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Autore: Signorina Granger    02/04/2023    7 recensioni
INTERATTIVA || Iscrizioni chiuse
L’Arconia è un elegante condominio dell’Upper West Side abitato da maghi e streghe di diverse età, nazionalità ed estrazione sociale. Dopo l’inaspettata scoperta di un cadavere alcuni di loro si uniranno per indagare sull’accaduto, finendo col riportare a galla i segreti di più di uno dei loro vicini. Del resto, quanti possono affermare di conoscere davvero chi gli abita accanto?
[Dal testo]
“C’è una cosa che non capisco: la gente che non vuole vivere nelle grandi città per colpa della criminalità. Qualsiasi appassionato di true crime sa che non è così. Ammettiamolo: nessuno ha mai trovato 19 cadaveri nel giardino di un palazzo di 15 piani. Magari giusto un paio.
Qui hai gli occhi di tutti puntati addosso, siamo tutti ammassati e accatastati uno sopra l’altro.
Come quelli che, come me, vivono all’Arconia.”
[La storia prende ispirazione dalla serie tv omonima]
Genere: Comico, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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Tornata all’Arconia dall’ufficio Eileen si era fermata davanti al bancone della portineria del palazzo per farsi consegnare da Lester i due pacchi che le erano stati recapitati nel corso della giornata e lì, armata delle sue stesse intenzioni, tacchi a spillo e unghie perfette color nude che tamburellavano sul ripiano immacolato del bancone, vi aveva trovato Naomi. Le due si erano subito salutate e poi erano tornate a sguazzare nella loro attesa, vissuta da Naomi con estrema impazienza a causa del cocente desiderio di fare ritorno nel suo appartamento, salutare Sundance e Dorothea e soprattutto infilarsi le pantofole.
“Spero che Lester faccia in fretta, sono a tanto così dal levarmi questi bellissimi strumenti di tortura e andarmene a casa a piedi scalzi…”
Naomi sospirò mentre spostava lentamente il peso corporeo da un piede all’altro cercando di non dare troppo nell’occhio, conscia di come sua zia sarebbe giunta all’Arconia dal Connecticut di corsa – ovviamente su dei tacchi – se avesse avuto notizia di quella sua imperdonabile mancanza di decoro in luogo pubblico, per di più dove più o meno tutti conoscevano almeno una delle due.
“Anche a me piacciono i tacchi, ma non so proprio come tu faccia a starci tutto il giorno. Lavori qui vicino, almeno?”
Eileen parlò battendo leggermente il tacco largo del suo stivaletto bordeaux sul pavimento di marmo dell’ingresso mentre osservava pensosa le bellissime quanto scomode scarpe della vicina, scontrandosi con orrore con il suo sorriso amareggiato quando tornò a focalizzarsi sul suo viso:
“No, magari. Ma almeno un viaggio al giorno lo faccio Smaterializzandomi, quindi non è poi così terribile... Solo, arrivo alla fine della giornata che non sento più le dita.”
Quasi come se le loro parole l’avessero evocato, l’inconfondibile rumore prodotto da un paio di tacchi a contatto con il pavimento avvolse l’ingresso fino a solleticare l’udito delle due streghe, che volsero istintivamente lo sguardo sulla porta a vetri facendo scontrare i propri sguardi con la figura sorridente e immancabilmente vestita in maniera variopinta di Piper, che quel giorno sfoggiava una lunga e lucida treccia di capelli neri annodata stretta a partire dalla nuca.
“Oh, ciao! Anche voi dovete prendere la posta? Non mi fido particolarmente di mia cugina, quindi preferisco che li tenga Lester.”
Senza contare che quel giorno doveva arrivarle uno stock di trucchi costosissimi e non voleva rischiare che Nia perdesse l’arrivo del pacco perché impegnata a farsi una delle sue eterne docce, o a studiare con le AirPods nelle orecchie. Piper si fermò accanto ad Eileen con un sorriso, appoggiandosi al bancone in cerca di un po’ di sostegno mentre lo sguardo della programmatrice scivolava, dubbioso, fino ai piedi della modella e ai suoi altissimi tacchi fucsia.
“Non ti fanno male i piedi, Piper?”
“Nah, non sento più le dita da quando avevo… sedici anni, credo. E poi mi servono per farmi prendere sul serio, sono abbastanza minuta.”
Piper si strinse debolmente nelle spalle e Naomi sospirò, annuendo prima di parlare con una sottile traccia di amarezza nella voce:
“Quanto ti capisco. È già dura essere una donna e fare il lavoro che faccio, circondata da uomini spesso e volentieri fermi al Medioevo, figuratevi se mi vedessero alta per come sono realmente… Probabilmente mi proporrebbero di fare la mascotte dello studio.”
Naomi evitò accuratamente di rivolgere lo sguardo sui volti delle vicine, non tenendo a scoprire se stessero ridendo o no di fronte al prendere forma di quell’immagine nelle loro menti, e scelse invece di riporre tutta la sua attenzione su Lester quando scorse, finalmente, il portiere raggiungerle portando con sé i suoi due pacchi:
“Eccomi signorine, scusate ma oggi è arrivata moltissima roba. Ecco a lei, Signorina Broussard.”
Lester rivolse un sorriso gentile a Naomi mentre appoggiava la posta sul bancone, e la strega non tardò a prenderli ricambiando il sorriso prima di rivolgersi alle due vicine: non vedeva l’ora di varcare la soglia del suo appartamento per scartare finalmente la sua nuova spazzola elettrica per la pulizia del viso che, stando all’affidabilissima opinione di Moos in materia, doveva essere ottima.
“Grazie Lester. Vi aspetto, così saliamo insieme.”
Mentre Eileen e Piper attendevano che la propria posta venisse loro recapitata lo sguardo di quest’ultima indugiò su ben due scatoloni voluminosi e dall’aria molto pesante, con la scritta “fragile” a fare capolino praticamente su ogni centimetro di superficie.
“Caspita, sembrano pensatissimi… Per chi sarà tutta quella roba?”
Da quella distanza leggere il nome sull’etichetta di spedizione le sarebbe risultato impossibile, ma quando un attimo dopo fece ritorno con la sua posta e quella di Eileen fu Lester a soddisfare la sua curiosità, rivolgendole il suo consueto sorriso paziente e garbato:
“Sono del Signor Levesque-Simard. Vi serve altro?”
Piper moriva dalla voglia di saperne di più, ma il suo buonsenso e la sua buona educazione la costrinsero a tacere e a sorridere, limitandosi a scuotere la testa mentre imbracciava il suo prezioso e tanto atteso pacco:
“No Lester, grazie.”
“Buona serata Lester!”
Anche Eileen rivolse un ultimo sorriso a Lester prima di dirigersi insieme alla vicina verso gli ascensori che le avrebbero condotte finalmente ai rispettivi appartamenti. L’unica ad attardarsi fu Naomi, che si premurò di far sapere al portiere che sua zia gli porgeva i suoi saluti e di chiedergli se gli fossero piaciuti i biscotti al burro d’arachidi che gli aveva preparato pochi giorni prima. Naturalmente, oltre a chiederle di ricambiare i saluti, la risposta di Lester fu affermativa, e Naomi poté salutarlo e seguire le due vicine con un sorrisetto compiaciuto stampato sulle labbra.

“Che cosa pensate che ci sia in quegli scatoloni? Giuro che di norma non sono così pettegola, ma la scritta “fragile” mi incuriosisce.”
“Sì, anche a me.”
Eileen, al contrario, non disse nulla e si limitò a fissare accigliata le porte dell’ascensore che andavano chiudendosi: stava ancora pensando a Mathieu che le apriva la porta con un coltello in mano e il grembiule sporco di un’equivocabilissima sostanza rossa. E di nuovo, quasi l’avesse evocato con la forza del pensiero, come accaduto poco prima con Piper Mathieu fece la sua apparizione: le porte dell’ascensore si stavano chiudendo quando il canadese infilò il piede sinistro nella fessura per tenerle aperte, inserendosi così nel campo visivo delle tre allibite streghe con i due scatoloni tra le braccia e un sorriso sulle labbra:
“Ciao ragazze.”
Mathieu entrò nell’ascensore insieme alla sua posta, sistemando gli scatoloni sul pavimento prima di premere il pulsante del suo piano. Le porte finalmente si chiusero e l’ascensore iniziò rapidamente la sua salita mentre Piper, dietro di lui, si rivolgeva alle due vicine con gli occhi scuri spalancati e indicandosi la giacca di pelle bianca che indossava: la strega disse qualcosa muovendo solo le labbra sotto gli sguardi accigliati di Eileen e Naomi, che la guardarono senza capire mentre Piper indicava prima Mathieu e poi si strattonava il bavero della giacca. Eileen rispose, sempre in labiale, di non aver capito e Naomi scosse la testa guardandola accigliata, ma tutte e tre si ricomposero e si affrettarono a guardarsi attorno con la massima nonchalance quando il diretto interessato si voltò, forse percependo qualcosa di strano nell’aria. A sentire Carter stava diventando paranoico, ma non era sicuro se dargli retta o meno.
Fu proprio voltandosi, tuttavia, che Mathieu consentì a Naomi e ad Eileen di capire a che cosa Piper avesse fatto riferimento con tanta enfasi poco prima, e quando il canadese tornò a rivolgersi alle porte chiuse dell’ascensore Eileen, dietro di lui, spalancò sgomenta i grandi occhi chiari mentre si rivolgeva alle due vicine mimando il gesto di spolverarsi il bavero della giacca. Piper annuì, sollevata che avessero finalmente capito, e Naomi aggrottò le sopracciglia mentre fissava assorta la schiena di Mathieu, totalmente incurante.
Eileen scese al sesto piano dopo aver salutato i vicini, indugiando davanti all’ascensore quando le porte si furono richiuse per continuare il tragitto verso i piani superiori prima di decidersi ad incamminarsi verso il proprio appartamento: di sicuro erano solo bizzarre coincidenze. E lei doveva per forza aver visto e letto troppi gialli o documentari true crime per colpa di Leena.
Piper e Naomi invece scesero insieme all’undicesimo piano, e dopo che lo ebbero salutato Mathieu ebbe l’impressione di scorgerle allontanarsi bisbigliando con aria concitata attraverso la fessura tra le porte dell’ascensore che andava chiudendosi. Fu solo quando ebbe a sua volta lasciato l’abitacolo insieme alla posta ed ebbe raggiunto la porta del suo appartamento, fermandosi davanti alla soglia per recuperare le chiavi, che Mathieu, chinando lo sguardo, si rese conto di avere il bavero della giacca sporco. Sbuffando infastidito il mago si affrettò a spolverare il costoso tessuto blu notte, cercando di liberarsi della sottile polvere bianca prima di aprire la porta di casa.
 
 
 
Capitolo 8
Un messaggio dagli spiriti
 
 

Il 13 settembre 2021 è stato senza alcun dubbio il giorno peggiore di tutta la mia vita. Immagino che trattandosi del giorno della mia morte la si possa considerare una constatazione banale, ma vi assicuro che non esagero: prima cercano di ammazzarmi con qualcosa che mi fa notoriamente schifo – uccidermi in maniera un po’ più delicata e compassionevole, no? Occorreva proprio rifilarmi un intruglio amarissimo che detesto? Spero che la mia povera mamma non lo scopra mai, lo troverebbe terribilmente ironico, visto quanto lei per prima detesti il caffè –, e poi, giusto per non farmi mancare nulla, solo qualche ora prima che riescano ad ammazzarmi sul serio ecco che mi ritrovo con un lancinante dolore alla testa e, con ogni probabilità, una ferita non indifferente.
A dire la verità non ricordo il momento esatto in cui mi hanno colpito perché, ovviamente, ho perso i sensi. Quando ho ripreso conoscenza ho aperto gli occhi lentamente e ci ho messo diversi istanti sia per mettere a fuoco quello che altro non era che il salotto di casa mia, sia per realizzare di essere stato legato e piazzato su una sedia. Poi, naturalmente, è arrivato il dolore: una fitta lancinante sul lato destro della testa, un bruciore che in quel punto non avevo mai provato prima. Avrei sollevato istintivamente una mano per tastarmi la testa e assicurarmi che non stessi sanguinando, ma guarda un po’, le corde che mi tenevano ancorato allo schienale della sedia mi impedirono di muovermi.
Non mi restò altra scelta, a quel punto, che concentrarmi sull’unica altra persona presente nella stanza, che stava in piedi davanti a me. Non serve che io sottolinei quanto la sedia dove mi aveva piazzato fosse scomoda, una di quelle bellissime quanto assolutamente poco confortevoli sedie di design nordico che mia madre aveva ben pensato di regalarmi un anno prima. Non saprò mai se prima di scegliere proprio una di quelle sedie l’avesse testata, giusto per assicurarsi di infliggermi tutto il dolore possibile.
In caso ve lo steste chiedendo no, la persona che mi ha colpito violentemente sull’uscio del mio stesso appartamento non è quella che mi ha portato il caffè avvelenato, e nemmeno quella che poco dopo avrebbe posto fine alla mia vita. La persona che avevo di fronte e che mi aveva legato ad una sedia dopo averla piazzata esattamente al centro del mio soggiorno, in modo che dessi le spalle alle enormi vetrate che si affacciavano su Central Park era una donna alta, bellissima e vestita di nero, ma devo ammettere che non mi sorpresi poi particolarmente.
“Senti, Niki, se sei incazzata per quello che è successo stamattina in ascensore posso anche capirlo, ma non ti sembra di esagerare un po’?”
Avrei voluto farle presente di come forse ultimamente stesse ascoltando troppi podcast True Crime, ma visto e considerato che quello seduto, legato e vulnerabile ero io mi guardai bene dal farla incazzare più di quanto già non fosse: Niki mi stava in piedi di fronte, e quando smise di guardare lo schermo del telefono per concentrarsi su di me, appurando di come avessi ripreso conoscenza, mi scrutò come penso nessuno abbia mai fatto in tutta la mia vita. Così furiosa che la rabbia, quasi, sembrava colarle dagli occhi verdi. Ma a conti fatti non credo di poterla biasimare.
No, non vi dirò chi mi ha ucciso, arrangiatevi, sono contento di sapere che quantomeno la mia dipartita desti curiosità. È sorprendente quanto a volte le persone vengano ricordate più da morte che da vive, ma io non penso di potermi lamentare: ho avuto una vita breve, ma sorvolando su quell’ultimo giorno è stata una gran bella vita.
In realtà ho pensato di non andare oltre, quando sono morto, di restare come fantasma per dare il tormento al responsabile. Sarebbe stato meraviglioso farlo vivere nel terrore costante di minacciare ciò che aveva fatto, lo avrei avuto in pugno per, beh, l’eternità. Ma mia madre merita più di questo. Spero che un giorno trovi pace, e che il ricordo che ha di me non venga intaccato eccessivamente.
Ancora non lo sapeva, ma Niki lo avrebbe rimpianto a lungo, il momento in cui si è presentata alla mia porta per colpirmi. Non perché non volesse farlo o perché io non lo meritassi, ma perché se non fosse stato per quei cinque minuti in cui ha perso la sua onnipresente lucidità ora non starebbero indagando sul mio omicidio, e il mio sarebbe sembrato un suicidio in piena regola. Credo che quel gesto sia stato molto più dannoso per lei di quanto non lo sia stato per me, a conti fatti.
A parte per il coltello nella mano sbagliata, certo. È snervante pensare a come il mio assassino abbia potuto commettere un errore così banale.
 

 
*
 
 
Sabato 2 ottobre
 

Leena Madison Zabini era certa di aver sentito parlare più volte dell’immediata consapevolezza di trovarsi di fronte ad un capolavoro in grado di colpire ogni lettore se effettivamente impegnato nella lettura di una grande opera. Allo stesso tempo Leena era assolutamente convinta di trovarsi al cospetto di un capolavoro mentre le sue dita lunghe e flessuose, piacevolmente affusolate alla vista, volavano sulla tastiera del suo computer digitando rapide una parola dopo l’altra per far prendere vita alle sue idee e alle sue elucubrazioni mentali; dopo aver messo un punto all’ultimo periodo impresso sulla pagina del documento Word aperto nella schermata la strega si prese qualche istante per rileggere ciò che aveva messo nero su bianco in Times New Roman nell’ultima manciata di minuti, e quasi si vide costretta ad allungare la mano destra verso la scatola di Kleenex sistemata nell’angolo della scrivania addossata alla parete tanto ciò che aveva prodotto la commosse. Non c’era che dire, quel pomeriggio si stava decisamente superando e i suoi fan di Mymagicff avrebbero di certo amato alla follia il suo nuovo capitolo!
Una volta cessato di autoelogiarsi mentalmente Leena si sgranchì le dita per rimettersi all’opera prima che l’ispirazione l’abbandonasse, e riprese a digitare sulla tastiera mentre i ferri da maglia, l’arma del sanguinoso delitto da lei personalmente orchestrato magistralmente, venivano analizzati in laboratorio sotto la supervisione di uno dei personaggi principali della sua opera, il Detective Doyle.
 
 
Tutto aveva avuto inizio 25 anni prima, quando Leena Madison Zabini aveva preso una ferra decisione: una mattina, iniziata apparentemente in maniera del tutto normale, si era alzata dal suo enorme letto a baldacchino da piccola principessa di casa, aveva fatto una ricca colazione guardando una puntata di Poirot commentandola insieme alla sua Elfa-Tata (chiaramente indovinare la soluzione per lei era stato uno scherzo e si era trovata d’accordo con il detective belga nelle sue consuete lamentele a proposito quello stolto di Hastings, che non avrebbe capito di trovarsi in un deserto nemmeno toccando la sabbia) e poi si era recata nel suo bagno per lavarsi i denti e il bel faccino gentilmente donatale dai bellissimi geni di una madre egiziana. E lì, davanti allo specchio, la piccola Leena aveva compreso quale fosse la sua vocazione: sua madre creava vestiti bellissimi, lei invece avrebbe creato fantastiche storie piene di assassini e detective intelligenti quanto lei! La sua idea filava una meraviglia, e la espose con gioia mentre la sua pazientissima Elfa l’aiutava ad infilarsi i vestiti, ma c’era un piccolo problema: per fare la scrittrice di gialli doveva prima studiare per bene, e quella sera stessa non tardò a chiedere dei libri nuovi ai suoi genitori.
Il mattino seguente la piccola aspirante scrittrice aveva aperto gli occhi certa di poter iniziare quel giorno stesso la sua carriera di discepola della Christie, ma quando era scesa al pian terreno per fare colazione orrore e sgomento si erano subito impossessati di lei: suo padre un libro glielo stava porgendo, ma non era affatto ciò che lei desiderava! Le fiabe di Beda il Bardo?! Le fiabe erano per i bambini, non per i piccoli scrittori!
Indignata e ferita nel suo orgoglio di aspirante autrice di sette anni Leena aveva preso il libro dalle mani del padre e ne aveva scrutato con astio la copertina rilegata celeste con il titolo impresso in caratteri dorati prima di scaraventarlo a casaccio in un angolo della sala da pranzo, piazzarsi le manine sui fianchi e tuonare a pieni polmoni tutt’a la sua frustrazione:
“Non voglio leggere questo ciarpame! Io voglio leggere Sir Doyle, Maurice Leblanc e la Regina!”
“La Regina ha scritto dei libri?!”
Sorvolando sullo sgomento dettato dalla reazione della figlia e dal suo uso del vocabolo “ciarpame”, di certo sconosciuto alla maggior parte dei suoi coetanei, suo padre si era voltato in direzione della moglie per gettarle un’occhiata stranita, chiedendosi come potesse essergli sfuggita una simile pubblicazione e soprattutto per quale motivo una bambina di sette anni volesse metterci sopra le mani.
“Penso che parli di Agatha Christie.”
Nadine, meno impressionata del marito dalla reazione della bambina, inarcò lievemente un sopracciglio perfettamente disegnato prima di gettare un’occhiata di sbieco alla sua unica figlia tenendo a mezz’aria una tazza di caffè nero fumante. Leena, felice di essere capita da almeno un membro della famiglia, subito annuì sospirando esasperata – era così difficile essere dei piccoli prodigi incompresi – prima di rivolgersi al padre con aria sostenuta:
“Certo! È ovvio! Tu non l’hai letta Papino?!” Leena lo guardò incrociando le braccine magre al petto e assottigliando pericolosamente i grandi occhi scuri, assumendo un’aria minacciosa che destò sudori freddi nel padre. Questi, già figurandosi l’unica figlia che usciva di casa per chiamare un taxi e sfrecciare in tribunale per chiedere legalmente di dissociarsi da lui, deglutì faticosamente prima di annuire con malcelato nervosismo, la salivazione improvvisamente azzerata: che cosa poteva saperne, lui, mago Purosangue membro di una famiglia antichissima e purissima, di scrittrici di gialli? Ma sua figlia non lo doveva sapere.
“No, certo, è ovvio che io abbia letto i suoi libri, che domande fai!”
“E allora li abbiamo a casa?!”
Disperato, Colm ruotò il capo di appena qualche centimetro per gettare un’occhiata di sbieco alla moglie, che per sua fortuna era a sua volta un’assidua lettrice di romanzi pieni zeppi di omicidi. Nadine dal canto suo non aprì bocca mentre spalmava della marmellata di fragole su una fetta biscottata già imburrata, limitandosi ad annuire con un cenno appena percettibile del capo mentre Leena scrutava torva e impaziente il padre.
“Naturale! Sono in biblioteca, tua madre te li darà.”
Colm si sforzò di sorridere come aveva imparato a fare quando capitava che la moglie gli mostrasse un vestito che non destava in lui alcun gradimento, pregando che quell’interrogatorio finisse in fretta mentre Leena, dopo averlo scrutato dubbiosa per qualche istante, decideva di credergli: la bambina finalmente sorrise, consentendo al padre di rilassarsi.
“Finalmente un trattamento adeguato! Non vedo l’ora di leggerli.”
La piccola aspirante scrittrice sedette allegra accanto al padre e si allacciò il tovagliolo sullo scollo della maglietta del pigiama per non rischiare di imbrattarla di marmellata, guardando la brocca del latte versargliene un po’ nella tazza mentre suo padre, ancora poco convinto, si rivolgeva a Nadine guardandola dubbioso:
“Ma Nadine, quei romanzi pieni di omicidi che io ovviamente ho letto e riletto decine di volte e che apprezzo terribilmente, saranno adatti ad una bambina di sette anni?!”
Nadine parve rifletterci su, pur consapevole che niente e nessuno avrebbe potuto impedire alla figlia di mettere le mani su quei romanzi, ma Leena la precedette prendendo la parola per prima, sgranando indignata i grandi occhi scuri mentre impugnava il cucchiaio come un’arma letale e guardava il padre gonfiando indispettita le piccole guance:
“Guarda che io non sono piccola, sono grande!”
Di nuovo la voce della bambina tuonò acuta riecheggiando tra le alte pareti dell’elegante sala da pranzo, e Colm si chiese perché quel giorno non ne stesse azzeccando una mentre l’Elfa accorreva per legare gli indomiti ricci della piccola principessa di casa, che era solita imbrattarli di latte e cacao nel fare colazione. Fu la dolcissima e paziente Creature a rassicurare Leena e a darle piena ragione, portandola ad annuire soddisfatta prima di gettare un’occhiata in tralice alle fette di pane che aspettavano di essere cosparse di burro e marmellata:
“Grazie. Però, anche se sono grande e prossima a fare la scrittrice, vorrei comunque che qualcuno mi imburrasse il pane.”
 
 
Trascorse un mese e Colm iniziò a preoccuparsi per la sua unica figlia, che ormai trascorreva gran parte del suo tempo seduta nella sua cameretta, o in biblioteca, davanti alla macchina da scrivere che aveva insistito per farsi regalare per il suo compleanno.
Una sera suo padre stava in piedi in silenzio sulla porta della camera di Leena, guardandola dargli le spalle e impegnata a digitare forsennatamente i tasti della macchina nera e verde con una pila considerevolmente alta di fogli di carta e un’abat-jour accesa sulla scrivania. Sulla parete davanti a lei Leena aveva incollato una foto della sua nuova idola, quella donna elegante con i capelli ondulati e un sorrisino beffardo sulle labbra che a Colm non piaceva affatto: sembrava che quella fantomatica scrittrice lo stesse bellamente sfottendo facendogli notare quanto fosse infinitamente più intelligente di lui, con quello sguardo così fine e arguto, ma di mettere in discussione la presenza di Agatha Christie nella camera della figlia non se lo sognava neanche. Sul comodino, rivolta verso di lei per “ispirarla” sostava invece la foto incorniciata di un tipo che sfoggiava assurdi baffi e un’aria snob, anch’egli a sentimento molto poco simpatico al padrone di casa. Quando aveva chiesto alla moglie chi fosse quell’uomo Nadine lo aveva guardato esasperata e come tentata di chiedergli il divorzio, tuonando stizzita contro l’ignoranza del marito. In quei momenti la somiglianza tra lei e la figlia si faceva più acuta che mai.
“È Sir Arthur Conan Doyle quello! Colm, ma sei inglese o fai finta?!”
“Che vuoi che ne sappia io, non leggo quella roba! Ma almeno è vivo?”
“No, è morto decenni fa.”
“E nostra figlia ha una foto di un uomo morto una vita fa in camera?!”
Colm trasalì ma la sua voce si ridusse ad un flebile sussurro mentre indicava sgomento la foto che sostava ormai da settimane sul comodino della figlia, guardando la moglie scuotere il capo e spalancare i grandi occhi scuri prima di parlare con un filo di voce a sua volta:
“Leena non lo sa che è morto!”
Colm stava per proporre di farlo sapere alla bambina, ma lo sguardo truce di Nadine lo fece rapidamente desistere: i due non menzionarono la morte di uno dei grandi idoli della figlia per almeno un anno, e in effetti la scoperta devastò Leena più della scoperta della verità su Babbo Natale.

 
 
Il Detective Doyle, che guarda caso era inglese e portava i baffi, si stava consultando con gli esperti della scientifica in merito alle analisi dei ferri da maglia (che chiaramente avrebbero indirizzato i sospetti sulla vecchia e bisbetica suocera della vittima, e Leena si compiacque di come progettava di trarre in inganno i suoi lettori) quando qualcosa distolse l’attenzione della strega dal suo computer: lo scroscio dell’acqua che scorreva dalla doccia in bagno, rumore a cui ben presto si unì una voce femminile che con ogni probabilità stava interloquendo vivacemente con qualcuno al telefono.
Uno sbuffo amareggiato e lievemente spazientito si destò in Leena insieme ad una sottile punta di fastidio che avrebbe finito con il crescere in maniera esponenziale, specie quando, pochi minuti dopo, qualcuno pensò bene di accendere anche la tv in salotto. Ormai del tutto incapace di continuare a concentrarsi sulla scrittura e per questo profondamente amareggiata Leena mise mano al suo telefono, che fino a quel momento era rimasto accanto a lei sulla scrivania capovolto verso il tavolo per impedirle di farsi distrarre dalle notifiche, e lesse rapidamente gli ultimi messaggi. Una particolare attenzione la britannica la rivolse alla bizzarra chat di gruppo all’interno della quale era recentemente entrata a far parte, e dopo aver letto rapidamente gli ultimi messaggi sorrise, trionfante, prima di alzarsi dalla sedia e raccogliere il suo fidato portatile. A volte si compiaceva persino più del solito di quanto acuta fosse la sua intelligenza.
 

 
*

 
Sua sorella Damita e sua cognata Ella avevano trascorso tutto il weekend nel Vermont, e Gabriel si era dunque ritrovato a fare lo zio-babysitter per due giorni consecutivi. Naturalmente quando Damita glielo aveva chiesto il tatuatore non aveva esitato neanche per un istante prima di rispondere affermativamente, visto e considerato quando amava i suoi nipoti, ma non dopo più di 24 ore in compagnia dei due bambini non poteva negare di sentirsi un tantino esausto.
Erano da poco scoccate le sei e a causa della fame perenne dei suoi nipoti a breve Gabriel avrebbe dovuto iniziare a preparare la cena – avrebbe fatto uno strappo alla sua dieta fortemente salutistica solo per quella sera e per amore di Declan e Chloe, avendogli infatti promesso gli spaghetti con le polpette –, ma per il momento il tatuatore sedeva su uno degli alti sgabelli della cucina accanto alla bambina, circondato da fogli, astucci, matite colorate, pennarelli, colla, forbici e le foglie ingiallite che avevano raccolto quel pomeriggio, quando avevano fatto una passeggiata a Central Park insieme a Naomi e a Sundance.
Mentre Declan guardava The Mandalorian in tv standosene spaparanzato sul divano Gabriel stava infatti aiutando la sorella maggiore a finire i compiti, nello specifico a realizzare un albero genealogico della loro famiglia. Sembrava una vera e propria ossessione, quella, per le maestre americane: non c’era bambino, negli States, che a sei anni non avesse raccolto delle foglie da un parco nei pressi di casa per realizzare quel disegno che sarebbe poi rimasto appeso alle pareti della classe fino alla fine dell’anno, ormai diventato una sorta di rito di passaggio. Persino Gabriel ricordava di averne realizzato uno con l’aiuto di sua madre, più di vent’anni prima, e mentre guardava Chloe colorare il tronco dell’enorme albero che aveva disegnato con una matita marrone ripensò a tutte le domande che si era ritrovato a porre, curioso, a Jazmin. Naturalmente quel giorno non ci aveva fatto caso ma a ripensarci Gabriel riusciva a ricordare l’evidente difficoltà della madre quando si era ritrovata a dover rispondere alle sue domande, e sorrise con amarezza nel realizzare quanto quel compito così semplice potesse rivelarsi difficoltoso, per non dire doloroso, per certe famiglie e certi genitori.
Quando Chloe ebbe finito di colorare il tronco incollò la propria foto alla base e al centro dell’enorme chioma che aveva disegnato e che presto sarebbe stata ricoperta dalle foglie degli olmi di Central Park, incollando poi quella del fratello minore vicino all’estremità del ramo che aveva origine dalla stessa biforcazione. Incollate anche quelle delle sue mamme Chloe prese quella dello zio, osservando accigliata il disegno compiuto a metà prima di volgere lo sguardo su di lui, dubbiosa:
“Zio, non so come collegare te e la mamma.”
“Devi mettere Nonna Mirasol a sinistra, sopra la mamma… qui. Nonna Jazmin la metti a destra, e sotto di lei metti me.” 
Gabriel si allungò leggermente sul tavolo per trascinare con gentilezza le foto delle sue madri al loro posto per indicare alla nipotina dove incollarle, ma Chloe ancora non sembrava del tutto convinta, e continuò ad osservare accigliata la sua foto e poi quella di Damita prima di indicare il ramo della madre, collegato a quello dove avrebbe dovuto incollare la foto di Mirasol:
“Ma devo unire il tuo ramo e quello della mamma. Dove devo unirli?”
“Chloe, io e la mamma abbiamo lo stesso papà, ma non ho sue foto. Dovresti metterla, qui, al centro, vedi? E dal ramo, che dovrebbe collegarsi sia a quello di Nonna Jazmin, sia a quello di Nonna Mirasol, ci saremmo io e la mamma.”
“Perché non hai foto di tuo papà?”
“Tu lo hai mai visto?”
Chloe non rispose, limitandosi a scuotere il capo senza smettere di fissarlo con i grandi occhi castani carichi d’infantile curiosità, destando un sorriso paziente sul viso dello zio:
“Beh, praticamente nemmeno io. E poi, vedi, non penso che le tue nonne sarebbero molto contente, se vedessero che lo hai incluso nella nostra famiglia.”
“Ma se è tuo papà e della mamma perché non fa parte della famiglia?”
“A volte non basta per essere una famiglia. Pensaci, le tue mamme non ti hanno fatto nascere, giusto? Però sono lo stesso le tue mamme. Ecco, nemmeno Nonna Mirasol ha fatto nascere me, ma è comunque come se fosse la mia mamma. Anche se non abbiamo sangue in comune.”
Chloe non rispose, limitandosi a tornare a guardare il disegno sbattendo le palpebre e con una minuscola ruga in mezzo alle sopracciglia, concentrata.
“Quindi tu e la mamma avete lo stesso papà.”
“Sì.”
“Però non è proprio vostro papà.”
“Diciamo di sì. Ecco, la mia foto mettila qui, così è sul ramo che parte dello stesso che porta a quello della mamma.”
Gabriel prese gentilmente la foto dalle mani della nipotina, la appoggiò sul tavolo voltandola a faccia in giù e ci dispose un di colla sulla parte bianca prima di incollarla vicino a quella di Damita mentre Chloe ancora cercava di capire per bene ciò che lo zio stava cercando di dirle:
“Nonna Jazmin è la tua mamma. Nonna Mirasol è la mamma di mia mamma… Però è tipo anche tua mamma?”
“Sì piccola.”
Chloe smise di guardarlo e scosse la testa mentre raccoglieva a sé le foglie secche con le piccole mani per iniziarle ad incollarle sul foglio bianco, decretando con fare melodrammatico di non starci capendo niente. Gabriel rise mentre Declan reclamava a gran voce la cena dal divano, assicurandole che fosse del tutto normale: nel corso dei suoi trent’anni di vita aveva conosciuto più e più persone ben più adulte di lei che avevano avuto difficoltà nel comprendere appieno i suoi legami familiari.


 
*
 

Quando, un paio di giorni prima, era stato convocato nell’ufficio del suo capo Carter sapeva di essere di fronte a due sole possibilità: una strigliata o, in alternativa, un nuovo incarico. Con gran sollievo del ragazzo la seconda opzione si rivelò quella corretta, e quando la porta di vetro dell’ufficio gli si fu chiusa silenziosamente alle spalle si trovò di fronte ad un largo sorriso che conferiva un’espressione benevola al volto del suo capo: sembrava che in quale modo fosse venuto a conoscenza della decisione, da parte degli Auror, di somministrare l’esame tossicologico al cadavere di Montgomery Dawson. Carter si chiese, accigliato, perché glielo stesse dicendo sorridendo, ma ben presto gli fu chiaro: evidentemente la tesi del suicidio aveva perso credibilità, e visto che il caso stava facendo discutere parecchio a Manhattan voleva che ne scrivesse ancora.
Gli esiti dell’esame erano ancora sconosciuti, ma poco dopo Carter uscì dall’ufficio con le parole del suo capo a riecheggiargli nella mente e un sorriso trasognato sul volto: qualora le indagini fossero continuate, voleva che scrivesse una sorta di serie. E scrivere seguendo un caso di cronaca, soprattutto un caso di omicidio, era praticamente il suo sogno che finalmente prendeva forma.
Naturalmente si trattava di un lavoro che più di ogni altro teneva a portare avanti nel miglior modo possibile, e dopo aver comunicato con gioia la notizia ai suoi vicini aveva chiesto ad Esteban di aiutarlo ad ultimare lo scritto. Carter non era, di norma, tipo da chiedere consigli altrui, ma si trattava di una situazione straordinaria e in più era assolutamente certo che suo fratello avrebbe letto l’articolo, una volta uscito. Doveva quindi essere perfetto, onde evitare le critiche che Carter meno tollerava in assoluto, quelle di suo fratello maggiore Lincoln.
 
Quella sera Esteban sedeva dunque su uno dei divani del vicino, gli occhi scuri puntati sullo schermo del pc di Carter e le folte sopracciglia aggrottate in segno di concentrazione mentre rileggeva lentamente le ultime righe che avevano scritto. Carter invece, incapace di stare fermo, stava marciando nervosamente alle spalle del divano e del vicino tormentando un cubo di Rubik in cerca d’ispirazione e Sarge stava dormendo sull’altro divano insieme ad Isla, cosa di cui Esteban fu molto grato: amava terribilmente i cani, ma proprio per questo motivo concentrarsi quando quell’adorabile Golden Retriever cercava di leccargli la faccia o di portargli dei giochi risultava praticamente impossibile.
“C’è qualcosa che non mi convince in questa parte. Provo a riscriverla.”
Esteban indicò l’ultimo capoverso che avevano scritto con la punta della penna nera che teneva in mano guardando critico lo schermo e Carter trovandosi d’accordo non potè far altro che assentire, restando in silenzio mentre il vicino iniziava a scarabocchiare rapido sul quaderno a spirale che teneva sulle ginocchia. L’ex Tuonoalato si fermò alle spalle del divano per leggere ciò che Esteban stava scrivendo oltre la sua spalla, ma l’attenzione di entrambi venne distolta dal quaderno quando udirono bussare alla porta.
“Aspettavi qualcuno?”
Esteban smise di scrivere e si voltò per gettare un’occhiata al vicino, che scosse il capo fissando accigliato la porta mentre Isla, destata dal sonno, sollevava la testa di scatto guardandosi attorno con aria contrariata e gli occhi verdi ridotti a due fessure.
“No, probabilmente è la sfiga che viene a trovarmi.”
Carter raggiunse l’ingresso con poche falcate e ben presto aprì la porta, sollevando entrambe le sopracciglia quando si ritrovò davanti, inaspettatamente, una delle sue vicine.
“Ciao. Ti serve qualcosa?”
“A me? No, casomai il contrario. Ho pensato di venire ad offrirvi il mio preziosissimo consulto.”
Leena, un gran sorriso sulle labbra, superò Carter per varcare la soglia dell’appartamento e salutare allegramente Esteban, raggiungendolo sul divano stringendo il suo computer mentre il vicino la guardava perplesso. A Carter invece, visto che Leena era già entrata, non restò che chiudere lentamente la porta chiedendosi ancora una volta perché avesse vicine così bizzarre.
“Allora, come siete messi?”
“Non male, ma… Leena, perché hai il computer?”
Esteban parlò seguendo i movimenti della vicina con lo sguardo, guardandola appoggiare il suo pc accanto a quello di Carter prima di gettargli un’occhiata dubbiosa: forse, si disse la strega, avrebbe dovuto escogitare per bene una scusa prima di bussare alla porta di Carter. Di certo non aveva intenzione di rivelare ai vicini il vero motivo per cui aveva lasciato il suo appartamento, ma si affrettò a tornare a sorridere e a stringersi nelle spalle simulando noncuranza:
“Beh… Quelli sopra di me fanno un gran fracasso, penso che stessero litigando. Non riuscivo a concentrarmi e a fare nulla, quindi ho pensato di venire a darvi una mano. Oh, ciao Isla!”
Lieta di avere l’occasione per distogliere da sé l’attenzione la britannica si affrettò a raggiungere il divano occupato parzialmente da Sarge e Isla per inginocchiarsi sul pavimento e accarezzare dolcemente la bellissima gatta del Bengala, che la lasciò fare chiudendo i grandi occhi chiari e sollevando la testa per godersi più coccole possibili. Esteban invece, che ancora la stava guardando dubbioso, volse lo sguardo di Carter per dirgli qualcosa parlando a voce bassissima:
“Ma l’hai invitata tu?”
“No, tu?”



Leena si era presentata alla porta di Carter per allontanarsi dal caos che aveva preso possesso del suo appartamento, molti piani più in basso, e poter finire il suo capitolo in santa pace con un’ottima scusa, ma finì realmente con il contribuire alla scrittura dell’articolo. Probabilmente finirono con l’impiegarci molto più tempo di quanto a Carter sarebbe servito se fosse stato solo, ma quando un’ora dopo Leena lasciò il 13E aveva comunque un sorriso soddisfatto impresso sulle labbra, e si allontanò verso gli ascensori certa che senza di lei il risultato non sarebbe stato assolutamente così fantastico.
Carter ed Esteban probabilmente non si sarebbero detti d’accordo, ma nessuno dei due avrebbe comunque avuto la forza di farlo sapere alla vicina.
 

 
*

 
Domenica 3 ottobre
 
 
Per Carter Cross la domenica era “consacrata al cazzeggio”, e nel corso dell’ultimo giorno della settimana di rado il mago usciva dall’Arconia, se si escludevano le sue passeggiate con Sarge a Central Park o eventuali giri in libreria per saccheggiare interi scaffali. A volte si concedeva una capatina a casa del suo migliore amico, giusto per deliziarlo con la sua presenza, ma nella maggior parte dei casi Carter trascorreva la domenica pomeriggio a casa, spesso a leggere o a guardare la tv e talvolta a lavorare.
Quel pomeriggio non stava facendo eccezione, e il giornalista se ne stava comodamente stravaccato sul suo divano Chesterfield color cuoio insieme a Sarge, che sonnecchiava pacifico con la grossa testa color miele poggiata sullo stomaco del padrone mentre Carter leggeva con addosso una felpa grigia della NASA  e dei consunti pantaloni della tuta neri. Il mago stava cercando di districarsi tra le intricate righe di GEB(1) per seguire i ragionamenti di Douglas Hofstadter quando qualcuno ebbe la malaugurata idea di suonare il campanello, destando lui dalla lettura e Sarge e Isla dal loro sonnellino pomeridiano. Subito Isla si alzò dalla sua soffice cuccia pelosa, si stiracchiò e trotterellò verso la porta nella speranza di riuscire a sgattaiolare fuori dall’appartamento mentre il Golden Retriever, saltato giù dal divano, la imitava sperando che fosse qualcuno pronto a giocare con lui. Carter fu l’unico inquilino del 13E a non accogliere il visitatore con entusiasmo, anzi sprofondò tra i morbidi cuscini del suo costosissimo divano pregando che se ne andasse: aveva tutta l’intenzione di accogliere la strategia propria degli opossum, ovvero fingere di essere morto, per continuare a godersi il suo cazzeggio solitario in santa pace, ma anziché darsi per vinto il suo visitatore suonò una seconda volta e con maggior insistenza, destando un abbaio in Sarge mentre Isla grattava sulla porta, impaziente.
“Che due grandissime palle.”
Ma la gente non lo sapeva che di domenica lui voleva stare solo e cazzeggiare e basta? Con tutti i libri che aveva da leggere in libreria! Per non parlare della sua collezione di modellini di auto d’epoca che necessitava una spolverata! Pregando che almeno non si trattasse della sua vicina – quale non aceva nemmeno troppa importanza dal momento che la provvidenza aveva deciso di punirlo piazzandolo in un piano circondato da donne più o meno sgradevoli – Carter trascinò i piedi fasciati da dei calzini bianchi di Playboy verso l’ingresso, premurandosi di prendere in braccio Isla per impedirle di darsi alla fuga prima di gettare un’occhiata al corridoio attraverso lo spioncino. Quando individuò il suo visitare al giornalista quasi venne un colpo apoplettico, trattenendo un gemito solo per paura di essere sentito, e subito vagliò ogni possibilità di fuga: non poteva Smaterializzarsi, ma c’era sempre la Metropolvere. Ma dove e da chi sarebbe potuto andare? Carter stava per sfrecciare verso il camino per andare a chiedere asilo politico a casa di Mathieu, ma poi si ricordò di come l’amico gli avesse accennato qualcosa a proposito di dover andare da qualche parte proprio quel pomeriggio.  Forse una partita? Perché non era andato anche lui a vedere la partita? E Sasha, il suo migliore amico, era fuori discussione perché al lavoro. Mentre il suo migliore amico salvava vite in ospedale lui era in trappola, e Carter Cross maledisse mentalmente quell’egoista prima di sospirare e arrendersi all’evidenza: non aveva scelta.
Quasi avrebbe preferito Niki, in fin dei conti.
Quando aprì la porta Carter si scontrò con un paio di occhi cerulei, quasi ancor più azzurri dei suoi, che lo scrutavano torvi, quasi scocciati, e con una mascella che era solita far sbavare qualsiasi donna nei paraggi. Uno dei suoi peggiori incubi si stava abbattendo brutalmente su di lui, e Carter si sforzò di emettere una specie di saluto mentre la persona che aveva di fronte inarcava un sopracciglio scrutandolo scettico:
“Mi lasci qui?”
“Lo vorrei tanto.”
Un invito verbale ad entrare non sarebbe mai e poi mai uscito dalle sue labbra, pertanto Carter si limitò a dare le spalle al suo ospite sgradito e ad allontanarsi insieme ad Isla, deciso a tornare a sedersi sul divano per dargli la minor considerazione possibile. Sarge invece si lasciò accarezzare la testa scodinzolando, e Carter si chiese perché gli fosse toccato il cane più traditore dello Stato di New York mentre scrutava torvo lui e l’uomo alto, biondo e a sua detta per nulla attraente che lo stava accarezzando.
Dopo aver dispensato un sorriso e qualche carezza al cane il suo ospite tornò a concentrarsi su di lui, assumendo la medesima espressione seria ed indecifrabile di poco prima mentre gli si avvicinava senza accennare a volersi sedere o sfilare la giacca, come certo di dover restare brevemente. Quel pensiero rincuorò un poco il padrone di casa, che si sentì pervadere da una piccola dose di sollievo mentre accarezzava quasi distrattamente la piccola testa maculata di Isla, che gli si era accomodata sulle ginocchia.
“La mamma dice che non rispondi al telefono.”
“Sarà spento.”
Carter rispose senza smettere di accarezzare Isla o distogliere lo sguardo dal viso del fratello maggiore, che assunse un’espressione esasperata prima di scuotere il capo, come rassegnato:
“Da dieci giorni, James.”
“Mi conosci da trenta cazzo di anni. Lo sai benissimo come voglio essere chiamato.”
Lincoln non rispose, ma in compenso lo guardò senza sfilarsi le mani dalle tasche della giacca blu, come se stesse prendendo in considerazione se assecondarlo o meno. Sarge raggiunse il padrone e si sistemò accanto a lui sul divano in cerca di coccole, guadagnandosi qualche carezza sulla testa e sul collo mentre Carter continuava a fissare, torvo, il fratello maggiore:
“Sei qui solo per fare il bravo figlio maggiore che va a ragguardare il fratellino pestifero? Ti inviterei a sederti ma potrebbe confonderti, visto che di solito si fa per indicare che si gradisce la presenza di qualcuno. Il tuo lavoro di leccaculo lo hai fatto.”
“La mamma è preoccupata. Dice che ti auto escludi da qualsiasi cosa riguardi la famiglia, a meno che non si parli della nonna.”
Carter proprio non se la sentì di dargli torto, pur odiando dar ragione a suo fratello, ma visto e considerato che si trattava di una sua precisa volontà si limitò a stringersi nelle spalle cercando di ignorare la pacata e fastidiosa condiscendenza con cui Lincoln era solito rivolerglisi: sua madre poteva pensare quello che voleva, per quanto lo riguardava, il suo allontanamento non era altro che il frutto di anni e anni di convivenza segnata da una profonda frustrazione e senso di inadeguatezza.
“Ho trent’anni, ho tutto il diritto di non avere voglia di avere troppo a che fare con voi, feste comandate a parte. Come vedi sto benissimo senza i Cross a schiacciarmi con i confronti che non potrò mai reggere.”
Lincoln non rispose e il suo silenzio venne accolto con gioia e sollievo dal fratello minore, lieto e in parte amareggiato di come persino lui non potesse negare l’evidenza, ovvero di essere l’eterno figlio prediletto di due genitori sempre statu pieni d’aspettative e in grado di offrire scarsissimo supporto emotivo. Carter guardò il fratello sperando di vederlo alzarsi e andarsene, conscio di essere giunto fino alla sua porta per niente, ma sorprendentemente dopo una breve esitazione Lincoln si mosse verso il secondo divano fino a sedersi vicino all’estremità, trovandosi così quasi di fronte a Carter, per poi iniziare a tamburellare le lunghe dita sul bracciolo imbottito e parlare nuovamente:
“Sono qui anche per conto mio, in realtà. Ho letto quello che hai scritto. Su Montgomery Dawson.”
“Esce lunedì. Come cazzo lo hai letto?”
Lincoln non rispose, ma in compenso gli indirizzò un mezzo sorriso obliquo, quasi beffardo, quasi a volergli sottolineare di poter fare cose per lui impensabili. Il suo detestabile fratellone perfetto conosceva tutti al Ministero, e il pensiero destò una smorfia profondamente infastidita sul bel viso del minore:
“Che ti frega, esattamente? Sei venuto a farmi la lezione sulle virgole e i punti di sospensione?”
Carter avrebbe voluto evitare di fargli sapere quanto sapere che aveva letto in anteprima il suo scritto lo avesse infastidito, ma quando si trattava della sua famiglia reprimere le sue emozioni negative gli risultava paurosamente difficile, e finì col pronunciare parole che trasudavano astio da tutte le parti mentre Lincoln si stringeva nelle spalle facendo vagare lo sguardo sul salotto del fratello minore. Carter decise che se avesse criticato l’arredamento lo avrebbe sbattuto fuori a calci in culo.
“La grammatica la lascio a te. Vorrei consigliarti di non farlo. Di lasciar perdere.”
“Di scrivere? Mi pare tardi.”
“Di scrivere quello. Su quella famiglia. Scrivi altro. Scrivi quello che scrivi sempre. So che hai sempre amato le storie di omicidi e che improvvisarti detective era il tuo sogno di bambino, ma lascia perdere. Non è un gioco, cresci.”
“Lo so che non è un gioco, coglione, è morto quello che viveva sopra di me. Lo so benissimo che è reale, non serve che arrivi tu a dirmelo.”
“Non è una buona idea, lo dico per te. Arrivaci. È una famiglia spaventosamente ricca, spaventosamente conosciuta, forse giocare a fare i detective non è una buona idea. Ti potresti mettere nei guai.”
“Me l’ha chiesto il mio capo di scrivere una serie, non è stata una mia idea. Ed è una brillante idea, in realtà. La gente adora il giornalismo d’inchiesta.”
Carter sorrise amabilmente e all’improvviso, sapendo che suo fratello la disapprovava, l’idea di scrivere quegli articoli si fece ancor più appetibile ai suoi occhi. Lincoln invece lo guardò esasperato, forse chiedendosi cosa avesse fatto di male per essersi sortito un disastro di fratello come lui, e dopo una breve esitazione si alzò scuotendo la testa destando un moto di gioia nel padrone di casa:
“Ero sicuro di perdere tempo, ma ci ho provato. Attento a giocare a fare Truman Capote, Carter.”
Per lo meno lo aveva chiamato Carter, ed era già una conquista, ma il giornalista si chiese accigliato il perché di quel paragone mentre Lincoln gli dava le spalle, finendo col dirigersi verso la porta senza aggiungere altro o degnarlo di un ulteriore sguardo.
“Che cazzo c’entra Truman Capote?!”
Sfortunatamente per Carter suo fratello non si premurò di rispondergli, aprendo e subito chiudendosi la porta dell’appartamento alle spalle facendo sprofondare nuovamente il 13E nel silenzio più totale. Una parte del padrone di casa si convince che Lincoln non gli avesse risposto per sottolineare, tanto per cambiare, quella sorta di “superiorità” che i genitori erano soliti attribuirgli in qualsiasi campo fin da quando erano bambini, ragion per cui non gli risparmiò un piccato insulto sibilato tra i denti mentre Sarge, del tutto incurante della diatriba tra fratelli, si godeva le coccole muovendo felicemente la lunga coda color miele.
“Non sai quanto sei fortunato a non avere un fratello, Sarge.”
 

 
*

 
“Dite che abbiamo esagerato, questa volta?”
Di norma Naomi Broussard trascorreva buona parte dei suoi weekend a cucinare per tutta la settimana a seguire, ma quel giorno alla lunga lista di piatti e contorni da preparare si erano aggiunti anche quelli volti alla cena che la strega avrebbe condiviso con dei due suoi vicini, nonché tra i suoi amici di più vecchia data: Naomi pronunciò quelle parole gettando un’occhiata sinceramente dubbiosa al tavolo della sala da pranzo – che non usava quasi mai quando mangiava sola ed era sempre ben felice di apparecchiare per i suoi ospiti –, preparato per tre e occupato da un gran numero di piatti da portata, ampie ciotole di legno e casseruole di ceramica.
“Stando a quanto dice mia nonna, di domenica non si esagera mai.”
Moos, in piedi accanto all’amica, parlò accarezzando distrattamente la testa pelosa di Sundance mentre faceva scivolare a sua volta i grandi occhi scuri sulla superficie del tavolo e tutto ciò che vi avevano sistemato sopra secondo le istruzioni di Naomi. In realtà anche così facendo la padrona di casa aveva finito col cambiare posto ai piatti che avevano poggiato sul tavolo lui e Gabriel almeno due o tre volte: mentre sistemava i portatovaglioli a forma di foglie dorate ripiegate su se stesse sui rispettivi piatti la strega aveva ribadito, stizzita, come ad entrambi mancasse il senso dell’ordine visivo. Gabriel e Moos non avevano ribattuto, in primis perché entrambi anche dopo anni ancora stentavano a capire cosa l’amica intendesse dire loro con quelle parole.
“Sì, lo dice anche mia zia.”
Naomi annuì, e dopo aver raddrizzato con millimetrica precisione il vaso di vetro contenente i fiori freschi che aveva comprato il giorno prima occupò il posto a capotavola con Moos alla sua destra mentre Sundance, speranzoso di riuscire a scroccare qualcosa, si appostava tra i due cercando di impietosirli con il suo sguardo da cane denutrito e profondamente infelice.
“Non fare quella faccia tu, hai già mangiato!”
Per tutta risposta Sundance sollevò la zampa anteriore destra e la mise sulla mano della padrona, sperando di farsi dare un premio data la sua sorprendente bravura. Naomi invece sospirò e alzò gli occhi al cielo mentre Moos ridacchiava, decisa a non cedere mentre Gabriel si univa a loro colmando l’ultimo brandello di spazio vuoto rimasto sul tavolo con un’insalatiera di legno:
“L’importate è evitare cose che fanno male, allora si può mangiare quanto si vuole, una volta ogni tanto.”
Io una volta ogni tanto vorrei mangiarmi il pollo fritto di Moos durante queste cene, ma poi chi ti sente quando inizi a parlami del colesterolo? L’hai condita l’insalata, almeno?”
“Certo, per chi mi hai preso?!”
Gabriel si lasciò passare il pane di mais da Moos gettando un’occhiata indignata in direzione dell’amica, che rispose con una debole scrollata di spalle prima di mettersi un po’ di sformato di patate nel piatto:
“Non si può mai sapere.”
“Un giorno mi ringrazierete per le mie premure nei confronti del vostro organismo. A proposito, ieri ho dovuto fare il peggio tatuaggio del mondo, una specie di tarantola gigantesca sulla schiena di un tizio.”
“Che schifo, avrei avuto paura persino a preparare il disegno.”
Naomi rabbrividì con una smorfia di disgusto mentre Sundance si avvicinava a Moos, guardandolo implorante e mettendo notevolmente in difficoltà l’amico della padrona:
“Naomi, sicura che non posso dargli niente? Guarda che musetto…”
Moos si agitò leggermente sulla sedia, a disagio, mentre Sundance non perdeva di vista il pane di mais. In effetti, il mago ne era consapevole, il suo era forse il miglior pane di mais su tutta la costa orientale.
“No. È la sua tattica, devi essere forte e resistere, Moosy.”
Naomi gli puntò contro, assertiva, un pezzo di sformato di patate mentre Moos sospirava, amareggiato, sforzandosi di continuare a cenare senza farsi impietosire dallo sguardo del Golden Retriever mentre Sundance poggiava la testa sulle sue ginocchia.
“Ha beccato l’anello debole della catena…”
“Resisti. Gabri, come è andata con Declan e Chloe?”
“Bene, ma se dovessi sentire ancora Let It Go da qui alla prossima settimana potrei considerare l’espatrio. Scusate se non ho preparato granché, ma con i bambini a cui badare è quasi impossibile.”
Gabriel parlò gettando un’occhiata dispiaciuta al resto del tavolo, conscio di aver contribuito meno del solito alla loro cena – solo con una montagna di pollo al curry e riso e verdure – ma Naomi lo tranquillizzò con un sorriso gentile e un colpetto affettuoso sulla porzione di braccio destro lasciata nuda dalla manica del maglione bianco che il tatuatore indossava:
“Tranquillo zietto, ti perdoniamo.”
“Chloe doveva preparare l’albero genealogico con le foglie, avete presente? L’ho fatto anche io da piccolo, e ricordo quanto fosse stato deprimente chiedere a mia madre una foto di mio padre. Forse dovrebbero smettere di farlo fare ai bambini.”
L’espressione sul viso del tatuatore si fece accigliata mentre ritornava mentalmente indietro di molti anni, fino al pomeriggio in cui aveva dovuto realizzare il compito e chiedere a sua madre se avesse una foto del padre da mostrargli. Il giorno dopo, a scuola, era stato l’unico a non averne una, sul suo albero. Gabriel tornò a chinare cupo lo sguardo sul proprio piatto, giocherellando distrattamente con un pezzo di pollo mentre Moos cercava di dare qualcosa a Sundance senza farsi vedere da Naomi e il decanter riempiva di vino i loro calici.
“Chloe ti ha chiesto di tuo padre?”
“Sì, ho cercato di spiegarle la parentela tra me e sua madre, ma ovviamente non è facile capire per la sua età. Inutile dire che non l’ho mai avuta, una foto di mio padre… E per fortuna, aggiungerei.”
Il tono di voce Gabriel assunse una lieve connotazione amara mentre Naomi gli dava un secondo colpetto sul braccio, questa volta affettuoso e incoraggiante al tempo stesso, mentre Moos, vinto dalla debolezza e allungato un piccolo pezzo di pane a Sundance, gli rivolgeva un sorriso gentile e comprensivo:
“La tua è una famiglia bellissima anche senza di lui, presto lo capirà.”
“Lo so. L’abbiamo capito io e Damita, lo capirà anche lei. A volte è solo strano essere l’unico senza padre, tutto qui.”
Moos non rispose, ma tornò lentamente a rivolgere la sua attenzione al piatto mentre le parole di Gabriel rievocavano parole che fino a pochi minuti prima non avrebbe nemmeno pensato di ricordare. Anche Monty gli aveva detto qualcosa di simile, tanti anni prima.
“L’importante è l’affetto che la tua famiglia ti dà. Io sulla carta ho una famiglia perfetta, ma non è che sia la più unita del mondo.”
Con grande orgoglio dei suoi genitori quella dei Broussard era, in effetti, una famiglia perfetta, se non si considerava un fratello maggiore in prigione. Ma per una volta, anche se Gabriel e Moos ne erano perfettamente a conoscenza, Naomi decise di seguire uno dei rigidi dogmi impartitile da sua madre: non ne fece parola.
“Chissà se anche i Dawson sono perfetti come sembrano.”
Mentre Sundance, ottenuto ciò che voleva da Moos, faceva il giro del tavolo scodinzolando per posizionarsi tra lui e Naomi il tatuatore sollevò lo sguardo per gettare un’occhiata eloquente al vicino, la forchetta ancora a mezz’aria tra il piatto e il proprio viso. Naomi ben presto lo imitò, felice di avere una scusa per non pensare a Rory e a come si fosse comportata come la peggior sorella del mondo nei suoi confronti, e quando si rese conto di avere gli sguardi di entrambi puntati sul proprio viso Moos esitò, finendo di masticare un po’ d’insalata prima di stringersi debolmente nelle spalle:
“Credo che nessuna famiglia lo sia. A modo proprio.”
Moos tornò rapidamente a concentrarsi sul suo piatto, come deciso ad evitare gli sguardi di entrambi, e Naomi e Gabriel si scambiarono un’occhiata incerta, desiderosi di apprendere che cosa l’amico sapesse sul conto della famiglia più chiacchierata del palazzo. Moos, dal canto suo, ricordava perfettamente una breve conversazione che molti anni prima aveva avuto con suo nonno: seduto su uno degli sgabelli della cucina, una versione infantile di se stesso aveva osservato a lungo il nonno con cui condivideva il nome tagliare le verdure in vista della cena, approfittando dei momentanei attimi di distrazione di Bartimeus Sr per rubare qualche biscotto dal piatto che avevano vicino. Naturalmente suo nonno se n’era accorto, ma aveva fatto finta di nulla per dargli un po’ di soddisfazione.
Dopo lunghi minuti di silenzio, il piccolo Moos aveva chiesto a suo nonno perché i Dawson, la famiglia del suo migliore amico, spesso non sembrassero poi così felici, non certo felici come sembrava di solito la loro, di famiglia. E dire che erano tanto ricchi, e potevano comprarsi quello che volevano. Ma suo nonno aveva replicato affermando che non sempre la gente ricca conduceva una vita poi così felice, e infine gli aveva calorosamente intimato di farsi gli affari propri.

“C’è già abbastanza gente che spettegola in questo palazzo. E ricorda che chi pensa per sé campa più di tutti gli altri, Jr.”
“Che vuol dire?!”
“Mangia un biscotto.”

 
*
 
 
Lunedì 4 ottobre
 
 
“I risultati arrivano domani, mia madre ieri ne parlava con una delle cameriere che pulisce l’attico dei Dawson.”
Seduto insieme ad Esteban e Kei attorno ad un tavolo circolare di una caffetteria vicino all’Arconia, Jackson prese a giocherellare distrattamente con una bustina di zucchero di canna mentre ripensava agli stralci di conversazione che aveva deliberatamente origliato il giorno prima: stava fumando marijuana chiuso in camera sua accanto alla finestra aperta quando aveva sentito, in mezzo al chiacchiericcio di sua madre e delle sue amiche, una voce femminile menzionare i Dawson. L’attenzione di Jackson, che di norma non faceva troppo caso ai tè che sua madre era solita servire alle sue amiche cameriere, si era subito focalizzata sui suoni che provenivano dalla porta chiusa della sua camera, abbandonando la finestra per carpire più informazioni che poteva. Aveva persino finto di andare in bagno un paio di volte per origliare meglio, nonché per riempirsi di deodorante per camuffare l’odore di erba il più possibile, e anche se aveva pagato caro il prezzo della sua curiosità quando era stato costretto ad unirsi alla loro sessione di pettegolezzi aveva, almeno, appreso qualche informazione utile e mangiucchiato una marea di pasticcini.
“Le amiche di mia madre erano davvero molto agitate, stando a quanto dice lei pare che sia l’evento più straordinario che ha colpito il palazzo da quando una cameriera, anni fa, rimase incinta e fu costretta a lasciare il lavoro… E se lo dice Marlene Salmon bisogna crederle. Ma si parla di prima che nascessi io, quindi immagino che nel corso degli ultimi trent’anni non sia successo niente di che.”
Kei non rispose, le braccia fasciate da un sottile maglione blu notte strette al petto e lo sguardo pensoso puntato sulla graziosa piantina che faceva da centrotavola. Esteban, invece, si abbassò il cappuccio della felpa troppo larga per darsi una ravvivata ai capelli scuri lunghi fino alle spalle attirando su di sé la maggior parte degli sguardi dei presenti, ma finse di non farci caso mentre appoggiava i gomiti sul tavolo spostando lo sguardo dal viso di Jackson a quello di Kei:
“Pensate che sarà positivo?”
“Beh, per forza. Altrimenti la questione dell’avvelenamento va in malora. Ma dev’essere stato per forza omicidio, se aveva il coltello nella mano sbagliata. Quale mancino si taglia la carotide con la mano destra?”
Jackson si strinse nelle spalle agitando leggermente la bustina di zucchero, impaziente di avere il suo caffè per poi raggiungere lo zoo e iniziare a tutti gli effetti la settimana. Kei continuò a non dire nulla, reduce di uno dei weekend peggiori della sua vita, ma rispose ad Esteban quando il vicino gli si rivolse:
“Sicuro che non le usasse entrambe?”
“No, era mancino. Mai visto usare la destra per fare niente.”
“Allora lo ha ucciso qualcuno che non lo conosceva bene. Dovremmo escludere Samantha? Difficile che non lo sapesse.”
Esteban tirò fuori da una tasca della giacca di pelle tabacco e cartine per prepararsi una sigaretta da fumare una volta di nuovo all’aperto inarcando un sopracciglio, dubbioso, ma Jackson si strinse nelle spalle asserendo che poteva anche averlo fatto di proposito, per sviare i sospetti da lei in caso di indagini.
“È un ragionamento assurdamente contorto, ma potrebbe anche essere vero.”
Deluso all’idea di non poter escludere un sospettato dalla lista ma allo stesso tempo concorde con Jackson Esteban annuì, tornando a concentrarsi sulla sua sigaretta mentre Jackson, accanto a lui, gettava un’occhiata perplessa ad Orion e ai caffè che il vicino stava portando verso di loro dal bancone.
“Perché Orion ha cinque caffè? Siamo in quattro. O deve arrivare qualcun altro?”
“No, ne beve sempre due. Ne beve decisamente troppo, ma è impossibile farlo smettere, anche se gli fa male.”
Kei fece una pausa mentre faceva rimbalzare lo sguardo sulla figura alta ed eternamente sorridente del suo amico, raddrizzandosi sulla sedia prima di riprendere a parlare abbassando la voce di un’ottava:
“So che sembra… un tipo strano. E lo è. Ma è anche il suo bizzarro modo di esorcizzare il dolore, credo.”
Di nuovo la voce di Kei si arrestò e il suo sguardo scivolò rapido sull’amico prima di rimbalzare nuovamente sui visi ora incuriositi di Esteban e Jackson, schiarendosi la voce prima di mormorare qualcosa prendendo a tormentandosi nervosamente con le dita l’orlo del maglione.
“Ha perso metà della sua famiglia, tempo fa. In una maniera orribile, tra l’altro.”
Due espressioni sgomente si fecero strada sui volti di Esteban e Jackie, ma prima che uno dei due avesse il tempo di dire qualcosa Orion li aveva raggiunti, armato del suo immancabile sorriso e soprattutto di un vassoio che reggeva i loro caffè:
“Eccomi qua! Per fortuna nessuno di voi mi ha fatto ordinare un cappuccino di soia, o vi avrei tolto il saluto.”
“La religione di Orion aberra il latte di soia nel caffè.”
Mentre Orion occupava finalmente la sedia libera tra lui e Jackson Kei annuì, più serio che mai, e fece scivolare il caffè del veterinario davanti al vicino, prendendo per sé il suo Espresso prima di sporgersi verso il grazioso cestino che conteneva le bustine di zucchero. Naturalmente Orion disapprovava chi zuccherava il caffè e gettò una mite occhiata di rimprovero al suo amico, ma il ragazzo non sembrò farci caso e aprì la bustina sul suo caffè come se nulla fosse.
“Puoi giurarci. Se un giorno dovessi fondare un luogo di culto, ci affisserò un’insegna con su scritto “In coffee we trust”.”
Orion sorrise, allegro e apparentemente immune al malumore che di norma colpisce metà della popolazione mondiale quando giunge il lunedì mattina prima di sorseggiare con gioia la sua linfa vitale, il caffè nero rigorosamente non zuccherato. Jackson ed Esteban risero, ma Kei sapeva per certo che Orion non stesse scherzando.
 
Terminati i caffè, mentre gli altri si erano diretti verso diversi punti della metropoli, Orion e Jackson al lavoro e Kei all’Università, Esteban aveva semplicemente fatto ritorno all’Arconia per mettersi a scrivere: spesso e volentieri aveva la capacità di concentrazione di un criceto ubriaco, ne era perfettamente consapevole, ed era anche consapevole di quanto tempo a volte gli servisse per scrivere un articolo, procrastinatore seriale con la tendenza facile ad annoiarsi qual era. Ma era anche deciso a terminare il lavoro entro il giorno seguente, ragion per cui Esteban varcò la soglia del palazzo salutando Lester sentendosi determinato a chiudersi in casa fino a che non avesse sistemato anche l’ultima virgola del suo articolo.
Per raggiungere il dodicesimo piano Esteban condivise l’ascensore con tre persone: Spencer Allen, che abitava nel suo stesso piano e che salutò, ricambiato, con un sorriso e con un cenno, e due signore che era piuttosto certo abitassero un paio di piani più in basso. Poiché ci aveva già pensato Spencer Esteban non dovette nemmeno premere il pulsante del suo piano, dunque si limitò a dare le spalle ai vicini e ad aspettare pazientemente che le porte dorate si chiudessero per consentire all’ascensore di iniziare il tragitto verso i piani superiori. In quel breve lasso di tempo non gli sfuggirono, naturalmente, gli scambi di battute delle due donne dietro di lui: vicini com’erano non avrebbe potuto astenersi dall’origliare neanche volendo, ma ben presto il giornalista si rese conto di quanto quelle parole avrebbero potenzialmente potuto rivelarsi preziose. Stavano parlando, lo capì in un battito di ciglia, proprio di Montgomery. E di qualcuno, una donna, con cui sembrava avesse discusso poco prima di morire.
All’improvviso Esteban, pur non muovendo un solo muscolo, catalizzò tutta la propria attenzione sullo scambio di battute che stava avendo luogo dietro di lui, sforzandosi più che poteva di capire di chi le due stessero parlando. Non fecero nomi, ma con grande gioia del giornalista si premurarono di fargli capire ugualmente l’identità della donna misteriosa menzionando una parola piuttosto eloquente mentre, giunte al nono piano, uscivano dall’ascensore: rimasto solo con Spencer Esteban non esitò a sfilarsi il telefono dalla tasca della felpa per scrivere qualcosa sulla chat di gruppo che condivideva con alcuni dei suoi vicini, un sorriso soddisfatto stampato sulle labbra carnose.
 
 
Alcune ore più tardi
 
 
Eileen stava per uscire, anche se non ne aveva poi troppa voglia: quel pomeriggio era rimasta all’Arconia per lavorare da casa in compagnia del suo fido barbagianni Anacleto e di una tazza di tè dietro l’altra e in tutta onestà avrebbe preferito terminare la giornata allo stesso modo, sul divano con una coperta e una serie tv. Il suo borsone nero, tuttavia, era già pronto e la strega quasi in procinto di lasciare l’appartamento quando qualcuno bussò con decisione alla porta, inducendola a raggiungere l’ingresso e ad aprire con un sopracciglio inarcato e una sincera dose di curiosità in corpo.
“Bundle(2).”
Fuori dalla porta del suo appartamento si trovava, impettita in una posa che prevedeva di tenere il mento sollevato e le braccia strette al petto come in procinto di condividere con lei una solenne notizia, Leena. Eileen non provò poi questo gran stupore, e rimase in silenzio sulla soglia rivolgendo un accenno di sorriso e uno sguardo paziente alla sua amica, che non esitò a continuare il suo discorso ad affetto:
“È arrivato il nostro momento di gloria. Andiamo a fare yoga.”
“Ma io ho lezione di flamenco!”
“Che vuoi che sia, nacchera qua, nacchera là… Abbiamo una missione, forza, prendi il materassino!”
“Non ne ho.”
Eileen questa volta inarcò un sopracciglio, una mano poggiata sulla porta e lo sguardo cristallini puntato sul bel viso dell’amica, che sospirò e assunse un’espressione amareggiata e pensosa mentre rifletteva sul da farsi:
“Merda, nemmeno io, speravo ne avessi uno in più… Va beh, lo troveremo strada facendo o alla peggio lo faremo apparire con la magia, andiamo!”
Eileen non aveva tutta questa voglia di uscire, quella sera. Ma ovviamente non ebbe alcuna scelta, e ben presto avrebbe inaugurato la sua personalissima esperienza con lo yoga.
 

“Momento di gloria un cazzo, fa malissimo!”
“Ammetto che forse non è stata una delle mie idee migliori…”
Era raro che accadesse, ma mentre i muscoli delle braccia sembravano sul punto di esploderle tanto li sentiva pulsare Leena Madison Zabini dovette ammettere, alla sua amica ma anche a se stessa, di non aver avuto poi una trovata così brillante. E dire che sul momento, quando aveva letto il messaggio di Esteban, le era parsa un’idea così perfetta! Seguire Kamala sul luogo di lavoro, fingere di voler seguire le sue lezioni come copertura e cercare di scoprire che cosa l’avesse legata a Montgomery. Sulla carta un piano perfetto, ma lo sarebbe stato anche nella pratica solo se Kamala invece di insegnare yoga avesse tenuto lezioni su come leggere libri, spettegolare e bere caffè in contemporanea: in quello lei ed Eileen erano delle vere esperte.
“Su, forza, assumete la posizione del corvo!”
Kamala Sharma doveva necessariamente essere un androide creato artificialmente dall’uomo, si disse Eileen mentre la bellissima strega distendeva le labbra mostrando due file di denti candidi e perfetti a tutti i poveri individui stremati e sudati presenti nella stanza. Com’era possibile che non fosse sudata affatto? E che i suoi capelli fossero perfetti dalla radice fino alle punte? La strega si accasciò esausta e soprattutto dolorante in ogni parte del corpo sul materassino viola pastello che aveva srotolato sul pavimento, e Leena la imitò prima di guardarsi attorno, accigliata, facendo correre i grandi occhi scuri sulle persone che le circondavano e sull’assurda, di certo dolorosissima posizione che i loro corpi stavano assumendo.
“Io te lo dico, questa stronzata non la faccio.”
Leena scosse la testa con disapprovazione mentre si metteva a sedere a fatica sul materassino, fingendo di doversi sistemare i lunghi capelli ricci raccogliendoli meglio sulla nuca mentre Eileen, che stava rimpiangendo il suo divano più che mai, guardava una delle donne a lei più vicine con aria stralunata: perché quella gente pagava per autoinfliggersi quelle torture?
“Tanto vale che chiami direttamente l’ambulanza, mi spaccherei i denti sul pavimento nel giro di un secondo...”
“Ma non la fa una pausa?! Dovevamo portarci Niki, lei l’avrebbe terrorizzata con la forza del suo sguardo penetrante e ne avrebbe fatte cinquanta, di pause!”
“Taci, dobbiamo farcela amica e scoprire che cosa nasconde!”
Kamala si stava pericolosamente avvicinando ai loro materassini colorati e le due si impegnarono immediatamente per fingere di cercare di assumere la posizione da lei indicata poco prima, stampandosi faticosamente due sorrisi plastici sul viso per salutarla fingendo allegria, noncuranza e affabilità. Kamala ricambiò il sorriso e risposte al saluto, riconoscendole, prima di superarle e dirigersi verso l’ultima fila di materassini della stanza, dando loro le spalle e permettendo così alle due di tornare ad accasciarsi sul pavimento esalando dei rumorosi sospiri. Eileen trovò la forza necessaria a sollevarsi quel poco che le bastò per ruotare la testa in direzione di Kamala e controllare che non fosse a portata d’orecchi, scuotendo infine la testa prima di gettare un’occhiata disperata all’orologio appeso alla parete davanti a lei pregando che quella tortura finisse in fretta:
“Ora tutto ha un senso, ecco perché in Sex and The City Carrie e Samantha andavano a lezione di yoga solo perché Samantha voleva scoparsi l’istruttore…”
“Beh, noi o cambiamo sponda o neanche quello possiamo fare.”

 
*

 
                                                                                                                                                                                                                                          Martedì 5 ottobre


Una volta fatto ritorno all’Arconia grazie alla Metropolvere e uscito dal camino del suo appartamento – quella mattina aveva spento la sveglia una volta di troppo e accumulato un discreto ritardo, ragion per cui aveva dovuto rinunciare alla prospettiva di andare al lavoro in moto ripiegando invece su un mezzo di trasporto infinitamente più immediato – Carter non si era nemmeno sfilato gli stivali chelsea neri o la giacca di pelle, appellando invece il guinzaglio e la pettorina rossa di Sarge per portarlo a fare una breve passeggiata prima di cenare: aveva bisogno di prendere un po’ d’aria dopo un’intera giornata chiuso in redazione e soprattutto aveva il frigo vuoto, quindi ne avrebbe approfittato per prendersi qualcosa da mangiare lungo la strada.
Mezz’ora dopo essere apparso nel camino del suo appartamento insieme a delle fiamme color smeraldo Carter varcò l’ingresso del palazzo segnato dall’alto cancello nero in ferro battuto con finitura anticata insieme a Sarge, che lo seguiva obbediente e felice per la passeggiata appena fatta, e ad un caldo e profumatissimo sacchetto di carta contenente dei burritos che il giornalista moriva dalla voglia di azzannare. Il cielo sopra la metropoli si era ormai fatto irrimediabilmente semi-buio e quando Carter, superato il breve tunnel, si affacciò sul cortile interno del palazzo lo vide illuminato fiocamente dalle luci giallastre dei lampioni e da quelle che si potevano scorgere attraverso le tende di alcune finestre. Qualcosa a quella vista lo riportò mentalmente a quasi tre settimane prima, la sera in cui erano stati fatti uscire dal palazzo e in cui era stato rinvenuto il cadavere di Montgomery, ma Carter addossò immediatamente la responsabilità di quel collegamento a ciò che aveva scritto negli ultimi giorni e cercò di accantonare quel pensiero mentre i suoi piedi guidavano lui e Sarge verso il vero e proprio ingresso quasi autonomamente, percorrendo un percorso ormai consolidatosi nelle sue giornate da ben sette anni a quella parte.
Mentre il suo sguardo cristallino correva sulla facciata dell’edificio disegnata in stile Neorinascimentale e sulle finestre dei vari piani, alcune illuminate tradendo la presenza dei rispettivi inquilini e altre no, Carter finì suo malgrado con il chiedersi, ancora una volta, se davvero sarebbe morto qualcun altro. Orion, per qualche assurdo motivo, ne sembrava totalmente persuaso, ma Carter non riusciva a fare a meno di dubitarne: perché avrebbero dovuto far fuori qualcun altro dei suoi vicini dopo a, come minimo, tre settimane dal primo omicidio? L’unica ragione valida che riusciva a venirgli in mente era che, forse, qualcuno sapeva qualcosa sulla morte di Montgomery che non avrebbe dovuto scoprire. E un po’ provava invidia nei confronti di quell’individuo immaginario che viveva come una sagoma indistinta nella sua mente, perché Carter moriva dalla voglia di saperne di più, sulla morte del suo vicino. Molto di più.
Gli capitò, con gran fastidio, di pensare a suo fratello, a come si ostinasse a rivolgerglisi come ad un bambino e a sottolineare come il suo lavoro non prevedesse il farsi invischiare in storie come quelle. Naturalmente Lincoln sapeva bene quanto Carter avesse sognato e desiderato di diventare un detective fin da bambino e non tardava mai a sottolineare quanto quel sogno fosse miseramente sfumato a causa di una delle sue pochissime debolezze, forse uno dei pochi aspetti della sua persona a fargli provare una sincera insicurezza. Perché fosse così sensibile alla vista del sangue e perché lo terrorizzasse Carter non lo ricordava neppure: forse da bambino era caduto, si era fatto male e aveva visto fiumi di sangue che nemmeno ricordava? Non ne aveva idea, qualsiasi cosa fosse successa l’aveva relegata in un angolo lontano della sua mente per non averne memoria futura, ma provava comunque un enorme astio nei confronti di quella fobia che, naturalmente, era spettata a lui e non certo al suo perfetto fratello dall’armatura scintillante.
La mente di Carter si era fatta inesorabilmente trascinare in una fastidiosa spirale di ricordi legati a suo fratello e ai loro genitori, che non in effetti non vedeva da parecchie settimane, quando si rese conto che Sarge stava cercando di condurlo non in direzione della porta e di Lester, ma verso una delle tante panchine bianche che popolavano il cortile insieme alle aiuole, ai cespugli – misteriosamente e forse magicamente sempre curati al millimetro quando Carter, in ben sette anni, non aveva mai visto nessuno potarli – e alla fontana centrale. A differenza della famigerata sera in cui l’allarme antincendio aveva spinto lui e tutti gli altri residenti a lasciare l’edificio il cortile era praticamente deserto, ma Sarge stava puntando dritto verso una delle poche persone che, a parte il padrone, vi si trovava: riscossosi rapidamente dalle sue elucubrazioni mentali su possibili morti future, su suo fratello e sulla sua emofobia Carter si rese conto che la persona che Sarge aveva notato era proprio una delle sue vicine. E di certo non una di quelle che trovava più piacevoli.
Ricordando il momento in cui aveva scorto suo fratello fuori dalla porta dicendosi che, dopotutto, avrebbe preferito ricevere una visita dalla spilungona di nero vestita Carter si convinse di come in qualche modo il cosmo lo avesse ascoltato e deliberatamente deciso di prendere per il culo: seduta, sola, su una panchina ad una ventina di metri dall’ingresso c’era Niki, irrimediabilmente a capo chino e armata di libro aperto sulle ginocchia. Stranamente non indossava gli occhiali da sole con la montatura rotonda ormai diventati estremamente familiari per Carter, ma dopo un breve stupore iniziale il giornalista si disse che, probabilmente, nemmeno lei era tanto stramba da indossarli di sera, per di più per leggere.
Certo Carter si chiese perché se ne stesse lì seduta a leggere quando la luce dei lampioni rendeva di certo l’operazione meno agevole rispetto a quelle domestiche, ma una parte di lui si convinse di non doversi più porre troppe domande a proposito dei comportamenti bizzarri della sua vicina e allentò, rassegnato, la presa sul guinzaglio di Sarge per accontentarlo e consentirgli di andarla a salutare. Perché stesse tanto simpatica al suo cane proprio non riusciva a capirlo.
Quando Niki percepì che qualcuno si stava avvicinando alzò la testa distogliendo lo sguardo, così chiaro da quasi brillare in mezzo alla semi-oscurità, dalle pagine del libro per puntarlo su Sarge e su Carter, aprendo le labbra in un sorriso straordinariamente sincero, quasi affettuoso, alla vista del Golden Retriever.
“Ma ciao.”
Niki chiuse il libro tenendo l’indice della mano sinistra in mezzo alle pagine per tenere il seguo e usò invece la destra per sfiorare la testa e le soffici orecchie di Sarge, accarezzandolo con gentilezza quando il cane sedette accanto a lei. Dapprima indeciso sul da farsi Carter finì col sedersi a sua volta sulla panchina, poco attratto dall’idea di restarsene in piedi in attesa che quel traditore del suo cane finisse di farsi corrompere dalla vicina. Invece di salutarsi lui e Niki restarono in silenzio, lei con gli occhi color giada fissi su Sarge ed eppure pensosi e Carter impegnato a scrutarla dubbioso con le sopracciglia aggrottate. Gli ci volle qualche istante prima di realizzare come, in effetti, non la vedesse da quando erano stati allo zoo cinque giorni prima. Ricordava di aver notato distrattamente come ad un certo punto la vicina fosse sparita nel nulla durante la visita, e si era rapidamente chiesto se non si fosse messa in testa di rubare qualche cucciolo di panda: non si poteva mai sapere. Dove fosse andata quella sera Carter non lo sapeva, ma realizzare di non averla vista da nessuna parte nei giorni precedenti gli sembrò bizzarro: da quando era morto Montgomery aveva avuto l’impressione di ritrovarsela davanti in ogni angolo dell’edificio, gli era persino capitata sul suo terrazzo, e poi niente. Dissolta nel nulla come fino ad un mese prima.
“È da qualche giorno che ti non vedo in giro.”
“Ho avuto giornate impegnative. Ti sono mancata?”
Il sorriso che Niki aveva rivolto a Sarge assunse dei connotati beffardi mentre la strega ruotava leggermente la testa in direzione di Carter, indugiando brevemente con lo sguardo sul viso del vicino mentre il giornalista sedeva a diversi centimetri di distanza da lei, le braccia strette al petto e l’impugnatura del guinzaglio stretto mollemente in mano.
“Come le zanzare in inverno.”
Il cupo borbottio di Carter destò inaspettatamente un accenno di debole risata in Niki anziché una risposta piccata e sarcastica, e la strega tornò a riporre la sua attenzione su Sarge e ad accarezzarlo mentre lo sguardo del vicino scivolava prima sulla testa del suo cane, che stava leccando la mano di Niki, e poi sul libro che sostava sulle sue ginocchia. Leggendo il nome dell’autore qualcosa si accese nella testa di Carter, che subito rammentò la sua più recente conversazione con il fratello e si lasciò rotolare quasi senza pensarci il titolo del libro sulla lingua:
A sangue freddo.”
“Lo hai mai letto?”
“No.”
“Dovresti. È il primo romanzo-reportage della storia. Tu più di me dovresti leggerlo.”
Carter pensò che probabilmente la vicina avesse ragione, ma si sarebbe tagliato un dito piuttosto che ammetterlo e tacque, prendendo mentalmente nota – non poteva tollerare l’idea che suo fratello potesse aver letto quel libro e lui, un giornalista, no – prima di chiederle qualcosa che non aveva potuto fare a meno di punzecchiare la sua curiosità non appena l’aveva scorta su quella panchina:
“Perché te ne stai qui fuori a leggere sforzandoti la vista quando potresti farlo dentro casa tua, con molta più luce e meno freddo?”
Niki questa volta non ricambiò il suo sguardo, limitandosi a continuare a concentrarsi su Sarge e ad accarezzarlo mentre si prendeva qualche istante prima di rispondere alla sua domanda; la strega finì col stringersi nelle spalle con un movimento pigro, appena accennato, e a parlare con un tono di voce neutro dal quale Carter non riuscì a carpire neanche l’ombra di un’emozione.
“Volevo prendere un po’ d’aria.”
Naturalmente a seguito dei loro ripetuti incontri che avevano avuto luogo nel corso delle precedenti settimane Carter sapeva che Niki non avrebbe aggiunto nient’altro, e dopo una breve pausa di riflessione e di silenzio parlò di nuovo accennando questa volta al libro che la strega teneva sulle ginocchia, giocherellando con il manico del guinzaglio nero di Sarge:
“Di che parla?”
“Un quadruplice omicidio nel Kansas, 1959. Due tizi entrano in una casa e uccidono un’intera famiglia sparandogli in testa. È crudele e intenso. Non è una lettura per tutti, ma è meraviglioso.”
“Perché?!”
Pieno d’orrore ma anche di curiosità al tempo stesso – la gente poteva strabuzzare gli occhi, sfoggiare smorfie, ma quella specie di attrazione verso storie di quel genere sarebbe sempre stata più forte di lui – Carter inarcò un sopracciglio, urtato e al tempo stesso affascinato da quel minuscolo e macabro assaggio mentre Niki, aggrottata la fronte, si prendeva qualche istante prima di rispondere fissando la ghiaia davanti alla panchina.
“Non so se ci fosse un vero motivo. Forse a volte non c’è, c’è solo crudeltà e follia.”
“Pensi che sia andata così anche per Montgomery?”
“No. Forse se fosse morto in modo diverso. Credo che il veleno sia molto… personale, come mezzo per uccidere qualcuno. Se davvero è andata così.”
Carter pensò che probabilmente avesse ragione, ma di nuovo non si pronunciò. Si limitò ad annuire, d’accordo con lei, e a fissare assorto la ghiaia che separava la panchina dal prato per una manciata d’istanti prima di depositare una leggera e affettuosa carezza sulla testa di Sarge e alzarsi in piedi, rammentando solo in quel momento di avere una gran fame e dei burritos da ingurgitare.
“Allora penso che lo leggerò.”
“Bravo.”
Niki lo guardò alzarsi senza imitarlo, ma dovette decidere di aver temporaneamente esaurito la sua dose di lettura perché ripose il libro infilandolo nella sua borsa di tela nera.
“Beh, ci si vede.”
“Immagino di sì. Ciao Sarge.”
Niki indirizzò un ultimo sorriso in direzione di Sarge, guardando lui e il padrone allontanarsi fino a scorgerli raggiungere Lester all’ingresso, le loro figure stagliarsi contro la luce dell’atrio del palazzo che filtrava attraverso la porta di vetro. Stava ponderando se imitarli o meno, se tornare come Carter al tredicesimo piano, quando un rumore distolse brevemente la sua attenzione: un lieve fruscio di foglie più o meno sopra di lei, che Niki ricondusse immediatamente al carpino che era stato piantato alle spalle della panchina, tenne i suoi occhi verdi incollati, dubbiosi, alle fronde della pianta che andavano seccandosi con l’inizio dell’avanzare dell’autunno.
 
Carter varcò finalmente la soglia dell’Arconia dopo aver salutato Lester insieme a Sarge, che come sempre fu felice di farsi dare qualche coccola anche dall’anziano portiere: il suo cane era un venduto di prima categoria, ma il giornalista lo lasciò fare guardandolo con occhi pieni d’affetto. Fu prima di addentrarsi nell’ingresso illuminato dall’enorme lampadario appeso al soffitto che Carter si voltò per posare lo sguardo, senza sapere di preciso il perché, sulla panchina dove aveva brevemente preso posto poco prima: provò un leggero moto di stupore nel trovarla vuota, soprattutto perché non scorse la sua vicina nemmeno in prossimità dell’ingresso o, in generale, in un qualche punto del cortile visibile da dove si trovava.
“Lester, ci sono sempre gli incantesimi per impedirci di Smaterializzarci, vero?”
“Certo Signore.”
Carter ci provava da anni a farlo smettere di chiamarlo Signore, che lo faceva sentire vecchio e orribilmente vicino all’immagine di suo padre o di suo fratello, ma il portiere gli era talmente simpatico da rendergli impossibile anche solo tentare di rimproverarlo o di spazientirsi. Si chiese invece, prima di salutare Lester e invitare Sarge a seguirlo dentro con un dolce strattone del guinzaglio, se per caso la sua vicina non fosse a conoscenza di delle botole nascoste in giro per la proprietà, tanto spariva alla velocità della luce.
 
 
*
 

L’umore di Kei, quella sera, non era propriamente dei migliori: l’esito di un orribile weekend vissuto all’insegna della spiacevolissima immagine del corpo di Montgomery riesumato e dell’esame tossicologico, i cui risultati avrebbero potuto stravolgere completamente le conseguenze della morte del suo amico. Kei non era riuscito a smettere di pensarci da quando l’aveva saputo da Moos, che i genitori di Montgomery avevano acconsentito a seguito di un lungo colloquio con i detective. Era quasi sicuro di averlo persino sognato, la sera prima, qualcosa di orribile che aveva a che fare con bare vuote e cumuli di terra umida: si era svegliato prima dell’alba, madido di sudore e con Polaris a sonnecchiare ai piedi del suo letto come sempre, ma esattamente come quando gli capitava di sognare la morte dei suoi genitori, pur non avendovi assistito direttamente, non era più stato in grado di riaddormentarsi
Per tutto quel lungo, quasi interminabile weekend aveva tentato di dedicarsi a ciò che, di solito, contribuiva a rilassarlo meglio di qualsiasi altra cosa: era andato in piscina, aveva nuotato a lungo, una vasca dopo l’altra per cercare di allentare la tensione e pensare a qualcosa che non avesse a che fare con ciò che, probabilmente, in quel momento stava subendo il corpo privo di vita del suo amico. Tornato all’Arconia se n’era stato a lungo seduto sul divano con Polaris a fargli le fusa sulle ginocchia e al telefono con una delle sue sorelle, ma nemmeno la voce dolce e familiare come una carezza sulla guancia di Etsuko era riuscito a distrarlo fino in fondo; aveva cercato di sedersi davanti al suo computer e di scrivere, ma niente. Riusciva solo a pensare all’esito di quell’esame.
Era stato di gran lunga uno dei weekend più penosi di cui Kei avesse memoria da che si era trasferito a New York, e un inizio di settimana se possibile peggiore. Naturalmente Orion aveva provato a tirarlo su e a distrarlo, ma Kei aveva declinato, seppur grato nei confronti dell’amico, il suo invito a vedersi per chiacchierare e bere qualcosa. A volte quasi si ritrovava ad invidiare profondamente l’amico per come viveva, elaborava ed affrontava il dolore, quando si ritrovava a riflettere su come non avesse praticamente mai scorto il viso di Orion senza un sorriso allegro impresso sulle labbra, ma forse lui non ne sarebbe mai stato capace.
Il weekend era finito, la settimana ricominciata, ma Kei ancora restava immerso in quell’orribile, lenta ed apparentemente infinita attesa: era steso scompostamente sul divano blu del suo soggiorno, gli occhi scuri puntati sul soffitto bianco sopra di lui, quando qualcuno aveva suonato il campanello. Seppur poco allettato all’idea di ricevere visite in quelle circostanze Kei non aveva esitato ad alzarsi e ad attraversare il corridoio che lo avrebbe portato fino all’ingresso circolare dell’appartamento, un nodo alla gola e lo stomaco in subbuglio all’idea di poter ricevere notizie imminenti: l’ora di cena era passata da un pezzo, e qualcosa gli disse che chiunque si trovasse fuori dalla porta a quell’orario abbastanza insolito per una visita avesse un buon motivo per aver suonato il suo campanello.
Kei capì che l’attesa poteva dirsi ufficialmente conclusa quando, aperta la porta, si trovò davanti un vicino che abitava due piani più in basso. Un sorriso gentile che tradiva tracce di disagio dettate da ciò che doveva dirgli, un completo nero addosso e una tortiera bianca decorata da un motivo di minuscole e delicate ciliegie in mano, Moos ricambiò il suo sguardo inquieto porgendogli la tortiera:
“Ciao. Spero di non disturbarti. E che ti piaccia la Blueberry Pie.”
 
C’era qualcosa che strideva, in Bartimeus Thomas: il suo aspetto, il suo lavoro, il suo elegante completo nero, non sembrava avere nulla a che fare con la torta di mirtilli che giaceva all’interno di quell’adorabile casserole di ceramiche coperta da ciliegie. Sembrava il risultato di una bizzarra fusione tra due individui che niente avrebbero dovuto avere a che fare l’uno con l’altro, ma Kei era troppo preso dal riflettere, sconvolto, a proposito di ciò che il vicino gli aveva appena comunicato per darci particolare peso.
“Non è possibile.”
“Temo che sia così. Ho pensato di farlo sapere prima a te.”
Moos parlò sforzandosi di sorridere, non seppe nemmeno bene perché: non c’era proprio alcun motivo per sorridere, non quella sera e in quelle circostanze, per nessuno dei due. Forse era solo il suo solito, innato bisogno di essere gentile con chiunque. Kei scosse la testa, sconcertato, stando in piedi oltre il divano con le sopracciglia aggrottate fino a creare una ruga in mezzo alla sua fronte liscia e pallida. Mentre il padrone cercava faticosamente di assimilare ciò che il vicino era giunto a comunicargli Polaris prese a strusciarsi contro le gambe dell’ospite riempiendogli i pantaloni neri del completo di sottili peli color grigio scuro, ma naturalmente Moos non si indispettì, del tutto incapace di farlo quando c’era di mezzo un qualsiasi animale, e anzi abbozzò un sorriso mentre si chinava per accarezzare gentilmente la piccola testa del felino domestico.
“Ma io pensavo…”
“Lo pensavo anche io. Tutti noi, direi.”
“Quindi non aveva tracce di veleno in corpo quando è morto?”
“No.”
Moos parlava, muoveva le labbra e la sua voce echeggiava chiara all’interno del soggiorno, eppure Kei faticava ad assimilare le sue parole, guardandolo incredulo e quasi inorridito al tempo stesso. Prese a muoversi camminando nervosamente avanti a indietro di fronte a Moos, percorrendo l’intera lunghezza del divano prima di voltarsi e tornare indietro per poi ripetere l’operazione da capo. Kei sbattè le palpebre mentre nella sua mente rievocava ciò che Moos era giunto a dirgli poco prima, deglutendo a fatica prima  di dire qualcosa con voce quasi tremante:
“Ma è… ridicolo. Lui non può essersi ucciso. La mano destra? E il caffè? Lui non beveva caffè.”
“Lo so.”
Moos annuì e parlò con fare paziente, come se Kei fosse semplicemente qualcuno da confortare dopo avergli dato cattive notizie e non qualcuno che stava vivendo il suo stesso stato d’animo. Naomi glielo ripeteva spesso, quanto fosse troppo incline a mettersi da parte per pensare agli altri ed essere sempre gentile e disponibile con chiunque, ma decideva quasi sempre di non darle retta.
“Forse mi sbaglio, ma penso che sia andata così: forse qualcuno gli ha portato quel caffè per ucciderlo. Ma non l’ha bevuto, forse perché non si fidava di quella persona o semplicemente perché non ha mai sopportato quella bevanda. Analizzeranno il bicchiere per scoprire se il caffè fosse stato effettivamente manomesso o no.”
“Ok, quindi non beve il caffè. In qualche modo lo… butta via, magari. Ma poi qualcuno lo uccide lo stesso?”
Kei annuì e indirizzò nuovamente su di lui lo sguardo dubbioso e un poco stralunato senza smettere di misurare la parte della stanza in cui si trovavano a grandi passi, momentaneamente incapace di stare fermo mentre Moos, al contrario, annuiva sfoggiando una calma piatta:
“Forse chi gli porta il caffè capisce di aver fallito. Allora torna e… finisce il lavoro.”
Era forse l’espressione peggiore che avrebbe potuto utilizzare, Moos se ne rese conto con una discreta dose d’orrore nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole. Per fortuna Kei era scosso a prescindere e non ci fece caso, continuando a marciare avanti e indietro di fronte al divano mentre lui lo osservava, immobile, in piedi nello spazio tra il mobile e le finestre che si affacciavano sul cortile ormai buio e illuminato solo dalla luce dei lampioni.
“Sai, mi è tornata in mente una cosa, in questi giorni.”
Questa volta Moss si persuase di aver scelto le parole giuste, perché a Kei bastò udirle per smettere di colpo di camminare fermandosi nel bel mezzo del salotto e voltarsi verso di lui, in attesa e con lo sguardo inquieto. L’ex Serpecorno esitò, chiedendosi se non fosse un pensiero sciocco ed irrilevante, ma si schiarì la voce e lo condivise comunque con il vicino: forse lui avrebbe potuto dirgli se era davvero sciocco o meno.
“Quando eravamo piccoli Monty faceva una cosa: gli mettevano qualcosa che non voleva nel piatto, perché era davvero un insopportabile marmocchio petulante che non voleva neanche toccare le verdure, e appena sua madre o la cameriera si voltavano lui… le Trasfigurava. Credo che sia iniziata senza che lui se ne rendesse conto, ma aveva quasi imparato a controllarlo. E il suo piatto si riempiva di pollo fritto, patatine e cose del genere.”
“Pensi che abbia… trasformato il caffè in qualcos’altro?
“Forse. È una cosa che avrebbe potuto fare. Spiegherebbe perché non avesse veleno in corpo, se dovesse venir fuori che il bicchiere era, effettivamente, stato contaminato con qualcosa.”
Kei annuì lentamente e distolse lo sguardo dal suo viso, fissando pensoso un punto indefinito del divano blu dove aveva trascorso buona parte del weekend precedente finchè un pensiero non si fece strada nella sua mente inducendolo a riportare, accigliato, gli occhi a mandorla sul vicino:
“Come hanno avuto il bicchiere?”
Kei guardò l’accenno di un sorriso farsi strada e distendere le labbra carnose di Moos, la cui mano preso a giocherellare distrattamente con il bottone del blazer prima di parlare con aria colpevole e un tantino soddisfatta al tempo stesso:
“Ho un amico al Quartier Generale.”

 
*
 
 
Mercoledì 6 ottobre
Queens
 
 
Sembrava che quella mattina metà dei quartieri del Queens fossero stato inghiottiti da una lugubre e fitta coltre di nebbia, ma camminando lungo i marciapiedi e guardandosi attorno Niki aveva rapidamente appurato una cosa: nebbia o meno era proprio così che lo ricordava, il quartiere dove era cresciuta. Grigio e intrinsecamente triste, tanto che aveva iniziato a masticarne il nome con tetra ironia, Sunnyside, già da bambina. Scesa dalla metro i suoi piedi l’avevano condotta rapidi e sicuri verso la sua destinazione, destando stupore nella strega per la chiarezza con cui il ricordo della strada era rimasto intatto nella sua memoria. Prima di rendersene conto Niki era approdata nella lunga via in cui aveva trascorso praticamente ogni attimo della sua infanzia e aveva continuato a camminare finchè non aveva scorto, sul lato del marciapiede in cui si trovava, un disegno impresso con un gesso bianco.
La strega si era fermata, il capo chino e gli occhi verdi fasciati dalle lenti scure puntati sul disegno per giocare a campana che era stato impresso sull’asfalto. Era rimasta immobile per alcuni istanti mentre ricordava se stessa china sul marciapiede per tracciare quelle linee e quei numeri prima di persuadersi di come qualche altro bambino dovesse necessariamente averlo ripassato di recente: quel disegno non avrebbe mai potuto sopravvivere allo scorrere del tempo.
Non si era guardata attorno, non aveva alzato nemmeno lo sguardo sull’edificio a tre piani che aveva di fronte, si era limitata a dare le spalle al disegno e alla strada deserta prima di salire i sei gradini che la dividevano dall’ingresso, una porta nera con inserti in vetro e la vernice sbeccata in diversi punti. Aveva saltato quasi inconsapevolmente il terzo gradino, che traballava da che aveva memoria, e aveva aperto la porta dopo aver tirato fuori dalla tasca della lunga giacca nera un anello di metallo leggermente annerito che reggeva due chiavi.
La porta si era aperta cigolando, come sempre, e lo sguardo di Niki aveva indugiato solo brevemente, in piedi sulla soglia, sullo stretto ingresso semi-buio, illuminato fiocamente dalla luce grigia che entrava dalle finestre della tromba delle scale che conducevano ai piani superiori. Le assi del pavimento erano più annerite di quanto ricordasse, e così le pareti ammuffite negli angoli a causa della poca luce. Si era chiesta se fosse sempre stato così piccolo, o se da bambina tutto le era semplicemente parso più grande, mentre varcava la soglia e si chiudeva la porta alle spalle con un lungo cigolio. Immersa ancor più nella semi-oscurità Niki si era rivolta verso la sola porta che si trovava alla sua destra, infilando lentamente la seconda chiave nella serratura prima di farla scattare e aprirla.


Un’ora dopo Niki si trovava nuovamente in piedi sul marciapiede, questa volta dando le spalle all’edificio dal quale era appena uscita e indirizzando gli occhi verdi su un punto al di là della strada, sul marciapiede opposto, impegnata ad osservare qualcosa che ormai non c’era più ma il cui ricordo era ancora perfettamente vivido nella sua memoria. Riusciva facilmente a rivedere se stessa scendere i gradini di mattoni appena ripercorsi e gettare un’occhiata piena di desiderio a quelle file di caldi e soffici bagel al sesamo che aspettavano solo di essere assaggiati. Riusciva a rivedersi levare una mano per salutare l’uomo che li vendeva e che talvolta gliene regalava uno, prima di sfrecciare a scuola con lo zaino malconcio e ricucito in più punti che le dondolava traballante sulle spalle.
Jerry, l’uomo che vendeva i bagel, non c’era più, naturalmente. Non c’erano più nemmeno i bagel caldi e profumati. Ad un primo sguardo sembrava che tutto ciò che ricordava di quella strada fosse scomparso col passare del tempo, un pezzo per volta. Aveva vissuto lì per diciassette anni e l’unico segno tangibile del suo passaggio, l’unica cosa ad essere rimasta immutata da quando se n’era andata, erano i segni di gesso bianco che negli anni altri bambini che avevano vissuto nelle case a schiera che si affacciavano sulla strada avevano ricalcato per non farli sbiadire. Aveva vissuto lì per diciassette anni ma niente di ciò che ricordava era rimasto, nemmeno l’anziana signora greca che urlava sempre di non fare chiasso dalla finestra del terzo piano del palazzo di fronte, il venditore ambulante di fiori del mercoledì e il tremendo olezzo di fritto che si levava incessantemente dalla tavola calda all’angolo della strada.
Di fronte a quella strada, a quella persone e alle facciate degli edifici, molte riverniciate nel corso degli anni, ormai estranee Niki si sentì una sorta di fantasma giunto a far visita ai propri ricordi spazzati via dal tempo, e per quanto avrebbe desiderato avere la forza necessaria per non voltarsi verso l’edificio alle sue spalle finì col disegnare un mezzo giro per posare ancora lo sguardo sulla palazzina a schiera dove tempo prima aveva vissuto.
Quella, a differenza di gran parte del resto della strada, non era cambiata affatto da come la ricordava: Niki osservò l’immagine della facciata marrone, ormai quasi tendente ad un tetro grigio sporco, rivestita in pietra della casa a tre piani. Non era mai stato bello, quell’edificio, e da piccola ricordava di aver trovato terribilmente noioso il suo aspetto ordinario, in linea con quello delle classiche townhouses di New York, con il tetto piano, la simmetria delle finestre e delle scale antincendio, il colore così semplicemente triste, i gradini che conducevano alla porta d’ingresso malandata e cigolante che non si chiudeva mai bene al primo tentativo. Si stava chiedendo se le piccole crepe sulla parte sinistra della facciata ci fossero sempre state, se quell’edificio avesse sempre avuto un’aria desolante o se invece riuscisse a vederlo solo dopo esserne stata lontana a lungo, quando, un attimo dopo essersi voltata, scorse un movimento appena percettibile nella prima finestra, alta, stretta e di forma rettangolare come tutte le altre dell’appartamento al pian terreno sul lato sinistro dell’edificio.
La tenda all’interno della stanza si stava muovendo, ondeggiando appena percettibilmente come se qualcuno l’avesse appena mossa, forse dopo averla scostata leggermente per poter guardare fuori. Per poter guardare lei, magari.
Niki fissò la tenda percependo il proprio battito cardiaco accelerare all’improvviso e la salivazione diminuire mentre i suoi piedi si muovevano quasi senza il suo controllo, facendola scendere talmente di scatto dal marciapiede da farle quasi rischiare di scivolare. Niki continuò a guardare la tenda per un altro istante, finchè non si fece immobile, e infine si voltò per allontanarsi sfilandosi gli occhiali da sole dalla tasca della giacca di pelle per infilarseli di nuovo. Percorse i metri che la separavano dall’incrocio che segnava la fine della via con falcate talmente lunghe e affrettate da guadagnarsi gli sguardi perplessi dei passanti, desiderosa di fuggire da quel posto, da quella strada e dai ricordi che scaturivano mentre si chiedeva se avesse davvero visto la tenda muoversi o meno.
 
 
 
Era quasi mezzogiorno e Mathieu era pronto a tornare a casa. Pronto e anche un tantino impaziente, sentendosi a dir poco esausto: era abituato a svegliarsi molto presto, a causa del suo lavoro, ma la sera precedente aveva faticato parecchio per addormentarsi e alzarsi dal letto, diverse ore prima, gli era costata parecchia fatica e una buona dose di forza di volontà che non era nemmeno del tutto sicuro di sapere da dove avesse racimolato.
Mathieu sedeva all’interno della sua amatissima e costosissima auto, indugiando con il telefono in mano prima di mettere in moto: stava scorrendo la valanga di messaggi che aveva trovato, poco prima, all’interno della chat di gruppo che condivideva con alcuni dei suoi vicini, e leggere alcune delle assurdità che avevano scritto lo stava divertendo a tal punto da fargli accantonare temporaneamente il desiderio di sfrecciare verso l’Upper West Side, l’Arconia e il suo appartamento. Mathieu non era sicuro di riuscire a capire se i suoi vicini fossero seri o meno, ma in compenso leggendo quei messaggi si stava divertendo terribilmente, lì seduto in auto a sogghignare di fronte alle teorie strampalate sul caffè, sul veleno, su Montgomery e sui possibili assassini. A stranirlo leggermente era il fatto che Niki non ne stesse approfittando per sfottere Carter e le sue teorie, ma a pensarci bene non era poi così bizzarro che la strega che era stata in grado di non spiccicare parola con nessuno per ben sei mesi non avesse ancora scritto neanche l’ombra di un messaggio in quella chat di gruppo.
Giunto alla fine dei messaggi – in cui Orion proponeva, stranamente, di riunirsi per parlare davanti ad un caffè e un Gabriel abbastanza stranito chiedeva a Leena perché si fosse salvata con il nome di “Norma Bates”, che in effetti suonò in qualche modo familiare anche al canadese, pur non riuscendo a capire il perché sul momento – Mathieu ripose il telefono, finalmente pronto a mettere in moto la sua Rolls Royce per tornarsene a casa, ma qualcosa lo bloccò proprio mentre inseriva la chiave nel blocchetto d'accensione. Stranito e momentaneamente immobilizzato sul sedile rivestito in pelle caro quanto un monolocale a Bushwick, Mathieu aggrottò le sopracciglia bionde mentre osservava, stupito, una figura alta, slanciata e interamente vestita di nero camminare lungo il marciapiede proprio davanti a lui, attirando su di sé gli sguardi dei passanti grazie alla considerevole altezza e alle falcate decise. I pochi dubbi che gli erano rimasti svanirono alla vista dei lacci scarlatti infilati nelle asole di un paio di anfibi consumati ma lucidi e il canadese si domandò, accigliato, che cosa ci facesse Niki nel Queens e quante probabilità avrebbe avuto di incontrarla proprio lì.
Un pensiero gli suggerì rapidamente che la vicina sarebbe stata assolutamente in grado di pedinarlo – chissà perché non gli risultava affatto difficile immaginarlo – e Mathieu mise in moto l’auto procedendo praticamente a passo d’uomo lungo la strada fino a quasi affiancare Niki, abbassando il finestrino per chiamarla:
“Niki?!”
La strega non rispose, continuando imperterrita a camminare con le mani nelle tasche della lunga giacca di pelle nera allacciata in vita e lo sguardo fisso davanti a sé celato dalle lenti scure degli occhiali. Mathieu la chiamò di nuovo, questa volta alzando leggermente la voce e mantenendo l’andatura dell’auto costante per non superarla, ma sempre senza ottenere una risposta. Un paio di nonnette che stavano camminando sullo stesso marciapiede di Niki reggendo le borse della spesa, ma nella direzione opposta, superarono l’auto guardando male il guidatore e scuotendo la testa con evidente disapprovazione, costringendo Mathieu a sospirare prima di difendersi a gran voce e a chiedersi perché nessuno in quella città fosse più in grado di farsi gli affari propri:
Non è come sembra, la conosco! Niki!”
Quello era esattamente il genere di nonnette per le quali Mathieu mai e poi mai si sarebbe fermato ad aiutare a portare le borse, e sbuffò amareggiato prima di riportare lo sguardo sulla vicina e chiamarla una terza volta, infastidito.
Niki, naturalmente, indossava un paio di AirPods celate alla vista dalla coltre di lunghi capelli castani che le ricadevano sulle spalle, ma tra una nota e l’altra di Respect le parve di sentire una voce lontana chiamare il suo nome. La strega la etichettò immediatamente come un’ipotesi ridicola, chi mai avrebbe potuto riconoscerla e prendersi la briga di richiamare la sua attenzione? Continuò infatti imperterrita a procedere sul marciapiede con lunghe falcate ordinandosi di non farsi suggestionare finchè non le sembrò di sentire, di nuovo, qualcuno pronunciare il suo nome: a quel punto, dubbiosa e vagamente inquieta Niki ruotò leggermente il capo verso il ciglio della strada aggrottando le sopracciglia, finchè i suoi occhi non si scontrarono con un’auto che stava inesorabilmente procedendo accanto a lei. La strega trasalì e arrestò immediatamente le falcate, fermandosi di colpo sul marciapiede mentre i suoi occhi mettevano a fuoco un viso familiare che la stava guardando perplesso di rimando.
“Mike, ma che cazzo fai?! Ho perso vent’anni di vita, cazzo!”
Niki parlò sfilandosi le cuffie dalle orecchie, stringendole nella mano destra mentre Mathieu, fermata l’auto, la guardava di rimando attraverso il finestrino abbassato, accigliato e fortemente esasperato all’udire quel soprannome:
“Io non mi chiamo…”
Ma prima che potesse finire di parlare Niki sbuffò e agitò una mano per liquidare il discorso, come a volerlo invitare a non farle perdere tempo con stronzate come quella:
“Lo so benissimo come ti chiami. Che cosa ci fai qui?”
Tu che cosa ci fai qui.”
“Te l’ho chiesto prima io.”
Mathieu non rispose, prendendosi qualche istante per studiare scettico il viso della strega semi celato dalle lenti scure dei suoi occhiali per cercare di capire se fosse seria o meno, ma come spesso accadeva la minima facciale della vicina gli trasmise solo una sorta di inespressiva apatia. Fu però incredibilmente lei a parlare di nuovo quando si scontrò con il silenzio del vicino, stringendosi debolmente nelle spalle mentre tornava a far sprofondare le mani dalle dita lunghe e flessuose all’interno delle tasche della giacca nera:
“Ok, facciamo così, rispondi alla mia domanda e poi io darò retta alla tua.”
“Ci lavoro, qui.”
Non era esattamente la risposta che Niki si era aspettata di ricevere, perché l’idea che uno dei suoi vicini potesse lavorare nel Queens, soprattutto Mathieu, che viveva in un appartamento grande sei volte quello in cui lei era cresciuta, le sembrava semplicemente ridicola: da qualche parte, dentro di lei, il Queens e l’Upper West Side costituivano identità distinte e separate da una distanza incolmabile che mai sarebbero potute entrare in contatto l’una con l’altra. Due mondi senza un punto di collisione. L’idea che una persona come lui lavorasse in quel quartiere la fece quasi scoppiare a ridere, oltre che stranire.
“Tu… lavori qui.”
Perché il tono di Niki sembrava sarcastico, come se stesse pronunciando un’assurdità? Accigliato e sempre più confuso dal bizzarro trattamento che talvolta i vicini erano soliti riservargli Mathieu annuì, ricambiando dubbioso il suo sguardo dall’interno dell’auto:
“Sì.”
Qui.”
Niki si ripeté scandendo lentamente quell’unica sillaba, lo sguardo stralunato puntato su Mathieu dietro alle lenti scure degli occhiali. Il cielo era grigio quel giorno e gli occhiali erano del tutto inutili, ma Mathieu non perse tempo a farsi troppe domande e si limitò ad annuire:
“Sì.”
Mathieu annuì e sollevò entrambe le sopracciglia, come a chiederle se intendesse ripetere nuovamente la stessa domanda. Niki non lo fece, osservandolo sbattendo le palpebre chiedendosi come, esattamente, si potesse lavorare nel Queens con quella macchina. Era piuttosto sicura che l’auto del suo vicino fosse la prima Rolls Royce a vagare per il quartiere da che era stato costruito.
“Beh. Inaspettato. Bene, ti saluto.”
E Niki riprese a camminare come se nulla fosse, infilandosi nuovamente le cuffie nelle orecchie con la massima noncuranza per tornare a concentrarsi sulla sua musica mentre si dirigeva verso la fermata della metro più vicina. Mathieu rimise in moto l’auto e la seguì, intenzionato a farle notare come avesse deliberatamente eluso la sua domanda, ma quando glielo disse Niki si limitò a rivolgergli un’ultima e rapida occhiata sfoggiando un accenno di sorriso:
“Scusa Mike, ho detto che avrei dato retta alla tua domanda, non che avrei risposto. Ti consiglio solo di gettare almeno venti… venticinque incantesimi di protezione sulla tua auto se la posteggi qui in giro.”
Mathieu si disse esasperato che probabilmente una risposta del genere avrebbe dovuto aspettarsela, ma prima di avere il tempo di chiederle se volesse un passaggio, in caso stesse tornando nell’UWS, Niki aveva già svoltato l’angolo infilandosi in una via stretta e poco affollata, allontanandosi con falcate ampie e rapide dal suo campo visivo.
Dal canto suo, Niki riteneva che per portare una Rolls Royce in quelle zone della città si doveva essere incredibilmente coraggiosi o incredibilmente stupidi. Non si premurò di condividere quelle riflessioni con il vicino, ma mentre guardava l’auto allontanarsi si chiese a quale delle due categorie Mathieu avesse deciso di appartenere. O forse era solo esibizionismo. Perché gli uomini fossero tanto fissati con le loro auto non l’avrebbe mai capito.
 

 
*
 
 
Quella sera
 
 
Esteban era decisamente impaziente di cominciare, ma attese, in piedi davanti alla lavagna, che quasi tutti avessero preso posto qua e là sugli ampi e comodi divani chiari del soggiorno di Mathieu prima di prendere la parola:
“Ci siamo tutti? Non manca qualcuno?”
Il giornalista si rigirò il pennarello nero che teneva in mano tra le lunghe dita color caffelatte mentre faceva rimbalzare lo sguardo sui volti dei presenti, certo che la stanza sembrasse meno affollata rispetto al solito.
“Carter ha detto che non viene, è in giro a cercare informazioni su un articolo che deve scrivere su un giocatore di Quodpot.”
Mathieu, seduto tra Gabriel e Naomi, si portò una manciata di patatine alle labbra reggendo un’enorme scodella di plastica mentre Jackson, che aveva occupato il divano di fronte insieme a Kei e a Orion, scuoteva la testa dopo aver gettato un’ultima occhiata a tutta la sfilza di messaggi che Piper gli aveva mandato per tutto il pomeriggio lagnandosi della luce orribile dettata dal mal tempo che l’aveva costretta a restare sul set per molte ore più del necessario.
“Piper è bloccata ad uno shooting, credo. O qualcosa del genere.”
“Dov’è Niki?”
Moos, bloccato tra Naomi e il bracciolo del divano, parlò guardandosi attorno con un sopracciglio inarcato, stranito all’idea che Niki si stesse perdendo l’incontro. Non perché pensasse che morisse dalla voglia di godere della loro compagnia, naturalmente, ma alla luce dei recenti eventi e considerando di che cosa avrebbero parlato gli sembrò comunque bizzarro.
“Volete dire che oggi non vedremo Carter e Niki scannarsi?”
Orion sembrò quasi dispiaciuto nel pronunciare quelle parole sgranando gli occhi scuri, e un assenso generale si diffuse nel salotto mentre Leena ed Eileen si univano al gruppo, di ritorno dalla cucina reggendo bicchieri pieni di succo di zucca, e Mathieu mormorava qualcosa ingollando un’altra manciata di patatine.
Sembra Natale.
“Ragazze, perché camminate così?”
Alla vista di Leena ed Eileen avvicinarsi camminando in modo piuttosto bizzarro, come se le gambe dolessero loro particolarmente, Naomi si sporse leggermente oltre Mathieu per gettare un’occhiata stranita alle due vicine, che sbuffarono mentre superavano gli altri per raggiungere le due poltroncine color verde bottiglia rimaste libere e sedersi a loro volta.
“Abbiamo fatto yoga. Un’esperienza infernale.”
Leena quasi si accasciò sulla sedia maledicendo la sua stessa idea ed Eileen la imitò, annuendo seccata:
“È tutta oggi che cammino come un pinguino. L’acido lattico mi sta massacrando.”
Eileen gettò un'occhiata malinconica alle proprie povere gambe doloranti ed Esteban fece del suo meglio per non ridere, conscio di come sarebbe stato indelicato, mentre riprendeva a parlare:
“Beh, questo si ricollega perfettamente a quello che volevo dire, grazie ragazze. Allora, come sappiamo sembra che Monty non avesse ingerito alcun veleno, alla fine… Ma questa storia del bicchiere e del caffè è comunque strana.”
“E c’è la questione della mano. Quindi lo hanno ucciso per forza, veleno o no.”
La voce di Kei si levò cupa dal suo angolo del divano ed Esteban annuì, accennando brevemente nella sua direzione col pennarello prima di scriverlo sulla lavagna mentre Orion assestava qualche colpetto consolatorio sulla spalla dell’amico:
“Giusto. Inoltre, pare che un paio di giorni prima di morire Monty sia stato visto discutere proprio con la nostra istruttrice di yoga preferita.”
Gabriel avrebbe avuto da ridire, ma rimase in rispettoso silenzio e si limitò a dar vita ad una smorfia con gli angoli delle labbra mentre Naomi si voltava in direzione di Leena ed Eileen, chiedendo loro se quell’improvviso interesse per lo yoga avesse una qualche correlazione con Kamala.
“Certo, non mi sarei fatta torturare in quel modo altrimenti! Comunque ovviamente non abbiamo scoperto nulla, Leena dice che dovremmo andarci spesso e farcela amica. Insomma, nelle serie tv ci sono sempre quelle tipe che fanno yoga e poi bevono il caffè e parlano dei cavoli propri. Beh, in questo caso tè, perché lei sappiamo che non lo beve.”
Orion, ferito nel profondo, scosse la testa con disapprovazione: fortuna ci avevano pensato loro a sacrificarsi per la causa comune, perché lui non sarebbe mai riuscito nemmeno a fingersi amico di una tipa del genere.
“Quindi pensate che qualcuno possa aver provato ad avvelenarlo… per qualche motivo non ci riesce, se ne rende conto e quella notte torna e lo uccide definitivamente?”
Jackson parlò aggrottando la fronte e cercando di trascrivere le parole dei vicini più rapidamente che poteva sulle note del suo telefono avendo promesso a Piper di farle un resoconto dettagliato della serata che si stava perdendo, ed Esteban annuì osservando pensoso la foto di Kamala appesa alla lavagna.
“Potrebbe essere, sì.”
“Se dovessero trovare tracce di veleno nel bicchiere sarà andata così per forza. In tal caso Monty semplicemente aveva deciso di non bere il caffè e in qualche modo ha evitato di finire avvelenato.”
Mathieu si strinse nelle spalle porgendo la ciotola di patatine a Gabriel, che però la rifiutò con un educato cenno della mano. Naomi e Moos invece furono felicissimi di servirsi: ad entrambi situazioni di tensione come quella attuale facevano venire una gran fame.
“Perché sospettava qualcosa o perché non gli piaceva?”
Naomi fissò le foto appese alla lavagna aggrottando le sopracciglia, profondamente infastidita all’idea di non avere il quadro completo di come le cose fossero andate. Il suo sguardo tornò ad indugiare sulla foto di Kamala, la bellissima, perfetta e sorridente Kamala, e ripensò inevitabilmente al caffè che lei e Gabriel avevano rinvenuto a casa sua solo poco tempo prima.
“Purtroppo è impossibile dirlo.”
Esteban scosse la testa, amareggiato, ma Moos si sporse leggermente in avanti sul divano per prendere la parola, ripetendo nervosamente ciò che aveva detto a Kei la sera prima:
“Lui Trasfigurava spesso il cibo. Potrebbe benissimo averlo fatto. Quindi non avrebbe ingerito del veleno, ma se fosse andata così dovrebbero comunque trovarne residui nel bicchiere.”
“Ma se fossero due persone e non una? Forse era un veleno che ci mette molto ad agire. Magari il nostro Assassino n° 1 non se ne accorge che il veleno non è stato ingerito affatto, non ne ha il tempo, e allora entra in gioco l’Assassino n°2. Che porta a termine l’opera anche per l’altro.”
L’idea che ci fossero non uno, ma due assassini in circolazione naturalmente complicava tutto. Eppure quella prospettiva deliziava profondamente Leena, che dopo aver parlato riprese a sorseggiare il suo succo di zucca con un accenno di sorriso trasognato: era come vivere un romanzo della Christie!
“Sì, ma sarebbe assurdo. È già complicato così… e poi sarebbero due persone complici oppure no?”
Gabriel parlò aggrottando dubbioso le sopracciglia, faticando a credere che ben due persone avessero deciso di ucciderne una lo stesso giorno, e per giunta in modi radicalmente opposti che tradivano personalità diversissime tra loro: nel primo caso avvelenamento e nel secondo violenza pura.
“Ad ogni modo, credo che per ora la persona più sospetta sia Kamala. Dobbiamo scoprire perché hanno discusso prima che lui morisse. E qui entrate in gioco voi, ragazze.”
Esteban sorrise mentre si rivolgeva a Leena e ad Eileen, che per tutta risposta gemette guardandolo con aria sofferta:
“Quindi dovremo di nuovo fare yoga?”
“Ho paura di sì. Ma apprezziamo moltissimo il vostro sacrificio.”
“Cosa non si fa per scoprire chi ha ucciso brutalmente il tuo vicino antipatico! Cioè, non so se fosse antipatico, perché io non lo conoscevo affatto.”
Leena si affrettò a tornare a nascondere il volto dietro al bicchiere di succo, simulando la massima noncuranza possibile mentre tutti i presenti la guardavano con aria un tantino stranita. A volte, doveva ammetterlo, parlava davvero un po’ troppo.

 
*

 
“Ha fatto quello che le ho chiesto?”
Le cupe e pesanti nubi grige apparse nel cielo di New York quella mattina avevano iniziato a riversare grosse gocce di pioggia sulla città appena passata l’ora di pranzo, conferendo alla metropoli un’atmosfera tetra, cupa e malinconica, che alcuni avrebbero potuto definire affascinante, tipica della stagione autunnale. Niki sedeva su una poltrona dalla fodera di una tonalità di rosso molto scura e intensa, simile al colore del sangue secco, le gambe lunghe ed esili accavallate, le mani abbandonate in grembo e lo sguardo sul vetro della finestra a bovindo lei più vicina, perso a contemplare le gocce d’acqua che s’infrangevano sulla facciata esterna dell’edificio. Stava pensando ad un’altra finestra, di un altro edificio di un altro quartiere, e ad una bambina che era solita sedere davanti ad essa su un divano sfondato e talvolta cigolante in attesa che la pioggia cessasse per poter uscire, ma dopo qualche breve attimo di silenzio annuì per rispondere affermativamente con un monosillabo.
“Sì.”
“È tornata a casa?”
Oltre la finestra a bovindo e ad un tappeto decorato da un elegante motivo beige e bianco si trovava, esattamente di fronte a lei, una poltrona girevole dall’alto schienale color ruggine occupata da una donna che sedeva tenendo le braccia abbandonate sui braccioli e le gambe accavallate. Una posa simile e al tempo stesso radicalmente diversa, più distesa, da quella di Niki, che teneva le lunghe gambe raccolte il più possibile contro il corpo e la sua poltrona, quasi volesse occupare il minor spazio possibile nella stanza.
La voce della donna che le sedeva di fronte e la guardava con sincero interesse era gentile, quasi vellutata, una voce che probabilmente chiunque avrebbe definito piacevole ma che in qualche modo riusciva sempre a pronunciare parole in grado di metterla a disagio e a farla sentire una specie di bambina intimorita dal mondo. Niki non si mosse e continuò a tenere lo sguardo puntato sul bovindo mentre si mordeva nervosamente una gengiva, trattenendo l’impulso di piantarsi le unghie nel palmo della mano, o lei avrebbe colto tutto il disagio che provava: non sapeva bene come, ma quelli sembravano in grado di cogliere segnali anche solo in base a come stava seduta, ragion per cui col tempo aveva iniziato a stare semplicemente immobile.
“Quella non è casa mia.”
“E come la definirebbe?”
Questa volta Niki si mosse ruotando semplicemente il capo per distogliere lo sguardo dal vetro e dalle scie lasciate sulla sua superficie dalle gocce d’acqua e puntarlo sulla donna che le sedeva di fronte, più precisamente nei suoi occhi gentili, scuri e profondi, così drasticamente diversi dai suoi.
“Un luogo dove ho vissuto un pezzo della mia vita. Non credo basti per definire un posto casa.”
“E come è stato?”
Le domande difficili le erano sempre piaciute, quelle e la possibilità di dimostrare quanto intelligente fosse che trovarvi una risposta implicava. Da qualche tempo a quella parte, tuttavia, aveva sgradevolmente iniziato a scoprire quanto non le piacessero le domande che riuscivano a mettere in difficoltà la sua capacità di esprimere a parole quello che provava. Niki aggrottò le sopracciglia arcuate mentre il suo sguardo scivolava su un punto indistinto del tappeto che la divideva dalla sua interlocutrice, perdendosi a seguire le linee e gli intrecci del suo motivo decorativo per qualche lungo istante prima di rispondere:
“Come… essere senza aria.”
 
 
Si era appollaiata davanti alla finestra della sua camera da letto con una sigaretta accesa in mano, lo sguardo che vagava pensoso sulla distesa di alti e grigi edifici di Manhattan. Niki tornò a concentrarsi sull’interno della stanza solo quando udì un lieve miagolio simile ad un mite lamento, ritrovandosi a far scivolare lo sguardo su una delle sue gatte, Mira, in procinto di raggiungerla con i grandi occhi verdi puntati su di lei, forse in cerca di coccole.
Niki si affrettò a chiudere la finestra quasi con un movimento automatico e ormai consolidatosi nelle sue abitudini, decisa ad impedire alla gatta di sgusciare fuori dall’appartamento, e fece sparire la sigaretta con la magia prima di chinarsi e prendere in braccio Mira per accarezzarle la piccola testa coperta dal corto e soffice pelo color ruggine. Anziché uscire dalla stanza Niki si diresse verso il suo letto, una bassa rete con sostegno in legno senza schienale con un materasso poggiatovi sopra, e sedette sul copriletto color zucca depositandosi la gatta in mezzo alle gambe mentre la sua attenzione si focalizzava sul sottile quadernino in carta riciclata dalla copertina marrone che vi aveva abbandonato sopra poco prima insieme ad una penna.
Mentre Mira iniziava a fare le fusa appoggiando la testa sul ginocchio della padrona Niki aprì il quaderno e riprese la penna in mano, arrivando ad una pagina ancora bianca, la stessa che poco prima aveva fissato per quasi un quarto d’ora, prima di chinarsi su di essa e iniziare a imprimere delle parole sulla carta.
 
 
“E ha scritto come l’ha fatta sentire?”
“Sì.”
Si astenne dal sottolineare quanto trovasse stupido quello che era costretta a fare mentre si muoveva leggermente sulla poltrona per infilare la mano destra nella sua borsa di tela e sfilarne, di controvoglia, un sottile quaderno dalla copertina marrone. Anche se con riluttanza lasciò che planasse dalle sue mani fino a quelle della donna che le sedeva di fronte, gettando un’occhiata cupa al suo sorriso quando lei lo appoggiò, ringraziandola, sull’alto tavolino sistemato accanto alla sua sedia girevole. Se non altro, Niki ne era sicura, non le serviva dire alcunché per farle sapere quanto fosse contrariata: perspicace com’era, doveva averlo compreso fin dal loro primo incontro.
 
 
È strano tornare in un luogo dopo tanto tempo. Le cose sembrano più piccole, più vuote e a volte le ragioni per cui te ne sei andato e per cui sei tornato rendono tutto ancora più complicato. Ma immagino che per quanto tornare indietro sia difficile ci siano momenti in cui non si ha scelta. 
È strano tornare in un luogo dove ci sono tanti ricordi. Dovrebbe essere un luogo che evoca gioia, ma in qualche modo adesso è infestato.
 
 
Mentre Mira continuava indisturbata a fare le fusa, ignara dello stato d’animo della sua padrona, Niki smise brevemente di scrivere per osservare la pagina che aveva appena iniziato a riempire. All’improvviso tornò a farle visita l’immagine del lieve tremore che aveva scosso la tenda della finestra dell’appartamento al pian terreno, e ancora una volta si chiese se l’avesse solo immaginato o meno: era quasi del tutto certa di averlo scorto davvero, quel movimento, ma l’edificio e l’angoscia che la sua vicinanza risvegliavano in lei potevano anche averla indotta ad immaginare cose non reali. Dopo una breve esitazione Niki tornò a scrivere percependo una spiacevole sensazione di malessere, sperando che mettendola su carta sarebbe riuscita a liberarsi di quell’immagine e di ciò che suscitava in lei.
 
 
O forse è sempre stato infestato, solo che non vedi i fantasmi finchè non sei quasi un fantasma anche tu.
 
 
 
 
 
(1): Ciò che Carter sta leggendo è il saggio "
Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante", conosciuto anche come "GEB"
(2): Il nomignolo che Leena usa per Eileen ha radici nei romanzi di Agatha Christie e allude al personaggio di Lady Eileen Brent, chiamata appunto “Bundle” da tutti i suoi conoscenti, che appare in “Il segreto di Chimneys” e “I sette quadranti”
 
 



 
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Angolo Autrice:
Mi cospargo il capo di cenere per il vergognoso ritardo accumulato con questo capitolo che era mia intenzione pubblicare parecchie settimane fa, ma purtroppo si sono messe in mezzo privazioni forzate del pc e in generale un mese pieno di lavoro. Ammetto anche che talvolta scrivere questa storia, per quanto nutra nei suoi confronti e nei suoi personaggi un enorme affetto, per me non risulti propriamente semplicissimo per una lunga serie di motivi, e infatti ringrazio chi mi ha supportato nelle ultime settimane.
Detto questo vi saluto, oggi intendo aggiornare anche LMDI quindi direi che la maggior parte di voi mi rileggerà molto presto. Grazie a tutte per le recensioni dello scorso capitolo🤍
Signorina Granger
   
 
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