pietrisco e calcinacci.
Schultz soffocò un'imprecazione mentre in un attimo il senso della manovra gli diveniva chiaro: avevano sfruttato il buio per accerchiarli, forse pensando che fossero molti più di dodici.
“Ricorda che chi difende è sempre in vantaggio,” disse al mitragliere, quindi si diresse verso la successiva postazione.
Lì il mitragliere stava già sparando. Raffiche brevi, come lui stesso aveva raccomandato, il più possibile precise, ma anche risparmiando al massimo le munizioni, i nastri scorrevano con inquietante velocità. Trincerati tutt'intorno, i russi sparavano a loro volta.
Il capitano imbracciò un 98K, mise il colpo in canna e mirò con cura, quindi premette adagio il grilletto. Un russo fece una capriola all'indietro e rimase a terra immobile.
Schultz mirò di nuovo, e ancora una volta abbatté un nemico, poi dovette farsi precipitosamente indietro per evitare una sventagliata di proiettili.
Si fece di nuovo avanti per sparare, ma in quel momento il servente alla mitragliatrice cadde all'indietro con un lamento.
Il capitano fu lesto a recuperare il nastro e a inserirlo. Batté una pacca sulla spalla del tiratore per fargli capire che l'arma era pronta ed egli ricominciò a bersagliare i russi con raffiche brevi e precise.
Piovve una bomba a mano, finendo alle loro spalle con una lunga parabola. L'esplosione provocò la caduta di un angolo di muro, che franò in una nuvola di polvere.
Subito dopo ne giunse un'altra, più vicina, che crivellò di schegge i sacchi di sabbia della postazione.
“Via!” ordinò Schultz quando l'ultimo nastro fu terminato. Afferrò il soldato per il colletto e lo fece alzare, “Via, ripiegare!”
Arretrarono verso l'edificio. Un russo saltò la barriera per inseguirli, il capitano estrasse la pistola e lo freddò con un colpo, poi lui e il soldato arretrarono fin dentro l'androne, i cui accessi erano stati quanto possibile fortificati.
I due si misero in copertura dietro spezzoni di muro.
 
L'aria era ormai irrespirabile, le pallottole fischiavano, schegge di metallo e pietra volavano per ogni dove.
Dentro la stanza devastata il frastuono era assordante: detonazioni, spari e lamenti si sovrapponevano in una cacofonia demoniaca, che rintronava e disorientava. Il fumo e la scarsa luce rendevano difficile distinguere cosa stesse accadendo.
Il capitano inserì l'ultimo caricatore. Se all'inizio della battaglia si era posto il problema di cosa sarebbe successo un'ora dopo, ora le sue previsioni si erano ristrette a minuti e poi ai pochi secondi necessari a sparare una salva di due o tre colpi. Non aveva modo di fare previsioni più a lungo termine. Ormai sparava contro tutto ciò che aveva il color terra delle uniformi russe e la sua unica preoccupazione era che i sovietici non si avvicinassero ai feriti gravi.
Una preoccupazione stupida, lo riconosceva lui stesso nei rari attimi in cui riusciva a formulare un pensiero concreto, ma comunque per i suoi criteri una ragione più che valida per combattere fino all'ultimo uomo.
Raccolse l'ultima delle granate a manico, la decapsulò e la spedì in mezzo a un gruppo di russi che stava tentando di forzare una delle barricate. L'ordigno esplose con un lampo arancione, abbatté la maggior parte degli assalitori, ma creò una larga breccia laddove prima si era trovato l'ostacolo.
Il capitano lasciò cadere le armi ormai scariche e sfilò dalla cintura la vanga da trincea affilata che aveva avuto cura di raccogliere. La impugnò a due mani e sferrò un fendente al più avanzato dei russi, praticamente decapitandolo di netto.
Il corpo si abbatté al suolo lasciandosi dietro un rutilante spruzzo di sangue, si torse un paio di volte negli ultimi spasmi nervosi, poi giacque immobile. Chi veniva dietro di lui – un commissario politico, a giudicare dalle spalline – ringhiò qualcosa e gli puntò contro la pistola, Schultz si fece da una parte, poi di nuovo balzò in avanti, calando l'improvvisata arma dall'alto tra la spalla e il collo dell'avversario.
La lama si piantò quasi completamente, il capitano cercò senza successo di estrarla, puntò il piede sul torace del nemico che nel frattempo era caduto a terra e fece forza, ma un attimo dopo fu costretto ad abbandonarla per evitare l'assalto di un altro russo, rotolò a terra, fece per rialzarsi, qualcosa lo colpì facendogli calare un velo nero davanti agli occhi.
Stramazzò. In un lampo di lucidità vide Altendorf crollare sotto una raffica di mitra, cercò di rimettersi in piedi, qualcosa lo colpì al costato. Rotolò sulla schiena, vide un soldato fermo a gambe larghe, con un Mosin-Nagant imbracciato, che mirava contro di lui. Sbatté gli occhi e con una curiosa indifferenza fissò lo sguardo in quello del russo.
Ci fu un attimo di immobilità sospesa, nel quale anche il frastuono che regnava ovunque parve affievolirsi fino a scomparire, poi il soldato sussultò, rovesciò gli occhi e si accasciò al suolo.
 
Al suo posto comparve il tenente Weber, che si chinò a osservarlo e in tono tranquillo gli chiese: “È ferito da qualche parte, signor capitano?”
Schultz sbatté gli occhi e per qualche secondo fissò il subalterno incapace di articolare le parole. Non lo sapeva se era ferito da qualche parte, non sapeva nemmeno cosa stesse succedendo esattamente. Girò appena lo sguardo e vide due soldati della sanità chini sul caporale Altendorf. Uno di essi aveva in mano una siringa, l'altro stava svolgendo rotoli di garza.
“Hofmann,” articolò infine. “Il sergente Hofmann è ferito in modo grave, deve essere visto subito un medico.”
“C'è il dottor Meyer con lui.” Poi, dopo una pausa: “Lei sta bene, signor capitano?”
A quel punto, Schultz riuscì a fare mente locale: era sdraiato per terra, aveva la camicia strappata, era sporco di sangue. Non sentiva male da nessuna parte, aveva ancora tutti e quattro gli arti ed era in grado di muoverli. Si toccò la testa, ma per quanto si sentisse rintronato non vi trovò lesioni strane. “Direi che sto bene,” proferì alla fine, quindi puntò una mano sul pavimento e con una certa fatica si rialzò in piedi. “Sto bene,” ripeté deciso quando fu di nuovo sulle sue gambe.
Barcollò appena, si appoggiò con la mano a una parete butterata di segni di proiettile. Tutt'intorno c'erano soldati della sua compagnia, sullo sfondo vide passare anche il tenente Planck.
Weber gli rivolse un lieve sorriso, forse il primo da quando si conoscevano, e disse: “Quando il soldato Welke è arrivato al battaglione e ha riferito quello che era successo, tutti si sono offerti volontari per la spedizione di recupero. Persino von Auberg ha chiesto il permesso di lasciare l'ospedale da campo.” Fece una pausa, poi concluse: “Non gli è stato accordato, naturalmente.”
 

 
Hofmann riaprì gli occhi in un luogo tutto bianco: pareti bianche, letto bianco, una specie di camicia bianca addosso. C'era una finestra dalla quale si intravedeva un cielo sbiadito, che a sua volta sembrava quasi bianco.
L'unica nota di colore era il ritratto del Führer appeso alla parete di fronte al suo letto.
Girò lo sguardo di lato, verso il comodino, sul quale qualcuno aveva posato un bicchiere con dell'acqua.
Cercò di sollevare la mano per raggiungerlo, ma il braccio era talmente pesante che sembrava fatto di piombo.
Emise un sospiro di frustrazione.
In quel momento udì dei passi che si avvicinavano e una voce conosciuta disse: “Ha sete, giovanotto?”
Sul volto pallido del sergente si allargò un sorriso. “Signor capitano,” mormorò.
“Adesso non posso più chiamarla Fritz, ragazzo mio,” disse l'ufficiale sedendosi sul letto accanto a lui, “il regolamento, lei capisce. Ma quello che è successo non si cancella, giusto?”
Gli passò una mano dietro la nuca, quindi raccolse il bicchiere e glielo avvicinò alle labbra.
Hofmann bevve obbediente qualche sorso, poi rispose: “Nossignore, non si cancella.”
Il capitano posò il bicchiere. “Sta un po’ meglio, sergente?”
Il più giovane sorrise di nuovo. “Grazie a lei, signore.”
Schultz scosse la testa. “No, grazie alla morfina, direi. Il dottor Meyer gliene deve aver dato un secchio, con tutti i danni che aveva messo insieme.” Allungò una mano a dargli un buffetto sulla guancia.
Come era successo nel palazzo diroccato, Hofmann piegò la testa a intercettare la carezza, poi sollevò lo sguardo a incontrare il suo e in tono di serietà grave disse: “Un capitano come lei si segue fino all’inferno, signore.”
“E con sottufficiali come lei, sergente, conquisteremmo l’inferno e ne faremmo un Reichsgau.”
“Come l’Austria, signore?”
“Beh, no. Non così. Immagino che avere a che fare con i diavoli non sarebbe difficile come avere a che fare con gli austriaci.”
 Hofmann tentò una lieve risata, ma dovette interrompersi subito mentre una smorfia di dolore gli attraversava i lineamenti fino a quel momento distesi.
“Non pensi agli austriaci, ragazzo mio,” lo ammonì Schultz fingendo un cipiglio serio. “Come vede, fa male alla salute.”
Rimasero a fissarsi in silenzio per qualche secondo, poi il capitano si alzò risolutamente in piedi e disse: “Ora devo andare, sergente. Veda di riposarsi in licenza.”
Hofmann deglutì. “Sissignore.”
“E veda di ritornare qui in piena efficienza.”
Temendo di non riuscire a mantenere la voce ferma, il sergente si limitò ad annuire.
Schultz forse lo capì, in uno di quei momenti di delicatezza che nessuno avrebbe sospettato in un individuo così spiccio e rude, fatto sta che distolse lo sguardo e disse: “Ora vado, Hofmann. Devo controllare quel Weber, lei capisce, altrimenti è capace di arrivare a Mosca da solo e farci un Reichsprotektorat alla faccia di tutti i generali che comandano l’offensiva.”
Uscì senza attendere risposta.
Hofmann rimase in silenzio a guardare le sue spalle robuste che si allontanavano e quando riappoggiò il capo sul cuscino lo fece con una sensazione di pace e sicurezza che da giorni non provava.
Rievocò le parole che si erano scambiati tempo prima, noi saremo gli avi di nipoti che ridono, e si addormentò con un lieve sorriso sulle labbra.
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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