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Autore: Nina Ninetta    31/03/2023    1 recensioni
Questa storia partecipa alla "To Be Writing Challenge 2023" indetta da Bellaluna sul forum "Ferisce la Penna"
Raccolta di storie dedicate al mondo di Tekken e ispirate a tematiche ben precise e diverse ogni mese, scelte dai partecipanti della challenge.
1. Տai chi sei? [Gennaio - Sisterhood - Nina&Anna]
2. La mamma è sempre la mamma [Febbraio - Motherhood - Steve&Nina]
3. Ⱥngel&Ðevil [Marzo - GrumpyXSunshine - Jun&Kazuya]
4. Come un abbraccio [Aprile - Domestic Fluff - Jin&Jun]
5. Coinquiline Diverse [Maggio - Roommate! AU - Xiaoyu, Asuka, Lili, Jin, Hwoarang]
6. Un Amore di Macchina [Giugno - ForbiddenLove - Lars&Alisa]
7. La Tomba dei Ricordi [Luglio - Childhood Friends - Heihachi&Kazumi]
8. Տole o Ҏianeta? [Settembre - Unrequited Love - Anna/Nina&Lee Chaolan]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Lars Alexandersson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questa storia partecipa alla To be Writing Challenge indetta da Bellaluna sul forum di Ferisce la Penna.
Mese: marzo
TemaGRUMPYXSUNSHINE: all’interno della storia bisognava raccontare di due personaggi dal carattere opposto che finiscono per innamorarsi, e chi meglio di Jun Kazama e Kazuya Mishima impersonano questo tema?!

Siamo nel pieno di Tekken 2, quando il leader della Mishima Zaibatsu è Kazuya Mishima, il quale ha spodestato il padre alla fine del primo Torneo del Pugno d'Acciaio...


 
Ⱥngel&Ðevil
 
 
Jun si tirò su a fatica, barcollando su gambe doloranti ed escoriate in diversi punti, il sangue ormai raggrumato. Probabilmente una spalla si era rotta, dal momento che le faceva un gran male e non riusciva a muovere il braccio, tenuto fermo dall’altra mano con le nocche scorticate. Il volto era sporco di fuliggine e la ferita alla testa le aveva macchiato la guancia destra di sangue ancora fresco.
Combattere contro Heihachi Mishima non era stata una cosa molto intelligente, né furba, doveva ammetterlo. Ma che altro avrebbe potuto fare? Voltarsi di spalle e fuggire, ignorare la situazione in cui vessava Kazuya? Il suo grido d’aiuto? Davvero aveva creduto che un essere semplice e insignificante come lei avrebbe potuto sovvertire le sorti e la maledizione di quella famiglia?
Sì, ci aveva creduto sul serio!
E forse ci credeva ancora, perché suo padre le aveva insegnato che il Bene può sconfiggere il Male e lei ci era quasi riuscita, aveva annichilito il demone – Devil – che albergava in Kazuya, ma nulla aveva potuto contro suo padre Heihachi: un uomo malvagio e nulla più…
Attraverso la vista offuscata dal dolore e dal fumo scuro che si levava dalla bocca del vulcano, intravedeva due figure, una delle quali teneva per la gola l’altra, spingendola sempre più verso il baratro, addirittura sollevandola da terra.
«Kazuya!» Urlò, cercando di farsi sentire al di sopra dello scoppiettio del fuoco che lambiva lo spazio circostante.
«Ju-Jun?» Balbettò il giovane Mishima, sofferente quasi quanto lei.
Quando Heihachi si voltò indietro per osservarla, stendendo le labbra in un sorriso tronfio, lei poté vedere meglio: il vecchio teneva suo figlio per il collo, mentre quest’ultimo tentava in tutti i modi di divincolarsi dalla presa, scuotendo le gambe con entrambe le mani chiuse intorno al braccio del padre.
«Vattene, Jun! Vattene!» Gridò di rimando.
Se anche fosse riuscito nell’intento di liberarsi, sarebbe caduto nel nulla…
Ma come erano arrivati a quel punto?


 
§

 
Jun Kazama era stata incaricata dall’Associazione ambientale per cui lavorava di fermare la azioni scellerate di un certo Kazuya Mishima, leader della Mishima Zaibatsu dopo aver sconfitto il padre nel Primo Torneo del Pugno D’Acciaio, indetto dallo stesso Heihachi Mishima. Stando alle ricerche condotte dall’Associazione, Kazuya era invischiato nel traffico illecito di animali, il cui scopo non era chiaro, ma andava fermato a tutti i costi! Il presidente dell’Associazione le aveva mostrato una foto del ventottenne leader della Mishima e Jun l’aveva studiata per quasi un minuto, rimanendo ipnotizzata dagli scurissimi e impenetrabili occhi che la fissavano di rimando.
«Mishima?» Aveva chiesto poi, ridestandosi. «Quella Mishima?»
«Esattamente!»
«E come pensi che dovrei fermarlo?»
«Partecipando al Secondo Torneo del Pugno D’Acciaio, mi pare ovvio!» Era stata la risposta del giovane presidente e lei non aveva potuto controbattere per due ragioni: la prima perché era già stata iscritta alla gara ed era l’unico membro dell’Associazione che avrebbe potuto prenderne parte vista la sua conoscenza nelle arti marziali. La seconda perché desiderava incontrarlo di persona.
«Kazuya Mishima?» Lo aveva avvicinato il giorno delle presentazioni ufficiali dei partecipanti al torneo. Heihachi li aveva invitati alla sua presenza, ricordando a tutti le regole e augurando a ciascuno di loro una buona permanenza nella sua proprietà. Poi era stato inaugurato un buffet con centinaia di portate ispirate a ogni tipo di cucina nota, dall’indiana alla francese. Jun per tutto il tempo non aveva perso di vista Kazuya, primo e unico erede dell’impero Mishima. Tuttavia, anche un cieco avrebbe compreso che tra i due parenti non scorreva buon sangue. Mentre il vecchio parlava, infatti, l’altro non aveva battuto ciglia neanche una volta, rimanendo per tutto il tempo adagiato con una spalla contro una colonna e le braccia conserte. Completamente rapito dal discorso pronunciato dal padre, Jun ne aveva approfittato per scrutarlo con attenzione. Il suo obiettivo aveva un fisico possente, allenato e muscoloso; i capelli corvini, come gli occhi, erano lucidi e acconciati all’indietro; le labbra perennemente arricciate agli angoli della bocca in un’espressione sprezzante, cinica; i lineamenti del volto erano ruvidi, nonostante avesse a malapena ventotto anni.
Quando Jun lo avvicinò, chiamandolo per nome, lui si voltò indietro a guardarla, in mano teneva un bicchiere pieno a metà di una bevanda verdastra, forse tè. Sollevò un sopracciglio, forse infastidito e incuriosito che qualcuno gli rivolgesse la parola:
«Sei in arresto per traffico illecito di animali», aveva proseguito lei, sforzandosi di restare calma, sebbene l’altro fosse grosso quasi il doppio di lei. Ma non era solo quello, c’era stato qualcos’altro a mandarle tutti i sensi in allerta, un presentimento che pareva insinuarsi sotto la pelle, fin nella testa e urlarle di stargli alla larga. Kazuya aveva riso forte, attirando l’attenzione degli altri combattenti:
«E mi arresteresti tu?!» Aveva domandato senza smettere quel sorrisetto di scherno
«Sì.»
Kazuya aveva scosso la testa, ridacchiando, poi aveva lasciato il bicchiere sul tavolo e si era chinato in avanti per sussurrarle all’orecchio:
«Non vedo l’ora, Kazama. Non vedo l’ora.» Quindi era andato via, le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni felpati e un’aria divertita, lasciando la ragazza a chiedersi come facesse a conoscere il suo nome.
Suo padre, il rispettatissimo Kazama sensei, le aveva insegnato che il fisico non è tutto in una disciplina come il karate, raccontandole di un mito biblico in cui un certo Davide aveva battuto il temutissimo Golia; che la mente domina la materia.
Jun aveva osservato Kazuya per giorni, con discrezione, imparando a memoria le sue abitudini, evitando il confronto diretto pur trovandoselo davanti, nonostante lui non perdesse mai occasione di farsi beffe di lei.
Intanto, il Torneo era cominciato ed entrambi si stavano distinguendo per i risultati ottenuti. Lei per il suo stile di combattimento, fresco e pulito; lui per l’impetuosità e – talvolta – la violenza. Un giorno, Jun si trovava nei corridoi che portavano all’arena, in attesa di combattere contro il suo prossimo avversario, quando il lottatore appena battuto da Kazuya Mishima le passò sotto agli occhi, spinto su una barella da un paio di infermieri e privo di sensi. Subito dopo, lo stesso Kazuya le si era palesato davanti, con l’aria compiaciuta. Jun si era ripromessa di non rivolgergli la parola, ma quell’espressione soddisfatta la mandò in bestia.
«Non c’era bisogno di arrivare a tanto» gli disse.
«È un debole e i deboli non meritano pietà.»
«Ma che razza di ragionamento è?!»
«Non è un ragionamento. È la vita».
A tale risposta, Jun avrebbe voluto mollargli un pugno, tuttavia quel modo di fare non le apparteneva. Ciò nonostante, temeva l’effetto che la vicinanza di quell’uomo le provocava, era una specie di fastidio fisico, simile a una leggera scossa elettrica che l’attraversava tutta, lasciandola disorientata.
«Non temere» aveva proseguito lui, «se mai dovessimo affrontarci, ci andrò piano con te.» Si mosse per oltrepassarla, arrestandosi alla sua altezza, e infine aggiunse: «Sto ancora aspettando le manette» aveva riso di gusto e se ne era andato.
 
Ecco perché, quando era riuscita a catturarlo, notando incredulità nel suo sguardo spaesato, sempre così altezzoso, non aveva potuto non sentire una punta di soddisfazione.
Kazuya era seduto sul pavimento di un vecchio magazzino, con i polsi legati fra botti di vino e caciocavalli appesi al soffitto. Dapprima aveva tentato di liberarsi, dimenandosi come un forsennato, poi aveva compreso che non ci sarebbe riuscito e perciò era passato alle minacce. Per la prima volta, Jun aveva provato paura, vera paura. Non si era trattato della consueta sensazione di disagio, di allerta, avvertita altre volte in sua presenza. In quel frangente aveva percepito terrore puro, era quasi come trovarsi di fronte a un demonio, un diavolo. Era indietreggiata, spaventata, e solo a quel punto lui era sembrato tornare in sé.
«Scusami» aveva sospirato socchiudendo gli occhi, l’aria stanca di chi ha un’enorme fardello da portare. «Hai catturato il Mishima sbagliato. È mio padre che finanzia il mercato nero degli animali per i suoi macabri esperimenti» spiegò, senza che lei glielo avesse chiesto, perdendo tra l’altro la sua abituale tracotanza. Nonostante le scuse, Jun continuò a fissarlo ammutolita, gli occhi sgranati e spauriti.
«Liberami e ti prometto che fermerò mio padre anche per te.» Nulla. «Kazama, liberami!» Non c’era pericolo nella sua voce, la sua rabbia pareva essersi placata. «Kazama?!»
Jun sbatté le palpebre un paio di volte, tornando in sé:
«Tu hai una maledizione» biascicò e questa volta toccò a lui restare senza parole. «In te alberga il gene del Male.»
Mishima non poteva crederci: quell’insulsa ragazzina di appena ventidue anni si era accorta del suo segreto più grande solo guardandolo, ma come era possibile? Che anche lei avesse poteri divini?
D’altra parte, non poteva nascondere che fin dalla prima volta che l’aveva vista aveva provato un senso di pace, di serenità interiore che non sperimentava da tanto tempo, e che forse non aveva mai provato nella sua esistenza. La sola presenza di Jun all’interno della stessa stanza riusciva ad acquietarlo.
«Sì, è così» ammise, poiché nasconderlo non avrebbe avuto senso. «Liberami, Kazama,»
«Dovrei ucciderti» soppesò lei. «Sei un pericolo per il mondo intero, dovrei ammazzarti, qui e ora…»
«Jun…» Kazuya le parlò piano, «devo fermare mio padre. Non hai idea di quanto sia pazzo quell’uomo, né di quello che ha in mente di fare. È pericoloso. Liberami, Jun. Lasciami andare. Devo andare.»
Jun cadde in ginocchio, sopraffatta dalle sensazioni discordanti che provava. Sapeva cosa andava fatto, ma non riusciva a farlo. E sarebbe stato facile anche, legato com’era…
«Com’è successo?» Chiese invece.
Lui considerò la risposta da darle e se farlo, poi capì che aveva bisogno di sapere o non si sarebbe fidata di lui.
«A cinque anni mio padre mi gettò nella bocca di un vulcano e mi disse che se fossi stato davvero degno del suo nome sarei sopravvissuto. L’ho fatto, sono sopravvissuto, ma a che prezzo?»
Jun era in lacrime, si sporse in avanti e come se volesse abbracciarlo tagliò con n coltellino a serramanico la fune che lo teneva legato. A quella vicinanza Kazuya abbassò le palpebre e respiro a fondo il buon odore della ragazza: sapeva di pioggia primaverile, di fiori appena sbocciati, di miele e vaniglia. I setosi capelli neri di lei, tagliati a caschetto e trattenuti da una fascia, gli solleticarono la guancia.
«C’è del buono in te» gli disse rimettendosi in piedi. «Non cedere a lui» concluse, andando via.
 
Una mattina all’alba Kazuya l’aveva notata nel giardino orientale che era stato il preferito di sua madre ed era rimasto in disparte a osservarla per diversi minuti, mentre si allenava da sola. Di nuovo, quel senso di calma lo aveva pervaso, alleggerito il cuore.
Entrambi erano giunti alle semifinali e sapevano che se avessero sconfitto i propri avversari si sarebbero trovati a lottare uno di fronte all’altro in finale, prima di affrontare Heihachi Mishima in uno scontro extra.
«Hai un’ottima tecnica, Kazama» si annunciò, facendola trasalire. «Hai avuto un buon sensei» aveva aggiunto, sciogliendo l’intrico delle braccia e facendo dei passi nella sua direzione.
La ragazza l’aveva seguito con lo sguardo, vigile, mentre riprendeva fiato e cercava eventuali vie di fuga.
«Mio padre» rispose ansimando per lo sforzo fisico e per l’ansia che le trasmetteva la presenza del giovane, il quale si fermò a un paio di metri da lei mettendosi in posizione di attacco. Jun non si mosse, temendo che volesse fargliela pagare per l’umiliazione di averlo catturato e legato a un palo nella cantina della cucina della sua stessa proprietà.
«So che dovrai affrontare il wrestler nel tuo prossimo incontro. È molto più grosso di te, perciò avrai bisogno di una buona tattica» le fece cenno di farsi avanti con le dita della mano e lei non si fece pregare. Lo attaccò con una serie di pugni e qualche calcio che tuttavia l’altro parò senza enormi sforzi, tenendo il suo classico sorrisetto canzonatorio sul volto, altrimenti imbronciato. D’improvviso, lui l’afferrò per il polso, glielo torse e la imprigionò con il braccio dietro alla schiena, lasciando aderire il corpo al proprio:
«Ricominciamo» le sussurrò, liberandola dalla presa.
E lei ricominciò.
Kazuya si acconciò l’asciugamano sulla nuca, sebbene non fosse sudato o stanco, al contrario di lei che sentiva ogni muscolo dolerle per lo sforzo di colpirlo a ogni costo.
«Sprechi troppe energie» constatò il giovane, passandole la borraccia con l’acqua. «Devi colpirlo alle gambe. È lì che sono più vulnerabili quelli della sua stazza.»
Jun bevve un lungo sorso di acqua fresca e aromatizzata che aveva preparato personalmente, mentre una domanda precisa continuava a tormentarla:
«Perché lo fai? Perché mi stai aiutando?» chiese alla fine, tenendo lo sguardo fisso sulla vegetazione rigogliosa che si espandeva tutt’intorno. Non riusciva a guardarlo.
«Perché ho bisogno di qualcuno che fermi Heihachi al posto mio, qualora io fallissi.» Solo allora lei si voltò di scatto nella sua direzione, gli occhi sgranati.
“Qualcuno che fermi Heihachi… o te?” Avrebbe voluto chiedergli ancora la ragazza, ma Kazuya tornò in piedi e la invitò a fare altrettanto: la pausa era finita.
 
Gli allenamenti mattutini divennero un appuntamento fisso, fino al giorno dell’incontro tra Jun e l’altro combattente e fu sempre durante questi momenti che impararono a conoscersi meglio. Soprattutto lei ebbe la conferma di quello che aveva percepito la prima volta che lo aveva guardato: c’era del buono in lui. Dietro la sua rigida corazza – il demone, con cui aveva stretto un patto di sangue – Kazuya era un uomo a tratti gentile, simpatico e generoso. Inoltre, quando sorrideva con spontaneità il volto gli si illuminava, gli occhi scuri brillavano e Jun in quegli istanti più unici che rari pensava che si sarebbe potuta innamorare follemente di lui.
Ammesso che tu non lo sia già”, le sussurrava la sua stessa voce nella mente.
Come quando il giovane Mishima le aveva domandato come avesse fatto a catturarlo. Lei gli aveva raccontato che lo aveva sedato mettendo alcune gocce di sonnifero per bestie nel suo tè, quello che beveva dopo gli allenamenti pomeridiani, e che aveva dovuto aumentare la dose di qualche milligrammo giorno dopo giorno, giacché sembrava non avere effetto su di lui. Poi, stanca e infastidita da quella situazione, aveva versato quasi tutta la boccetta e lui era crollato al suolo al primo sorso, tanto che aveva temuto di averlo ucciso. Era stato allora che Kazuya era scoppiato in una risata allegra, a bocca aperta e occhi chiusi, sdraiandosi di schiena e sorreggendosi la pancia in maniera plateale:
«Uccidermi? Tu?» Le aveva appoggiato una mano sulla testa mentre lei lo fissava corrucciata: perché non la prendeva mai sul serio? «Non saresti capace di far male a una mosca.»
E aveva ragione.
Poi arrivò il giorno della semifinale, la prima delle due fu disputata tra Jun e il wrestler con la maschera da tigre. La giovane lottò con tutte le proprie forze, ma l’altro era davvero troppo forte e troppo grosso per lei, perciò alla fine si arrese. Quello che però non sapeva – che non sapeva nessuno dei combattenti – era il patto che Heihachi aveva stretto con il lottatore americano: uccidi la ragazza e avrai una somma di denaro tale da poter accudire tutti gli orfani del mondo. Il wrestler doveva aver pensato che una vita sacrificata non è nulla se paragonata a quella di centinaia di bambini poveri e affamati, ecco perché avrebbe spezzato il collo di Jun senza remore se Kazuya non fosse intervenuto in sua difesa.
In realtà, non era proprio Kazuya, non nelle sue fattezze umane comunque, poiché, attraverso la vista appannata dalla mancanza di ossigeno per la strangolatura, Jun aveva notato due grosse ali violacee atterrare vicino a lei.
Quando dagli spalti il giovane leader della Mishima Zaibatsu aveva inteso le intenzioni del combattente, il quale si era appena scambiato un cenno di intesa con il vecchio Heihachi sebbene avesse vinto il macht, l’ira si era impadronito di lui ed era letteralmente volato al centro del ring, allontanando l’americano con un calcio in pieno stomaco e raccolto tra le braccia una Jun semicosciente che aveva bisbigliato il suo nome prima di abbandonarsi contro il suo petto:
«Kazuya…»
Quest’ultimo aveva lanciato un’occhiata rabbiosa verso la tribuna d’onore, dove su un trono dorato sedeva suo padre e si era dileguato con un battito d’ali, lasciando tutti i presenti in assoluto silenzio.
Heihachi aveva notato il rapporto sbocciato fra loro due e aveva cercato di eliminare il problema a monte. Tipico di lui.
 
Jun aprì gli occhi all’alba del giorno dopo, cullata dal fruscio della pioggia sugli alberi e dal ticchettio sul patio di legno. Kazuya era seduto proprio qui, sul primo scalino, i gomiti adagiati sulle ginocchia e il mento sorretto dalle mani chiuse una nell’altra, lo sguardo era fisso sul cielo grigio.
La ragazza uscì dal caldo del futon, indossava una felpa scura, decisamente troppo grande per il suo fisico esile; le gambe snelle erano nude. Coi piedi scalzi raggiunse Kazuya e gli si accomodò accanto, reagendo con un brivido alla fresca pioggia primaverile. Si tirò le maniche fino a nascondersi le mani all’interno e si coprì il capo con il cappuccio. Lui l’attirò a sé senza pronunciare parola e le strofinò la schiena per riscaldarla. Jun smise di tremare: il corpo dell’uomo era tiepido e rassicurante
«Ho perso» sospirò.
«Era troppo grosso e le sue motivazioni più forti delle tue.» Il tono di lui risultò monocorde, freddo, ma non c’era biasimo nella sua voce.
«Mi avrebbe uccisa se non fossi intervenuto.»
«Mio padre la pagherà anche per questo.»
«Ma perché io? E per la denuncia sul traffico illecito di animali?»
Kazuya sorrise, scuotendo il capo e abbassando lo sguardo per guardarla, ma senza muovere la testa. A volte quella ragazza era di un’ingenuità sconcertante.
«No, l’ha fatto per colpire me.»
Jun non aggiunse altro, temendo di risultare stupida se gli avesse chiesto in che senso. Osservò invece la vegetazione bagnata di pioggia, il suo verde brillante, ispirando l’odore di terra bagnata che tanto amava. Erano nel giardino in stile orientale che li aveva scoperti compagni di allenamento in quel periodo. Ma ora che il torneo stava giungendo al termine, cosa ne sarebbe stato di loro?
«Non conoscevo questo angolo di giardino. È molto bello» osservò la ragazza, restando con la testa sulla spalla di Mishima.
«Questo era il dojo di mia madre» spiegò lui.
«Lei è…?»
«Morta. Uccisa da mio padre.»
Jun si ridestò, le lacrime agli angoli degli occhi pensando a quanta sofferenza avesse dovuto sopportare la persona che le stava di fronte durante la sua vita.
«Ed è per questo motivo che devi promettermi che concluderai il lavoro per me, se io non dovessi riuscirci» affermò lui tutto d’un fiato, scuotendola per le spalle.
«Lavoro? Che lavoro?»
«Uccidere Heihachi Mishima.»
«Smettila! Tu non sei come lui, tu non sei un assassino!»
Kazuya avrebbe voluto risponderle che era anche peggio di un killer spietato, almeno sarebbe stato umano, invece si strappò la canotta nera che indossava, mostrando la cicatrice che correva da parte a parte del petto, pulsava simile a un essere vivente: Devil.
«Io-devo-ucciderlo!» Scandì trattenendo la rabbia.
Jun si portò le mani davanti alla bocca. Nonostante si fossero avvicinati molto in quegli ultimi giorni, non aveva mai visto la cicatrice, o meglio: non gliel’aveva mai mostrata.
«Ha ucciso mia madre, ha gettato me da un dirupo, condannandomi per sempre a questa maledizione. Avrebbe ucciso te se non l’avessi fermato. Lo capisci ora?» Kazuya allungò una mano per accarezzarle il volto rigato di lacrime che asciugò con un polpastrello. «Io devo fermarlo» ripeté con maggiore pacatezza.
Jun in tutta risposta gli sfiorò il petto, soffermandosi sulla pelle lacerata della cicatrice attraverso la quale Devil era penetrato nel suo corpo. Lo sentiva il demone che dimorava oltre quello strato di pelle, se chiudeva gli occhi poteva addirittura vederne i lineamenti, così dannatamente simili a quelli dell’uomo che lo ospitava.
«Tu non sei lui. Tu non sei Devil e so che hai abbastanza forza di volontà per sopraffare il suo volere.»
«Magari fosse vero, piccola Jun. Magari.» Kazuya si sporse in avanti per baciarla prima sulla fronte, poi su entrambe le guance bagnate di lacrime e dal sapore salato e infine sulla bocca. Lei abbassò le palpebre e schiuse le labbra, lasciando che le loro anime finalmente si incontrassero, poi si puntellò sulle ginocchia quel tanto che bastava per scavalcarlo con una gamba e accomodarglisi in grembo, cavalcioni. Tirò via la felpa e rimase in mutandine; tastandogli il volto con i polpastrelli, osservando attentamente il suo profilo, simile a un cieco che vuole memorizzare il volto di un caro e scolpirlo per l’eternità nella propria mente. Riprese a baciarlo con trasporto, mentre lui le cingeva la schiena nuda con entrambe le braccia, quindi si sollevò sorreggendola con uno sforzo minimo e la distese di schiena sul futon, tirandosi via i brandelli della canotta scura che aveva squarciato pocanzi. La studiò per qualche secondo, prima di sdraiarsi su di lei e prendendo a baciarle il volto, i seni, il ventre e oltre, più giù, esplorandola con movimenti lenti e ricercati.
Jun trattenne un gemito mordendosi il labbro inferiore quando lo sentii chiaramente squarciarle l’anima, entrarle dentro e muoversi senza urgenza, godendosi ogni attimo di quel momento. Era come quando gli stava vicino e provava due emozioni contrastanti, così diverse che tuttavia non si escludevano l’un l’altra, ma avevano imparato a coesistere: inquietudine e serenità; piacere e dolore in quel caso. Adesso comprendeva la frase del giovane Mishima, secondo cui suo padre aveva attentato alla propria vita per colpirlo personalmente.
Rimasero nel dojo per un giorno intero, facendo l’amore altre due volte e fingendo che tutto andasse bene, poi la mattina del giorno dopo si svegliò e non lo trovo più sdraiato accanto a lei: era arrivato il momento di fare i conti con il destino.
 

 
§


Kazuya aveva battuto il suo avversario nella finale del Torneo e ora stava combattendo contro Heihachi in uno scontro extra per la leadership della Mishima Zaibastu. Quando Jun arrivò sulle pendici del vulcano, Devil aveva preso le sembianze del suo amante e avrebbe incenerito Heihachi con un raggio laser sparato dagli occhi se non lo avesse fermato:
«Kazuya no! Tu non sei così, tu non sei il demone!»
Kazuya era tornato in sé, quasi spaesato. Non se lo sarebbe mai spiegato, ma quella ragazza aveva il potere di acquietare il mostro che si portava dentro. A volte si era ritrovato a pensare che avesse poteri angelici, simili e opposti ai suoi. In ogni caso, questo effetto lo procurava solo a lui, di sicuro non aveva potere sul vecchio Mishima, il quale approfittò della distrazione del figlio per stordirlo con una serie di colpi ben assestati.
«Che delusione» gli disse col tono beffardo. «Debole, come tua madre» Lo avrebbe scaraventato nella bocca della montagna a suon di calci e pugni se Jun non si fosse scaraventata contro di lui.
Heihaci Mishima però si era dimostrato troppo forte per lei. L’aveva liquidata in pochissimo tempo prima di tornare a occuparsi di suo figlio, che adesso teneva per il collo, sospeso nel vuoto, mentre lei si reggeva a malapena sulle gambe.
«Vattene Jun! Vattene!» La voce graffiata dal dolore di Kazuya arrivò appena percettibile. Era finita, sapeva che non ci sarebbe stato nessun miracolo a salvarli, non per loro.
«Ti amo Kazuya! Mi hai sentita? Ti amerò per sempre!» Urlò Jun Kazama, piangendo di dolore, rabbia e frustrazione, poi girò i tacchi e corse via.
«Ah, l’amore! Che forza misteriosa. Peccato non serva a nulla, solo a renderci più deboli.» Heihaci tornò a guardare suo figlio con l’aria tronfia. «Non sei d’accordo, Kazuya?»
«La pagherai per tutto, Heihaci.»
«Addio, figlio!» Concluse il vecchio, mollando la presa alla gola del giovane che precipitò nel vuoto, per la seconda volta nella sua vita.
 
Sarebbero trascorsi ben 18 anni dal terzo Torneo del Pugno d’Acciaio, al quale avrebbe partecipato Jin Kazama: figlio di Jun e Kazuya. E nipote di Heihachi Mishima.


 
ƒine
 
  
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