P
A R T E P
R I M A
L ’ I N V I O L A B I L E
P
R O L O G O
A
V R E B B E R O V
C C I S O T
V T T I
Q V A N T I
Lippo
si era svegliato stanco.
Era
strano per un ragazzino di sole quaranta-tre sorelle svegliarsi stanco,
ma era
normale a casa sua.
Alcuni raggi del sole lo aveva raggiunto superando le assi di legno
degli
scuretti. Si era voltato per potersi rifugiare all’aspro
risveglio, anche se
sapeva di non aver comunque altro tempo per riposare ancora.
Con il naso aveva urtato la spalla di suo fratello minore Frederico,
che di
rimando aveva pensato di ricambiarlo con una gomitata audace. Era una
piccola
canaglia, aveva solo trenta-tre sorelle ma era più sveglio
di una volpe.
Differentemente da Lippo.
Nel
lettuccio erano in tre, lui, Frederico e Adrianna, più
grande di lui di tre
sorelle. Lei era l’unica femmina della loro famiglia, oltre
la mamma. Nella
stanza con loro dormivano anche Alesio e Mino, i suoi fratelli
maggiori, grandi
e grossi da dover dormire incastrati – anche se Lippo
indovinava si fossero già
levati quella mattina, probabilmente già nei campi.
La mamma dormiva nell’altra stanza, una volta lei ed Adrianna
occupavano lo
stesso letto, ma i suoi fratelli erano diventati troppo grandi per
poter stare
con lui e Rico, tutti insieme, e quando la mamma aveva smesso di
alzarsi, Adranna
aveva ceduto il letto suo e della mamma ai due fratelli più
grandi.
Quando
il sole aveva raggiunto Adrianna, anche lei si era alzata, lo aveva
fatto
lenta, incerta, con le gambe più morbide del budello.
“Lippo!
Rico!” aveva strillato il loro nome con la stessa leggiadria
di un gatto
imbestialito. La voce della loro sorella maggiore aveva costretto i due
bambini
a doversi alzare.
Lippo
l’aveva guardata, fino ad una sorella prima, loro due
parevano gemelli, senza
distinzione. Eppure, ad ogni luna che passava Ariadne appariva sempre
più
distante da lui, il bacino si era fatto più pronunciato ed
il petto si era
fatto più pieno. Anche il viso aveva preso una curva
più matura, somigliava
alla mamma, per Lippo; aveva anche cominciato a comportarsi come lei.
Si
era tirato su dal giaciglio, così aveva fatto anche
Frederico, che era subito
sgambettato nell’altra stanza per dare il buongiorno anche
alla loro mamma.
Adrianna
aveva accarezzato i suoi capelli con gentilezza, materna.
“Alesio e Mino si
sono già alzati” aveva detto con vergogna
Adrianna, sentendosi colpevole del
suo sonno. Cercava di destarsi sempre prima dei due, per poterli
preparare
qualcosa da mangiare, perché fossero rinvigoriti durante le
ore nei campi.
Anche
Lippo avrebbe dovuto cominciare a raggiungerli, presto, non era
più un
bimbetto, era un uomo, non poteva lasciare ad Alesio e Mino tutto il
lavoro.
Sua
madre aveva risposto a malapena al loro saluto, con gli occhi vuoti e
distanti.
Adrianna invece, non
le aveva rivolto
più di uno sguardo, aveva tolto la vestaglia di armatura
sottile, per indossare
la veste lunga di bighello, tinta di un viola troppo costoso per le
loro
finanze – apparteneva alla loro madre, di tempi migliori. Se
lo aveva
indossato, voleva solo dire che loro sorella voleva andare al mercato,
aveva
anche raccolto i capelli in una crocchia, come una signora per bene.
“Lippo,
accendi il fuoco. Facciamo un semolino” aveva dichiarato lei,
afferrando la
pentola di rame dalla cassa, per portarla vicino al comignolo.
“Vai
al mercato, oggi?” aveva chiesto lui, prima di affidare senza
grazia, o colpo
ferire, a Frederico di andare a raccogliere la legna già
tagliata fuori.
“Sì,
io, vedo la coperta di lana, forse riesco a guadagnarci qualcosa. Oggi
dovrebbero esseri anche alcune genti di città”
aveva raccontato lei, senza
prestargli troppa attenzione, nascondersi alla vista ed esponendo solo
il collo
nudo e la nuca.
Sua
sorella non era una brutta ragazzina, aveva un viso allungato, i denti
da
coniglio e le orecchie leggermente sporgenti, era una bruttezza
accettabile,
come quella di Milo, per i Bimbi Sbagliati come loro.
“Adrianna vuole vedere il pesciaiolo” aveva cantato
Frederico, tornando in casa
con tocchetti di legno.
Sua sorella lo aveva ghiacciato con gli occhi scuri, ma le guance si
erano
dipinte come due tizzoni ardenti. “Smettila, Rico! Non
è divertente” aveva
berciato lei, con espressione contrita, tirando un calcio a suo
fratello.
Lippo
aveva raccolto la legna che era caduta da terra per sistemarla nel
camino,
prima di dedicarsi al fuoco. Rico se n’era andato urlante,
screanzato, “Che il
principio ti si pigli che nessun uomo lo farà!”
aveva gridato alla sorella.
“Che
fastidio” si era lamentata Adrianna, sedendosi sulla sedia.
“Non
sei invaghita del pescivendolo, vero? È più
brutto del culo di un porcello”
aveva detto Lippo, “Oh Vergine di Ghisa, che ho fatto per
meritarmi due
sanguinamenti come voi?” aveva chiesto retorica lei,
“Non mi posso permettere
di sognare fiori gemelli o amore palpitante. Mychele è
l’unico che mi si
piglierebbe pure senza dote” aveva detto lei poi,
“Ti spicci con quel fuoco?”
aveva chiesto poi, infastidita.
Lippo
aveva annuito ed eseguito, calmo, pensoso.
Adrianna
aveva sempre detto che non gli importava di avere un uomo con lo stesso
fiore
sul petto di lei, ma non era vero, al mondo tutti desideravano trovare
chi il
Signore-Delle-Cose-Buone aveva previsto per loro.
Perfino
i signori dai tascapani gonfi e le corone pesanti, dimenticavano i loro
doveri
e si sposavano genti come loro, se i fiori nel pento erano fioriti
uguali.
“Forse
al di là del mare chiaro c’è qualche
ricco mercante di spezie che si chiede
dove sia la sua anima condivisa” aveva borbottato lui,
guardando di sottecchi
sua sorella.
Adrianna
aveva sbuffato, stanca, poi aveva sorriso, gentile, “E
secondo te, perché vado
al mercato?” aveva chiesto retorica.
Non
aveva accompagnato Ariadne al mercato, lo aveva fatto Rico, con la
promessa di
datteri caramellati al miele, per far passare via il viso imbronciato
che aveva
deciso di cucirsi addosso.
Lippo era rimasto così nella loro piccola casupola in
compagnia della mamma,
dello spettro.
Semi-seduta sul suo giaciglio, di paglia, con gli occhi vuoto di chi
non sapeva
più vedere, ferma, immobile, come una candela, che si
consumava un po’ alla
volta.
Anche
se Lippo, non vedeva più la fiamma, solo l’ultimo
tizzone che andava ad esaurirsi.
“Vuoi un po’ di semolino, ma?” aveva
chiesto, prendendo l’avanzo, ormai freddo,
dalla pentola per metterla in una ciotola di argilla rossa. Fin troppo
carina
per essere finita nella credenza della loro famiglia. Aveva preso una
cucchiaia
di legno con cui poter imboccare la donna.
Isapia, sua madre, lo spettro, era stata in vita una donna bella, molto
meno lontana
di loro dalla perfezione. Non era figlia di due anime destinate, ma nei
suoi
quattro nonni, Lippo sapeva, due lo fossero.
Anime destinate, che strano pensiero.
I
suoi genitori non lo erano, probabilmente nessuno dei suoi fratelli, o
lui,
l’avrebbe trovato. Lippo non sapeva quanto vasto fosse il
mondo, Ariadne diceva
che era immenso, ma sapeva fosse troppo grande perché si
potesse trovare
l’anima destinata.
La
vastità della vita di Lippo, comprendevano i campi, la
Foresta Grigia, la
bestia bicefala ed al massimo, poche città più in
là.
Rispetto
al mondo, è un palmo di mano.
Così
aveva detto Alesio, con gli occhi scuri luccicanti rivolti alle stelle,
lui
avrebbe voluto prendere la vecchia mula di casa e partire, ovunque il
Giusto
Sentiero lo guidasse.
Isapia
aveva fatto lo sforzo di aprire le labbra, piccole, sottili, troppo
pallide e
screpolate per accogliere la polenta di semolino che il figlio le stava
facendo
inghiottire.
Ci
aveva messo del tempo a deglutire, incerta. “Con un paio di
fughi sarebbe
meglio” aveva commentato Lippo, guardando sua madre, negli
occhi scuri.
Uno
dei ricordi più belli che aveva di sua madre, prima che suo
padre morisse,
quando la vita sgorgava ancora nel suo petto, assieme al suo cuore,
riguardava
proprio i funghi. Isapia andava nella Foresta Grigia e riportava
cestini
ripieni di ogni tipo di miceto. Ogni forma e
dimensione. Aveva insegnato
a lui ed anche ad Ariadne come riconoscere tutti i tipi, quelli
medicinali,
quelli edibili e quelli velenosi. “Un bel piatto di funghi
potrebbe salvarvi la
vita un giorno” aveva scherzato. Lippo non era sicuro di
ricordare davvero che
suono aveva la sua voce, pensava fosse dolce, più di quella
di Adrianna, ma
anche ammantata da un guizzo di divertimento, come una buona zuppa
calda con
una raschiata di peperoncino. Però, Lippo, non era sicuro se
non fosse che un
invenzione della sua mente.
A
volte si chiedeva se anche i ricordi che aveva di sua madre non fossero
a loro
volta una finzione; non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo ad
Adrianna.
Si
era allontano dai suoi pensieri, per tornare con lo sguardo a sua
madre; per un
secondo, Lippo aveva sentito un brivido attraversare la sua schiena.
Ebbe,
quasi, l’impressione che un guizzo di consapevolezza avesse
attraversato la
mente di Isapia.
“Non
quei funghi” aveva detto, scostandosi da sua madre, quasi
scottato, allontanandosi
da lei, netto.
L’espressione di sua madre era rimasto ferma, con il viso
granitico di una
statua, come quelle nelle piazze della Bestia Bicefala.
Nessuna
emozione, nessuna vita.
Lippo
aveva recuperato il cucchiaio che aveva fatto cadere ed aveva ripreso
la sua
attività, teso come la corda di un mandolino.
Si
era sforzato di piegare le labbra in un sorriso, ma era sicuro che la
lucentezza non avesse raggiunto gli occhi; per la sua mamma non era
comunque
cambiato nulla. Lippo le aveva preso una mano ed aveva baciato le sue
dita
gentile, prima di spostare il palmo della donna sopra la sua testa,
nell’imbarazzante imitazione di una carezza.
Dopo
quell’ultimo, disperato, gesto, Lippo aveva dovuto
abbandonare il giaciglio con
una fretta bruciante, portando via il resto della ciotola ed il
cucchiaio.
Sapeva di non poterli abbandonare sul tavolo o avrebbero attirato le
formiche o
i topi e questo avrebbe reso Adrianna furiosa e le loro piccola casa
pestilenziale.
Aveva
lavato le stoviglie con la minor quantità d’acqua
possibile – fuori casa aveva
trovato il loro serbatoio pieno per un quarto, probabilmente Alesio
doveva aver
raccolto l’acqua dal pozzo prima di andare per campi.
Sarebbe
dovuto spettare a Lippo, avrebbero dovuto chiamarli quando si erano
destati.
Il pensiero lo aveva frustrato. Si era morso un labbro, mentre sfregava
via con
vigore i resti della ciotola, prima di riportarlo dentro casa, per
sistemare
nuovamente tutto nella credenza.
Sua madre era sempre lì, in un angolo come uno spettro.
“Puoi
… restare qui, da sola?” aveva domandato Lippo, stupidamente.
Sapeva
di non poterla abbandonare, di non poterla lasciare da sola in casa.
Uno di
loro doveva sempre rimanere lì, per proteggere gli averi,
anche se scarsi, e la
mamma – che era fragile ed incapace di provvedere a
sé stessa, ma Lippo, sapeva
di essere egoista, non riusciva ad essere lì, a rimanere
lì, con le mani in
mano.
Aveva
pettinato i capelli di sua madre, incerto, le brave donne ferriane
portavano i
capelli raccolti, ma l’unica che aveva la pazienza di
acconciarli alla mamma
era Adrianna. Poi a lui, piaceva sciolti, come li portava Eliana, che
non
distava da loro – una bambina con gli occhi chiari come la
pioggia e le
fossette quando rideva. A Lippo, Eliana piaceva, ma lei avrebbe sposato
Artie,
che era la sua anima Destinata.
Isapia si era stesa sul giaciglio quasi da sola, senza bisogno del suo
aiuto, e
le aveva rimboccato la coperta, con gentilezza.
“Non
posso restare” aveva sussurrato, “Nel non fare
niente” aveva asserito con
gentilezza Lippo, dando alla donna un bacio sulla fronte.
Era
andato nel Bosco Grigio; era oltre i campi coltivati, se di norma i
boschi
erano insidiosi, abitati da fiere brutali e selvagge. E non solo quelle
che
camminavo su quattro zampe, ma anche su due. Bande armante, mercenari e
quant’altro.
Ma
il Bosco Grigio cadeva sotto l’egida della Bestia Bicefala e
nessun uomo che si
chiamasse tale, avrebbe mai pensato di venir a spadroneggiare tra
quelle
fronde.
In
vero, anche i contadini si tenevano alla larga, non Lippo, che era
figlio di
Isapia, non aveva mai avuto remore, per quello.
Si
era addentrato nella foresta, svelto, veloce ma attento. Non forse,
abitualmente, non vi facevano il nido i briganti, ma non era da
escludere che
qualcuno uomo potesse trovarcisi ugualmente, così come,
sebbene poco abituale,
avrebbe potuto scorgere lupi e linci.
Era
la Rinascente, in fin dei conti.
Lippo
era stato fortunato, aveva riempito il suo cestino di bacche di
mirtillo, dai
globuli di un blu così intenso da sembrare dipinto da un
pittore, pieni di
liquido dolcino e grandi.
Certo
che Frederico ne sarebbe stato estasiato.
Si
era guardato nel sistemare per bene le bacche perché non
scoppiassero o
inondassero il cestino, nascondendole bene e proteggendole in una serie
di
fazzoli. Non erano belli, la stoffa era rozza e l’unico
ricamo che vi era
sopra, erano lettere sbilenche che Adrianna aveva cucito sopra, quando
tentava
di far pratica; però non era quello che era venuto a cercare.
Aveva
trovato le sue vere vittime ben presto. I funghi prataioli erano subito
saltati
ai suoi occhi, nel sottobosco, ai piedi delle radici. Erano di un bel
colore
marrone, prova della loro maturità, ed erano riconoscibili
per il cappello,
largo e piatto. Lippo li considerava i suoi preferiti, su tutti;
ricordava sua
madre, tanto tempo prima, impanarli con briciole di pane ed affogarli
nel
grasso, sul fuoco.
Ne aveva trovati diversi tipi, quelli sottili, quelli dalla forma a
chiodo –
che Alesio non tollerava – con un colpo magistrale di fortuna
aveva trovato
anche un paio, di numero, di una tipologia con il cappello dalla forma
ondulata
ed il gambo bianco e polposo. Non ne trovava molti ed erano rari.
Aveva riempito il suo cestino con una quantità accettabile
di funghi, abbastanza
perché quella serata riuscissero a
fare una zuppa con le cipolle e tuberi e poterne essiccare e conservare
alcuni
per giorni avvenire – era stato fortunato e ne aveva trovato
anche uno di
quelli buoni per il sangue, rosa come il raso, sembravano una serie di
orecchie
grinzose cucite tra loro, per cappello – ma quella sensazione
di pace e
liberazione che il vagabondare nei boschi li dava, lo aveva costretto a
rimanere, con la stessa forza delle pietre che s’attraevano.
A
Lippo piaceva pensare fosse il volere del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona; se
aveva lo
stesso talento d’un segugio nel trovare quelle piccole
prelibatezze, un motivo
doveva pur esserci.
Un
po’ lo faceva ridere. Una volta aveva accompagnato Adrianna e
Mino al mercato
per venderli, dopo averli essiccati. Un mercante con
l’accento floreale aveva
ridacchiato e divertito aveva raccontato a Lippo che
nell’Impero, augurare a
qualcuno di andarsi a mangiare un piatto di funghi era una iettata,
pari tanto
ad auspicarsi che il principio se lo prendesse.
“Sì,
sì. Nell’Impero quando si muore senza ragione si
è morto per un piatto di
funghi” aveva raccontato poi Arti, fiero e adulto –
a suo dire – delle sue
settante sorelle.
Per
Lippo era stupido, bisognava solo avere occhio.
Si
era fermato ad osservarne un altro, era sottile, più di un
chiodino e difficile
da osservare, non era troppo più alto di un filo
d’erba e tra le foglie ed il
muschio quasi spariva.
Lippo
si era messo a carponi, puntando il peso sulle ginocchia ed osservando
la pianta.
Il gambo era sottile, di un colore bianco con sfumature rossastre, il
cappello,
invece, pareva la punta, addolcita, di una freccia.
“E
tu, cosa sei?” aveva chiesto allungando una mano, per
diteggiare la punta e
saggiarne la composizione.
E poi aveva sentito il frusciare delle foglie e legno spezzato. Un
verso
d’animale, piuttosto gravoso
Aveva sollevato lo sguardo verso la direzione, spaventato, osservando
l’oscillazione
del bosco al suo fianco, poi era spuntato tra i tronchi degli alberi la
figura.
Un
cinghiale con zanne sporgenti dal muso aguzzo ed il manto composto di
setole
nere, era enorme; Lippo aveva visto cinghiali nel corso della sua vita,
mai
così da vicino, ma era certo, sul buon-Dio, di non averne
mai visto uno così
grande.
Per
un momento il tempo si era gelato, lui aveva arpionato il suo sguardo
sugli
occhi grandi e liquidi in quelli del cinghiale.
Era
durato quando un battito di ciglia e poi il panico, potente, irruente
come la
corrente del Serpente, così investito
dal panico, a gonfiarli l’aria nel
panico e a infuocare le sue gambe era scattato, veloce, come un fulmine
a ciel
sereno.
Era
corso come un lampo per il bosco, perdendo il cestino di more e funghi
dalla
sua mano, ma senza che questo pensiero occupasse la sua mente per
più di un
momento, prima che il terrore riprendesse di nuovo possesso di lui
stesso; così
aveva corso.
E
corso.
Corso.
E urlato spaventato, senza avere il coraggio di guardare indietro, per
vedere
se la bestia lo stesse inseguendo o meno.
Poi
aveva visto qualcosa, un’ombra, e così era corso
verso di lì, nella speranza
che ci fosse qualcuno, qualcosa, non si era neanche accorto in che
direzione
stesse correndo, quanto lontano dall’argine del Bosco Grigio
si fosse
avventurato, quando nel cuore della selva fosse giunto, guidato
dall’istinto e
dalla paura.
“Ei,
chi sei?”
“Che
cazzo sta succedendo?”
“Per
il Principio!”
Lippo
non le aveva neanche sentite quelle frasi sconnesse, non aveva neanche
realizzato che cosa fosse successo, né chi vi fosse intorno.
Erano presenti
degli uomini, gli aveva riconosciuti solo come ombre ad angolo dei suoi
occhi.
Ma la paura non lo aveva reso lucido.
E
poi aveva urtato contro qualcosa, qualcosa di vivo, caldo, con un pelo
ispido e
rigido, l’attimo dopo qualcuno l’aveva afferrato
per la collottola della blusa
e tirato indietro, prima che uno zoccolo lo sfiorasse sulla fronte.
“Buon-Dio,
giovane, il principio ti si è preso?” aveva
gridato un uomo, aveva una voce
profonda, ma calma; Lippo aveva sentito il panico cominciare ad
avvilirsi, a
scomparire e la chiarezza tornare alla mente, allora aveva notato il
cavallo
imbizzarrito, il cavaliere che lo domava splendido era riuscito a
riportarlo
alla calma, abile. Lippo aveva intravisto il simbolo di una lince,
l’araldo di
una famiglia ricca della bestia bicefala, ma non così
importante da ricordarne
il nome – almeno per lui, ragazzino di campagna.
Ma il cavallo dell’uomo della lince, prima di calmarsi, era
riuscito ad
assestare un calcione ad un altro che si era a sua volta imbizzarrito.
Il
suo cavaliere aveva tentato di riprenderle le redini con ardore, ma
distratto,
da lui, da Lippo, con gli occhi scuri e cupi putati sui suoi.
Era
caduto da cavallo.
“Lorenzin!
Sei diventato improvvisamente un debuttante?” lo aveva preso
in giro uno degli
altri cavalieri, ma tutto ciò a cui Lippo riusciva a pensare
era stato il
rumore, il rumore della caduta.
Un
suono dritto, secco, come di un ramo spezzato.
Quando
era caduto il cavaliere aveva urtato la testa su un masso, non si era
rialzato,
aveva battuto gli occhi, ancora animato di vita, le sue iridi
sfrecciavano a
destra e manca, ma un tappetto di sangue aveva innaffiato la terra
sotto di
lui.
“Lorenzin!”
aveva strillato uno dei cavalieri lasciandosi.
Lippo
era rimasto immobile, come il granito, perché da terra,
mentre gli uomini si
affaccendavano per issarlo, lui aveva visto il decoro del suo farsetto.
Un
lupo nero, una bestia maligna, erta sulle zampe posteriori, con le
zanne sguainate
e la pelle superiore del muso arricciato, in un ringhio.
Il
Lupo.
Una
delle teste della Bestia Bicefala.
Don
Lorezin di Peripsia.
“Cosa
ho fatto?” era riuscito a boccheggiare, spaventato.
L’uomo
che lo aveva afferrato per la collottola non lo aveva lasciato per un
momento,
“Che il principio vi si pigli, lo dobbiamo riportare in
città” aveva gridato
forte. Non c’era più calma nella sua voce, ma
genuina preoccupazione. Lippo
aveva sollevato lo sguardo, prima del viso dell’uomo aveva
riconosciuto, sul
cuore, cucito, la testa di una volpe di profilo.
La
paura lo aveva invaso di nuovo, diversa da quella che l’aveva
attraversato
rispetto quando aveva visto il cinghiale, era stato qualcosa di
più atavico, di
più viscerale.
Perché
era arrivata con la paura un altro sentimento: la consapevolezza.
Lo
avrebbero ucciso.
E
avrebbero ucciso tutti quanti.