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Autore: RLandH    12/02/2023    0 recensioni
Quando il Dio-Di-Ogni-Cosa-Buona creò gli uomini non li fece tutti uguali, al contrario: si impegnò perché fossero più diversi, variopinti e colorati possibili, come fiori.
Si adoperò perché i suoi uomini fossero come i fiori del suo giardino, virtuosi, bellissimi, colorati ma differenti.
Unici.
Eccezionali.
Ogni fiore era unico, non solo da una specie all’altra ma da un individuo all’altro.
Così, erano e dovevano essere gli uomini.
Bellissimi.
Furono gli uomini, in maniera del tutto arbitraria, a decidere che quella diversità andasse classificata, andasse ordinata, secondo il loro iniquo giudizio.
Che il dono di Dio dovesse essere – non un regalo ma – un assetto.
E, che gli uomini professino quel che vogliono, tale iattanza fu Il Principio.

C'è un cavaliere, senza ne arte ne parte, che cerca uno scopo ed un mondo che non ha riguardi verso di lui o altre anime sfortunate. Circa.
Cosa può, d'altronde, un uomo contro Re, Signori e Principesse? Cosa può un uomo contro il Destino stesso?
Genere: Angst, Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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P A R T E   P R I M A
L ’ I N V I O L A B I L E

P R O L O G O

A V R E B B E R O   V C C I S O   T V T T I   Q V A N T I

 

Lippo si era svegliato stanco.

Era strano per un ragazzino di sole quaranta-tre sorelle svegliarsi stanco, ma era normale a casa sua.
Alcuni raggi del sole lo aveva raggiunto superando le assi di legno degli scuretti. Si era voltato per potersi rifugiare all’aspro risveglio, anche se sapeva di non aver comunque altro tempo per riposare ancora.
Con il naso aveva urtato la spalla di suo fratello minore Frederico, che di rimando aveva pensato di ricambiarlo con una gomitata audace. Era una piccola canaglia, aveva solo trenta-tre sorelle ma era più sveglio di una volpe. Differentemente da Lippo.

Nel lettuccio erano in tre, lui, Frederico e Adrianna, più grande di lui di tre sorelle. Lei era l’unica femmina della loro famiglia, oltre la mamma. Nella stanza con loro dormivano anche Alesio e Mino, i suoi fratelli maggiori, grandi e grossi da dover dormire incastrati – anche se Lippo indovinava si fossero già levati quella mattina, probabilmente già nei campi.
La mamma dormiva nell’altra stanza, una volta lei ed Adrianna occupavano lo stesso letto, ma i suoi fratelli erano diventati troppo grandi per poter stare con lui e Rico, tutti insieme, e quando la mamma aveva smesso di alzarsi, Adranna aveva ceduto il letto suo e della mamma ai due fratelli più grandi.

 

Quando il sole aveva raggiunto Adrianna, anche lei si era alzata, lo aveva fatto lenta, incerta, con le gambe più morbide del budello.

“Lippo! Rico!” aveva strillato il loro nome con la stessa leggiadria di un gatto imbestialito. La voce della loro sorella maggiore aveva costretto i due bambini a doversi alzare.

Lippo l’aveva guardata, fino ad una sorella prima, loro due parevano gemelli, senza distinzione. Eppure, ad ogni luna che passava Ariadne appariva sempre più distante da lui, il bacino si era fatto più pronunciato ed il petto si era fatto più pieno. Anche il viso aveva preso una curva più matura, somigliava alla mamma, per Lippo; aveva anche cominciato a comportarsi come lei.

Si era tirato su dal giaciglio, così aveva fatto anche Frederico, che era subito sgambettato nell’altra stanza per dare il buongiorno anche alla loro mamma.

Adrianna aveva accarezzato i suoi capelli con gentilezza, materna. “Alesio e Mino si sono già alzati” aveva detto con vergogna Adrianna, sentendosi colpevole del suo sonno. Cercava di destarsi sempre prima dei due, per poterli preparare qualcosa da mangiare, perché fossero rinvigoriti durante le ore nei campi.

Anche Lippo avrebbe dovuto cominciare a raggiungerli, presto, non era più un bimbetto, era un uomo, non poteva lasciare ad Alesio e Mino tutto il lavoro.

 

Sua madre aveva risposto a malapena al loro saluto, con gli occhi vuoti e distanti.  Adrianna invece, non le aveva rivolto più di uno sguardo, aveva tolto la vestaglia di armatura sottile, per indossare la veste lunga di bighello, tinta di un viola troppo costoso per le loro finanze – apparteneva alla loro madre, di tempi migliori. Se lo aveva indossato, voleva solo dire che loro sorella voleva andare al mercato, aveva anche raccolto i capelli in una crocchia, come una signora per bene.

“Lippo, accendi il fuoco. Facciamo un semolino” aveva dichiarato lei, afferrando la pentola di rame dalla cassa, per portarla vicino al comignolo.

“Vai al mercato, oggi?” aveva chiesto lui, prima di affidare senza grazia, o colpo ferire, a Frederico di andare a raccogliere la legna già tagliata fuori.

“Sì, io, vedo la coperta di lana, forse riesco a guadagnarci qualcosa. Oggi dovrebbero esseri anche alcune genti di città” aveva raccontato lei, senza prestargli troppa attenzione, nascondersi alla vista ed esponendo solo il collo nudo e la nuca.

Sua sorella non era una brutta ragazzina, aveva un viso allungato, i denti da coniglio e le orecchie leggermente sporgenti, era una bruttezza accettabile, come quella di Milo, per i Bimbi Sbagliati come loro.
“Adrianna vuole vedere il pesciaiolo” aveva cantato Frederico, tornando in casa con tocchetti di legno.
Sua sorella lo aveva ghiacciato con gli occhi scuri, ma le guance si erano dipinte come due tizzoni ardenti. “Smettila, Rico! Non è divertente” aveva berciato lei, con espressione contrita, tirando un calcio a suo fratello.

Lippo aveva raccolto la legna che era caduta da terra per sistemarla nel camino, prima di dedicarsi al fuoco. Rico se n’era andato urlante, screanzato, “Che il principio ti si pigli che nessun uomo lo farà!” aveva gridato alla sorella.

“Che fastidio” si era lamentata Adrianna, sedendosi sulla sedia.

“Non sei invaghita del pescivendolo, vero? È più brutto del culo di un porcello” aveva detto Lippo, “Oh Vergine di Ghisa, che ho fatto per meritarmi due sanguinamenti come voi?” aveva chiesto retorica lei, “Non mi posso permettere di sognare fiori gemelli o amore palpitante. Mychele è l’unico che mi si piglierebbe pure senza dote” aveva detto lei poi, “Ti spicci con quel fuoco?” aveva chiesto poi, infastidita.

Lippo aveva annuito ed eseguito, calmo, pensoso.

Adrianna aveva sempre detto che non gli importava di avere un uomo con lo stesso fiore sul petto di lei, ma non era vero, al mondo tutti desideravano trovare chi il Signore-Delle-Cose-Buone aveva previsto per loro.

Perfino i signori dai tascapani gonfi e le corone pesanti, dimenticavano i loro doveri e si sposavano genti come loro, se i fiori nel pento erano fioriti uguali.

“Forse al di là del mare chiaro c’è qualche ricco mercante di spezie che si chiede dove sia la sua anima condivisa” aveva borbottato lui, guardando di sottecchi sua sorella.

Adrianna aveva sbuffato, stanca, poi aveva sorriso, gentile, “E secondo te, perché vado al mercato?” aveva chiesto retorica.

 

Non aveva accompagnato Ariadne al mercato, lo aveva fatto Rico, con la promessa di datteri caramellati al miele, per far passare via il viso imbronciato che aveva deciso di cucirsi addosso.
Lippo era rimasto così nella loro piccola casupola in compagnia della mamma, dello spettro.
Semi-seduta sul suo giaciglio, di paglia, con gli occhi vuoto di chi non sapeva più vedere, ferma, immobile, come una candela, che si consumava un po’ alla volta.

Anche se Lippo, non vedeva più la fiamma, solo l’ultimo tizzone che andava ad esaurirsi.
“Vuoi un po’ di semolino, ma?” aveva chiesto, prendendo l’avanzo, ormai freddo, dalla pentola per metterla in una ciotola di argilla rossa. Fin troppo carina per essere finita nella credenza della loro famiglia. Aveva preso una cucchiaia di legno con cui poter imboccare la donna.
Isapia, sua madre, lo spettro, era stata in vita una donna bella, molto meno lontana di loro dalla perfezione. Non era figlia di due anime destinate, ma nei suoi quattro nonni, Lippo sapeva, due lo fossero.
Anime destinate, che strano pensiero.

I suoi genitori non lo erano, probabilmente nessuno dei suoi fratelli, o lui, l’avrebbe trovato. Lippo non sapeva quanto vasto fosse il mondo, Ariadne diceva che era immenso, ma sapeva fosse troppo grande perché si potesse trovare l’anima destinata.

La vastità della vita di Lippo, comprendevano i campi, la Foresta Grigia, la bestia bicefala ed al massimo, poche città più in là.

Rispetto al mondo, è un palmo di mano.

Così aveva detto Alesio, con gli occhi scuri luccicanti rivolti alle stelle, lui avrebbe voluto prendere la vecchia mula di casa e partire, ovunque il Giusto Sentiero lo guidasse.

Isapia aveva fatto lo sforzo di aprire le labbra, piccole, sottili, troppo pallide e screpolate per accogliere la polenta di semolino che il figlio le stava facendo inghiottire.

Ci aveva messo del tempo a deglutire, incerta. “Con un paio di fughi sarebbe meglio” aveva commentato Lippo, guardando sua madre, negli occhi scuri.

Uno dei ricordi più belli che aveva di sua madre, prima che suo padre morisse, quando la vita sgorgava ancora nel suo petto, assieme al suo cuore, riguardava proprio i funghi. Isapia andava nella Foresta Grigia e riportava cestini ripieni di ogni tipo di miceto. Ogni forma e dimensione. Aveva insegnato a lui ed anche ad Ariadne come riconoscere tutti i tipi, quelli medicinali, quelli edibili e quelli velenosi. “Un bel piatto di funghi potrebbe salvarvi la vita un giorno” aveva scherzato. Lippo non era sicuro di ricordare davvero che suono aveva la sua voce, pensava fosse dolce, più di quella di Adrianna, ma anche ammantata da un guizzo di divertimento, come una buona zuppa calda con una raschiata di peperoncino. Però, Lippo, non era sicuro se non fosse che un invenzione della sua mente.

A volte si chiedeva se anche i ricordi che aveva di sua madre non fossero a loro volta una finzione; non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo ad Adrianna.

Si era allontano dai suoi pensieri, per tornare con lo sguardo a sua madre; per un secondo, Lippo aveva sentito un brivido attraversare la sua schiena. Ebbe, quasi, l’impressione che un guizzo di consapevolezza avesse attraversato la mente di Isapia.

“Non quei funghi” aveva detto, scostandosi da sua madre, quasi scottato, allontanandosi da lei, netto.
L’espressione di sua madre era rimasto ferma, con il viso granitico di una statua, come quelle nelle piazze della Bestia Bicefala.

Nessuna emozione, nessuna vita.

Lippo aveva recuperato il cucchiaio che aveva fatto cadere ed aveva ripreso la sua attività, teso come la corda di un mandolino.

Si era sforzato di piegare le labbra in un sorriso, ma era sicuro che la lucentezza non avesse raggiunto gli occhi; per la sua mamma non era comunque cambiato nulla. Lippo le aveva preso una mano ed aveva baciato le sue dita gentile, prima di spostare il palmo della donna sopra la sua testa, nell’imbarazzante imitazione di una carezza.

Dopo quell’ultimo, disperato, gesto, Lippo aveva dovuto abbandonare il giaciglio con una fretta bruciante, portando via il resto della ciotola ed il cucchiaio. Sapeva di non poterli abbandonare sul tavolo o avrebbero attirato le formiche o i topi e questo avrebbe reso Adrianna furiosa e le loro piccola casa pestilenziale.

Aveva lavato le stoviglie con la minor quantità d’acqua possibile – fuori casa aveva trovato il loro serbatoio pieno per un quarto, probabilmente Alesio doveva aver raccolto l’acqua dal pozzo prima di andare per campi.

Sarebbe dovuto spettare a Lippo, avrebbero dovuto chiamarli quando si erano destati.
Il pensiero lo aveva frustrato. Si era morso un labbro, mentre sfregava via con vigore i resti della ciotola, prima di riportarlo dentro casa, per sistemare nuovamente tutto nella credenza.
Sua madre era sempre lì, in un angolo come uno spettro.

“Puoi … restare qui, da sola?” aveva domandato Lippo, stupidamente.

Sapeva di non poterla abbandonare, di non poterla lasciare da sola in casa. Uno di loro doveva sempre rimanere lì, per proteggere gli averi, anche se scarsi, e la mamma – che era fragile ed incapace di provvedere a sé stessa, ma Lippo, sapeva di essere egoista, non riusciva ad essere lì, a rimanere lì, con le mani in mano.

Aveva pettinato i capelli di sua madre, incerto, le brave donne ferriane portavano i capelli raccolti, ma l’unica che aveva la pazienza di acconciarli alla mamma era Adrianna. Poi a lui, piaceva sciolti, come li portava Eliana, che non distava da loro – una bambina con gli occhi chiari come la pioggia e le fossette quando rideva. A Lippo, Eliana piaceva, ma lei avrebbe sposato Artie, che era la sua anima Destinata.
Isapia si era stesa sul giaciglio quasi da sola, senza bisogno del suo aiuto, e le aveva rimboccato la coperta, con gentilezza.

“Non posso restare” aveva sussurrato, “Nel non fare niente” aveva asserito con gentilezza Lippo, dando alla donna un bacio sulla fronte.

 

Era andato nel Bosco Grigio; era oltre i campi coltivati, se di norma i boschi erano insidiosi, abitati da fiere brutali e selvagge. E non solo quelle che camminavo su quattro zampe, ma anche su due. Bande armante, mercenari e quant’altro.

Ma il Bosco Grigio cadeva sotto l’egida della Bestia Bicefala e nessun uomo che si chiamasse tale, avrebbe mai pensato di venir a spadroneggiare tra quelle fronde.

In vero, anche i contadini si tenevano alla larga, non Lippo, che era figlio di Isapia, non aveva mai avuto remore, per quello.

Si era addentrato nella foresta, svelto, veloce ma attento. Non forse, abitualmente, non vi facevano il nido i briganti, ma non era da escludere che qualcuno uomo potesse trovarcisi ugualmente, così come, sebbene poco abituale, avrebbe potuto scorgere lupi e linci.

Era la Rinascente, in fin dei conti.

 

Lippo era stato fortunato, aveva riempito il suo cestino di bacche di mirtillo, dai globuli di un blu così intenso da sembrare dipinto da un pittore, pieni di liquido dolcino e grandi.

Certo che Frederico ne sarebbe stato estasiato.

Si era guardato nel sistemare per bene le bacche perché non scoppiassero o inondassero il cestino, nascondendole bene e proteggendole in una serie di fazzoli. Non erano belli, la stoffa era rozza e l’unico ricamo che vi era sopra, erano lettere sbilenche che Adrianna aveva cucito sopra, quando tentava di far pratica; però non era quello che era venuto a cercare.

Aveva trovato le sue vere vittime ben presto. I funghi prataioli erano subito saltati ai suoi occhi, nel sottobosco, ai piedi delle radici. Erano di un bel colore marrone, prova della loro maturità, ed erano riconoscibili per il cappello, largo e piatto. Lippo li considerava i suoi preferiti, su tutti; ricordava sua madre, tanto tempo prima, impanarli con briciole di pane ed affogarli nel grasso, sul fuoco.
Ne aveva trovati diversi tipi, quelli sottili, quelli dalla forma a chiodo – che Alesio non tollerava – con un colpo magistrale di fortuna aveva trovato anche un paio, di numero, di una tipologia con il cappello dalla forma ondulata ed il gambo bianco e polposo. Non ne trovava molti ed erano rari.
Aveva riempito il suo cestino con una quantità accettabile di funghi,  abbastanza perché quella serata riuscissero a fare una zuppa con le cipolle e tuberi e poterne essiccare e conservare alcuni per giorni avvenire – era stato fortunato e ne aveva trovato anche uno di quelli buoni per il sangue, rosa come il raso, sembravano una serie di orecchie grinzose cucite tra loro, per cappello – ma quella sensazione di pace e liberazione che il vagabondare nei boschi li dava, lo aveva costretto a rimanere, con la stessa forza delle pietre che s’attraevano.

A Lippo piaceva pensare fosse il volere del Dio-di-Ogni-Cosa-Buona; se aveva lo stesso talento d’un segugio nel trovare quelle piccole prelibatezze, un motivo doveva pur esserci.

Un po’ lo faceva ridere. Una volta aveva accompagnato Adrianna e Mino al mercato per venderli, dopo averli essiccati. Un mercante con l’accento floreale aveva ridacchiato e divertito aveva raccontato a Lippo che nell’Impero, augurare a qualcuno di andarsi a mangiare un piatto di funghi era una iettata, pari tanto ad auspicarsi che il principio se lo prendesse.

“Sì, sì. Nell’Impero quando si muore senza ragione si è morto per un piatto di funghi” aveva raccontato poi Arti, fiero e adulto – a suo dire – delle sue settante sorelle.

Per Lippo era stupido, bisognava solo avere occhio.

Si era fermato ad osservarne un altro, era sottile, più di un chiodino e difficile da osservare, non era troppo più alto di un filo d’erba e tra le foglie ed il muschio quasi spariva.

Lippo si era messo a carponi, puntando il peso sulle ginocchia ed osservando la pianta. Il gambo era sottile, di un colore bianco con sfumature rossastre, il cappello, invece, pareva la punta, addolcita, di una freccia.

“E tu, cosa sei?” aveva chiesto allungando una mano, per diteggiare la punta e saggiarne la composizione.
E poi aveva sentito il frusciare delle foglie e legno spezzato. Un verso d’animale, piuttosto gravoso
Aveva sollevato lo sguardo verso la direzione, spaventato, osservando l’oscillazione del bosco al suo fianco, poi era spuntato tra i tronchi degli alberi la figura.

Un cinghiale con zanne sporgenti dal muso aguzzo ed il manto composto di setole nere, era enorme; Lippo aveva visto cinghiali nel corso della sua vita, mai così da vicino, ma era certo, sul buon-Dio, di non averne mai visto uno così grande.

Per un momento il tempo si era gelato, lui aveva arpionato il suo sguardo sugli occhi grandi e liquidi in quelli del cinghiale.

Era durato quando un battito di ciglia e poi il panico, potente, irruente come la corrente del Serpente, così investito dal panico, a gonfiarli l’aria nel panico e a infuocare le sue gambe era scattato, veloce, come un fulmine a ciel sereno.

Era corso come un lampo per il bosco, perdendo il cestino di more e funghi dalla sua mano, ma senza che questo pensiero occupasse la sua mente per più di un momento, prima che il terrore riprendesse di nuovo possesso di lui stesso; così aveva corso.

E corso.

Corso.
E urlato spaventato, senza avere il coraggio di guardare indietro, per vedere se la bestia lo stesse inseguendo o meno.

 

Poi aveva visto qualcosa, un’ombra, e così era corso verso di lì, nella speranza che ci fosse qualcuno, qualcosa, non si era neanche accorto in che direzione stesse correndo, quanto lontano dall’argine del Bosco Grigio si fosse avventurato, quando nel cuore della selva fosse giunto, guidato dall’istinto e dalla paura.

“Ei, chi sei?”

“Che cazzo sta succedendo?”

Per il Principio!

Lippo non le aveva neanche sentite quelle frasi sconnesse, non aveva neanche realizzato che cosa fosse successo, né chi vi fosse intorno. Erano presenti degli uomini, gli aveva riconosciuti solo come ombre ad angolo dei suoi occhi. Ma la paura non lo aveva reso lucido.

E poi aveva urtato contro qualcosa, qualcosa di vivo, caldo, con un pelo ispido e rigido, l’attimo dopo qualcuno l’aveva afferrato per la collottola della blusa e tirato indietro, prima che uno zoccolo lo sfiorasse sulla fronte.

“Buon-Dio, giovane, il principio ti si è preso?” aveva gridato un uomo, aveva una voce profonda, ma calma; Lippo aveva sentito il panico cominciare ad avvilirsi, a scomparire e la chiarezza tornare alla mente, allora aveva notato il cavallo imbizzarrito, il cavaliere che lo domava splendido era riuscito a riportarlo alla calma, abile. Lippo aveva intravisto il simbolo di una lince, l’araldo di una famiglia ricca della bestia bicefala, ma non così importante da ricordarne il nome – almeno per lui, ragazzino di campagna.
Ma il cavallo dell’uomo della lince, prima di calmarsi, era riuscito ad assestare un calcione ad un altro che si era a sua volta imbizzarrito.

Il suo cavaliere aveva tentato di riprenderle le redini con ardore, ma distratto, da lui, da Lippo, con gli occhi scuri e cupi putati sui suoi.

Era caduto da cavallo.

“Lorenzin! Sei diventato improvvisamente un debuttante?” lo aveva preso in giro uno degli altri cavalieri, ma tutto ciò a cui Lippo riusciva a pensare era stato il rumore, il rumore della caduta.

Un suono dritto, secco, come di un ramo spezzato.

Quando era caduto il cavaliere aveva urtato la testa su un masso, non si era rialzato, aveva battuto gli occhi, ancora animato di vita, le sue iridi sfrecciavano a destra e manca, ma un tappetto di sangue aveva innaffiato la terra sotto di lui.

“Lorenzin!” aveva strillato uno dei cavalieri lasciandosi.

 

Lippo era rimasto immobile, come il granito, perché da terra, mentre gli uomini si affaccendavano per issarlo, lui aveva visto il decoro del suo farsetto.

Un lupo nero, una bestia maligna, erta sulle zampe posteriori, con le zanne sguainate e la pelle superiore del muso arricciato, in un ringhio.

Il Lupo.

Una delle teste della Bestia Bicefala.

Don Lorezin di Peripsia.

“Cosa ho fatto?” era riuscito a boccheggiare, spaventato.

 

L’uomo che lo aveva afferrato per la collottola non lo aveva lasciato per un momento, “Che il principio vi si pigli, lo dobbiamo riportare in città” aveva gridato forte. Non c’era più calma nella sua voce, ma genuina preoccupazione. Lippo aveva sollevato lo sguardo, prima del viso dell’uomo aveva riconosciuto, sul cuore, cucito, la testa di una volpe di profilo.

La paura lo aveva invaso di nuovo, diversa da quella che l’aveva attraversato rispetto quando aveva visto il cinghiale, era stato qualcosa di più atavico, di più viscerale.

Perché era arrivata con la paura un altro sentimento: la consapevolezza.

Lo avrebbero ucciso.

E avrebbero ucciso tutti quanti.

   
 
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