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Autore: Keeper of Memories    13/03/2023    2 recensioni
Durante l'ennesima fuga dalle autorità, Hjala si ritrova all'interno della fatiscente casa di un vecchio elfo. Quest'ultimo, dapprima diffidente, racconterà alla giovane una storia incredibile, tanto da farle credere davvero nell'esistenza del Destino.
Genere: Fantasy, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Maledizione, maledizione, maledizione!»
Hjala stava correndo a perdifiato lungo le strette viuzze di Irran, esibendosi in un pericoloso slalom tra i carretti dei fruttivendoli e le persone che affollavano la piazza del mercato. Come se non bastasse, la città elfica pullulava di viaggiatori giunti ad assistere allo spettacolare festival dell’inverno, rendendole la fuga ancora più difficile.
Svoltò all’improvviso in una stradina laterale, poi in un’altra, poi un’altra ancora, finché non arrivò a un vicolo cieco. Il clangore delle armature dei paladini si fece sempre più vicino, doveva pensare in fretta se non voleva passare il resto della sua esistenza in qualche prigione maleodorante della Chiesa.
Guardò in alto, ringraziando la sua buona stella: nell’edificio al suo fianco c’era una finestra aperta al primo piano. Strinse le cinghie che assicuravano il liuto alla sua schiena e, con uno slancio degno dei migliori atleti, si arrampicò, sfruttando sapientemente le rientranze e le crepe del fatiscente muro di mattoni.
Quando i paladini arrivarono, il vicolo era vuoto.
Hjala tirò un sospiro di sollievo quando vide i suoi inseguitori armati fino ai denti dirigersi altrove.
Quando aveva iniziato a suonare all’angolo della via principale, si aspettava di ricevere qualche occhiataccia, ma non pensava assolutamente che sarebbe finita così. Certo, avrebbe probabilmente dovuto chiedere i permessi a chi di dovere, ma ultimamente trovava davvero esagerate le reazioni della Chiesa nei confronti suoi e dei suoi simili. Sfiorò le corna caprine che adornavano il suo capo, affranta dall’idea di doverle nuovamente nascondere sotto un cappuccio.
 
Una voce gracchiante interruppe improvvisamente il flusso dei suoi pensieri.
«Non ho niente che puoi rubare! Vai via!»
Finalmente, Hjala si guardò attorno. Si trovava in una stanza spoglia, dalle mura ingiallite, il cui unico mobilio era rappresentato da un baule consunto e un letto divorato dalle tarme. Su quest’ultimo, un vecchio elfo osservava corrucciato la stanza, avvolto in una considerevole quantità di coperte. Da come muoveva la testa, Hjala capì che non poteva vederla.
«Non si preoccupi, vado via subito» mormorò, già pronta a uscire per la stessa via da cui era entrata.
«Aspetta!»
Hjala si bloccò.
«Aspetta,» ripeté il vecchio elfo «sei un bardo, per caso?»
Hjala lanciò un’occhiata al liuto assicurato sulla sua schiena. «Come fate…?»
«Riconosco l’odore della mistura di erbe che i musici usano assieme al grasso per mantenere i loro strumenti.»
«Capisco. Sono solo una cantastorie… a quelli come me non è permessa la professione di bardo.»
«Una Senza Dio! Tsk» disse il vecchio, senza curarsi minimamente di nascondere il disprezzo dalla sua voce.
«Già, così ci chiamano…»
Hjala alzò gli occhi al cielo. Era abituata a quel genere di trattamento, ma aveva di meglio da fare che sentire gli insulti di un vecchio. Doveva pensare a un modo per uscire dalla città, il più in fretta possibile.
«Bah! Non m’importa. Sono vecchio e sto morendo. Ho bisogno di un favore, le tue orecchie andranno bene comunque. Vieni qua.»
«Come scusi? Non capisco.»
«Voglio proporti un patto ragazzina. Tu ascolti quello che ho da dire e in cambio puoi stare qui quanto vuoi. Sicuramente, almeno finché le persone armate che ti stavano seguendo non se ne vanno.»
«I paladini? Avete sentito i paladini?» Hjala sgranò gli occhi per lo stupore, per quanto vecchio quell’elfo ci sentiva benissimo.
«I paladini della Chiesa! Sei per caso un’eretica?»
«No, io-»
«Ok, non importa.» la interruppe bruscamente «Accetti la proposta o no?»
La giovane rifletté sulle sue possibilità. Effettivamente, starsene nascosta per un po’ poteva essere un buon modo per far perdere le sue tracce. Se i suoi inseguitori stavano ancora attivamente pattugliando la città, poteva essere pericoloso uscire proprio ora.
«O beh, raccogliere storie è parte del mio lavoro, no?» disse, sedendosi sul bordo del letto «Cosa volete raccontarmi?»
 
Il mio nome è Rymen Calel. Sono nato nella famosa Aalrion dalle torri bianche, la capitale dell’Impero Elfico, nota per essere la città benedetta da Ysa, dea della Sapienza e della Conoscenza. Sono passati molti secoli, ma al tempo ero il rampollo di una delle famiglie più importante della società elfica, nonché il più giovane maestro evocatore della Torre del Richiamo, sede della prestigiosa scuola di evocazione, per l’appunto.
Avevo tutto, la giovinezza, la ricchezza, l’intelligenza, il prestigio. Avevo una fila lunghissima di ammiratori e ammiratrici che mi divertivo a tenere sulle spine, a cui non concedevo nulla, se non lo stretto indispensabile per mantenere il mio ego e la mia vanità sul piedistallo che ritenevo di meritare.
Fu quando m’innamorai che il mio mondo cambiò totalmente, scivolando in un lento declino che mi ha portato ad essere quello che sono oggi: un vecchio solo e affranto.
 
La prima volta che la vidi, non le prestai alcuna attenzione. Era solo un’umana dall’aspetto anonimo. Per di più, era un’apprendista illusionista, una di quegli stolti che si divertono a creare sciocche immagini per il diletto altrui. Perché avrei dovuto interessarmi?
Accadde nelle settimane successive. Avevo tenuto una lezione in una delle sale di addestramento pratico e l’ora si era fatta tarda. Mentre calcavo i corridoi vuoti, sentii una voce meravigliosa provenire da una delle stanze, che a quell’ora dovevano essere vuote. Entrai, con l’intenzione di cacciare chiunque fosse ancora presente.
Rimasi di stucco. La sala d’addestramento era completamente sparita, al suo posto vi era una foresta lussureggiante, immersa nel calore del sole estivo. Capii subito che era una mera illusione, ma era così bella, così vitale da avermi tolto il fiato. Si sentiva il cinguettio degli uccelli e il frinire dei grilli, il profumo dei fiori e il frusciare della vegetazione. Al centro di questo meraviglioso luogo fittizio, c’era lei. I capelli corvini danzavano nell’aria intrisa di magia, la sua voce melodiosa era accompagnata dal sorriso più bello che io avessi mai visto. Non appena mi notò, due occhi color dell’ambra scura si spalancarono e istantaneamente quel mondo bucolico sparì. Arrossì, prodigandosi in infinite scuse per quel ritardo. Per gli Dei, non la stavo nemmeno ascoltando! Ero rimasto incantato, folgorato. Era la creatura più bella che avessi mai visto.
 
Rymen si fermò, la testa ciondolante e lo sguardo perso in una direzione non ben precisata.
«Ehi, ragazzina, hai qualcosa da bere?»
Hjala controllò le sue bisacce. «Ho finito l’acqua. Ma ho dello spirito nanico!»
Il vecchio elfo ridacchiò. «Com’era quel detto nanico? “L’acqua fa ruggine.”»
Allungò il braccio nella sua direzione e Hjala gli mise in mano la sua borraccia. Bevve qualche sorso, prima di proseguire.
 
Ci innamorammo. In realtà non fu facile conquistarla, era molto schiva e diffidente. Abituato com’ero ad essere adorato dalle genti, non mi aspettavo minimamente di doverci mettere dell’impegno. Ma lo feci, perché per lei ne valeva la pena. Ero felice come mai lo ero stato ed era tutto merito suo. La mia gioia non durò a lungo.
Accadde durante una visita alla mia famiglia. Lei non era venuta con me, ma decisi comunque di parlare del mio nuovo amore con le persone a me più care. È questo che si fa, no? Quando qualcosa di bello accade, vuoi condividerlo con la tua famiglia.
Temevo di trovare resistenza. Dopotutto lei era una semplice umana e io un elfo di un certo calibro, sarebbe parso normale a chiunque. Trovai invece una tiepida accoglienza, fatta di compassionevoli sorrisi tirati. All’inizio non capii, poi le parole di mio fratello minore m’illuminarono. Anzi, sarebbe più giusto dire che mi colpirono come una valanga.
“Quanto pensi che viva ancora? Cinquanta, sessant’anni? L’importante è che tu non produca eredi e puoi divertirti quanto ti pare” mi disse.
Ribollivo di rabbia. Come potevano riferirsi all’amore della mia vita come a un mero divertimento? Come osavano parlare di lei come se fosse una sgualdrina qualunque?
Quella fu l’ultima volta che vidi la mia famiglia. Li odiavo, ma mi avevano fatto realizzare qualcosa di fondamentale: il tempo che avevo a disposizione con lei era limitato.
Come se quell’onta non fosse sufficiente, scoprii che la mia amata soffriva di una terribile malattia incurabile, che non l’avrebbe fatta sopravvivere per più di altri dieci anni. Credevo d’impazzire. Iniziai a fare ricerche di qualsiasi tipo, inoltrandomi nei meandri più oscuri e proibiti del sapere con il solo scopo di trovare un modo per prolungarle la vita. Non potevo lasciare che morisse, non ora. Non lo accettavo.
 
Il vecchio elfo si fermò di nuovo, colpito da un violento accesso di tosse. Hjala lo aiutò a mettersi seduto e gli fece bere ancora una volta dalla sua borraccia.
«Suvvia, non morire ora vecchio! Devi finire la tua storia.»
«E la finirò! Aiutami a stendermi, sono stanco.»
Hjala obbedì, rimboccando accuratamente le coperte che avvolgevano Rymen.
 
Alla fine, un modo lo trovai. Il dio Domàr, il giudice dell’Aldilà, poteva decidere di rimandare indietro la sua anima, nel mondo dei vivi. Non esistevano però chierici di alcun tipo che fossero in grado di comunicare direttamente con un dio, di nessun genere.
Tuttavia, nella città di Bluecliff esisteva un uomo, un certo Ri’saad, che si diceva essere avatar del dio Domàr. Se è vero quello che dicono, che gli avatar posseggano un anima manipolata dagli dèi stessi e dei poteri miracolosi derivanti da essa, allora contattare quest’uomo era la mia unica possibilità.
Ne parlai con la mia amata. Ovviamente si oppose, anzi, mi rimproverò. Invece di passare insieme quel poco tempo che ci rimaneva, lo stavo buttando per inseguire una vana speranza. Lei ovviamente aveva ragione, ma io ero terrorizzato, terrorizzato dalla solitudine che mi avrebbe accompagnato nei secoli a venire. Non potevo vivere senza di lei.
Alla fine, andammo veramente a Bluecliff. Trovare questo Ri’saad non fu difficile, anche se per i motivi sbagliati. Non mi dilungherò nei dettagli, ma possiamo dire che l’avatar di Domàr era certamente “un uomo d’affari”. Si dimostrò disponibile ad aiutarmi, in cambio di qualcosa.
“Sono il miglior maestro evocatore dell’Accademia di Aalrion.  Dì il tuo prezzo, né i soldi, né le capacità, né il prestigio mi mancano.”
Ah, feccia umana! Ricordo ancora il ghigno divertito sulla sua faccia all’udire le mie parole. Ma firmai comunque un contratto, con il mio stesso sangue, dove lasciavo tutti i beni della mia prestigiosa famiglia al signor Ri’saad.
Fu di parola. Comunicò direttamente con il Dio, ero presente durante l’incantesimo e le mie conoscenze mi confermarono che era così. Mi lasciò un rituale da compiere composto da numerosi passaggi in cui veniva spiegato come sacrificare un’anima a Domàr. Un’anima per un’anima era il prezzo, ma se l’avessi fatto sarebbe rimasta per sempre con me.
 
Rymen si fermò ancora una volta.
«Tutto bene?» chiese Hjala, incerta. Il vecchio elfo respirava piano e a stento.
 «Scusami. Ho bisogno di una pausa.»
«Vuoi qualcosa da mangiare?»
«Nah, va tutto bene. Sono quasi alla fine, ma non morirò prima di allora.»
 
Feci quel maledetto rituale. All’iniziò, non funzionò o così pensavo: lei morì tra le mie braccia pochi anni dopo. Ero furioso! Quel Ri’saad mi aveva ingannato. Tornai a Bluecliff per affrontarlo, ma il potere di quell’uomo era troppo anche per me.
“Domàr ha ascoltato le tue preghiere” mi disse, cacciandomi a forza.
Ero impotente, solo, perso.
Passai i successivi vent’anni in solitudine, isolandomi nei miei alloggi dell’accademia. Parlavo il meno possibile, il mio seguito di ammiratori era diventato insignificante. Nulla aveva più senso.
Poi un giorno la sentii di nuovo, quella meravigliosa melodia che lei aveva cantato la prima volta che la conobbi. Pensavo di essere impazzito. Come poteva essere lei? Lei era morta. Ma quando entrai in quella maledetta stanza, ancora una volta mi accolse quel paesaggio magnifico, assieme a due sereni occhi d’ambra scura. Tutto qui.
Non era lei. Era certamente umana, ma il suo aspetto era totalmente diverso, fatta eccezione per gli occhi. La prima cosa che mi disse però mi colpì come un fulmine a ciel sereno.
“Non credo di avervi mai visto, signore, eppure mi sembrate familiare.”
Realizzai cosa avevo fatto, chi questa donna fosse. Domàr aveva veramente ascoltato le mie preghiere e aveva rimandato la sua anima a me, in un altro corpo. Non pensavo sarebbe finita così, eppure avrei dovuto sapere che il Giudice non aveva potere sulla carne mortale e nulla poteva fare per allungare la sua vita.
Tornò da me molte volte. Il suo corpo cambiava, la sua razza non era mai la stessa, ma quegli occhi ambrati e quel canto melodioso erano sempre gli stessi. Eppure, moriva sempre tra le mie braccia dopo pochi anni dal nostro incontro.
Alla fine, quel contratto che avevo firmato rovinò la mia famiglia. Caddi in disgrazia e, stanco di questa eterna sofferenza, decisi di isolarmi qui, in questa città minuscola dimenticata dagli dèi, dove attendo di morire in pace.
 
Il vecchio smise di parlare. Stava morendo proprio come desiderava, Hjala riusciva a capirlo. Decise di prendere il suo liuto, per fargli un ultimo regalo.
Iniziò a suonare la melodia più bella che conoscesse e cantò, un canto antico che aveva imparato da bambina sebbene non ricordasse né come né da chi.
Gli occhi di Rymen si schiarirono e tornò a vedere per un attimo, prima spirare. Hjala avvicinò il volto al suo, permettendo per un’ultima volta al vecchio elfo di specchiarsi nei suoi occhi colore ambra.
   
 
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