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Autore: Sweet Pink    10/02/2023    5 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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AVVISO! Questo ventesimo capitolo sarà lungo, molto più dei precedenti, poiché ho deciso di: 1) Non dividerlo per una questione di coerenza narrativa, elemento a cui io tengo tantissimo; 2) Lasciarvi una parte più lunga anche per farmi perdonare del mio ritmo di scrittura lento e ringraziarvi di aver atteso tanto (non dimentico, infine, che il capitolo su Benjamin e Catherine era il più corto tra tutti quelli che ho pubblicato fin ora).

Non penso ci sia bisogno di mettere un Rating rosso a questa parte, ma potrebbe esserci qualche elemento di disturbo per qualcuno, quindi preferisco sempre avvertire!

Buona lettura!

Sapete già dove sarò ad attendervi! (*u*)







CAPITOLO VENTESIMO


TU POSSIEDI IL MIO CUORE, IO LA TUA ANIMA






“Dobbiamo parlare, Saffie.”

La signora Worthington portò i suoi bei occhi castani sulla grande finestra della camera da letto dove, incorniciate fra il vetro e le imposte bianche, le cime delle alte palme da cocco sussurravano parole misteriose al vento caldo. Dietro di esse si apriva il solito cielo dall’azzurro sconvolgente e – per un fugace attimo – la ragazza credette di aver finalmente ottenuto la libertà che per tanti anni aveva agognato, al di là delle sbarre dorate forgiate da Alastair Lynwood.

Hai mai fatto qualcosa per perdonare te stessa?

Un’emozione calda e avvolgente, di quelle che poteva dire di non provare da diverso tempo, l’abbracciò tutta nel medesimo istante in cui ella strinse a sé le fresche lenzuola candide, le esili dita aggrappate alla stoffa e un adorabile rossore celato dietro alle morbidezza del tessuto, dunque nascosto alla tiepida luce di quella nuova mattinata. Come accadeva spesso negli ultimi giorni, la sagace Duchessina Saffie – ventotto anni da compiere in Autunno – si imbarazzò alla stessa stregua di una ragazzina ingenua di fronte al pensiero che galleggiò per primo nella sua mente ancora intorpidita dal sonno: da quando era tornata dal fastoso ricevimento indetto da Lord Chamberlain, la ragazza sembrava non riuscire a concentrarsi su altro al di fuori di ciò che era accaduto durante la Grande Soirée e, in particolare, della gentilezza con cui gli occhi chiari di Arthur Worthington erano tornati a guardarla.

Un sospiro sognante fuggì dalle labbra di Saffie ed ella si portò subito una mano sulla bocca sorridente, quasi volesse occultare anche a sé stessa l’eccitata felicità che le stava facendo compagnia nell’ultima settimana; per quanto la ragazza ci avesse tanto ardentemente sperato, era comunque difficile credere al fatto che pure il freddo marito avesse scelto di stare con lei per davvero, infine accettando i loro reciproci sentimenti per quello che erano, ma anche decidendo in questa maniera di cominciare insieme una vita dimentica dei peccati commessi. Un’esistenza fragile e colma di luce, in cui non vi sarebbe stato bisogno di alcun abisso a cui tornare.

Ce ne abbiamo messo di tempo, non è vero?

“Oh!” considerò Saffie con vera e propria gioia, saltellando giù dal letto a baldacchino come un giovane passerotto. “Lui è orgoglioso tanto quanto lo sono io! Siamo così simili!”

Il tempo di infilarsi la veste da camera merlettata di cui sua madre le aveva fatto dono prima della sua partenza per le colonie, che già la Duchessina si era avvicinata alla finestra illuminata dal sole ormai alto, sbirciando la strada sottostante con ansiosa attenzione: in fondo, scrutare il viale d’ingresso alla tenuta era diventato il rito con cui iniziava le sue giornate; non c’era mattina in cui dimenticasse anche solo per sbaglio di buttare una timorosa occhiata di sotto, vivendo così nella timida speranza di poter cogliere l’arrivo dell’Ammiraglio Worthington. Ovviamente, si trattava di una sciocchezza di cui Saffie stessa era dolorosamente consapevole, per quanto non riuscisse a farne a meno; smettere di spiare il cortile era difficile tanto quanto mettere a tacere i pensieri che l’invitavano a dubitare di non trovarsi in un sogno.

Diversi metri più in basso, a contrasto con la ghiaia bianca del sentiero, la paffuta figura di Keeran riceveva dalle mani di un giovane corriere arrivato a cavallo ciò che Saffie immaginò fosse la posta del giorno. Lo sguardo scuro della ragazza castana si intenerì un poco, alla vista della quieta serenità impressa sul volto splendido della sua domestica personale, solennemente intenta a leggere un biglietto evidentemente indirizzato a lei: d’altronde, non passava giorno senza che la signorina Byrne ricevesse qualche anonima confessione d’amore o appassionata proposta di matrimonio!

Possiamo pensarlo tutti, di starci incamminando sulla strada che noi stessi abbiamo deciso di intraprendere?

Le mani diafane di Keeran se ne stavano ancora bloccate a mezz’aria, strette attorno alla missiva ricevuta, mentre l’irlandese si lasciava sfuggire un sorrisetto in fondo molto simile a quello della signora Worthington. “Ah, è straordinariamente ovvio” considerò quest’ultima, cogliendo al volo l’espressione da creatura innamorata della diciasettenne. “James Chapman.”

Saffie avrebbe voluto spalancare le finestre della camera e attirare l’attenzione della diciasettenne, così da chiederle di raggiungerla al più presto, ma fu il discreto rumore di un qualcuno intento a bussare contro la porta a mandare gambe all’aria ogni suo piano da aristocratica ficcanaso. La Duchessina di Lynwood sussultò sul posto, fulminata da una scarica d’ansia improvvisa di cui si vergognò immensamente; una morsa agguantò il suo cuore e lei si voltò di scatto, le onde dei suoi lunghi capelli castani che inseguivano un movimento costituito d’aspettativa: malgrado il suo stato d’animo, la ragazza non si aspettava seriamente di trovarsi di fronte Arthur e, in effetti, le sue previsioni non vennero deluse, per quanto lei stessa avesse desiderato di sbagliarsi.

“Siete già desta, signora Worthington?” domandò la voce ovattata di Teresa Inrving, altra costante incrollabile della sua routine giornaliera. “Beh, spero vivamente lo siate, visto che sto per entrare.”

“Sono sveglia e presentabile, amica mia” ribatté Saffie, sollevando un sopracciglio e sbuffando divertita fra sé, prima di aggiungere un quieto: “Potete farvi avanti”.

Sarà per un altro giorno, vero? Lui verrà…lo ha promesso.

La moglie del Capitano dell’Atlantic Stinger spalancò la porta con decisione, giusto in tempo per poter cogliere la leggera smorfia di sofferenza che passò veloce sul viso dolce della Duchessina; una fitta di doloroso panico di cui la ragazza stessa, nel frattempo, non seppe individuare l’esatta origine. Teresa alzò i suoi profondi occhi color cioccolato su Saffie e la vide stringersi nelle piccole spalle con finta noncuranza, evadendo così il suo sguardo attento; dopo un attimo di pensosa analisi, la donna di colore sorrise con soddisfatta comprensione: l’espressione turbata e il rossore della signora Worthington facevano letteralmente a pugni con il sorriso radioso che stava cercando di nasconderle.

“A quanto vedo, il Grande ballo di Lord Chamberlain ha dato i suoi frutti” fu il commento neutro che la signora Inrving si concesse, accompagnando le sue parole vaghe con un noncurante inchino di cortesia; e avrebbe glissato sull’argomento se non fosse che, nel vedere una imbarazzatissima Saffie alzare il capo di scatto nella sua direzione, ogni sua compostezza da signora perbene cedette il passo a una educata risatina divertita. “Oh, non dovete vergognavi di fronte a questa vecchia strega” aggiunse poi, aprendo il suo ventaglio colorato davanti al viso sorridente e truccato. “Sono solo contenta che l’Ammiraglio abbia smesso di comportarsi come un bambino scontroso e fin troppo cocciuto.”

Insensibile allo stupore della sua giovane interlocutrice, Teresa si incamminò in tutta tranquillità verso il centro della stanza e raggiunse il tavolino coperto di trine su cui Keeran aveva poco prima lasciato incustodite la teiera e le tazzine in porcellana. “Spero per lui che abbia promesso di ritagliarsi del tempo da passare con voi prima della sua imminente partenza, oppure – parola mia – se la dovrà vedere con la sottoscritta” chiosò infine, versandosi una tazza di tè come se niente fosse e non stesse in effetti minacciando il Generale Implacabile, uno degli uomini più temuti dell’Impero Britannico.

“… ma ci rivedremo. Dobbiamo parlare, Saffie.”

Di nuovo, il tono colmo di calda tenerezza dell’Ammiraglio Worthington si fece strada nel cuore di Saffie e lei cercò di riprendersi una manciata di autocontrollo e dignità perduti, chiudendo di botto la sua bocca spalancata dalla sorpresa e forzandosi di non parere troppo colpita dalle inquietanti doti conoscitive della moglie di Henry Inrving. “Non so se spaventarmi o chiedervi la fonte di tali informazioni, così tremendamente specifiche e accurate!” scherzò dopo poco la Duchessina di Lynwood, forzando il sorriso sulle sue labbra a non allargarsi troppo, ma bensì a rimanere pacato come quello della nobile donna adulta che avrebbe dovuto essere.

Una parte egoista di me vorrebbe tenere stretta questa felicità, quasi io avessi il timore di vederla svanire nel momento in cui oserò esprimerla ad alta voce.

Da parte sua, Teresa preparò una seconda tazza di tè anche per la signora Worthington e increspò appena la belle labbra scure, ghignando di una strana e muta ironia. “Uno dei lati positivi dell’essere sia ricca che un’ex domestica sta proprio nell’avere più contatti di quanti si possa immaginare” spiegò con calma la donna di colore, avvicinandosi alla finestra e a Saffie, infine porgendole con l’aria più serafica del mondo la bevanda ancora fumante. “Un po'di tè?”

“Mi avete anche letto nel pensiero, cara amica.”

“Siate cauta” commentò la signora Inrving, facendole un ben poco aristocratico occhiolino. “Questa non è porcellana di Sevrès, ma bensì il servizio Ming che anni orsono il padre dell’Ammiraglio fece importare dalla Cina come dono per la moglie: la vostra piccola Keeran ha indubbiamente un ottimo gusto, ma osate sbeccare anche solo uno di questi piattini e potete dirvi rovinata.”

Per tutta risposta, la ragazza castana ridacchiò sommessamente, pure se le sue mani presero l’oggetto smaltato di blu che la donna continuava a offrirle come se si fosse trattato del vero Santo Graal. In fondo, considerò, poteva dirsi ormai perfettamente acclimatata al fare vigile e materno della sua vicina di casa, anche se continuava a sorprendersi non tanto del colorito vocabolario che soleva utilizzare ogni due per tre, quanto piuttosto della confidenza con cui parlava della famiglia Worthington e – in particolare – dello stesso Arthur.

Saffie aveva pensato fin dal primo istante che la moglie del Capitano Inrving sarebbe stata una preziosa alleata nella sua nuova vita in Giamaica, mentre ora il suo animo eccitato sentiva che avrebbe potuto trovare in Teresa una persona attraverso cui imparare di più sul suo severo marito.

Arthur possedeva il cuore di lei e Saffie l’anima di lui, ma entrambi rimanevano due estranei che troppo poco conoscevano l’uno dell’altra.

“Posso dunque presupporre che non vi si possa nascondere nulla” fece la Duchessina di Lynwood, ingurgitando un sorso della sua bevanda dolce e profumata. “È praticamente trascorsa una settimana dalla Grande Soirée…insomma, comincio a credere egli sia partito in gran segreto senza nemmeno lasciarmi una lettera di arrivederci!”

“…non sei arrivato! Le avevi giurato che non avrebbe più dovuto aspettarti e lei ti ha creduto!”

Atroce e inatteso, uno spasmo di paura attraversò impietoso il suo piccolo corpo di donna innamorata, costringendola a chiudere gli occhi per un muto istante.

“Io non voglio spaventarti; non…non è come l’ultima volta.”

No, adesso è tutto diverso. Noi siamo diversi, perché abbiamo spezzato con le nostre mani le catene del legame crudele.

“Vi assicuro che l’Ammiraglio Worthington è ancora fermo a Rockfort” disse Teresa, i cui grandi occhi a mandorla la fissavano con grande interesse, enorme profondità. “Potreste andare voi a trovarlo, per esempio.”

“Non…non è che non ci abbia mai pensato” borbottò sottovoce Saffie, tradendo una insolita timidezza e, consapevole di questo, nascondendosi dietro la sua preziosa tazza cinese. “Ma so per esperienza quanto il Generale disprezzi ogni intromissione nel suo lavoro e ho pensato che, ecco, magari fosse troppo impegnato per poter stare insieme a me.”

Un paio di occhi grandi, tutti tristi, si abbatterono verso il pavimento e le sue forme piatte, mentre la moglie dell’Implacabile constatava con grandissimo fastidio che, in quei mesi, lei stessa si era rivelata via via una donna ben lontana dall’immagine che aveva dipinto di sé: erano passati anni dall'ultima volta in cui si era innamorata di qualcuno, ed era vero; ma non sapeva che dire della sua patetica titubanza, quando in precedenza non si era fatta poi tanti scrupoli nell’intromettersi negli affari di Arthur, per quanto quest'ultimo ne fosse stato estremamente seccato.

“Un uomo dovrebbe sempre trovare del tempo per la propria moglie” imperò la signora Inrving, portandosi un pugno contro il fianco con risolutezza. “E Arthur Worthington non fa eccezione. Di cosa avete paura, realmente?”

Colpita e affondata. Come aveva commentato pochi secondi prima, era proprio vero che a Teresa non si poteva tenere nascosto nulla. Saffie formulò questo pensiero pieno di ironia, prima di voltarsi pigramente in direzione delle luminose finestre che s’aprivano sullo sconfinato cielo azzurro. “Cosa temo, chiedete?”

“Dobbiamo parlare, Saffie”

È una fragile gentilezza, la vera natura del suo cuore sopravvissuto all’abisso. Lo so.

Le iridi malinconiche della ragazza continuarono a fissare il panorama di una volta celeste fin troppo sconfinata, distante: nei suoi ventisette anni di vita aveva sempre creduto che, alla stessa strega dell’oscuro e cupo oceano, la profondità senza fine del cielo stesso fosse la principale ragione di tanta curiosità e meraviglia; carpirne i misteri significava cadere dentro all’ignoto, senza effettivamente sapere cosa ci sarebbe stato al di là o – nel caso del mare – sul fondo.

Sono pronta ad affrontare l’abisso che tanto ho voluto conquistare?

“Posso presentarmi al mondo come la moglie dell’Ammiraglio Worthington” disse la Duchessina, a malapena percependo la figura robusta di Teresa portarsi con discrezione al suo fianco. “Pure se la verità è che niente sappiamo l’uno dell’altra; non conosco nulla del passato di colui che sono stata costretta a sposare.”

“Continui a volerti immischiare in affari che non ti riguardano, malgrado tu non sappia nulla della Marina Britannica e della mia vita.”

Mi respingerai di nuovo, anche se adesso ti ho confessato di voler stare al tuo fianco per sempre?

In una situazione normale, la signora Inrving avrebbe tentato di rassicurare la ragazza al suo fianco dicendole come fosse la norma, nella loro società, avere un estraneo per coniuge e che – di giusta conseguenza – ci volesse un bel po’ per conoscersi a vicenda: la stessa Teresa, a esempio, poteva affermare con tutta sicurezza di aver impiegato i primi anni di matrimonio ad abbattere l’enorme barriera costituita dai diversi preconcetti con cui lei e Henry erano cresciuti. Eppure, d’altra parte, la donna di colore ben sapeva che se si parlava di Arthur Worthington non potevano esserci situazioni normali.

“Parete preda di feroci dubbi, mia povera creatura” azzardò la moglie del Capitano, indovinando di fatto lo stato d’animo di Saffie, passerotto consumato sia dalla felicità che dall’indecisione. “Eppure! Non penso sia affatto una buona idea lasciarlo partire senza che gli abbiate espresso con onestà come vi sentite in merito al sua vita passata, soprattutto se per voi essa è così importante.”

Detto ciò, ella tacque il giusto per poter osservare il grazioso viso della ragazza al suo fianco mutare in un piccolo ghignetto divertito che pareva voler dire: “Più facile a dirsi che a farsi”. I meravigliosi occhi da mamma orsa della donna mulatta rimasero in effetti immobili anche quando, con assurda noncuranza, quest’ultima decise di parlare di nuovo e sparare al cuore della Duchessina di Lynwood. “Voi lo amate, non è vero? Lo amate molto più di quanto non diate a vedere.”

Dopo un breve attimo di smarrimento, le spalle di Saffie si irrigidirono appena e la ragazza stessa sussultò sul posto, reagendo come una bambina colta sul luogo di una marachella. Un rossore violento aggredì le sue guance e si diffuse persino fin sulla linea del suo collo sottile, bruciando sopra una pelle scossa da brividi agitati.

“Non posso che arrendermi di fronte al potere che eserciti su ogni scelta o intenzione, infine sulla mia stessa anima. Ti ho guardata per tutta la sera…sei bellissima, piccola strega.”

Sfugge dalla mia presa questa insensata felicità, perché le parole gentili di Arthur sono mie, mie soltanto.

Infine, si arrese. Un sorriso spontaneo e aperto, dalla bellezza incredibile, nacque sulle labbra rosee di una Saffie che, inconsciamente, si voltò verso la signora Inrving e la fulminò con uno sguardo luminoso, colmo di allegra eccitazione. “Sì!” confessò la ragazza, quasi ridendo, il viso perso fra infinite onde di capelli castano chiaro, rilucenti di luce. “Oh, Teresa, lo amo da impazzire!”

Dal canto suo, la donna spalancò tanto d’occhi e il suo cuore fece una capriola nel petto perché, in un battito di ciglia, ella tornò indietro di vent’anni e ricordò le notti in cui tutta la servitù della Zuimaco si agitava per la casa, alla ricerca spasmodica dell’adolescente che continuava a scomparire dalle sue stanze senza lasciare traccia di sé. Al tempo, Teresa era ancora una domestica e l’unica in grado di trovare il signorino: puntualmente raggomitolato in qualche oscura e angusta credenza polverosa, Arthur si nascondeva al mondo e tremava dal terrore, le mani pallide permute forte contro le orecchie, le dita affondate tra le onde ribelli della sua chioma bruna.

“Arthur è il mio orgoglio, ma non nego di essere preoccupato per il suo futuro” diceva di tanto in tanto un Simeon Worthington in vena di confidenze. “Quale donna potrà amarlo, mi chiedo, se non imparerà a soffocare questi suoi penosi atteggiamenti?”

“Vi sbagliavate di grosso, signore” venne da pensare istintivamente a Teresa che, di fronte all’espressione perdutamente innamorata della signora Worthington, non poté fare a meno di scoppiare a ridere con gran tenerezza e sollievo. “E allora non avete niente da temere, mia cara” disse quindi la discendente dei Taino, al solito sicura di sé. “Poiché mi risulta che pure il cuore di quel ragazzino sconsiderato sia ben stretto tra le vostre mani.”

“Credete…credete dunque che l’ammiraglio Worthington si aprirebbe per davvero con me sul suo passato, se glielo chiedessi direttamente?” le domandò Saffie, tradendo di nuovo la titubanza che con lei aveva poco o niente a che vedere, sebbene un’eco della risata precedente fosse ancora presente sul suo visetto grazioso. “Voi parete conoscere lui e Benjamin talmente bene! Ammetto di essere un po’gelosa di voi, signora.”

L’interpellata alzò un sopracciglio scuro, assumendo un’espressione stranamente altezzosa. “Potete dirlo forte” fu la colorita chiosa finale della donna, apparentemente dimentica del suo ruolo di ricca dama rispettabile. Al contrario, Teresa lasciò il fianco di Saffie con uno scatto brusco e raggiunse a passo pesante il divano rosa pastello – ovviamente in stile rococò – che i domestici avevano accomodato contro la parete, esattamente al di sotto del grande dipinto a olio raffigurante un paesaggio tanto bucolico quanto irreale: un paradiso fitto di verde e abbondante d’acqua cristallina, dove festeggiavano le ammalianti e selvagge ninfe.

La signora Inrving si lasciò cadere con malagrazia fra le morbidezze dei cuscini ricamati e continuò, incurante e ignara degli sguardi dispettosi dei cherubini dipinti a bordo della cornice, appena sopra la sua testa corvina. “Duchessina di Lynwood” cantilenò. “Chi credete si sia occupata dei figli del celeberrimo Ammiraglio Simeon Worthington, quand’essi non erano altro che due ragazzini fuori controllo?”

Saffie non poté dirsi troppo sconvolta da quella rivelazione, visto e considerato che, da quando era giunta a Kingstown, vi erano stati molti indizi a puntare verso quello scenario in fondo prevedibile. Nei limiti del possibile, Henry Inrving aveva elevato la condizione sociale ed economica di Teresa, ma la signora Worthington trovò commuovente il pensiero che, malgrado tutto, ella fosse voluta rimanere vicina ad Arthur e al signor Rochester; era come se la donna continuasse a vegliare su di loro, pure se avrebbe potuto tranquillamente permettersi una vita lontana dai luoghi del suo passato da domestica.

“Avevo immaginato qualcosa del genere, in effetti.”

“E io che speravo di cogliervi assolutamente impreparata!” si lagnò la moglie del Capitano, sbattendo pericolosamente la sua tazza Ming su un piattino in porcellana abbastanza costoso. “Ditemi, quale errore mi ha tradita?”

“Non ho mai sentito nessuno parlare di…ehm, mio marito nel modo in cui lo fate voi, signora” rispose la ragazza castana, arrossendo leggermente a causa dell’imbarazzo nel chiamare Arthur in un modo a cui doveva ancora paradossalmente abituarsi; non che non l’avesse mai fatto nei mesi trascorsi, ma ora quella parola aveva sulle sue labbra un sapore del tutto diverso. “Immagino avrete visto molti lati del suo carattere!”

“Da un certo punto di vista è sempre stato un bambino silenzioso, che amava imparare bene e in fretta” commentò con vaghezza Teresa, prima di nascondersi dietro un sorso di tè ormai tiepido. “Ma chiedete e vi sarà risposto.”

Senza una vera e propria coscienza, la Duchessina si portò una mano sulla spalla sinistra e si appoggiò al muretto del davanzale dietro di lei, prendendo poi una boccata d’aria che sapeva più che altro di muto timore. “Di-di sicuro anche la madre dell’Ammiraglio deve essere stata una persona straordinaria, tanto quanto lo è il signor Simeon!” commentò infine Saffie cercando di sembrare disinteressata mentre, dentro di sé, si maledì per il tono tremulo con cui aveva pronunciato quell’ultima frase.

E, difatti, un paio di penetranti occhi a mandorla scattarono subito su di lei, seri e indecifrabili come quelli di un orso pronto all’attacco. “Irina era una donna conosciuta soprattutto per la sua bellezza” fece la signora Inrving, con inquietante voce piatta. “Cosa desiderate sapere, per l’esattezza?”

Gli occhi luminosi di Saffie lampeggiarono di ansiosa incertezza. “Cosa le è accaduto, Teresa?”

Qual è il nome dell’abisso in cui lei e Arthur sono caduti?

“Questo argomento è un tabù” chiosò duramente la donna di colore, scuotendo appena la sua bella chioma. “Non se ne fa parola tra le mura di questa casa, né con persona alcuna e, sopra ogni cosa, con il Generale Implacabile. Parlarvene, mia cara, significherebbe dovervi parlare anche di Hector e di ciò che egli rappresenta per vostro marito, dei peccati che l’ha costretto a commettere.”

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

La signora Worthington fu percorsa da uno strano brivido ghiacciato all’udire il nome di colui che Mary Anne aveva chiamato il Grande Diavolo e, per l’ennesima volta, l’immagine di una schiena coperta da profonde cicatrici balenò davanti al suo sguardo smarrito. “Una volta Arthur mi ha parlato di come sua madre le avesse regalato uno stallone a cui tuttora vuole molto bene” buttò lì Saffie, quasi a caso e stringendosi nelle spalle, forse per allontanare la stretta di tristezza che s’era fatta sentire nel suo cuore.

La mandibola di Teresa cedette di botto e quest’ultima alzò il volto di scatto, sbalordita. “Lui vi ha parlato della signora Irina spontaneamente” mormorò infine, forse rivolta più a sé stessa. “Vi ha parlato di sua madre e di Bharat. Cielo, allora forse…perché no, amica mia, penso proprio che l’Ammiraglio possa davvero rischiare di aprirsi con voi pure sul suo altro passato.”

Dal canto suo, Saffie di Lynwood osservò la signora Inrving prendere un’ultima tazza di tè con l’aria scettica di chi temeva una crudele in giro e, forse, avrebbe espresso il suo pensiero ad alta voce, se l’entrata nella stanza di una signorina Byrne dal capo chino non avesse mandato all’aria i suoi piani di pronte battute pungenti. “Oh!” fece quindi Saffie, staccandosi dalla parete con un gran sorriso. “Avevi detto saresti tornata nel giro di pochi minuti e invece stavo per mandare qualcuno a denunciare la tua scomparsa, Keeran!”

“Perdonatemi, signora” asserì l’irlandese con la sua solita vocina suadente, inchinandosi davanti alle due dame di rango superiore al suo, le pallide mani intrecciate sul grembiule bianco.

Saffie sventolò frivolmente un braccio nella sua direzione e non perse tempo nel provocarla, dando sfoggio di un tono piuttosto allusivo. “Lo hai sempre saputo, che io sono una nobile tanto sciocca quanto benevolente, quindi sei ovviamente perdonata. Saltati i nostri convenevoli, che mi racconti della posta di oggi?” chiese, quasi ridendo. “Ha scritto qualcuno di interessante?”

Il rossore improvviso che imporporò il viso paffuto dell’irlandese ebbe l’effetto non solo di colmare la signora Worthington di soddisfazione, ma anche di scacciare almeno un poco le nubi di malinconia che s’addensavano sopra la sua testa castana. “James Chapman verrà per la merenda delle cinque anche questo Sabato?”

“Mi chiedo quando quel ragazzino si deciderà a chiedere la vostra mano, Keeran” rincarò la dose una Teresa Inrving ancora beatamente sprofondata tra i cuscini dal sofà. “Ho sentito che giù in cucina c’è persino chi sta organizzando un giro di scommesse inerente alla sua confessione d’amore. Io e il mio adorato Henry abbiamo puntato forte, sappiatelo.”

A quel punto, la domestica presa in causa premette il mento contro il petto e seppellì il viso ardente dall’imbarazzo fra la matassa dei suoi splendidi ricci e, se ne poteva star certi, il batticuore furioso che l’aggredì provava solamente che le donne davanti a lei avevano ragione da vendere. Persino Keeran stessa ne era vagamente consapevole, per quanto la sua mente si rifiutasse di credere che James potesse veramente prendere in considerazione di legarsi a una nullità senza dote come lei.

I figli dei Marchesi non sposano le misere contadinotte di provincia. È questa, una delle regole imprescindibili del nostro mondo.

Dimostrando di non essere più la pavida creatura che aveva lasciato Bristol tanti mesi prima, la signorina Byrne fu più che brava a scrollarsi dalle spalle larghe il tormento provocato da quell’ultima crudele considerazione per alzare la testa di scatto e asserire, con timida convinzione: “Si-signora Saffie! Ricordate la promessa di qualche giorno fa? È arri-arrivato il momento di mantenere la vostra parola!”

Da parte sua, Saffie ridacchiò sommessamente, coprendosi educatamente la bocca con le dita. “Non è straordinario, Teresa?” commentò poi con un tono a metà fra l’ammirato e l’affettuoso. “La settimana scorsa ho accordato alla mia dama di compagnia un giorno libero e lei mi ha fatto giurare che l’avrei seguita per una gita fuori porta!”

“Oh, rivoluzionario per davvero!” commentò la moglie del Capitano, mentre la diciassettenne annuiva piena di emozione.

“Ebbene, mia cara, sono proprio curiosa di sapere quale sorpresa mi riserverà la giornata di oggi!”


§


Quella mattina, James Chapman poteva dirsi l’incarnazione della frustrazione stessa.

Il sole delle undici picchiava duramente con i suoi raggi caldi sulle murature dell’ampio cortile interno di Rockfort, in quel momento brulicante di accaldati uomini in maniche di camicia e armati di spada. Nel bel mezzo del marasma di corpi sudati e muscoli tesi, il tenente si trovò a maledire la bella Keeran Byrne e il suo incomprensibile ritardo sulla tabella di marcia che con tanta solerzia avevano pianificato; ma, ovviamente, non si riduceva tutto a una questione sola: il tenente preferito di Arthur Worthington era anche impegnato a mascherare lo stato di ansiosa attesa che serpeggiava dentro di lui da quando aveva proposto – con una pomposa solerzia che gli aveva fatto guadagnare l’odio dei suoi commilitoni – un tempo supplementare da dedicare agli esercizi d’arma previsti per quella giornata.

Così, il povero ragazzo si trovava a dover far fronte non solo al suo fastidio per l’assenza di Keeran e della persona che doveva portare con sé, ma pure agli attacchi fin troppo energici del suo compagno di allenamento. Chiaramente, se fosse stata una battaglia reale, l’adolescente soldato di fronte a Chapman sarebbe stramazzato al suolo nei primi due minuti di lotta ma, come gli aveva insegnato Arthur nei primi lontani giorni del suo addestramento, in quei frangenti il tenente era obbligato a trattenersi.

Ai tempi, era solo un sedicenne viziato e insicuro che l’Implacabile aveva salvato dall’oscurità.

“Alzate quella guardia, dannazione” s’intromise nei suoi pensieri una voce dura come l’acciaio, che sovrastò le grida dei suoi compagni e i colpi metallici delle spade in azione attorno a lui. “Dove sta vagando il vostro sguardo, tenente Chapman?”

A sentirsi interpellato dal tono spazientito della terribile persona in attesa a pochi metri di distanza, il giovane preso in causa deglutì un fastidioso groppo di soggezione e voltò subito la testa castana, distogliendo gli occhi grigi dalle ombre del palchetto in legno dove il Capitano Inrving e un altro sparuto manipolo di Ufficiali stavano consultando delle carte di navigazione con grande interesse. Dietro alla schiena curva del bonario Henry si apriva l’ingresso al cortile della fortezza, ancora tragicamente deserto.

“Da nessuna parte, signore” rispose prontamente James, sudando freddo in gran segreto e parando, al contempo, l’ennesimo affondo del ragazzino di fronte a lui senza troppe difficoltà. “Non ho interesse che per il mio avversario.”

“A vedervi ora, non sembrerebbe” commentò di rimando la voce, il cui tono severo non si ammorbidì di una virgola. “Più vi guardo muovervi, più sono convinto di aver fatto bene a scegliere di non portarvi con me nella prossima missione.”

Oh, non vedo l’ora di chiederti conto del debito che hai nei mei confronti, cara signorina Byrne.

James ovviamente non rispose alla provocazione dell’uomo che, da almeno tre ore a quella parte, si aggirava per tutto il cortile a passo lento, le braccia elegantemente incrociate dietro la schiena e una maschera dall’espressione indecifrabile indossata sopra il solito viso dai lineamenti aristocratici. Non era stato un caso, difatti, se il tenente Chapman era riuscito nel miracolo: l’Ammiraglio Worthington era sì l’uomo più impegnato della città, ma il suo protetto ben conosceva l’inclinazione di Arthur nel voler seguire personalmente l’addestramento dei suoi uomini e – partenza o non partenza – quell'allenamento mattutino non faceva alcuna eccezione; così, l’Implacabile aveva trascorso il tempo a gironzolare attorno ai contendenti armati di spada e si fermava presso di loro di tanto in tanto, osservandone i movimenti con due iridi risplendenti di ferma concentrazione.

Il piano, quindi, era una trappola tanto semplice quanto sciocca, poiché prevedeva di far incontrare la Duchessina di Lynwood e il Generale proprio lì all’aperto, un luogo lontano dagli uffici, dai colloqui e dalle innumerevoli carte che attendevano giornalmente Arthur. Certo, si trovò a considerare James, sempre se un certo qualcuno avrebbe portato a compimento la sua parte di piano che, a ben vedere, era straordinariamente più elementare di quella toccata in sorte a lui.

Insomma, non si credesse che fosse stata una passeggiata di piacere strappare Worthington ai suoi impegni di Alto Ufficiale e, men che meno, trattenerlo sotto il sole cocente con la sola scusa di sovrintendere alle esercitazioni di un branco di giovani ben al di sotto del suo grado!

Il tempo di trovare una sorta di soddisfatta consolazione in quel ragionamento e, al contempo, di sbaragliare con successo le difese del suo avversario con un noncurante colpo di lama, che i suoi nervi già abbastanza tesi ebbero da patire un altro attacco a sorpresa; quest’ultimo non provenne dall’adolescente davanti a lui, ormai sconfitto e disarmato, ma bensì dall’Ammiraglio stesso: ben lontano da concedere parole di apprezzamento per la vittoria di James, Arthur aveva già distolto gli occhi verdi da quest’ultimo e aveva fatto per voltare la sua imponente figura vestita d'oro con la solita agilità brusca, sulle labbra sottili le parole che piombarono sul povero tenente come una vera condanna a morte.

“Troppo lento, tenente” gli sillabò il Generale Implacabile, con una distante noncuranza a cui comunque Chapman poteva dirsi abituato perché, ovviamente, fu il commento che ne seguì a turbarlo per davvero. “Io torno nel mio Ufficio. Il tempo delle esercitazioni è finito.”

L'immagine del visino candido e deluso di Keeran folgorò sul posto il suddetto diciannovenne che, preso del tutto in contropiede, ebbe solo la forza di esclamare un allarmato: “Ma, signore!”.

“Non ho altro da aggiungere” fu la risposta monocorde di Worthington. Ignaro dell'agitazione del giovane James, l’uomo alzò appena il mento e fece un cenno vago con la testa bruna, congedando con due parole in croce anche gli impassibili comandanti che insieme a lui avevano sovrinteso agli allenamenti. “Che ognuno torni ai propri doveri, signori.”

“Avete sentito l’Ammiraglio!” abbaiarono subito in risposta gli Alti Ufficiali, disperdendosi verso l’interno del cortile e fra le ordinate file di giovani. “Soldati, rinfoderate le vostre spade! Immantinente!”

Il borbottio d’assenso della folla si perse nel batticuore assordante che picchiava forte nelle orecchie di un tenente Chapman ancora con la sua arma levata, la mano pallida e tremante stretta attorno all’elsa di quest’ultima; nei suoi occhi grigio chiaro, si specchiavano le spalle larghe di un Generale Implacabile intento ad allontanarsi da lui. Di nuovo, l’orribile sentimento di impotenza con cui era cresciuto si affacciò alle porte della sua anima, quasi esso fosse un sorridente ospite indesiderato e inatteso.

“…l’ultimogenito che ha la spina dorsale di una femminuccia! Non è vero, James?”

Ancora, i meravigliosi occhi neri di Keeran Byrne evadevano il suo sguardo, colmi di delusione, lucidi d’amarezza.

Ecco ciò che accade, quando qualcuno decide di riporre la sua fiducia in te. Per questo, non hai mai avuto amici.

Eppure, in quell’istante cruciale, il ragazzo comprese una verità che lo lasciò completamente senza fiato e, fra le altre cose, gli diede la forza di agire in un modo che fino a qualche mese prima avrebbe giudicato una vera follia: tra le crudeli ombre del suo senso di inferiorità, James capì che l’idea di rendere triste Keeran era diventata per lui inaccettabile, malgrado l’avesse già fatto volontariamente in passato; e tanto lo pensò con forza, che opporsi al Generale Implacabile non parve poi così tremendo.

Doveva prendere tempo. Ma come?

“Io…” iniziò allora il tenente, il tono di voce stridulo e le gambe tremolanti a causa della stessa paura che avrebbe avuto un prigioniero diretto al patibolo. “Io intendo protestare!”

Quel grido riecheggiò forte all’interno del cortile di pietra ed ebbe l’effetto di farlo sprofondare dentro un agghiacciante silenzio colmo di sorpresa.

Chiudendo per un breve attimo gli occhi, lo sconsiderato Chapman raccolse ogni sua forza interiore e osò parlare di nuovo, a voce forte e chiara. “Non sono d’accordo con il vostro giudizio e ve ne chiedo conto, signore. Intendo sfidarvi qui e adesso, Generale Implacabile!”

In un battito di ciglia, tutti i presenti trattennero a giusta ragione il fiato e un centinaio di teste si voltarono all’unisono in direzione dell’uomo a cui era stata fatta quella coraggiosa dichiarazione di intenti. Persino Henry Inrving e gli Ufficiali riuniti sotto il porticato si raddrizzarono di colpo, forse colti dal dubbio di aver compreso male le parole di un James Chapman che stava letteralmente facendo i capricci con il demonio.

Un altro secondo muto congelò i presenti e l’Ammiraglio Worthington si voltò lentamente, lasciando a James la possibilità di cogliere un sorriso disumano allargarsi su un viso abbronzato, incorniciato da onde di capelli castano scuro. “Guarda, guarda cantilenò Arthur, la cui espressione pericolosa non si sapeva se comunicava più rabbia o divertimento. Noncurante dei brividi del suo tenente, l’uomo scostò poi con un gesto leggero della mano un lembo della sua giacca blu e posò le dita sull’elsa d’argento della sua inseparabile spada. “La sfrontatezza di questo ragazzino ingrato” continuò, abbandonando il tono formale ma assumendo un’aria di glaciale ironia che avrebbe fatto scappare a gambe levate più di un fanciullo.

“Co-come rispondete, Ammiraglio?” chiese James, tenendo i piedi puntati a terra e i nervi ben saldi, seppur si sentisse come se la morte o – peggio – il licenziamento fosse questione di minuti.

Arthur si volse del tutto verso di lui, tanto imponente quanto spaventoso. Sul suo volto virile, gli occhi chiari brillavano di un sentimento inusuale e, malgrado incutesse la solita soggezione, James realizzò che, per assurdo, Worthington era in verità di buon umore. “Accordato” disse poi l’uomo, sfilandosi la giacca elegante e lasciandola tra le mani di un zelante soldato accorso a prenderla. “Ti darò una vera lezione oggi, caro James.

“Non era mia intenzione ammutolirvi, caro James.”

Ovviamente, il riferimento alle parole usate mesi prima dalla Duchessina di Lynwood nei confronti di Chapman e alle lezioni private che quest’ultimo le aveva impartito in gran segreto era tutto meno che casuale. Un brivido traditore corse lungo il corpo del povero cucciolo adottato da Arthur ed egli assunse istintivamente una posizione di difesa, pronto a ricevere il colpo di un Worthington ancora tranquillamente intento ad arrotolarsi le maniche della camicia sulle braccia muscolose; infine, l’Ammiraglio sfoderò la sua spada con un gesto elegante, fluido, e piegò il braccio sinistro dietro l’ampia schiena, offrendo un vantaggio al suo impaurito avversario.

“Attaccatemi, dunque” disse poi con una calma che non s’addiceva per niente al feroce ghigno stampato sui suoi lineamenti aristocratici.

E James attaccò. Al contrario di quanto fatto durante le ore d’allenamento, il ragazzo considerò quel suo duello con l’Implacabile alla stessa stregua di un combattimento reale e, in meno di un battito di ciglia, il suo braccio saettò in avanti, la lama scintillante della sua spada pronta a ferire il cuore dell’avversario. Il cortile intero ammirò in silenzio la velocità letale per cui il tenente era in effetti conosciuto ma, d’altra parte, ognuno sapeva che contro Worthington non ci poteva essere paragone di sorta.

L’arma di Chapman stridette contro il metallo di quella di Arthur, scontrandosi con essa e quasi rimbalzando indietro a causa della fermezza incrollabile con cui quest’ultimo teneva presa sull'elsa argentata. Fu il momento in cui James temette un contrattacco a cui non avrebbe potuto opporsi, visto che poteva dire di non aver nemmeno visto l’Ammiraglio muoversi per difendersi dal suo affondo precedente; gli occhi verdi di Worthington, poi, lo fissavano da sopra il filo di lama con la determinazione di un uomo pronto a uccidere.

Sono spacciato, non è vero?

“Fa-fatevi forza, tenente Chapman!”

La voce timorosa e altrettanto angelica che aveva urlato quelle parole piombò addosso ai presenti e a un James sull’orlo del crepacuore con la stessa violenza inaspettata che avrebbero avuto gli spari di un intero plotone d’esecuzione. Si voltarono tutti, nessuno escluso, in direzione della donna che era coraggiosamente intervenuta solo per dare il suo sostegno morale al giovane Ufficiale e, indubbiamente, fu grande l’invidia che i ragazzi d’arme provarono non appena riconobbero la figura paffuta di Keeran Byrne: la diciassettenne se ne stava ritta in piedi sotto il porticato d’ingresso, le graziose mani bianche ancora alzate davanti alle labbra schiuse e un’aria preoccupata stampata sopra un viso timido che, secondo dopo secondo, si stava facendo tragicamente più rosso; al suo fianco, il Capitano Inrving la guardava con una qual certo intenerito orgoglio, mentre una esterrefatta Saffie di Lynwood aveva posato gli occhi luminosi non sulla sua serva, ma bensì sullo statuario e impassibile marito.

Un mormorio deluso serpeggiò fra gli ammiratori dell’irlandese e il famoso Principe arrogante abbassò la spada di botto, sollevato di essere riuscito a portar a compimento il piano, ma totalmente sconfitto dai fastidiosi sentimenti provocati dalla comparsa di Keeran.

La prima amica e la sola che desidero, malgrado io sia un nobile viziato che sa solo uccidere. Nient’altro.

“James.”

Sentendosi chiamare per nome dal Generale Implacabile, il diciannovenne si voltò di scatto, nelle iridi grigie un baleno di fugace timore: come aveva potuto essere così idiota da dimenticare la sua sfida con Worthington?

Eppure, avvenne l’impensabile. James alzò lo sguardo sperduto su Arthur, me ebbe la sorpresa di vederlo scuotere la ribelle testa bruna con una strana noncuranza e portarsi una mano grande davanti agli occhi turbati, forse per nascondergli il leggero rossore che stava facendo capolino sul suo volto. “Per oggi chiudiamola qui” disse l’Ammiraglio, il tono insolito di una persona che non sapeva bene che fare. “Ti concederò una vera sfida una volta tornato a Kingston. Nel frattempo, vedi di allenarti come si deve.”

Detto questo, si voltò in direzione del porticato e la sua espressione fredda si intenerì in un attimo nel vedere la sagoma minuta della moglie concedergli un piccolo inchino da lontano, infine sorridendogli piena di emozione.

E a James non parve più il terribile Implacabile, ma l’uomo fragile e gentile che era stato gettato sul fondo dell’abisso.


§


Senza capirci un bel nulla, la Duchessina di Lynwood studiò a occhi spalancati la complessità delle mappe che Inrving e gli altri Ufficiali avevano spiegato sopra il tavolo in mogano; non che l’intento fosse quello di comprenderle per davvero, ovviamente, ma ciò risultava ben più difficile se ci si metteva in mezzo l’indomabile vortice di emozioni che la ragazza sentiva imperversare dentro di sé. Un bizzarro miscuglio di ansia e aspettativa che le faceva venire la paradossale voglia di fuggire via, malgrado il suo più grande desiderio era quello di aspettare che Arthur venisse da lei.

Fra le altre cose, Saffie non sapeva bene se essere in collera con Keeran oppure farle i più sentiti complimenti, per averla così abilmente attirata fino a Rockfort con la scusa di una gita di piacere a sorpresa! Da un lato, c’era da essere orgogliosi della fiducia che l’irlandese aveva maturato nei confronti di sé stessa e degli altri (insomma, aveva anche trovato il coraggio di sostenere il tenente Chapman a gran voce come una Lady medievale avrebbe fatto nei confronti del suo cavaliere), ma dall’altro la ragazza castana si dava della sciocca per aver lasciato alla sua serva diciasettenne la briga di far incontrare lei e Worthington.

Ora la moglie del Generale Implacabile si trovava lì, sola sotto il porticato e in agitata attesa, visto che la signorina Byrne aveva deciso di approfittare del suo giorno di libertà per sparire in cerca di chissà chi e lo stesso Capitano Henry aveva preso congedo, trascinandosi dietro i suoi sottoposti con l’aria di uno che la sapeva lunga.

Insomma, in tutto questo, la Duchessina di Lynwood continuava a sentire di starsi comportando come una ragazzina alle prese con i primi corteggiamenti e si maledì, chiedendosi dove fosse finita la pacata Saffie che piaceva tanto ad Amandine.

“Dobbiamo parlare, Saffie.”

Il suo cuore saltò un battito, ma ella fu fin troppo brava a nasconderlo, impegnata com’era a seguire una misteriosa linea d’inchiostro con il piccolo indice. Il suo dito seguì il tracciato della rotta attraverso coste e mari mai visti, allontanandosi progressivamente da Kingston e andando incontro al luogo in cui probabilmente era prevista la battaglia a cui suo marito avrebbe preso parte, rischiando di non far più ritorno.

Non te ne andare. Lasciami scoprire chi sei davvero.

Un’ombra oscurò il suo viso nello stesso momento in cui nel campo visivo di Saffie apparvero due mani grandi, i cui palmi premuti contro le carte dalla mappa ne celavano i segreti. L'indice della signora Worthington sfiorò appena la ruvidezza di quelle dita lunghe, prima che quest’ultima alzasse il visetto sorpreso e i suoi occhi spalancati si incrociassero con la lucentezza di due iridi tanto profonde da affogarci dentro.

“Non troverete nessun incredibile tesoro su queste mappe” le mormorò Arthur con gentilezza, il tono leggermente divertito. “O state forse cercando di scoprire dove sono diretto?”

Dopo aver dato qualche sbrigativo ordine ai suoi comandanti, l’Ammiraglio l’aveva raggiunta presso il tavolo e ora la guardava con interesse, la figura alta controluce e un sorriso affascinante stampato sul volto sempre serio; così, cercando di ignorare il battito del suo cuore stravolto, Saffie abbassò inconsciamente lo sguardo sul petto del marito e ne intravide appena i muscoli fra le trasparenze della camicia bianca, il candore della cicatrice crudele emergere dai lembi di quest’ultima.

Un trauma che si poteva nascondere al mondo, ma sempre e continuamente presente.

Proprio come la morte di Amandine.

“È già molto che io abbia saputo della vostra partenza” lo provocò in risposta la ragazza, utilizzando il formale voi di cortesia che solevano usare in pubblico e, in certa misura, sentendosi una sciocca per il sorrisetto emozionato che era comparso senza permesso sul suo volto: entrambi avevano cancellato il confine inesistente di loro volontà, ma la Duchessina di Lynwood aveva – paradossalmente – più difficoltà ad approcciarsi al marito di quanto non fosse accaduto durante i loro mesi di odio reciproco.

In fondo, una volta spogliati del rancore e dei peccati che avevano unito il loro passato, Saffie e Arthur erano due estranei che ben poco conoscevano l’uno dell’altra.

“Ho persino creduto...che vi foste dimenticato della vostra promessa” continuò lei con finta noncuranza, stringendosi nelle spalle ed evadendo lo sguardo intenso di Worthington. “Mi ha sorpreso, sapervi ancora a Rockfort!”

Dall’altra parte del tavolo, il Generale Implacabile non sembrò scomporsi troppo, ma Saffie stessa non avrebbe mai potuto immaginare quanto l’uomo fosse in realtà preda di un turbamento che ancora faticava a riconoscere. Arthur osservò per un altro breve attimo il sorriso appena accennato della moglie e, senza una parola, si avvicinò alla sua figura da ragazzina innocente, facendo scivolare le dita sul bordo della scrivania; d’altronde, averla davanti dopo una settimana dalla Grande Soirée provocava in lui non solo tormento, ma anche una insopportabile fame desiderosa. “E cosa hai pensato?” le chiese infine, un sussurro roco che fece rabbrividire la Duchessina. “Cosa hai pensato, quando hai creduto che non sarei venuto da te?”

“Tu, piuttosto, non sei arrivato! Le avevi giurato che non avrebbe più dovuto aspettarti e lei ti ha creduto!”

Un velo di amarezza calò per un attimo sugli occhi di Saffie, che si diede della stupida per aver tirato fuori da chissà dove il ricordo scomodo del giorno di pioggia in cui si erano per la prima volta riconosciuti un eguale disprezzo. "Ho…ho pensato di voler continuare a sperare di poterti rivedere al più presto" decise di rispondere a bassa voce e, approfittando della penombra del porticato deserto, allungò con incertezza una mano verso il marito, accarezzando le morbidezze della sua camicia di seta. "Però, sappi, sono stata anche molto triste!" aggiunse poi, forzando una leggera risata divertita.

Arthur osservò le dita della piccola strega scivolare lente sopra il suo petto e uno strano sospiro pesante gli sfuggì dalle labbra; egli chinò poi la figura alta su quella di Saffie, portando la chioma bruna vicino al viso in fiamme di lei, l’alito caldo che s’infrangeva sulla sua pelle leggermente abbronzata dal sole.

Oh, voglio farla mia a tutti costi, questa luce che posso solo intravedere dal fondo dell’abisso.

"Scusami" soffiò sul suo orecchio, e lo fece con un tono tanto incerto che alla Duchessina quasi non sembrò di riconoscere il distaccato Worthington di sempre. "È tutto così… nuovo per me. Non so come dovrei comportarmi."

Le braccia dell'uomo cinsero con dolcezza la vita della Duchessina, attirandola in avanti lentamente e portando in questo modo i loro bacini a incontrarsi in un morbido contatto. “Ma non dubitare mai di ciò che ti ho detto durante la Grande Soirée” continuò ancora l’uomo, la cui voce sofferente era solo un patetico indizio di quanto in quei giorni lui si fosse odiato per non essere riuscito a raggiungere la moglie a causa dei suoi numerosi impegni di lavoro. “Il solo pensiero di te mi fa andare fuori di testa, ragazzina. Tanto che fatico a credere tu sia venuta qui per davvero.”

“Sarai la mia rovina, Saffie di Lynwood.”

Dopo un giusto secondo di violento imbarazzo – in cui la ragazza castana quasi credette di poter svenire da un momento all’altro a causa del suo cuore innamorato – l'espressione di Saffie si distese con meravigliosa grazia e gentilezza, specchio di una gioia che non era più intenzionata a nascondere. “Sono qui” asserì piano, portando una mano sul viso sbarbato dell’Ammiraglio. “Volevo vederti, Generale.”

Ora che hai il mio cuore, lasciami comprendere ogni cosa di te.

Un sorriso affascinante arricciò le labbra sottili di Arthur, che annuì appena contro le dita fredde della ragazza. Una mano grande e ruvida andò a coprire quella della signora Worthington; al contempo, due occhi verde smeraldo la fissavano con lo sguardo di un uomo ancora imprigionato da pesanti catene.

Dimentica, ti prego, l'oscura ambizione che ti ha trasformato nell’Implacabile.

Il suono di un educato colpo di tosse fulminò entrambi Arthur e Saffie sul posto, proprio nel momento in cui quest’ultima aveva creduto l’Ammiraglio stesse per chinarsi su di lei e baciarla in pubblico, mandando così al diavolo le regole d'etichetta. Chiaramente, l’Ammiraglio raddrizzò il busto e si allontanò da lei in tutta tranquillità, cosa che provocò alla Duchessina una certa invidia nei suoi confronti e una buona dose di muta collera per chi aveva pensato bene di arrivare proprio in quel momento sulla scena.

“Capitano” osservò Arthur freddamente mentre, al suo fianco, la moglie puntava il suo miglior sguardo corrucciato su un Henry Inrving dall’aria fin troppo soddisfatta.

“Perdonate l’infelice intrusione” si scusò in gran fretta l’attempato uomo, nascondendosi dietro il suo tricorno blu scuro, ma ghignando come avrebbe fatto un padre pieno d’orgoglio. “Vi ruberò solo un secondo del vostro tempo e solo per una questione di una certa importanza, ve lo posso assicurare.”

“È arrivata un’altra missiva dalle spie francesi?”

Il marito di Teresa scosse la testa imparruccata e mantenne saldo il sorriso bonario che l’aveva fatta innamorare a prima vista; dietro le sue spalle leggermente curve, il cortile andava via via svuotandosi, lasciando solo i soldati di guardia sulle alte mura. “La giornata si prospetta tranquilla ed è proprio per questo che mi sono permesso di disturbarvi, giacché vostra moglie è qui a Rockfort: io e gli altri Ufficiali pensiamo di poter alleggerire il carico sule vostre spalle almeno per qualche ora, Ammiraglio. Perché non ne approfittate per accompagnare la signora Worthington in città?”

E si girò noncurante verso una Saffie ora decisamente più in vena di elargire gratitudine, il cui sorriso sembrava andare da un orecchio all’altro. “Mi è parso di sentire foste diretta lì” ipotizzò infine Henry, con fare vago e soave. “Non è forse vero, signora?”

Anche Arthur si voltò nella sua direzione, l’indecisione di un bambino sperduto incisa sul volto di uomo di potere e, dopo avergli lanciato un’occhiata fugace, la ragazza seppe che gli sforzi di Keeran non sarebbero andati sprecati. “Avete sentito benissimo, Capitano” confermò quindi lei, facendo sfoggiò della sua proverbiale faccia tosta. “Accetterei volentieri compagnia nella mia passeggiata quotidiana! Sempre se…se a voi può andar bene.”

L’ultima parte della frase era ovviamente rivolta al marito, che Saffie guardò con due iridi luminose di speranza e aspettativa; seppure una minuscola parte della sua anima temesse di vederlo respingere la proposta con un distaccato pragmatismo a lei tristemente famigliare.

“…perché no, amica mia, penso proprio che l’Ammiraglio possa davvero rischiare di aprirsi con voi pure sul suo altro passato.”

Al contrario dei timori nutriti dalla Duchessina, Worthington parve – incredibile a dirsi – divertito dal teatrino allestito dalla ragazza e dal Capitano, di cui lui aveva comunque scoperto subito la natura di messa in scena. “E sia” acconsentì l’uomo, inchinandosi con irriverente cortesia di fronte a una Saffie di nuovo a rischio d’infarto; i suoi occhi chiari e penetranti scattarono sul visino grazioso della ragazza, ed egli aggiunse: “Muoio di curiosità, mia cara.”

Ora che posseggo il tuo cuore, lasciami vedere com’è vivere sulla superficie.


§


Kingston intera non poteva credere ai propri occhi.

Quel giorno, la cittadina più ricca e fiorente della Giamaica inglese si era levata allo spuntare del sole come accadeva da generazioni a quella parte: le donne avevano spalancato le imposte di legno delle finestre e i tepori della mattinata avevano accompagnato il sollevarsi delle prime voci sulla strada e nelle case, i vagiti dei bambini, le urla dei lavoratori. Una routine destinata a proseguire quindi senza troppi sconvolgimenti di sorta fino all’ora del tramonto e della quieta sera.

Si può dunque immaginare l’enorme sorpresa che piombò sulla testa dei cittadini impegnati nelle solite commissioni, quando videro entrare nel quartiere commerciale due figure piuttosto insospettabili: Arthur e Saffie Worthington camminavano insieme, fianco a fianco, senza curarsi delle numerose teste che si voltavano a seguire il loro passaggio; similmente alla sera del Grande ballo, marito e moglie parvero a tutti i presenti uno spettacolo innaturale da osservare, due creature strane e affascinanti, lontane anni luce dai poveri diavoli che abitavano quelle strade. Eppure, il fatto veramente incredibile non era vederli passeggiare lungo la via senza la compagnia di alcun soldato di scorta ma, piuttosto, la strana aria da fidanzatini che aleggiava attorno all’uomo e alla donna tra cui c’era stato – almeno agli occhi di Kingston – un viscerale odio reciproco.

Non poteva però esserci margine d’errore alcuno. La graziosa Duchessina di Lynwood era perfettamente riconoscibile da chiunque mentre si fermava di tanto in tanto presso le bancarelle ricche di merce tanto colorata quanto esotica, sorridendo con cortesia agli onoratissimi venditori e ponendo loro domande piene di curiosità; come non vedere poi il minaccioso Generale Implacabile che, dietro le piccole spalle della ragazza, si chinava su di lei per osservare gli oggetti esposti sui banchi con il solito contegno severo ed elegante per cui era tanto famoso.

Sconvolgente, infine, il modo in cui le iridi verdi dell’uomo tornavano sul visetto emozionato della moglie e la fissavano con l’intensità di chi sta guardando qualcosa per la prima volta.

E sembrò come se egli avesse trovato un tesoro prezioso oltre ogni dire, una ricchezza che avrebbe protetto a costo di affondare il mondo intero.

I fortunati presenti all’evento (insomma, non capitava certamente ogni giorno di vedere Worthington sorridere) non potevano sapere quanto la stessa Saffie faticasse a credere alla sua, di fortuna: era difficile pensare di stare vivendo insieme ad Arthur momenti che si presupponevano essere di tranquillità coniugale, senza dubitare che vi fosse una trappola pronta ad attenderla da qualche parte. Non a caso, anche la Duchessina di Lynwood lanciava a più riprese occhiate timide e discrete al volto virile del marito, quasi convincendosi di star camminando al fianco di un uomo che non riconosceva del tutto; una persona uscita direttamente dai giorni lontani del Northampton, il cui sguardo e le cui parole si rivolgevano a lei spogliate del rancore disperato che li aveva crudelmente uniti.

…perché ciò che la tragedia divide, l’amore è capace di unire.

Ricordare proprio in quell’istante la citazione di un libro strappalacrime letto chissà quanto tempo prima, provocò in Saffie un rossore sì vergognoso, ma pure sintomo del sentimento caldo che si impossessò del suo cuore all’improvviso. Gli occhi scuri della ragazza saettarono ancora verso l’alto, sopra un Worthington impegnato a scambiare qualche fredda parola con lo spaventato venditore di fronte a loro.

Ti arrabbieresti, se adesso ti dicessi che ti amo?

“Oddio, sono una donna così stupida!” pensò di getto la Duchessina, sgridando sé stessa e al contempo portandosi entrambe le mani sulle gote brucianti di imbarazzo, girandosi dall’altra parte, così da nascondere la sua espressione ebete a un Ammiraglio che – parola di Saffie – era fin troppo bello da guardare senza rischiare scandalose conseguenze. Alla fine del carosello, considerò lei, era diventata esattamente come le donne che durante la Grande Soirée si erano lasciate andare a un concertino di sospiri appassionati ogni qual volta Arthur si trovava a passar loro davanti!

“Dobbiamo parlare, Saffie.”

Già. Meglio inoltre sorvolare sulle opprimenti domande che premevano nella sua mente fin dal ricevimento di Lord Richard; la ragazza si era ripromessa di ringraziare il marito per aver salvato Earl dal destino a cui il Duca Alastair l’aveva condannato e, se proprio doveva essere sincera, il suo animo egoista desiderava sopra ogni altra cosa infrangere il tabù rappresentato dal Grande Diavolo, così da poter chiedere ad Arthur cosa era accaduto in passato e che ne era stato di sua madre Irina.

In cuor mio, so che forse sarebbe sbagliato forzarti a parlare di chi ti ha inferto le cicatrici che ti deturpano il corpo, rivivere in questo modo un passato che hai voluto dimenticare nell’abisso.

Le mani di Saffie scivolarono via dalle sue guance calde, distendendosi di nuovo lungo i fianchi sottili.

Ma è distruttivo e soffocante, questo mio desiderio di immergermi sempre più in profondità. Voglio scavare ancora e ancora, scoprire le tenebre e conoscere ogni cosa di te…compreso ciò che non vuoi farmi vedere.

Invece no! Durante le ore trascorse insieme alla discreta e seria compagnia dell’Ammiraglio, la ragazza castana non aveva fatto altro che parlare ad Arthur del più e del meno, come la scuola fondata dagli Inrving un anno prima e presso cui lei aveva cominciato a presenziare per qualche lettura ai bambini; non era nemmeno riuscita a gravitare attorno agli argomenti che rimanevano sospesi fra loro, quindi figurarsi affrontarli per davvero.

Paradossalmente, c'era stato pure il tempo di farsi coinvolgere in quello che doveva essere una sorta di gioco di scherma all’aperto organizzato da un manipolo di cittadini pronti a divertirsi: lei e Arthur avevano fatto in tempo a metter piede in una delle piazze più trafficate della città, che il Generale Implacabile era stato subito invitato a salire sul misero palco in legno ospitante i contendenti, mentre tutt’attorno si affaccendava una gioiosa folla in vena di scommesse.

A Saffie era inizialmente parso che il marito non intendesse partecipare a un duello contro un comune civile, ma poi la voce dell’alticcio organizzatore si era levata alta da sopra l’arena e aveva chiocciato un provocatorio: “Ma come! L’Implacabile rifiuta di battersi contro uno di questi poveri diavoli?! Dateci mostra delle doti per cui siete temuto in tutto l’Impero!”

Sudando freddo, la ragazza aveva alzato il viso di scatto su Arthur, temendo una sua possibile funesta reazione; ma l’uomo ebbe di che sorprenderla: invece di chiamare le guardie e far sgomberare folla e manifestazione, egli aveva sorriso con le sue belle labbra sottili e, parendo un predatore pronto alla strage, si era voltato verso di lei, la chioma bruna che si muoveva leggera su un’espressione di ironia conturbante.

“Aspettami qui” le aveva detto a bassa voce, facendole trattenere inconsapevolmente il fiato a causa, ancora una volta, del tono gentile con cui si era rivolto a lei. “Non ci vorrà molto. Cinque minuti, non uno di più.”

Ed era stato un uomo di parola perché, secondo Saffie, era tutto finito in meno di due. Il tempo di vederlo salire sul palchetto e inchinarsi di fronte ai due eccitati avversari – un paio di uomini di mare dagli sguardi truci – che questi ultimi avevano fatto per attaccarlo subito, sfoderando le loro rozze armi sbeccate; la ragazza aveva stretto le mani nervose sulla stoffa leggera delle sue gonne ma, ovviamente, non c’era nulla per cui essere spaventati: un secondo prima dell’attacco il profilo di Arthur rivelava una concentrazione ferma e mortale, mentre quello successivo gli uomini davanti a lui erano già a terra, disarmati e confusi. Nessuno fra la folla, Saffie compresa, poteva dire di aver visto chiaramente Worthington muoversi.

Un secondo di silenzio era piovuto sui presenti, nel quale l’Ammiraglio ne aveva approfittato per rinfoderare la sua spada argentata con un gesto di seccata insoddisfazione. Il tempo di farlo, che la folla era esplosa in un coro di applausi e urla ammirate mentre, in gran segreto, la ragazza aveva soffocato una timida risata divertita al vedere il marito inchinarsi di nuovo di fronte ai pietrificati contendenti.

“Con vostra licenza, miei signori” gli aveva sentito dire con distaccato garbo e il sorrisetto che lei era impegnata a trattenere fra le sue piccole dita era diventato più largo, sfuggente.

Non l’aveva mai compreso fino ad allora, quanto Arthur fosse in realtà amato dalle persone che aveva giurato di proteggere.

Un basso suono roco, forse uno sbuffo colmo di scetticismo, irruppe nelle suo orecchie e dietro le sue spalle, facendola tornare alla realtà in un battito di ciglia. Un odioso batticuore si fece beffe di lei in mezzo istante, ma Saffie fu bravissima a celarlo dietro l’espressione di soave tranquillità con cui si voltò in direzione dello statuario marito. “Mh?” fece, spalancando due grandi occhi perplessi su di lui. “Hai detto qualcosa, mio signore?”

La Duchessina quasi si pentì di averlo provocato utilizzando quell'appellativo, poiché lo sguardo che Arthur le puntò addosso fu tanto intenso da farle correre un violento brivido lungo tutta la spina dorsale. Infine, fu lui ad abbassare gli occhi per primo, due biglie verdi che scivolarono su un punto impreciso della strada ai loro piedi. “Mi chiedo se non sia un altro crudele scherzo del fato” le confessò incolore, ma arrossendo in maniera impercettibile. “Parlo di me e di te qui, oggi. Proprio noi, che ci siamo odiati fin dal profondo dell’anima.”

Lo avevamo giurato a noi stessi. Non sarebbe mai esistito un mondo in cui ci saremmo perdonati a vicenda.

“Non dirmi che senti la mancanza del nostro stato di guerra, Generale” commentò Saffie, cercando di parere allegra e ignara, ma tradendo in effetti un sorriso piuttosto malinconico. “Vorresti forse tornare indietro?”

Neanche il tempo di finire di dirlo, che la ragazza si sentì attirare dolcemente in avanti dalla presa della mano grande del marito, stretta attorno al suo polso con delicatezza. “Oh, mai e poi mai” scherzò sottovoce e la Duchessina si rese conto, come un fulmine a ciel sereno, che avevano cominciato a darsi del tu anche in pubblico. “Non ti ho mai vista così remissiva nei miei confronti come in queste ultime ore, ragazzina.”

“Sì, credo sia decisamente il caso io ricominci a pensar male di voi. Cosa ne dite?”

Ignorando l’adorabile sguardo di sfida della moglie, l’Ammiraglio Worthington fece scorrere le dita sulla pelle morbida di quest’ultima e ne raggiunse la linea del collo sottile, appena sopra un marchio non più visibile ma – oh se lo sapeva – ben presente. “Dico che vinceresti di nuovo la tua battaglia contro di me” mormorò, ipnotico, mentre le sue lunghe dita salivano fino ad accarezzare la guancia rossa di Saffie, sfiorandone le tenere labbra schiuse. “Ma forse, questa volta, mi arrenderei più facilmente.”

Arthur…quante persone dovrai rovinare, prima di essere soddisfatto?

No, non è così. Fammi risalire con te nella luce, dove non ti farò più del male, né ne farò agli altri.

Dopo un attimo in cui gli occhi castani della ragazza si specchiarono preoccupati in quelli pieni di tormento di Arthur, ella inclinò appena la testa sul palmo aperto dell’uomo. “Siamo…siamo in mezzo alla gente, Ammiraglio.”

Lui, per tutta risposta, ghignò di beffarda ironia. “Detto dalla scandalosa Duchessina che mi ha messo le mani addosso durante la Grande soirée.”

“È stato un incidente!” sibilò con forza una Saffie imbarazzata a livelli a dir poco catastrofici. “Lo sai che stavo per cadere!”

Arthur le lanciò un’occhiata piuttosto scettica, ma si fece indietro comunque e la ragazza ringraziò di poter di nuovo respirare liberamente. “Piccola bugiarda” commentò poi lui, in un tono che non si sapeva se era più di tenerezza o divertimento. “Dimmi, dove ti piacerebbe andare adesso?”

La signora Worthington allora gli sorrise, sfoggiando un’espressione di luminosa speranza che lo ferì dentro.


§


Era il luogo che, in sciocchi anni di fantasie passati dentro alla gabbia dorata, lei e sua sorella più avevano desiderato vedere.

Le quiete onde di un mare cristallino si infrangevano sulla distesa di sabbia bianca, riflettendo i raggi del sole e illuminando così il panorama circostante di una luce in verità accecante ma, nello stesso momento, piena di bellezza mozzafiato. La spiaggia era deserta a quell’ora del giorno e, proprio come predetto da Amandine in punto di morte, Saffie ne percorse la lunghezza quasi correndo, lasciandosi indietro Worthington e ridendo felice quando un’onda più invadente delle altre tentò di lambire la sua ricca veste dai colori vivaci; la ragazza si fece da parte con un saltello da cerbiatto e, all’ombra delle palme mosse dal vento caldo, si girò in direzione del marito, uccidendolo con i suoi bei occhi grandi e meravigliati.

La libertà tanto sognata al di là delle sbarre costruite da suo padre ora sembrava averla raggiunta per davvero.

“In tutte queste settimane, non ho mai avuto occasione di vedere la spiaggia!” esclamò la Duchessina, osservando il marito farsi tranquillamente vicino a lei con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni bianchi. “Sarei venuta prima, se avessi saputo della bellezza di questo posto!”

Arthur mostrò di stupirsi e si girò appena con il busto, i capelli castano scuro che si muovevano ribelli alla calda brezza marina. “Mi stupisce Teresa non ti ci abbia portato” fece l'uomo. “Di solito, è il pezzo forte che riserva agli ospiti in visita a Kingston.”

In effetti, Saffie ricordava vagamente il grande entusiasmo dimostrato dalla signora Inrving alla prospettiva di portare lei e Keeran a esplorare l’incantevole spiaggia del suo paese natio; di certo, considerò poi la Duchessina con una certa dose di improvvisa ansia, Teresa sarebbe diventata una furia guerriera nel saperla lì senza la sua compagnia!

“A…adesso che ci penso, potrebbe avermene fatto cenno” balbettò la ragazza, cercando di glissare sull’argomento e sulla possibile ira della donna di colore. “Parliamo di molte cose, a dire il vero. Oh! Sono rimasta stupita nel sapere che è stata lei e crescere te e il signor Rochester come se foste figli suoi!”

Fantastico. Dopo aver cercato di affrontare il discorso per ore intere, ecco che quest’ultimo veniva fuori da solo e, chiaro, nella maniera meno discreta possibile. Non a caso, Saffie realizzò di essere una stata una sciocca nel medesimo secondo in cui due iridi verde scuro scattarono su di lei, taglienti e pericolose.

“Ah, ma davvero?” chiese Arthur, la cui espressione impassibile non si adeguava proprio per niente al suo tono distante, freddo. “È solo questo che ti ha detto?”

In uno schiocco di dita, l’Ammiraglio Worthington era tornato a pararle con i tono diffidente e brusco di chi è sulla difensiva: i lineamenti aristocratici del suo bel volto si erano induriti fino a formare la maschera di brutale severità che Saffie aveva visto fin troppe volte e quest’ultima lo percepì nel vento, che l’uomo era pronto a rinchiudersi al di sotto delle acque oscure.

“…dovervi parlare anche di Hector e di ciò che egli rappresenta per vostro marito, dei peccati che l’ha costretto a commettere.”

“Sì, ma…Teresa non ha alcuna colpa. Sono stata io a voler sapere di più sulla tua famiglia” si azzardò a rispondere in un sussurro spaurito lei, accorgendosi di aver cominciato a tremare leggermente da capo a piedi.

“Perché?”

Non farlo. Non mi allontanare di nuovo, ti prego.

Nel disperato tentativo di trattenerlo con sé in superficie, la ragazza allungò entrambe le mani in avanti e raggiunse il petto del marito, scivolando con le dita sopra alla candida camicia di seta e alzando al contempo il viso preoccupato verso l’alto, sulla glaciale indifferenza dietro cui si era nascosto Arthur. “Voglio comprendere” gli disse, i palmi che premevano con delicatezza sull’invisibile cicatrice crudele. “A volte penso che tu conosca così tanto di me e del mio passato, mentre io non so nulla del tuo.”

“Chiedimi ciò che vuoi e lo esaudirò, ma non questo.”

“Pe...però, mi sei sembrato così felice quando hai parlato di Bharat e di tua madre Iri…”

“Come se la tua vergognosa madre avesse avuto molta scelta, comunque.”

“Saffie, ho detto di no!” la interruppe l’uomo, alzando la voce e facendosi indietro con uno gesto tanto rabbioso da far sussultare la figura minuta della Duchessina sul posto.

Oh, è il modo in cui “lui” ti ha cresciuto. La ferirai ancora e ancora, perché è nella tua disgustosa natura.

Di fronte agli occhi colmi di timore della moglie, l’animo dell’Ammiraglio vibrò dello stesso doloroso senso di colpa che tanto aveva fatto suo negli anni, tanto lo accompagnava ovunque andasse.

Non la meriti, Arthur. Non meriti che lei abbia scelto un uomo come te, patetico e bugiardo oltre ogni dire.

E, quando la vide abbassare lo sguardo verso terra, fu grande il terrore di averla persa di nuovo a causa della sua pietosa debolezza, del suo carattere capace di distruggere qualsiasi cosa. Così, quasi senza pensare, annullò con un passo incerto lo spazio che lo divideva da Saffie e si abbassò sul suo visetto triste, per poi superarlo e affondare la fronte nell’incavo della sua esile spalla. “Perdonami, io non…non avevo intenzione di spaventarti” soffiò sulla pelle della ragazza con quella che ella riconobbe come vera sofferenza; e le cinse la vita sottile con il braccio, quasi lei potesse svanire in un soffio di vento. “Ma non chiedermi più di mia madre. Tutto, meno che questo.”

“Un'altra sua disdicevole abitudine, Arty. Non che mi stupisca vedere la noncuranza con cui lei ti ha abbandonato fra le mie mani, una volta compreso quanto io e te siamo uguali.”

Una morsa atroce si strinse attorno al cuore della Duchessina che, dopo un secondo di muto silenzio, decise di non dire nulla e stringere il corpo imponente dell'uomo fra le sue piccole braccia; e la ragazza comprese che non esisteva Arthur più vero, più onesto, di quello che ora si lasciava andare contro di lei, facendole mostra delle fragilità che in fondo li accumunavano.

Le pareva quasi di vederlo, il ragazzino spaventato e gentile che risiedeva dentro all'abisso.

Saffie aveva già ottenuto molto da Worthington quel giorno e, probabilmente, non sarebbe stato giusto insistere sopra un argomento così pericoloso, quando il rischio era rovinare una giornata che per la Duchessina poteva essere benissimo paragonata a un sogno.

Non era la fine. Ci sarebbe stato tempo per conoscersi meglio, per guarire le reciproche cicatrici.

"Mi dispiace" fece a sua volta Saffie, il tono di voce incrinato dal rimorso, soffiando quelle parole sulle morbide onde brune del marito. "Sono stata invadente e sciocca, come sempre."

Il Generale Implacabile scosse appena la testa, in un rassegnato cenno di diniego. "Sono io che dovrei dispiacermi, continuare a chiederti scusa" commentò lui, sollevandosi e infine lasciando libero il suo incredibile sguardo smeraldino di indagare il viso perplesso della moglie. "Te l'ho detto: ti desidero in un modo che mi distrugge l'anima" le confessò, distogliendo gli occhi dal rossore acceso di lei. "Ma non posso fare a meno di pensare di averti rovinato la vita, di averti strappato un futuro in cui saresti potuta essere davvero felice."

"Pensi di poter essere felice a Kingston?”

Com'era accaduto nella penombra quieta di Rockfort, Saffie portò di nuovo una mano sulla guancia del marito e l'obbligò con gentilezza a girarsi nella sua direzione.

Arthur, tu mi hai salvata. Hai salvato Earl e ti sei dimostrato amico di Amandine che, ora lo so, avresti trattato come il più fragile dei tuoi tesori.

“No” gli disse con enorme tenerezza, una volta che l’uomo tornò a guardarla. “Non è così, Arthur: sono altri, i carnefici che hanno scritto la nostra storia, guidato gli errori per cui abbiamo già pagato. Perdoniamoci a vicenda, perché io sola ho scelto a chi dare il mio cuore.”

La spuma dell’onda avanzava sulla sabbia, per poi ritirarsi e ricominciare da capo, in una danza continua e infinita che faceva da sfondo all’uomo e alla donna fermi sulla spiaggia, le cui membra continuavano a tendersi l’uno su quelle dell’altra, a ricercarsi, a sfiorarsi anche solo per un attimo. Era un’urgenza frustrante, ma invincibile, quella che portava Saffie e Arthur a incontrarsi ancora e ancora sul confine del legame non più crudele, quasi non potessero farne a meno.

“Dio” fece l’uomo, cingendo la moglie anche con l’altro braccio e attirandola a sé mentre, inatteso, un sospiro rassegnato usciva dalle sue labbra sottili. “Parli come una donna che non sa di tenere la mia anima nel pugno della sua mano.”

Senza che me ne rendessi conto, sei diventata l’unica per cui sarei disposto ad abbandonare l’abisso.

Gli occhi luminosi della Duchessina si sgranarono dalla sorpresa e lo fissarono increduli, adorabilmente dubbiosi, mentre le sue dita fredde scivolavano via dalla sua guancia sbarbata, solo per tornare di nuovo sopra il torace tonico di Worthington, dentro cui batteva un cuore feroce.

Il passerotto che canta sull’orlo del mio buio precipizio. La mia Saffie.

E, quando parlò ancora, Arthur lo fece con una tale serietà nella voce da far trattenere il fiato alla ragazza davanti a lui: “Saffie, io ti…

“Ammiraglio Worthington! Signore!”

L’esclamazione allarmata che aveva interrotto con pessimo tempismo uno dei momenti più difficili della vita del Generale Implacabile era, ovviamente, di un giovane e rigido tenente a cui Arthur avrebbe volentieri tirato il collo. Ignaro del rischio che stava correndo la sua stessa vita, il ragazzo intento a incespicare goffamente sulla sabbia si fermò di botto alla vista della scena e, soprattutto, degli occhi pericolosi con cui l’Ammiraglio si era voltato a guardarlo, senza però far cenno di allontanarsi dalla figura tutta rossa di una Saffie di Lynwood stranamente imbambolata a fissare il vuoto.

“Si-signora Worthington!” gridò allora l’ufficiale, colto da un folgorante imbarazzo. “Vi chiedo scusa, ma se non fosse stato importante io…”

“Fai rapporto, soldato” lo interruppe Arthur, tornato al solito contegno di pietra. “E fa di modo che sia breve.”

Il tenente scattò immediatamente sull'attenti, come ovvio. "Lord Chamberlain e il Consiglio coloniale chiedono di voi con urgenza, Ammiraglio."

L'espressione di quest'ultimo non mostrò emozioni di sorta, ma i suoi occhi chiari si indurirono all'istante. "A quanto pare non ho scelta" sillabò dopo poco l’uomo, in maniera piuttosto enigmatica. "Molto bene. Verrò con voi, in questo caso."

“…e, se le divinità vorranno, eviteremo una guerra pagandola al prezzo di una sanguinosa battaglia.”

Come se le avessero battuto le mani davanti al viso, Saffie si risvegliò dal suo coma di botto e alzò lo sguardo sul volto irreprensibile di Worthington: suo marito guardava il giovane a qualche metro da loro, ma le sue iridi non lo vedevano per davvero; bensì, andavano oltre e si perdevano lontano, verso un'oscurità il cui nome era alla ragazza sconosciuto. Allora, fu straziante la preoccupazione che fulminò l'anima della povera Duchessina di Lynwood.

“Hai sempre voluto vedere la mia cicatrice, se non sbaglio. Eccola. Questa mi ha quasi ucciso.”

Prima che potesse fare alcunché, Arthur sentì il tocco tremante delle mani di Saffie aggrapparsi alla sua veste con forza e riportò subito la sua attenzione su di lei, sorpreso.

"È proprio necessario?" gli sussurrò ingenuamente la ragazza, spostando gli occhi grandi verso terra e tradendo una titubanza che non le era famigliare. "De-devi andare per forza?"

E, dopo averlo detto, si detestò immensamente, perché sapeva di starsi comportando da perfetta sciocca; come poteva pretendere che lui trascurasse i suoi doveri di Alto Ufficiale per trascorrere altro tempo insieme?

Sepolte nel suo cuore, in realtà, erano molte le parole che avrebbe voluto dire.

Resta, resta qui con me. Non partire.

"Se fai così, mi rendi più difficile allontanarmi da te" fu il commento di Arthur, detto con una malinconia che piombò pesante sulla testa castana della Duchessina.

Eppure queste parole gentili, l'anima fragile di Arthur, sono mie e mie soltanto.

L'uomo ancora non accennava a lasciarla andare, stringendola fra le braccia come una ricchezza preziosa. La sua ricchezza preziosa. Intrecciò le lunghe dita con quelle della mano sinistra di Saffie e portò il suo piccolo palmo davanti al viso abbronzato, baciandolo con una delicatezza strana, reverenziale.

"Non preoccuparti di nulla" disse, soffiando le parole sulla pelle di lei mentre, tra le dita della sua mano aperta, la ragazza intravide il bagliore dorato della fede nuziale e lo sguardo fermo, affamato, con cui le iridi chiare di Worthington la stavano fissando. "Stasera verrò alla Zuimaco. Pensi di potermi aspettare?"

Il cuore della Duchessina fece una capriola agitata e quest'ultima sfoggiò un'espressione tanto splendente, che fece venir voglia al Generale Implacabile di mandare tutto al Diavolo, di spogliarla subito e farla sua direttamente sulla spiaggia deserta.

Dirle, infine, che non desiderava più essere l'uomo di un tempo, colui che sapeva solo possedere e distruggere.

"Sì!" gli rispose Saffie, quasi ridendo con le sue belle labbra rosee. "Se...se lo vuoi, potremmo cenare insieme, visto che non l'abbiamo mai fatto in tutti questi mesi!"

Dal canto suo, la ragazza temeva Worthington rifiutasse in blocco la sua frivola proposta, ma questo non accadde: anzi, l'Ammiraglio le concesse un ultimo morbido bacio fra i capelli, prima di sciogliere il loro abbraccio e allontanarsi con stampato in faccia un ghigno di beffardo divertimento.

"Guai a te se ti addormenti, ragazzina" la avvisò, il tono di soave presa in giro, la figura alta che già si incamminava in direzione di un giovane soldato letteralmente scarlatto di vergogna.

E, per l'ennesima volta in quella lunga settimana, Saffie temette di star vivendo solamente uno dei suoi sciocchi sogni.


§


“Parli come una donna che non sa di tenere la mia anima nel pugno della sua mano.”

Arrossendo appena, l’importante moglie dell’Ammiraglio Arthur Worthington nascose bocca e naso sotto la superficie dell’acqua calda, godendosi il tepore del bagno che i domestici di casa avevano preparato per lei. La ragazza cercò di ignorare l’intorpidimento delle sue membra stanche e spostò gli occhi sulle grandi finestre della camera da letto, dove una grande luna le ammiccava misteriosa e pallida fra le imposte di legno aperte; senza distogliere lo sguardo, del tutto inconsciamente, l'importante figlia del Duca Alastair cominciò a soffiare sott’acqua e a produrre così una serie di bolle scoppiettanti che le ricordarono i tempi dell’infanzia: erano state tante le volte in cui – ignorando i richiami indignati della sua tata Kitty – soleva far divertire una piccolissima Amandine con quel giochetto da niente.

“Guai a te se ti addormenti, ragazzina.”

Le bolle cessarono all’improvviso, mentre lei si cingeva distrattamente le gambe nude con le braccia, raggomitolandosi contro la superficie liscia dell’ampia vasca. “Avevo proprio pensato che ci saremmo visti per cena” borbottò fra sé, quasi sbuffando sullo specchio d’acqua increspato da decine di petali di rosa. “Invece non si è fatto vedere. Mi chiedo se non sia il caso di andare a dormire, a questo punto!”

Come era accaduto spesso in quell’ultima mezz’ora, lo sguardo della Duchessina vagò in cerca della pendola e del suo orario, per poi abbattersi di nuovo verso il basso con muta rassegnazione. Erano le dieci e mezza passate, ormai.

Alla fine, l'unica compagnia nella serata di Saffie era stato il battere sordo e continuo del suo cuore furioso: la ragazza aveva difatti sovrinteso alla preparazione della cena come una vera e propria padrona di casa, preoccupandosi suo malgrado di dettagli e sciocchezze a cui non aveva dato mai troppo peso; infine, aveva atteso l’arrivo del marito seduta rigidamente a capotavola, mentre la luce dei candelabri accesi diventava di secondo in secondo più fioca. La sua feroce agitazione non era stata intaccata nemmeno quando era giunto un messaggero da Rockfort che, tutto trafelato e di gran fretta, l’aveva informata del ritardo con cui il marito si sarebbe presentato a cena.

“L’Ammiraglio si scusa con voi, mia signora” aveva detto il soldato, inchinandosi profondamente. “Ma l’incontro con il consiglio coloniale sta richiedendo più del previsto. Il Generale ha detto di riferirvi che verrà appena possibile, di sicuro”.

Ed era stato aggrappandosi a quelle due misere frasi, che la ragazza aveva deciso di cominciare a mangiare in silenzio, comunque turbata da un’emozione a cui si erano aggiunte la delusione per l’assenza di Arthur e – soprattutto – l’ansia dovuta alla missione sanguinaria che lo attendeva: proprio nel momento in cui sentiva di averlo ritrovato, di essersi lasciata alle spalle il male che li aveva imprigionati, ecco che la sua ambizione lo portava di nuovo lontano da lei. Non che fosse ragionevole nemmeno mettergli i bastoni fra le ruote e impedirgli di compiere il suo mestiere; la Duchessina sapeva di essere la moglie di un Alto ufficiale dell’Impero e, di conseguenza, doveva essere anche pronta a comprendere i rischi a cui Worthington poteva andare incontro. In fondo, ne aveva avuto testimonianza lei per prima, durante la traversata che l’aveva condotta a Kingston.

Le aveva viste, le orribili cicatrici inferte dal demonio che aveva creato l’abisso.

Un nero grumo di paura e dolore le si annidò dentro, al solo pensiero delle torture che l’uomo chiamato Hector aveva crudelmente inflitto al Generale Implacabile. Pensando a questo, Saffie si sporse lentamente in avanti, scivolando nella vasca come avrebbe fatto una sirena, le infinite ciocche di capelli castani che s’allungavano a pelo d’acqua. “Non desidero vederlo mettere a repentaglio la sua vita solo per inseguire un incubo passato” si disse la ragazza, aggrappandosi con le esili dita al bordo ruvido e, al contempo, ignorando il gelido presentimento che s’era fatto strada nella sua mente. “Perché quando combatte non ha alcun riguardo per sé stesso.”

“Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

Un abbondante sciabordio d’acqua, una spina dolorosa nel cuore, e Saffie di Lynwood si era già alzata in piedi alla ricerca del morbido conforto dei panni lasciati sulla cassettiera poco distante. Un abbraccio tiepido accolse il suo corpo nudo e bagnato, provocandole un leggero mugolio di stanca soddisfazione; ora, era forte la tentazione di infilarsi sotto gli strati di coperte fresche, malgrado la voglia di attendere l’arrivo dell’indaffarato marito.

“Saffie, io ti…”

L'eccitato batticuore che aveva accompagnato la Duchessina in quella lunga giornata divenne violento e insopportabile, tanto assordante da offuscare persino le sue ansie per la partenza di Arthur. L’uomo le stava per dire sul serio quelle parole, o era un’altra delle sue fantasie da donna capricciosa ed egoista?

Mi manchi, Generale.

Saffie girò appena la testa e osservò ancora il panorama degli alberi esotici immersi nella penombra dell’accecante luna piena. Una sfera di luce accecante che era la stessa della notte in cui si erano trovati per la prima volta l’uno di fronte all’altra, in piedi sul loro confine inesistente.

Vieni da me adesso, ti prego.

Al chiarore argentato della stanza, la forma di due mani grandi apparve dal nulla e la ragazza si sentì tirare con gentilezza indietro, stringere nella dolce trappola che aveva continuato ad attendere. “Ti ho presa” soffiò una voce profonda e calda, leggermente sardonica, al suo orecchio arrossato. “Sei rimasta sveglia ad aspettarmi per tutto questi tempo?”

Sì, ti ho atteso sul limitare del nostro orizzonte inesistente. O forse, come sempre, sull'orlo del tuo abisso.

Il rossore violento che folgorò il visetto di Saffie andò di pari passo con un forte spasmo di eccitata sorpresa, e lei si volse subito fra le braccia del marito, premendo dieci piccole dita fredde sul suo petto ampio. "Arthur!" esclamò in maniera patetica, cercarlo di allontanarlo senza troppa convinzione. "Sono appena uscita dalla vasca...così ti bagnerai!"

Fu come se non avesse mai parlato. Nell'oscurità, gli occhi dell'uomo risplendevano cristallini, lucidi di un desiderio inamovibile, dolce e al contempo pericoloso. Si chinò in silenzio sulla moglie, attirandola a sé e dominando su di lei con la sua alta figura statuaria; il tempo di un respiro spezzato e, similmente a quella stessa mattina, egli affondò lo scarmigliato capo bruno sulla spalla della moglie, inebriandosi del profumo gentile dei suoi capelli umidi.

"Non importa" parlò finalmente, la voce bassa e roca che s'infrangeva calda sulla pelle della Duchessina. Worthington cominciò poi a strofinare con lenta delicatezza il naso dritto contro il collo sottile di lei, seguendone la linea con il volto esausto. "Non ho fatto altro che desiderare questo per tutto il giorno."

"Grazie al Cielo siete qui, Ammiraglio! È arrivato un messaggero giusto un'ora fa e le informazioni che..."

Tu gli appartieni, Arthur.

Il Generale Implacabile fece uno sforzo disumano per reprimere sia il ricordo della vocina allarmata di Richard Chamberlain, sia il brivido di genuino terrore serpeggiato lungo la sua schiena. Inoltre, sapeva di non volere per nulla al mondo che Saffie si accorgesse di quanto lui stesse rischiando di perdere il controllo.

"Diverse navi corsare affiancheranno quelle della Marine Royale; ed è comprovato che siano tutte del Grande Diavolo. Dobbiamo anticipare la partenza, Generale, poiché potrebbe esserci l'occasione giusta per abbattere la preda più ambita."

Oh, tu sarai sempre suo e, appartenendo a lui, appartieni anche all'abisso.

Saffie nemmeno ebbe il tempo di prevederlo, il bacio violento che rapì le sue tenere labbra da ragazzina. Worthington aveva raggiunto il suo viso in un attimo, baciandola con la veemenza lussuriosa e inarrestabile che tanto la faceva impazzire; e non ci volle molto prima che l'uomo decidesse di andare più in profondità: Arthur imprigionò il mento della Duchessina fra le dita e le sollevò il viso, violando con la lingua la debole resistenza della bocca di lei, riversandone dentro una fame disperata, dolorosa.

E Saffie stessa accettò docilmente gli attacchi del marito, pure se riusciva a percepire che, rispetto a prima, c'era qualcosa di diverso in lui. Lo poteva persino sentire fisicamente, quel qualcosa che non andava; lo sentiva nella voracità con cui Worthington continuava a sconvolgere le sue labbra, attraverso il tremore delle mani forti dell’uomo, premute sulla stoffa morbida del panno come s'egli avesse paura lei potesse svanire da un secondo all'altro.

Una sanguinosa battaglia. Cicatrici crudeli.

"A-Arthur...!" mugolò piano Saffie, cercando di allontanarsi dalla bocca del marito che, implacabile, le si avvicinò di nuovo per baciarla ancora e ancora, soffocando opposizione o protesta alcuna.

Hector, il Grande Diavolo che consuma ogni cosa.

Improvvisa e delicata, una piccola mano si posò sulle labbra umide del Generale Implacabile, i cui occhi verdi si schiusero sorpresi: a qualche centimetro da lui, il visetto di sua moglie lo fissava con una bizzarra e incerta preoccupazione. "È successo qualcosa durante l'incontro con il Consiglio?"

Il silenzio della notte cadde fra loro per qualche secondo, prima che Arthur annuisse leggermente con la testa castana e dicesse, allontanando con cautela le dita di Saffie da lui. “Devo partire domani mattina.”

“Domani…mattina?” ripeté la ragazza, lanciandogli uno sguardo smarrito, al contempo sentendosi come se il suo cuore fosse precipitato direttamente sul fondo dello stomaco perché, al di là della sua delusione, sapeva che il marito non le avrebbe detto a cosa esattamente stava andando incontro. “Ma perché?”

Possedeva la sua anima, ma era ancora tragicamente lontano l’oscuro fondale.

Un brivido freddo la colse nell’esatto momento in cui sentì le mani di Arthur sciogliere il nodo del panno che l’avvolgeva e lasciarlo poi scivolare lungo le forme del suo corpo, infine guardarlo cadere a terra con un’espressione di indifferenza stampata sul volto serio. “Perché è il mio dovere, il compito che sono chiamato a svolgere” asserì piano, abbassandosi di nuovo su di lei e chiudendo con quella sterile spiegazione bugiarda l’argomento, visto che la sua bocca da demonio aveva ricominciato ad aggredirla crudelmente, marchiandole luoghi prima nascosti e irraggiungibili; un percorso bruciante di piacere che confondeva i sensi e distruggeva le intenzioni, riducendo Saffie – oh, se ne era consapevole – a una vittima in trepidante attesa del colpo di grazia.

Un sospiro desideroso le sfuggì dalle labbra e lei fece almeno il patetico tentativo di insistere, malgrado i suoi occhi liquidi d’eccitazione seguissero ogni minimo gesto dell’uomo come se ella ne fosse stata totalmente ipnotizzata. “Sta-stai mentendo” riuscì a dire, la voce spezzata a causa del tocco ruvido che premeva sui suoi piccoli seni, sconfitta infine dalla determinazione di due calde mani affamate di possesso. “Non è solo questo.”

Per quanto volesse sapere, conoscerlo, era troppo forte la volontà di essere divorata da lui.

“Sì, sto mentendo” sussurrò l’alito caldo di Arthur sulla sua pelle vibrante di brividi, ora tutt’altro che freddi. Le dita dell’Ammiraglio accarezzarono con ferma dolcezza i capezzoli della moglie e, apparentemente ignaro del gemito che strappatole, la sua lingua leccò per un’ultima volta l’incavo del suo collo sottile, prima che aggiungesse: “Ma, proposito di bugiardi, come mi hai chiamato oggi, Duchessina?”

Se non fosse stato per il suo tono così meravigliosamente pericoloso, Saffie si sarebbe chiesta il significato della domanda di Worthington ma, con la stessa velocità e violenza di un fulmine, egli l’aveva già spinta sul letto a qualche passo di distanza, imprigionata fra le lenzuola fresche di bucato. Sorpresa e con il cuore in tumulto, la ragazza alzò gli occhi grandi sulla figura che incombeva su di lei, tentatrice e minacciosa; vide il Generale Implacabile puntellarsi languidamente con un ginocchio sul materasso e fare per slacciarsi il costoso fazzoletto di seta con una naturalezza elegante che fece pensare a Saffie di essere perduta per sempre.

Mio signore, è esatto?” le chiese, alla fine, sorridendo brutale. “Oh, non ho fatto che pensare ad altro.”

E si allungò sopra al suo minuto corpo da passerotto tremante, adombrandolo e divertendosi nel vedere il visetto ovale della moglie diventare scarlatto nel giro di un istante. “Dimmelo di nuovo” le ordinò soave e malvagio come lo era stato durante la loro prima notte di nozze, mentre chinava la testa bruna per lambire con la bocca sorridente il seno indifeso di Saffie. “Dimmelo, che sono il tuo signore.”

Dimmi che sono tuo e solo tuo. Dimmi che aspetterai il mio ritorno disperandoti e pensando solo a me.

La ragazza annegò nel tono di serpente del Generale Implacabile e si portò il dorso della mano sugli occhi, dominando con scarso successo non solo i suoi ansiti, ma pure il suo stesso orgoglio di aristocratica ormai in pezzi. “…mio signore” disse con grande vergogna e, dal basso, due profondi occhi verdi scattarono su di lei, attenti; poi, nel silenzio caldo e colmo di desiderio, furono le dita di Saffie a intrecciarsi con le ciocche ribelli dei capelli di Worthington. “Io sono tua e tua soltanto.”

Un uomo scorretto, ricordava di averglielo detto.

Il volto virile dell’uomo si aprì in un’espressione di enorme soddisfazione lussuriosa, perché il suo era un carattere terribile per davvero. Eppure, quando egli sollevò l’ampia schiena per avvicinarsi alla Duchessina e guardarla negli occhi, divenne di grande malinconia lo sguardo che le dedicò. “E io ti apparterrò per sempre” le disse a sua volta, specchiandosi nel candore della sua innocente sorpresa. “Abbiamo solo stanotte, Saffie.”

Pure se continuo a credere che non potrai avere alcuna libertà, né una vera vita felice, finché questa patetica imitazione di uomo non riuscirà ad aggiustare sé stesso.

Una mano grande e ruvida raggiunse la guancia di Saffie, accarezzandone il labbro inferiore con il pollice, mentre quest’ultima restituiva uno sguardo di triste sofferenza. “Non andare via” confessò finalmente la ragazza, aggrappandosi al braccio muscoloso del marito con le dita. “Resta anche domani. Resta con me.”

Durò un secondo, l’indicibile tormento che deformò i lineamenti di un Worthington che, no, nemmeno in quel frangente sentì di potersi concedere il lusso di lasciarsi il passato e il dannato Grande Diavolo alle spalle. Entrambi, in fondo, avevano un enorme debito di sangue nei suoi confronti.

Non posso” mormorò allora l’uomo, appoggiandosi con la fronte a quella della ragazza. “Ho fatto giuramento di proteggere l’Impero, ma anche se così non fosse…non posso rimanere, Saffie.”

Dal canto suo, la figlia di Alastair Lynwood trattenne le lacrime di fronte alla sensazione che il fato si continuasse a prendere gioco di lei e di Arthur poiché, proprio come il modo dell’onda, entrambi continuavano ad avvicinarsi per poi scappare via. Esserne consapevole era un peso doloroso sul cuore, ma l’anima di Saffie non era fatta per arrendersi, né per lasciare che quella da ragazzino fragile di Worthington morisse sola e oscura nell’abisso; così, si forzò di sorridere al marito e allargò le esili braccia verso l’alto, pronta ad accogliere tutta la sua disperazione.

Un angelo caduto nella neve, e lì abbandonato.

“Allora non chiederò altro se non annegare insieme a te, Ammiraglio” gli disse con la solita aria adorabile e divertita, squarciando le tenebre del precipizio con la sua luce gentile.

In questo modo tremendo, sofferto e al contempo tanto dolce da sembrare un sogno, i due si amarono nella penombra della notte stellata. Momenti di sospiri infranti su labbra appassionate, di tocchi leggeri che scivolavano sopra cicatrici atroci e muscoli provati dalla fatica; attimi di un desiderio mai sazio, costituito di mani intrecciate su lenzuola in disordine, di corpi che si appartenevano l’un l’altro con straziante e intensa disperazione, quasi vi fosse l’urgenza di diventare una cosa sola.


§


Era un’alba appena sorta, fresca, ma piena di luce.

Sola sul grande letto a baldacchino, Saffie Worthington aprì pigramente i grandi occhi castani e realizzò di essere sdraiata su un fianco e nuda, il corpo minuto indifeso fra le lunghe onde di capelli arruffati, sparsi ovunque intorno a lei. Davanti al suo sguardo assonnato, si apriva il solito panorama paradisiaco della mattina precedente e di quella ancora prima, con tanto di verdi palme da cocco che le ammiccavano oltre i vetri della finestra.

Il giorno dell’ “addio” era infine arrivato.

Il busto della ragazza si raddrizzò con un veloce scatto ansioso ed ella si mise seduta sul materasso, sgranando le sue iridi spaventate sul vuoto della stanza, in cerca dell’uomo che non c’era più. Fu solo il silenzio della camera e il canto gioioso dei pappagalli nel parco ad accoglierla; un consueto saluto mattutino a cui lei poteva dirsi abituata, ma che adesso rendeva reale – insopportabile – l’assenza di Arthur e, di conseguenza, l’idea di dover stare separata da lui tanto a lungo.

“Saffie, io ti…”

Il viso della Duchessina si trasformò in una smorfia di amara malinconia, mentre un sorriso stanco le stiracchiò le labbra debolmente all’insù. “Alla fine, non sei riuscito a dirmelo” pensò, spostando il capo in direzione del materasso vuoto e sentendosi precipitare dentro alla voragine del suo cuore spezzato. “Ma io stessa ho taciuto troppo di quello che avrei voluto dirti.”

E stava giusto per concedersi un rassegnato sospiro da povera anima in pena, forse addirittura ritornare a nascondersi sotto le coperte che aveva condiviso con un Generale Implacabile affamato oltre ogni dire, che la vista di un misero biglietto di pergamena abbandonato sul mobile vicino al letto attirò la sua attenzione. Facendosi avanti a fatica, Saffie si sporse verso la missiva e allungò un braccio, stringendosi al contempo le lenzuola bianche al petto; non l’avrebbe mai voluto ammettere nemmeno con sé stessa, ma si odiò immensamente per lo spasmo eccitato che la colse nel riconoscere la scrittura elegante di Worthington.

Insomma, si schernì indirettamente, la maggior parte delle ricche donne sposate non avrebbe mai tenuto il suo infantile e lacrimoso comportamento ma, anzi, avrebbe gioito della lontananza del marito, quando essa poteva significare una maggiore libertà decisionale in qualsiasi aspetto della propria vita, feste e amanti inclusi!

Ridacchiando sommessamente del suo stesso ridicolo pensiero, la Duchessina cercava in una qualche maniera di distrarsi dal suo stesso umore sotto i tacchi e, nel frattempo, dominare il senso d’aspettativa creato dal biglietto di Arthur, che ora stringeva con forza fra le dita. I suoi occhi si abbassarono sulle righe fresche d’inchiostro redatte dal Generale e, in un battito di ciglia, la sua anima venne stravolta da ciò che vi lesse:

“Piccola strega. Mai, nel resto degli anni a venire, potrò dimenticare la giornata di ieri, né la tua bellezza di stanotte.”

Il foglio strappato su cui Arthur aveva trovato il coraggio di scrivere quella singola frase cominciò a tremare leggermente davanti agli occhi appannati della ragazza, ed ella si portò le dita sulle labbra schiuse, quasi volesse arginare tutta la sofferenza che stava per traboccare fuori. “Dopo averti odiato e ferito con le mie stesse crudeli parole, ora tu…”

Nemmeno io sono riuscita a dirtelo.

Un rumore dabbasso irruppe nella mente confusa della Duchessina, seppure fu ben riconoscibile il suono scricchiolante della porta d’ingresso che veniva aperta e delle voci che ne seguirono, entrate nell’ampio salone di casa come un piccolo scoppio di polvere da sparo. Era il tono pomposo e professionale dei comandanti dell’Ammiraglio Worthington, quello riconosciuto da una Saffie già scesa con un balzo giù dal lussuoso letto a baldacchino.

La Duchessina di Lynwood si infilò di tutta fretta la sua veste da camera e ne abbottonò i lacci alla meno peggio, tanta era la sua premura di raggiungere le scale che davano al piano inferiore. Una volta uscita fuori dalla stanza, la penombra del corridoio deserto avvolse la sua piccola corsa e lei raggiunse i primi gradini di marmo, cominciando a discenderli senza far caso ai capelli castani che ballavano intorno a lei o, soprattutto, alla faccia sbigottita con cui gli Ufficiali riuniti nell’ingresso la stavano guardando arrivare.

I suoi occhi erano solo per l’imponente uomo girato di spalle, che si voltò in tempo per vedersi una piccola freccia vestita di rosa piombargli fra le braccia.

“Saffie!”

L'interpellata alzò il viso rosso per lo sforzo e l’imbarazzo, incatenando lo sguardo con gli occhi sorpresi di Arthur Worthington. “Io…sarò qui ad aspettarti quando tornerai” gli disse solo, sorridendo incerta fra le lacrime.

Allora l’uomo l’attirò a sé con forza, contro le bordature dorate della sua altolocata divisa blu, abbracciandola come se non volesse più lasciarla andare. “Tornerò. Te lo prometto.”

“Mi arrabbierò moltissimo se non lo farai.”

Un’ultima bassa risata divertita dell’uomo sancì lo scadere del loro tempo insieme.

“Ci conto, Duchessina.”

Furono le ultime parole che le disse, prima di voltarsi e incamminarsi verso l’uscita con i suoi sottoposti, parendo a Saffie per la prima volta irraggiungibile e lontano, proprio come lo vedevano tutti gli altri. I domestici chiusero le massicce porte della Zuimaco e un rumore sordo rimbombò nell’androne in cui lei era rimasta sola.

No, non sono riuscita a dirtelo.

Anche io ti amo, Arthur.


§


Al di là delle floride coste giamaicane, dietro alla linea dell’orizzonte visibile e oltre lo stesso conosciuto, diversi atolli paradisiaci costellavano l’oceano, conducendo un’esistenza pacifica ancora per pochi anni nascosta al controllo delle potenze commerciali, fossero quest’ultime appartenenti ai governi del Vecchio Mondo come la Compagnia delle Indie oppure flotte di vascelli mercantili comandate da ricchissimi privati.

Si parlava in effetti di vere e proprie oasi sorte in mezzo all’acqua turchese, che – in alcuni casi – potevano coprire aree vaste centinaia di chilometri e offrire un rifugio a chi avesse necessitato non solo di sparire per un po’ dall’affaccendarsi del mondo civile, ma pure dalle leggi che lo regolamentavano.

Isole tanto misteriose quanto ambite, attorno le quali nascevano leggende di diversa natura, destinate a serpeggiare e diffondersi fra le strade delle colonie americane così come nei palazzi delle antiche monarchie affamate di conquista: erano storie terribili, quelle che passavano di bocca in bocca da generazioni, poiché narravano di feroci tribù cannibali e di fuorilegge bramosi di sangue, di morte; eppure, vi era anche chi parlava di enormi ricchezze sepolte sotto la sabbia, monete d’oro e trofei sottratti a seguito di epiche battaglie mortali combattute contro i bastardi della Royal Navy britannica, della Real Armada spagnola e della Marine Royale francese. La maggior parte di queste narrazioni non era altro che un ammasso di improbabili fandonie atto a spaventare i bambini e impressionare i fanciulli, costringendo i primi ad andarsene a letto presto e spingendo i secondi a lasciarsi alle spalle una vita di indigenza per false promesse di benessere e lusso, donne e gloria, mentre la realtà era ben più crudele di quanto raccontato; una volta imbarcati su una nave battente bandiera pirata, gli ignari giovani sperimentavano sulla propria pelle stenti e malattie, senza contare l’opprimente caccia delle autorità militari e corsare che solitamente culminava con la famosa caduta sorda.

Malgrado la verità fosse dunque ben lontana dalle storie di trionfante libertinaggio, ciò non stava a significare che esse fossero del tutto false.

I pesanti stivali di cuoio affondati nella sabbia candida della spiaggia, l’uomo dai lunghi capelli neri non sembrava curarsi affatto di tutte queste cose e di quanto rischiasse a trovarsi lì ma, al contrario, continuò a tenere gli occhi chiusi al di sotto delle palpebre, le orecchie tese ad afferrare qualsiasi mutazione del vento salmastro. Onde d'inchiostro scuro si infrangevano rabbiose sopra il suo viso abbronzato e affascinante, sebbene scavato da qualche sporadica ruga; ed egli decise di non farci troppo caso, a quella sua fastidiosa chioma impazzita, perché rimase immobile e in piedi ad ascoltare ciò che l’abisso aveva da dire.

Sì, la brezza si era fatta indubbiamente più fredda nelle ultime ore, tagliente e affilata come una lama di rasoio.

Quanta calma, quanta pace, c’è stata fino ad ora.

Lo sguardo ancora nascosto nel buio, l’uomo si concesse un respiro a pieni polmoni, profondo e liberatorio: l’isola verdeggiante che aveva scelto come rifugio prediletto era stata una scoperta dettata dal caso, ma infine rivelatasi una vera manna dal cielo, piena zeppa di risorse preziose e grotte dagli anfratti angusti; un luogo ideale sia per depositare i suoi bottini che per un eventuale scontro con ospiti indesiderati. Certo, prima di prendere possesso dell’atollo era stato necessario compiere dei sacrifici, una giusta e doverosa pulizia; ma, d’altro canto, lui non era mai stato abituato a condividere nulla con nessuno da quando era venuto al mondo, figurarsi quindi un’isola con un branco di selvaggi inconsapevoli della propria fortuna.

“Troppa calma” considerò fra sé il Grande Diavolo, schiudendo pigramente le palpebre e osservando così il vasto oceano con stampata in faccia una leggera smorfia di disgusto. “Troppa pace.”

La brezza aveva portato fino a lui un odore acre e pungente, di nauseabondo sangue rappreso. Un peccato che quell’olezzo gli avesse fatto tornare alla mente i disdicevoli avvenimenti di solo due ore prima!

“Si-signore…posso?”

Il vento freddo che aveva lo stesso odore della morte soffiò ancora e un paio di iridi dal chiarore stupefacente si aprirono del tutto, immobili e senza alcuna fiamma di vita. Due occhi verdi che potevano benissimo appartenere a un cadavere, se non fosse che chi li possedeva era un uomo vivo e vegeto, dall’altezza tremenda, tanto quanto il suo sorriso appena accennato, da suadente incantatore.

La persona che aveva parlato affondò con mala grazia i piedi screpolati nella sabbia calda e sussultò sul posto, al sol vedere il suo signore girarsi all’indietro con languida noncuranza, i lunghi capelli che si muovevano ipnotici sopra un cappotto sontuoso, nero pece, ma bordato d’oro come quello del più importante degli Ufficiali. “Parla, fedele amico mio” disse infine il Grande Diavolo, non prima di aver lanciato un’occhiata disinteressata a ciò che aveva provocato nel suo secondo l’incertezza timorosa con cui si era rivolto a lui. “Parla” ripeté atono, voltandosi completamente verso il suo sottoposto. “E non ti curar di loro.”

Dopo un secondo di silenzio teso, in cui l’interpellato deglutì a vuoto, quest’ultimo annuì e fece un timido passo avanti, lasciandosi alle spalle i loro a cui il suo Capitano aveva fatto riferimento. Di sicuro, poteva ubbidirgli e fare finta che quelle mute presenze non esistessero, ma era davvero impossibile ignorare il soffocante odore prodotto dai tre corpi che il Grande Diavolo aveva fatto impiccare davanti a tutti: due prostitute e il timoniere più anziano della ciurma, le vittime che Hector aveva fatto frustare a morte e poi appeso al più robusto degli alberi nelle vicinanze; e ora i cadaveri se ne stavano a penzolare lì da qualche ora, le facce gonfie e violacee che si rivolgevano a terra, a fissare la pozza di sangue rosso scuro formatasi sotto i loro piedi. Un nugolo di insetti affamati s’affaccendava attorno alle loro membra stravolte, ronzando di eccitata bramosia.

“È tutto pronto per la nostra partenza di domani mattina” affermò il secondo in comando, accorgendosi con gran terrore di star visibilmente sudando freddo. “Il vento ci sarà favorevole.”

In fin dei conti, anche l’uomo morto e stecchito dietro di lui aveva fatto parte dei “demoni” più fedeli al Grande Diavolo.

“Indubbiamente” commentò un Hector sorridente; ed era di tanta dolcezza il suo sorriso, che egli risultò – come sempre – una visione spaventosa da osservare. “Sta arrivando una tempesta…finalmente.”

Detto questo, l’uomo si fece incontro al sottoposto con gran tranquillità e la sua figura da titano sembrò adombrarsi, quasi egli riuscisse a risucchiare la luce turchese di un mare che, dietro la sua schiena, gli faceva da perfetta cornice. Allungò poi una mano coperta di cicatrici e la lasciò cadere sulla spalla del suo secondo, ormai trasformatosi in un fascio di patetici brividi.

“…tua sorella? Alla fine, non fai pietà nemmeno a lei. Non più, ormai.”

Le dita robuste di Hector si artigliarono alla casacca lacera del vicecomandante, strappando dalle labbra di quest’ultimo uno squittio di dolore a malapena trattenuto. “Una tremenda delusione” soffiò il Grande Diavolo, il cui viso brutale pareva quello di un genitore rattristato per le marachelle di un figlio disubbidiente. “Che io abbia perso la Mad Veteran a causa non solo di un equipaggio di incapaci, ma anche per via delle informazioni di queste tre spregevoli spie. Non ho ucciso Seymour Porter per far sì che il Nero vascello finisse tra le mani di Arthur Worthington.”

“Si…signore, nessuno di noi ha ricevuto notizie dalla Mad Veteran per parecchio tempo; dovevano essere talmente disperati che qualsiasi promessa di un bottino facile deve esser suonata nelle loro orecchie come una benedizione!”

“Ed eccoci qui” concluse pacatamente Hector, allentando la presa dalla veste del suo sfortunato sottoposto. Senza un rumore, la mano dell’uomo si spostò lenta verso l’alto e scivolò sopra la gamba martoriata di una delle due povere donne appese, sfiorando con delicatezza il sangue rappreso sulle ferite. “Per mesi quell’indegno marmocchio ha infilato delle sgualdrine chiacchierone nei nostri letti, ricavandone dei servizi ben più soddisfacenti di quelli che noi abbiamo ricevuto” commentò poi, gli occhi smeraldini inchiodati sul viso irriconoscibile della suddetta giovinetta. “Per non parlare dei misteriosi mezzi con cui è riuscito a corrompere il caro Edmund; non avrei mai dubitato della buona fede del mio timoniere, se non fosse che è sempre stato lui a procurarci le ragazze da bordello.”

Il corpo scarno del fu Edmund dondolò leggero al passaggio di un’altra folata d’aria salmastra, quasi quest’ultimo si sentisse preso in causa dal tono paradossalmente quieto del Grande Diavolo.

Ovviamente, colui che intervenne fu l’unica anima viva nelle vicinanze di Hector. “A…a questo punto, è lecito ipotizzare che si aspettasse di essere attaccato sulla rotta per Kingston già prima di salpare dall’Inghilterra” disse la sua il secondo in comando, prendendo in mano una manciata di intraprendenza e coraggio.

“È stato ben informato; così come la ciurma di idioti alla guida della Mad Veteran ha ricevuto informazioni e ordini che non provenivano da me. Oh, sicuramente il mio Arty li avrà massacrati dal primo all’ultimo!”

Un fremito strano e inquietante, specchio di un sentimento impossibile da decifrare, attraversò le iridi immobili di un Hector che, sospirando, si concesse un altro folle sorriso pieno di tenerezza. “Malcom, ci crederesti che quel ragazzino è tanto cresciuto da diventare tale e quale al sottoscritto? Cielo, non so nemmeno se dovrei essere fiero di lui e punire invece chi di voi bambini non si è accorto dei traditori che vivevano fra le nostre file!”

“È completamente pazzo” pensò di getto l’uomo interpellato, sebbene fosse più impegnato a nascondere sul fondo dello stomaco l’annichilente paura che l’aveva fulminato da capo a piedi, non appena il significato delle parole di Hector l’aveva raggiunto. Sentiva il suo viso diventare una maschera di secondo dopo secondo più livida ma, non c’era da scherzarci sopra, crollare di fronte al Grande Diavolo stava a significare raggiungere i tre poveretti appesi all’albero vicino.

Non che sia una sorpresa vederlo ridotto in queste condizioni.

No, in quei lunghi anni di servizio, non era una notizia per gli uomini di Hector vederlo andare fuori di testa a causa del marmocchio che con tanta crudeltà aveva deciso di reclamare come suo. Fu così che Malcom si azzardo a dire, utilizzando estrema cautela e altrettanto servilismo: “Avete indubbiamente svolto un lavoro eccellente con lui, Capitano”.

Il tempo di un’altra nauseabonda brezza di vento ed egli poté sentire lo schiacciante peso di un paio di iridi chiarissime inchiodarsi di scatto sul suo viso sudato, scavargli dentro come se l’uomo che le possedeva potesse in effetti leggere tra le sfumature della sua mente e capirne i pensieri nascosti, proibiti. “Arthur si è rivelato un ingrato, ma il successo delle sue azioni è dovuto unicamente ai vostri insegnamenti” si affrettò a dire, levando il berretto dalla testa pelata e inchinandosi, mostrando così il suo rispetto – no – tutta la sua deferenza di fronte al demonio. “Se dovete punire qualcuno, allora è la vostra ciurma, l’intera Leviathan, che non merita di veder sorgere l’alba di domani.”

Piombò un silenzio che Hector non accennò a voler spezzare tanto presto con recriminazioni o minacce di sorta. Se ne stava lì in piedi, la figura possente ferma accanto alla prostituta che aveva ordinato di trucidare e gli occhi di un verde innaturale fissi sulla nuca del suo sottoposto.

“Temere…te? Io sono ricco e posso avere tutto ciò su cui il mio sguardo si posa.”

“Malcom” chiamò infine il Grande Diavolo, il cui tono sembrò provenire direttamente dal più profondo degli abissi. “Chi è colui che domina queste acque?”

Il vicecomandante annuì debolmente, ma non osò alzare lo sguardo. “Voi, mio signore.”

“Tu sei niente, Hector. Non hai nulla, né rappresenti nulla...ed è questo il posto che ti compete nel mondo.”

“Chi, in questi trent’anni, ha accumulato più ricchezze dello stesso William Kidd?”

“Voi, signore.”

“E, dimmi, conosci il nome dell’uomo che ha messo in ombra la voracità crudele del povero Edward Low?”

“Siete voi quell’uomo, mio signore” ripeté per la terza volta Malcom, senza lasciarsi ingannare nemmeno per un secondo dalla voce infinitamente carezzevole del Capitano. “Che il cielo abbia in gloria Low e la dannata Marina Britannica possa bruciare fra le fiamme dell’inferno immortale.”

Hector sorvolò sulla viscida pomposità del suo secondo e un altro sospiro malinconico sfuggì dalle sue labbra sottili. “Era un buon amico, un vecchio diavolo da cui si poteva solo prendere ispirazione” concesse alla fine, rilassando il viso da brutale mangiafuoco. “Brav’uomo.”

Come se non avesse appena tessuto le lodi di uno dei più efferati criminali del loro tempo, il comandante della Leviathan diede un’ultima generosa pacca sulla spalla di Malcolm, facendogli in realtà venire un atroce colpo al cuore: d’altronde, era quella la vita a cui erano destinati coloro che servivano direttamente sulla nave ammiraglia del Grande Diavolo. Il vascello da guerra che quest’ultimo aveva sottratto molto tempo prima a Simeon Worthington incarnava alla perfezione il trono di terrore su cui Hector sedeva sorridente e mai sazio, mentre il nome ne rivelava la vera natura.

Era il Leviatano, il serpente del Grande Abisso, demone dell’invidia che consuma ogni cosa.

“È per questo che tu sei qui e non appeso per il collo insieme a quegli esseri indegni della mia benevolenza” soffiò Hector, noncurante dei lunghi capelli che s’agitavano ovunque intorno a lui, sopra gli alamari dorati della sua lunga giacca nera. Infine, allungò ancora la mano e portò l’indice sotto il mento del suo sottoposto, obbligandolo con gentilezza a guardarlo in faccia. “Temi il mio nome e ti disperi in mia presenza, come è giusto che sia. Questi sono i sentimenti più onesti che tu possa provare, lo stato d’animo che io apprezzo sopra a tutti gli altri: non c’è bugia, maschera alcuna, nel terrore.”

Poiché la crudeltà è forza, il controllo è potere.

Il verso di un ignoto volatile penetrò il continuo andirivieni dell’onda e il soffio del vento freddo mentre, senza aggiungere parola, Hector raddrizzava la figura robusta, volgendo poi le spalle a un vice comandante i cui pensieri si riducevano a un ossessivo: “L’ho scampata. Oddio, l’ho scampata per davvero”.

Ma non ci fu altro tempo per gioire. Il Grande Diavolo s'incamminava verso l’entroterra e, di certo, si aspettava che l’altro lo seguisse a ruota alla stessa stregua di un adorante cagnolino. “Temo sia arrivato il momento di affrettare i nostri passi” disse. “Sta arrivando il genere di tempesta che piace a me.”

“Signore?”

“Le guerre e i conflitti non portano solo morte, ma anche occasioni d’enorme guadagno” spiegò l’uomo in risposta, il tono incolore. “Pioveranno monete d’oro.”

Non sapendo se essere per la maggior parte allarmato o eccitato a seguito delle parole del suo signore, il secondo in comando si scapicollò dietro la schiena di Hector, raggiungendolo in pochi passi e quasi incespicando sulla sabbia bianca. “Ma! Non avrete intenzione di…”

No, mio stupido e fedele Malcom. Ho già concesso diverse navi corsare alla Marine Royale, quindi non vedo perché dovrei entrare direttamente in gioco ed espormi, soprattutto quando il piccolo Arty sembra aver dimenticato di avere dei nemici ben più vicini di quanto non lo sia io” fece il Capitano della Leviathan, la cui espressione si fece specchio di una soddisfazione a dir poco oscena. “Come Stephen Aubrey, per esempio. Ah, di quale fantastico marciume è fatto quell’uomo!”

Un sospiro pieno di sollievo si fece sentire dietro le sue larghe spalle, ma Hector non vi fece troppo caso.

“Inoltre, il mio sguardo è altrove. Ho saputo di una ricchezza inaspettata, un tesoro che Arthur custodisce con grande cura e a cui sembra tenere sopra ogni immaginazione” continuò, per poi girarsi un’ultima volta verso Malcom e sorridergli con una crudeltà strana, dolce e languida, ma ugualmente agghiacciante. “Spero tanto che il buon Aubrey ripaghi i miei copiosi sforzi!”

Il vento urlò forte fra i palmeti e, dietro alla sagoma imponente del Grande Diavolo, si incominciarono a intravedere grumi di nuvole nere addensarsi lungo la linea dell’orizzonte quasi invisibile; allo stesso tempo e con la stessa lentezza, un sentimento di pura crudeltà cominciò a impossessarsi di due occhi da serpente, cristallini e immobili. “Ma, se così non dovesse essere, allora credo proprio che dovrò intervenire di persona.”

“Hector! Posso avere una vita diversa! E…e tu con me!”

Irina. Voce inopportuna e fastidiosa.

Soffocherò con le mie stesse mani la debole luce che ti sei illuso possa salvarti, mio caro Arty.




Se il capitolo ti è piaciuto, spero potrai considerare di votarlo e scrivermi le tue impressioni*

\(*W*)/

Angolo dell'autrice:

Scrivo questo intervento veloce prima di volare di tutta fretta a lavoro, solo per dirvi che spero con tutto il mio cuore questa parte (luuuunga) vi sia piaciuta: tengo molto a questo capitolo, che non è stato di facile redazione, perché vi si descrive un diverso rapporto fra Saffie e Arthur, in cui vi sono ancora diversi nodi e difficoltà da sciogliere; inoltre, ho introdotto il Grande Diavolo per la prima volta!

Che ne pensate di lui?

Oddio, vorrei scrivere così tante cose e invece devo correre a lavorare! (T.T)

Ho voluto comunque dare una tregua ai miei poveri protagonisti ed è stato bello poter descrivere delle scene piene di tormento ma anche tenerezza; alcune, fra l'altro, erano scene che avevo buttato giù a matita la sera in cui l'idea del racconto aveva cominciato a prender forma, quindi ben due anni fa ormai!

Che dire, ora devo proprio scappare, ma mi inchino di nuovo di fronte a voi e vi ringrazio con tutta l'anima per essere ancora qui a leggere la mia storia!

Vi abbraccio forte forte e virtualmente,

Vostra Sweet Pink

  
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