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Autore: shilyss    02/04/2023    8 recensioni
Il dio dell’inganno si guardò attorno: la foresta, innaturalmente silenziosa, quasi priva di colore – se ne accorse solamente in quel momento – li avvolgeva con i suoi alberi familiari, con i rami scheletrici che schermavano la poca luce esistente. Non c’era alcuna fessura, nessuno strappo a indicare una cesura tra i due mondi.
“Dov’è?” mormorò Loki.
“La sentirai.”
“La vedrai.”

Tutta la conoscenza e l'astuzia del mondo non bastano a raggiungere e a oltrepassare il Valgrind, il magnifico cancello oltre cui si estende il Valhalla. Non è detto che basti nemmeno morire in battaglia. Per chi non riesce a trovare la via, il destino è quello di rimanere in un limbo, come uno spirito errante.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hela, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 5
Primavera
Primavera non bussa, lei entra sicura
Come il fumo lei penetra in ogni fessura
Ha le labbra di carne, i capelli di grano
Che paura, che voglia che ti prenda per mano
Che paura, che voglia che ti porti lontano.
[…]
Son morto in un esperimento sbagliato
Proprio come gli idioti che muoion d’amore
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.
(Fabrizio De André, Un chimico, Non al denaro non all’amore né al cielo)

Potrebbe aiutarti,” suggerì Huginn.
“È un incantesimo,” spiegò l’altro corvo. “Un incantesimo potente.”
“Perduto.”
“Non è detto che riuscirai a padroneggiarlo. Nessuno c’è mai riuscito.”
“Ma così pochi hanno tentato!”
“Fanne un buon uso.”
“Che incantesimo?” li interruppe Loki. La possibilità di riuscire, in qualche modo, a padroneggiare le arti del seiðr persino ora che era solo spirito, lo attirava. Di più, rappresentava una concreta opportunità di poter plasmare a proprio piacimento il limbo in cui era rimasto incastrato non per sua volontà, come insinuavano i corvi, ma per un destino avverso. Ripercorrendo il proprio passato, Loki si era reso conto degli errori e delle mancanze che avevano costellato la sua esistenza piena e travagliata. Riconosceva di aver agito spesso in modo cieco e sconsiderato, lui, che amava pianificare, che si era sempre vantato della propria intelligenza vibrante e acutissima. Ma ragionare significava anche rendersi conto di certi inevitabili e irrisolvibili errori. Sigyn era uno di questi. Aveva fatto ogni cosa in suo potere, per averla. Non gli era bastato, non aveva saputo sfruttare l’occasione che gli si era presentata. Era riuscito a sposarla, ma, in qualche modo, come molte altre cose, semplicemente gli era sfuggita. Se l’avesse ingannata e manipolata come avrebbe potuto e saputo fare, l’amarezza che gli ribolliva nel petto sarebbe stata ancora più pungente: nessuna vittoria, nessuna conquista vale davvero la pena di essere festeggiata, se ottenuta tramite un sotterfugio. Loki, che pure adorava gli stratagemmi, che con i suoi spietati espedienti aveva costretto alla resa imperi interi, proprio perché padroneggiava così bene gli inganni desiderava ottenere ciò che bramava a viso aperto, per il proprio valore. Perché lo meritava. La sua personale maledizione stava nell’essere perfettamente consapevole di questo meccanismo perverso. Imprigionato in una zona indefinita del regno dei morti, non gli restava che diventare il signore di quel luogo d’ombra, sfruttando una volta di più la propria astuzia. Come aveva fatto per tutta la vita, da quando Odino l’aveva trovato su un picco di ghiaccio e lui, neonato inconsapevole, si era mutato d’aspetto per accattivarselo. I cancelli del Valhalla non erano ancora pronti a spalancarsi di fronte a lui? Il sentiero non gli si dipanava davanti, luminoso e ben visibile, per condurlo al cospetto degli eroi e dei guerrieri morti prima di lui? Allora lo avrebbe forzato a colpi di incantesimi, maledizioni e rune. Si concesse di rivolgere un pensiero crudele a Thor: lui non avrebbe dovuto vagare fuori dal tempo, nella nebbia. Hela in persona sarebbe stata la sua scorta solerte verso Valgrind.
“Adesso prestaci attenzione, figlio del dio corvo.”
“Forse imparare questa lezione ti riuscirà più semplice della precedente.”
“Ammesso che tu abbia capito.”

L’inverno aveva abbandonato i fiordi su cui si estendeva la magnifica Asgard, e presto, al più nel giro di qualche settimana, i primi drakkar avrebbero solcato le acque azzurrissime e gelide che lambivano le coste frastagliate della terra degli Æsir. Era una primavera fredda, tuttavia: la luce non riusciva ancora a intiepidire l’aria pungente. Loki non poteva avvertire la brezza sulla propria pelle, perché non era niente altro che uno spirito perduto, smarrito, condannato a vagare in cerca di risposte che non sarebbero mai giunte. Tuttavia, amava a tal punto Asgard che gli bastava vederla, osservare come i raggi solari accarezzassero le foglie o le cime di un albero, per indovinare, anzi, ricordare certe sensazioni provate quand’era vivo e respirava, lottava, progettava. Fece schioccare la lingua contro il palato, in un gesto di stizza. La morte non poteva significare la fine di ogni cosa. Non per un maestro di magia come lui, almeno. Tra le altre cose, questo gli avevano insegnato i corvi di Odino, Huginn e Muninn: che certe anime hanno il potere di attraversare i mondi e di influenzarli, se sono disposte a pagare il giusto prezzo.
Non aveva ancora trovato i cancelli che lo avrebbero condotto alla sua dimora definitiva, il Valhalla degli eroi o la cupa dimora di Hela, ma sapeva come piegare al proprio volere quel mondo di nessuno in cui era intrappolato, conosceva le rune in grado di farlo penetrare oltre le molte fessure che separano il regno dei morti da quello dei vivi. Sì, gli bastava osservare Asgard per illudersi di poter calpestare ancora l’erba fresca e tenera, di riuscire a sentirne l’odore, per cadere nella tentazione di convincersi che sentiva il vento freddo accarezzargli la pelle – era questa la cosa peggiore dell’essere morti: l’inganno perpetuo di poter bere un sorso d’idromele e di gustarne il sapore, di percepire il caldo o il freddo. Sospirò stancamente, voltandosi appena in tempo per vedere la porta aprirsi, lei entrare.

Sigyn non si era mai abituata alle temperature rigide di Asgard e si stringeva ancora in un mantello foderato di pelliccia. Quella che lui chiamava primavera, per lei era ancora inverno, perché nella fertile Vanheim il sole scaldava l’aria rendendo la terra un immenso giardino fiorito. I mesi più corti dell’anno era costellati di giornate soleggiate, in cui era piacevole e possibile passeggiare con giusto un mantello di lana leggera addosso. Non come ad Asgard, dove l’inverno la notte era quasi perpetua e quello che gli Æsir chiamavano giorno non era che un debole chiarore, una parentesi quasi indistinta in mezzo a un’oscurità fitta e stregata. Sigyn temeva il gelo implacabile di Asgard, quando la neve seppelliva ogni cosa, persino i rumori, e la notte inghiottiva famelica ogni luce. Eppure era tra quelle ombre indistinte che Loki riusciva a individuare più fessure per passare dal limbo alla terra dei vivi. Porte attraverso cui strisciare, incunearsi, e per cosa? Il viso di Sigyn riflesso in uno specchio mentre scioglieva con le dita rapide la sua lunga treccia d’oro, sfilava gli orecchini d’ametista posandoli accanto al cofanetto dove teneva tutti i suoi gioielli. Aveva provato a parlarle, alcune volte. A dirle cose che non sarebbero riuscite comunque a consolarla, che, forse, avrebbero persino ingigantito il suo dolore – una bestia sorda che graffiava e lacerava, che Sigyn tentava di zittire tramortendosi di lavoro. Qualsiasi cosa per non pensare, per non ricordare, per non dover avvertire sulla propria schiena la solitudine che l’avvolgeva come una cappa. Avrebbe dovuto smettere il lutto e ricominciare a vivere.
Loki glielo suggeriva con frasi ricche di rancore, ma la sua voce non era in grado di raggiungere la sua bella vedova dai capelli d’oro e il dio dell’inganno aveva dovuto ammettere a malincuore che la sua lama più affilata, quella su cui aveva fatto affidamento per una vita intera, si era spuntata per sempre. I morti tacciono e lui era questo, nient’altro. Uno spirito errante.
Eppure, in certi momenti riusciva a farsi sentire da lei. In più di un’occasione Loki si era lanciato in quello che aveva creduto essere solo un monologo, nulla di più. Frustrato per la propria invisibilità le girava attorno, sottolineando le proprie parole con ampi e misurati gesti delle braccia, odiando con ogni fibra della propria anima tormentata l’inutilità di quello sfogo. Sigyn non avvertiva la sua presenza ed era impegnata in tutt’altro – ricamava, leggeva, rassettava, parlava con qualche ancella o Thor, addirittura, ma poi lo sorprendeva toccando con l’interlocutore di turno uno degli argomenti su cui Loki si era consumato la voce e che non avrebbe dovuto udire, ripetendo le stesse frasi che lui aveva appena finito di pronunciare. All’inizio, il dio del caos aveva affrontato la questione con scetticismo. Conosceva bene gli equilibri che governavano il tempo: le coincidenze esistevano, erano frutto del caso. Non era opportuno esultare per così poco. Occorreva ripetere l’esperimento, cercando di mantenere le medesime condizioni della prima volta, al fine di avere dati certi su cui basarsi per decidere se Sigyn lo percepisse o meno e se sì quanto, e perché. Solo allora le coincidenze si sarebbero trasformate in indizi, in prove.
E, se poteva sentirlo, allora forse lui sarebbe riuscito a trovare il modo di muovere qualche oggetto e attirare la sua attenzione, come era riuscito a fare causalmente la prima volta che i corvi lo avevano trasportato oltre la fessura: brancolò in mezzo agli insuccessi per un tempo che gli parve infinito, seguendo Sigyn ogni momento. Rifletté che, per un amaro contrappasso, era costretto a inseguirla e spiarla come la notte in cui l’aveva resa sua prigioniera. Ma se in quell’occasione le tenebre erano state sue alleate, permettendogli di compiere il suo losco piano e di osservarla non visto, ora lo inghiottivano, impedendogli di interagire con lei, di rivelarsi. Era uno spirito fatto di oscurità. Senza il suo corpo, ormai ridotto a nient’altro che delle ossa sbiancate, perdute, lontane, persino il seiðr gli dava meno piacere. Non era più un flusso di potere che gli scorreva nelle vene assieme al sangue, ma qualcosa di astratto, di imprigionato nella stessa dimensione sospesa governata da Huginn e Muninn, i due corvi beffardi che Odino gli aveva affibbiato per lavarsi la coscienza.
Si sedette sgarbatamente sulla toletta dove c’era lo scrigno in cui Sigyn riponeva i suoi gioielli – preziosi d’incantevole fattura e mirabile gusto, scelti da Loki in persona, che lei, stretta nel suo lutto, non indossava praticamente più: aveva sempre amato le cose semplici e sottili, delicate come lei. L’ingannatore venne assalito dal ricordo del piacere quasi fisico con cui selezionava quelle meraviglie, che aveva immaginato posate direttamente sulla pelle nuda di Sigyn – liscia, morbida, fatta per essere accarezzata e baciata.

Sigyn si voltò di scatto, dopo che l’Ase si fu seduto. Trattenne il respiro e sbatté le palpebre, i capelli dorati sciolti sulle spalle. Fissava la toletta vuota, lo scrigno aperto con i gioielli esposti e la ciocca scura del dio dell’inganno, ultimo ricordo di lui che le rimaneva. Guardava senza vedere, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dal grazioso sgabello, dallo specchio che rifletteva la sua immagine stupita e allarmata. La stanza era avvolta da un silenzio irreale, rotto solo dal battito accelerato del cuore di Sigyn – e Loki poteva sentire il suo terrore, percepire come i nervi della donna fossero tesi.
“Sigyn, non avere paura. Sono io. Non ti farei mai del male,” Si morse le labbra sottili e altrimenti ironiche e beffarde, ora piegate in una smorfia tirata. “Non posso più farti del male,” sibilò, correggendo con la lucidità che gli era propria la frase. Sigyn non lo vedeva. Non lo udiva. Fissava il punto dov’era seduto lui, ma il suo sguardo lo oltrepassava.
“Loki?” chiamò piano. “Loki, vorrei che tu fossi qui,” sospirò.
“Sono qui, mia signora. Ma non riesci a vedermi né a sentirmi.”
“Eri un mago potente. Uno dei più potenti dei Nove Regni,” sospirò lei. “Se ci fosse un incantesimo capace di farti tornare nel regno dei vivi, lo so, lo cercheresti. Lo useresti.”
“Sto tentando. Ma, per ora, va oltre le mie capacità, temo.”
“Se tu riuscissi a oltrepassare le porte che separano questo mondo da quello dei morti, torneresti da me?”
“Tornerei. Sì, tornerei.”
Le labbra di Sigyn si piegarono in un sorriso mesto. “Forse torneresti, ma per quanto? C’è sempre stato un fuoco, in te, che ti impedisce di rimanere a lungo nello stesso posto. Di accontentarti.”
“La soddisfazione non è nella mia natura, temo.”
“Eppure, anche se per un tempo brevissimo, ti vorrei di nuovo accanto a me.” Sigyn lo confessò al buio, alle fiamme tremule dei candelabri, alle lingue guizzanti del camino, allo specchio lucido che le rimandava la sua immagine scolorita e stanca, al fantasma di Loki tanto vicino a lei che, se solo avesse avuto una mano fatta di carne e sangue, avrebbe potuto sfiorarle le guance, le labbra, la massa d’oro dei suoi capelli. Quante notti aveva provato ad accarezzarla? In quanti banchetti, mentre le suggeriva risposte argute o la spingeva verso certi ragionamenti aveva cercato di toccarla, di stabilire un contatto? Tanti da perderne il conto. Non abbastanza da rinunciare a un’opportunità, quando si presentava. Allungò le dita verso di lei, sfiorandole la guancia, il collo, la spalla lasciata nuda dalla camicia da notte. Sigyn sobbalzò; era già capitato che avvertisse qualcosa d’indefinito, che un brivido improvviso e sconosciuto le scorresse lungo la schiena, ma stavolta i suoi occhi si inchiodarono in quelli di Loki come se, in quella notte invernale fuori dal tempo, riuscisse finalmente a vederlo, a percepirlo. Durò solo un momento – se Loki avesse avuto ancora un cuore che batteva nel petto, lo avrebbe sentito accelerare i suoi battiti.
“Sei tu?” lo sguardo di Sigyn era liquido e spaventato, ma nei suoi occhi brillava anche una luce vagamente folle: quella di una speranza inseguita a lungo, invocata come una preghiera, a cui la dea della fedeltà si aggrappava perché incapace di dimenticare, di negare la propria natura, di soffocare quella forza che la spingeva a vestirsi ancora di scuro, a mortificare la propria bellezza. Avrebbe dovuto dimenticare Loki, accettare la sua morte, smettere di piangerlo e risposarsi, perché era ancora giovane e graziosa. A volte li immaginava, i figli che avrebbe avuto se si fosse concessa un’altra occasione: sarebbero stati già abbastanza grandi da trotterellarle attorno, aggrappandosi alle sue gonne per mostrarle un disegno, un fiore raccolto nel giardino o un giocattolo rotto. Sigyn si era immaginata la scena un’infinità di volte, le dita che giocherellavano nervose con la collana, le labbra tirate in un sorriso amaro, mentre la sé stessa madre del suo sogno a occhi aperti era intenta a consolare o ammirare e l’aveva sentita, la fitta di rimpianto per quei figli che non erano suoi, loro, e non avrebbero mai potuto assomigliare a Loki. Non più.
Il rimpianto della dea della fedeltà, la sua nostalgia per qualcosa che non era potuto avvenire quando lui era vivo, investirono Loki come una tempesta. Doveva trattarsi di un effetto indesiderato scaturito dal fatto di essere riuscito a sfiorarla: non avrebbe dovuto essere in grado di farlo, ma in virtù di qualche oscura mutazione del seiðr c’era riuscito. Così come, quand’era vivo, aveva avuto il potere di leggere nel cuore e nei ricordi delle persone, ora era riuscito a percepire, pur senza volerlo, quelli della moglie.
“Sei qui?” ripeté, la voce di lei, gonfia di speranza, leggermente tremante. Raccolse uno scialle dal letto e se lo avvolse sulle spalle. “Io non ti temo, Loki. Non l’ho mai fatto,” disse piano, sollevando lo sguardo. A Loki parve che sua moglie lo stesse finalmente vedendo.

Seduto a gambe incrociate sotto a un frassino i cui rami nodosi e contorti sembravano piegarsi verso terra, Loki figlio di Odino meditava. Aveva bisogno di riflettere su quanto capitato durante la sua ultima visita nel Regno dei vivi, su quello che Sigyn aveva detto, sul tremito che l’aveva scossa quando lui era riuscito a sfiorarla, a farsi vedere, forse. Arcuò le labbra sottili in un sorriso amaro. Magari s’ingannava e lei aveva solo fissato il buio, un’ombra più nera e profonda nascosta nell’oscurità. Da quando era uno spirito, decifrare la realtà si era fatto complicato. Continuava a essere legato al mondo delle cose sensibili, alla Asgard fatta di terra, acqua e legno dove Sigyn respirava e viveva. Allo stesso tempo, percepiva i molti piani di quel luogo di mezzo dov’era rimasto incastrato: un non posto mutevole nella forma e nelle dimensioni, simile al mondo rarefatto dei sogni, eppure reale quanto lo era l’altro, se non di più.
“Immagino che voi abbiate la risposta anche per questo,” sibilò a un tratto rompendo il silenzio. Gli rispose un frullare d’ali ben noto e quasi consolante. “Il nostro compito non è sciogliere i tuoi dilemmi, Loki di Asgard.” “È farteli notare.”
“Devi accontentarti.”
“Solo così scoprirai se hai imparato la nostra lezione.”
“Se fossi ancora fatto di carne e sangue,” notò il dio dell’inganno, “saprei se il mio incantesimo ha funzionato.”
“Sei troppo legato alle sensazioni che provavi quand’eri vivo.”
Loki piegò le labbra in una smorfia che nascondeva un’ira sottesa. “Sento ancora ogni cosa.”
“Quando smetterai di farlo, troverai la tua strada. Il Valhalla o il Regno di Hela.”
“Quando non sentirai più niente, sarai libero di dimenticare.”
“Libero, dite.”
“Libero dal rimpianto. Libero dalla sensazione di aver lasciato le cose in sospeso.”
“Dillo, Loki, avanti.”
Libero da lei.

“Altrimenti?” “Altrimenti dovrai inventarti qualcosa.”
“Qualcosa di congeniale per te. Di naturale.”
“Qualcosa di naturale,” ripeté Loki, pronunciando ogni parola come se stesse gustandola, lo sguardo fisso verso il punto dove, lo sentiva, c’era una delle fessure che lo collegavano al mondo terreno. Dall’altra parte, il tempo, implacabile, scorreva senza riuscire a lenire il dolore provato da Sigyn. Se lo sentiva ancora addosso, come una sorta di febbre che, invece di lasciarlo spossato, gli infondeva un’energia nuova, cupa, diversa. Era lei, la catena che gli impediva di lasciare il limbo, il laccio da recidere, la questione da risolvere. Oltre la fessura intravide un brillio fugace e lontano, eppure percettibile. Lo riconobbe pur non avendolo mai visto: era il sentiero che conduceva a Valgrind. Dunque era questo che lo aspettava, pensò. Il Valhalla dei guerrieri e la sala di Odino. Era degno; le sue molte malefatte erano state spazzate via da un sacrificio abbracciato con lucidità, figlio di un calcolo inevitabile – sarebbe morto comunque. Sentì in bocca il sapore del sangue, lo stesso che aveva preceduto il dolore per la ferita gravissima inflittagli da Thanos. Anche il Titano era cenere e polvere, ormai.
“I morti appartengono alle ombre e lì devono stare. Quello è il loro posto,” sentenziò solenne, alzandosi in piedi con un movimento elastico, che tradiva un’inquietudine ben visibile dal modo in cui fissava la foresta contorta che lo circondava, manifestazione di un limbo in cui era rimasto intrappolato troppo a lungo.

La primavera si è incastrata tra le lame di ghiaccio del fiordo. L’aria è ancora gelida e pungente, tanto da non permettere alle foglie e ai fiori di germogliare, alla neve di sciogliersi, ai drakkar di solcare il mare freddo. I tramonti sono sempre più lunghi e creano cieli ricchi di ogni sfumatura immaginabile – giallo, arancio, rosa, rosso, porpora, azzurro, blu intenso, ma i raggi del sole sembrano non scaldare le mura che circondano Asgard né le sue guglie di legno aguzze. Di certo, non cacciano via il freddo dalle ampie camere rivolte a settentrione degli appartamenti che furono del dio dell’inganno. Loki si era interrogato molto spesso sul modo in cui dovesse rapportarsi con le cose che gli erano appartenute quand’era vivo.
Come tutti gli Æsir era avido: niente era mai abbastanza, per lui. C’erano sempre una nuova terra da conquistare, un tesoro da ghermire, un incantesimo da padroneggiare, un avversario da sconfiggere, un cavallo da domare, un cervo da cacciare. Ma tutti quegli oggetti e obiettivi desiderati e inseguiti spasmodicamente, ora non gli appartenevano più. Nemmeno Sigyn era più sua – morendo, Loki aveva sciolto ogni vincolo che li legava. Uno dei suoi pugnali prediletti, per esempio, adesso era infilato nello stivale destro di Thor. Nel letto dove dormiva, proprio nel punto in cui poggiava la testa, si rannicchiava una stremata Sigyn incapace di dimenticarlo e di andare avanti, incastrata com’era in un amore che le Norne avevano reciso. Gli spiriti erranti non solo hanno smarrito la via verso Hel, ma non posseggono più nulla: ciò che era loro appartiene ad altri – e poi, un legame sancito da un contratto, ratificato dentro un letto, non fonde insieme due anime. Sigyn non gli era appartenuta mai, nemmeno quando, avvinghiata a lui, invocava il suo nome. Pensarla diversamente era un’illusione, un’ingenuità degna del ragionamento di un bambino.
Loki recitò alcune rune, stando ben attento a non impiegare troppo seiðr. Quello in cui si stava lanciando era un esperimento dall’esito incerto. L’ampia camera da letto era illuminata a malapena dal chiarore delle braci semispente rimaste nel camino. Vedeva distintamente la sagoma della sua giovane vedova accoccolata nel letto. Si avvicinò con una circospezione che era solo il riflesso di una necessità passata, perduta. Sigyn non poteva sentirlo, ma Loki proseguì ugualmente senza abbandonare il suo passo felpato ed elegante. Quella prudenza serviva solo a lui. Era lui che doveva aggrapparsi al passato, a quella vita che gli era sfuggita via dalle dita. Lui, rifletté con amarezza, non era più Loki di Asgard, ma la sua ombra. Un’impressione che doveva muoversi e agire come aveva fatto il dio dell’inganno. Quel pensiero gli suscitò un brivido gelido, tremendamente reale e vero. Osservò la propria mano dalle dita lunghe, di mago. Gli parve che fosse quasi trasparente, sul punto di scomparire. Lontano, gli sembrò di udire quello che era il canto dei guerrieri di Asgard caduti in battaglia. Brindavano con suo padre nella grande sala del Valhalla, pronti per cominciare un banchetto a cui lui era stato invitato, dove doveva partecipare per un diritto ottenuto col sangue – quel fiotto caldo che gli era uscito dalla bocca quando aveva capito che era stato ucciso da Thanos. Ma Sigyn era lì, a pochi passi da lui, addormentata e vicinissima – eppure irraggiungibile. Avanzò di un altro passo. Dalla molle treccia dorata erano sfuggite ciocche che disegnavano strane figure sul cuscino, accanto al letto c’era un corno con dentro una pozione che l’aveva indotta a un sonno stordente e senza sogni, vuoto e ristoratore. I lineamenti delicati del suo viso parevano rilassati, ma Loki riusciva ancora a percepire il dolore che le mordeva il cuore e non l’abbandonava mai. Per terra, sul tappeto che ricopriva elegantemente il pavimento di legno era caduta una pergamena. Doveva essere successo quando l’inchiostro era ancora fresco, perché alcune parole erano cancellate, le sillabe trasformate in macchie scure e dense. Si chinò per leggerla e riconobbe la grafia minuta di Sigyn. Serrò la mascella. Era una lettera indirizzata a lui. Una confessione struggente. Lei lo cercava nelle ombre accanto alla toletta, tra le fronde degli alberi, nel riflesso fugace colto su uno specchio d’acqua. A volte le sembrava di sentire la sua presenza accanto a sé – un soffio gelido e consolante lungo la schiena, dietro il collo, un’oscurità più densa che sembrava ospitare una sagoma nota e amata, ma non aveva prove concrete, non sapeva se s’illudeva o se Loki le era davvero accanto. E questo la distruggeva.
Il dio dell’inganno si rialzò lentamente e si sedette accanto al corpo addormentato di Sigyn, abbandonato in un mondo di sogni scuri e senza consolazione – lui non abitava quei luoghi, gliel’aveva scritto. Liberati, avevano gracchiato i corvi. Liberati o agisci, il limbo non è per te, diventare uno spirito errante ti farà svanire non prima di essere impazzito. Prendi il tuo posto accanto a Odino, brinda con lui nel Valhalla, lascia che l’idromele ti scorra di nuovo in gola. È questo il tuo destino. Eppure le dita di Loki raggiunsero la spalla nuda di Sigyn, carezzandola come solo un essere incorporeo poteva fare: mimando un gesto compiuto infinite volte quando aveva ancora delle vene dove scorreva il sangue. Attenzioni di cui non sempre sua moglie si accorgeva, perché Loki spesso era scostante e consumava il suo tempo, che come tutti credeva infinito, in battaglie, ricerche e studi che si aggrovigliavano l’uno all’altro, in una spirale infinita. La soddisfazione non era nella sua natura, del resto, e ogni ricerca o vittoria implicava la nascita di un nuovo obiettivo da superare. Quand’era vivo, spesso aveva disertato quelle stanze dove ora sostava troppo a lungo come ombra, annerendo ogni angolo, portando Sigyn sull’orlo di una disperazione senza soluzione. Avrebbe dovuto accarezzarla quand’era sveglia e sostenere lo sguardo di lei, liquido e dolce, anziché inseguire un progetto dopo l’altro, tutti in grado di dargli solo un appagamento sempre troppo breve.
“La morte ti ha costretto a fermarti.”
“A ragionare.”
“A riflettere.”
I corvi di Odino, con i loro occhi neri e la testa mobile, lo fissavano insolenti e compiaciuti al tempo stesso.
“Questo non è corretto. Ho imparato nuovi incantesimi. Ho accresciuto il mio potere.” Le sue dita si avvicinarono ancora alla pelle chiara di Sigyn: dalle sue labbra stavolta uscirono rune proibite, che nessuno, ad Asgard, aveva mai osato pronunciare, ma che trasformarono quel suo tocco solo mimato in un gesto vero, capace di suscitare un brivido in Sigyn, ancora addormentata. Per Loki toccarla fu terribile e meraviglioso.
“Ma sei sempre qui, intrappolato tra queste mura.”
“Sono io che non desidero allontanarmi. Voglio rimanere qui, tra le cose che mi sono appartenute – ora non posseggo più niente, nessuna cosa. Le mie armi sono state seppellite in un tumulo dove non riposa il mio corpo, o spartite; i miei libri sono di chi li consulterà dopo di me, ereditandoli. Mia moglie, che pure mi piange, è libera da ogni vincolo; se desidera rimanermi fedele è per un suo bisogno, non per rispettare un contratto.”
Strinse le labbra. C’era una forza particolare, in lei, un’ostinazione che gliela rendeva estranea e affascinante. Un aspetto che aveva notato fin dai tempi in cui, per un capriccio, per inseguire un preciso disegno o entrambi, l’aveva rapita. Cauto e circospetto, si era messo a testare la volontà Sigyn, sostenendo il suo sguardo infuocato e pieno di sdegno, ribattendo alle sue frasi piacevolmente pungenti.

“Dicci, Loki, è nostalgia quella che senti?”
“Rimpianto per le occasioni perdute, sprecate?”
“Riflettevo,” spiegò il mago, “su come l’inganno e la fedeltà possano combaciare, talvolta. Tradire la mia natura è impossibile – e io sono caos.”
Huginn e Muninn non risposero, fissandolo con quei loro occhi neri e fissi, tanto scuri che sembrava avessero delle sfumature blu, come le loro splendide piume. Loki ghignò e ripeté che sì, lui era uno spirito errante, vicino alla perdizione, che rifiutava l’immenso onore accordatogli e, invece, di sedere alla sinistra di Odino con un corno d’idromele in mano, nel Valhalla barattato al prezzo della sua vita, inseguiva le onde dorate della donna che in vita aveva sposato, incapace di rinunciare alle possibilità e alle opportunità che solo l’esistenza garantiva. La natura degli Æsir non può cambiare e lui sarebbe stato sempre il dio dell’inganno, ma era bramoso di acquisire nuove conoscenze ed esperienze, di inseguire vendette e tesori. La morte lo aveva cristallizzato in un momento preciso – quello in cui Thanos lo aveva ucciso – ma Loki non riusciva ad accettare la sua condizione di immagine sfocata. Per risolvere i propri conti in sospeso doveva assecondare i suoi impulsi e la natura di mago brillante e spregiudicato. Scoppiò in una risata secca e perfida, che forse piacque ai due corvi, impazienti e gracchianti. C’era qualcosa, però, che gli apparteneva ancora, anzi, gli sarebbe appartenuta per sempre, aggiunse stirando le labbra sottili in un sorriso lupesco e terribile. La ciocca assicurata da un nastro che Sigyn teneva nel cofanetto assieme ai suoi gioielli più cari. Un frammento del suo corpo mortale. Intatto. Che recava una traccia della sua antica forza.
Muninn piegò la testa nera fissandolo con i suoi occhi piccoli e scintillanti. “Un colpo di fortuna, che lei l’abbia conservata.”
“Che te l’abbia chiesta,” precisò Huginn.
Loki non li contraddisse. Gli Æsir, al pari di molti altri popoli guerrieri, ritenevano che la forza dei loro combattenti risiedesse nelle capigliature folte, che per questo venivano lasciate crescere fino a raggiungere le spalle e oltre, per poi acconciarle in comode code o trecce. Erano un simbolo, di più: un vanto da sfoggiare. Proprio in virtù di questa credenza i guerrieri di Asgard tagliavano i capelli ai loro nemici o agli schiavi. Per privarli della loro forza, per fiaccarli nel corpo come nello spirito. Trattamento a cui, a parti inverse, gli stessi Æsir venivano sottoposti, non senza che da parte dei loro aguzzini vi fosse una malcelata soddisfazione – che godimento era, spezzare la tracotanza di quei fieri guerrieri dagli occhi di brace privandoli dei loro simboli, condannandoli a mostrare a chiunque il segno inevitabile della sconfitta. I Vanir, invece, nonostante i fitti scambi da sempre intessuti con Asgard, non condividevano questa usanza. I loro uomini portavano i capelli corti e solo le donne lasciavano crescere le loro belle e ricche chiome.

Quando Sigyn, una notte lontana, aveva chiesto a Loki una sua ciocca da tenere con sé, il dio dell’inganno l’aveva guardata con scandalizzato stupore. I costumi di Vanheim gli erano noti, ovviamente. Affascinato com’era da ogni tipo di conoscenza, perennemente alla ricerca di nuove tesi da analizzare, testare o confutare, a seconda dei casi, sapeva bene come ogni cultura coltivasse le proprie credenze. Eppure la richiesta della sua giovane e incantevole moglie lo aveva lasciato sbalordito: era così ingenua da non conoscere gli usi degli Æsir, da non averli nemmeno intuiti grazie all’osservazione? Quello che chiedeva era qualcosa di sconveniente. Glielo disse usando quell’esatta parola, sconveniente.

Ma Sigyn gli rispose con un sorriso rapido e mesto. “Sconveniente anche per te, che dissacri ogni cosa, che sei furbo e irriverente con chiunque? Credi davvero che saresti un guerriero meno forte, se accorciassi una tua sola ciocca?”
“No. È solo una superstizione,” si affrettò a rispondere lui, ma prese a girarle attorno per osservarla meglio, come se, facendolo, avesse potuto leggere nella sua mente – azione che era nelle sue facoltà esercitare, ma il cui prezzo gli avrebbe fatto perdere Sigyn per sempre, lo sapeva. “La mia domanda è: perché. Perché dovrei compiere un gesto che va contro gli usi di Asgard?”
Sigyn era bella, con le trecce sciolte sulle spalle e la sottoveste che le lasciava scoperte le gambe nude e flessuose. “Perché ha un significato. Per me e per te.”
“Spiegati meglio, mia signora. Sono curioso.”
“Le donne dei Vanir custodiscono una ciocca dei loro uomini nei medaglioni che portano al collo. Per averli sempre al loro fianco,” aveva aggiunto rapida, abbassando le ciglia scure e distogliendo lo sguardo. “Tu senti di avere abbastanza forza da cedermene un po’?”
“Vuoi che stia sempre al tuo fianco, Sigyn?” rise Loki, ma nei suoi occhi brillava una luce maliziosa.
“Mi hai strappata dalla mia casa,” ricordò lei, tornando a fissarlo. “Forse mi spetta, è mio diritto anzi, farti una richiesta sconveniente. Le nostre usanze valgono forse meno di quelle degli Æsir?”
“Forse sì, ma te lo devo.”
Con un gesto fluido aveva fatto scivolare nel palmo della propria mano un pugnale dalla lama scintillante e affilata. Lei si aspettava una simile risposta alla sua provocazione, a quella richiesta che, implicitamente, suggeriva l’esistenza di un legame, tra loro? Sono gli amanti a scambiarsi pegni d’amore, Sigyn. Non noi. A voler custodire qualcosa che ricordi loro l’altro. Eppure, invece di dirle la verità, senza distogliere gli occhi dai suoi, grandi, rotondi e grigi, stupiti eppure ancora pieni di dubbio, con le dita della mano libera si era messo alla ricerca di una ciocca che partiva dalla base della nuca. La tagliò con un gesto secco, offrendole quel dono col suo sorriso sghembo e insolente disegnato sul viso affilato. Sigyn l’avrebbe legata con un nastro di seta verde.

“Che cosa speri di fare, Loki figlio di Odino?” gracchiò Muninn.
“Figlio del dio corvo, ci sono leggi che non vanno infrante.”
L’ingannatore riservò ai due uccelli un’occhiata indecifrabile. “Strano che me lo ricordiate,” notò, “visto che mi avete insegnato voi a oltrepassare il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti. In fondo era quello che vi aspettavate da me, non è vero?”
I due corvi tacquero. Muninn spiccò il volo e raggiunse la spalla di Loki. “Se berrai dal calice che ti offrirà Odino nel Valhalla, smetterai di desiderare. Di sognare. Sarai libero. Sarai in pace. Ti sei guadagnato questo diritto. Il diritto di smettere di lottare,” insistette.
Le dita di Loki sfiorarono il nastro di seta verde con cui Sigyn aveva legato la ciocca scura. Una reliquia preziosa, conservata insieme ai gioielli stupendi che avrebbe dovuto tornare a sfoggiare. “È curioso quello che dite. Nel Valhalla i guerrieri combattono ogni giorno al cospetto di Odino, ma se lo fanno senza desiderio, senza alcun tipo di ambizione, cos’è quel loro lottare? Un vano simulacro, un’immagine spogliata di qualsiasi tipo di volontà. Una recita priva di significato.” Vacillò e strinse le labbra. “Un inganno.”
“Se tornerai in vita, riesumerai le tue ambizioni. Avverrà, prima o poi,” sentenziò Huginn, arruffando le penne nere delle sue ali.
“Ricadere negli stessi vecchi errori è fin troppo facile.”
“Scontato.”
Loki non desiderava l’oblio. Non voleva abbandonarsi al piacevole nulla che lo avrebbe avvolto se avesse avvicinato le labbra al calice d’idromele. Non poteva tollerare che a definirlo fosse un passato sempre più lontano, di cui lui sarebbe stato solo un’effigie, un ricordo. Huginn e Muninn attendevano con pazienza che risolvesse i propri dubbi, che varcasse il limite che separa i vivi dai morti. Poteva toccare il tessuto serico annodato da Sigyn e la ciocca di capelli che le aveva offerto con un sorriso stretto – tutto ciò che restava delle sue spoglie mortali, dov’era racchiusa la sua forza. Il disegno di Odino era sempre stato quello, in fondo. Offrirgli un calice d’idromele nel Valhalla e riconoscere il suo valore sapendo che lo avrebbe rifiutato. Condividevano la stessa natura appassionata e volitiva, in fondo. Entrambi erano incapaci di accontentarsi e usavano la loro intelligenza per fini maligni. I corvi di Padre Tutto non avevano mai smesso di servire il loro antico e unico padrone, accollandosi il divertente compito di condurlo di fronte a una scelta che sovvertiva ogni ordine. E chi poteva, se non il dio del caos e dell’inganno, tornare dal mondo dei morti e recuperare il proprio corpo per mezzo di quell’unica ciocca – di quell’omaggio dato con circospezione, che qualcuno con meno fantasia avrebbe indicato come un pegno d’amore?
Loki sentiva su di sé lo sguardo curioso e attento di Huginn e Muninn, ma avvertiva anche altro. Il battito del cuore di Sigyn addormentata, per esempio, placido e regolare, il dolce sollevarsi del suo seno sotto le coperte, la notte che avvolgeva ogni cosa con la sua aria rarefatte e umida, quasi palpabile. Iniziò a recitare le rune dell’incantesimo più terribile di tutti e la sua bella voce si caricò di una nota arrochita e profonda, che lo stupì. La mia questione in sospeso non può essere risolta in nessun altro modo, pensò, e fu certo che Huginn gli avesse letto nella mente.

Nella ciocca stretta dall’ombra che, un tempo, rispondeva al nome di Loki, era racchiusa la sua forza, ma non solo. Conteneva tutto ciò che serviva per ricostruire il suo corpo. Ogni dettaglio sarebbe stato ricreato con assoluta precisione a eccezione delle molte cicatrici che l’ingannatore, come ogni guerriero Æsir, aveva sempre sfoggiato con fierezza. Ne avrebbe rimpianta solo una: quella che gli attraversava il labbro superiore e che Sigyn, alle volte, sfiorava con le sue dita leggere e baciava. Diceva che rendeva meno perfetto il suo ghigno. Quasi come se, pensandola, l’avesse chiamata, la sua sposa perduta si mosse nel sonno e sospirò, per poi sbattere le palpebre assonnate. La sua prima espressione fu di terrore. Per un momento, forse, pensò di stare ancora sognando, ma poi si rese conto di essere sveglia e trasecolò, cacciando un grido e appiattendosi contro la spalliera del letto, le gambe contro il petto. Di fronte a lei si stava svolgendo un incantesimo di una potenza inaudita, nefasta, che sovvertiva ogni ordine naturale.
Loki poteva avvertire il suo terrore: c’era un antico adagio che recitava che bisognava fare attenzione a ciò che desiderava, perché avrebbe anche potuto avverarsi. Lo spirito errante – ma poteva ancora definirsi in questo modo? – strinse con più forza la ciocca di capelli scuri lunghi quanto una spanna che molto tempo prima aveva tagliato con un gesto secco e una lama affilata. Il terrore di Sigyn era qualcosa di palpabile, di doloroso quasi, eppure c’era qualcosa, in fondo al suo sguardo, che, in qualche modo, gli dava la forza, l’energia di continuare a recitare quelle rune proibite, complicate, affilate come rasoi.
Pronunciare un incantesimo tanto potente non era un’azione priva di conseguenze – nessun sortilegio lo era mai. Loki provava un dolore indicibile, molto più intenso e straziante di quello avvertito quando Thanos lo aveva trafitto con la sua spada. Era il suo corpo che, sfidando ogni regola, raggirandola e violandola, si ricreava partendo da quelle fibre. Ossa, muscoli, carne, organi, vene, nervi: uno dopo l’altro, tutto si rigenerava con terrificante precisione. Sigyn, di fronte a lui, non riusciva a distogliere gli occhi da quello spettacolo terribile, di cui, per sua fortuna, non riusciva a cogliere gli aspetti più mostruosi. La prima volta che si erano visti, Loki si era mostrato a lei sfoggiando la sua parte peggiore, strappandola dalla sua casa per vendetta. E ora che riusciva a tornare da lei, lo faceva manifestandole tutta l’oscurità di una stregoneria proibita e sfiancante, che gli succhiava ogni energia e, in cambio, gli prometteva un corpo di nuovo mortale e la possibilità di inseguire, un’altra volta ancora, i grandiosi progetti che, presto o tardi, avrebbero acceso il suo spirito inquieto, impossibile da domare, che nemmeno la prospettiva del riposo e della gloria del Valhalla era stata capace di saziare.

Quando finì di recitare le rune, il seiðr lo abbandonò all’improvviso, lasciandolo come svuotato. Si accorse di dover respirare di nuovo e, per un momento, boccheggiò, stupito. Era vivo. Huginn e Muninn continuavano a essere accanto a lui, ma non come due presenze visibili e tangibili. Erano delle ombre vigili e mute che, Loki lo sapeva, gli sarebbero rimaste sempre accanto. Si domandò se avrebbe sentito di nuovo il loro gracchiare insolente e insinuante e ritenne che sì, i corvi di Odino non avrebbero rinunciato al piacere di schernirlo e di farsi udire. Abbozzò un sorriso laterale e breve in direzione di Sigyn, ancora immobile e stupefatta, incerta sulla sua natura. Era uno spirito che stava fissando o suo marito, in carne e ossa? Due calde, grosse lacrime le rotolarono lungo le guance, impossibili da trattenere.
“Le principesse degli Æsir non cedono al pianto,” osservò Loki allargando il suo ghigno beffardo.
Sigyn allungò una mano verso di lui fino a sfiorarlo. “Amore mio,” mormorò.

Fine

L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori del mio cuore,
è finalmente arrivato il momento di concludere questa storia con la quinta fetta di torta alla melassa. L’ultimo aggiornamento risale allo scorso ottobre e mi sembra allucinante che siano passati così tanti mesi dall’ultima volta che ho aggiornato (quest’angolo di Shilyss era pieno di polvere, ragnatele e cose così). Sono imperdonabile, lo so e lo sono ancora di più perché questo capitolo era pronto già da alcune settimane, ma non ho avuto un momento per revisionarlo e postarlo. Non c’è molto da aggiungere, tranne che non dirò mai più che qualcosa arriva a stretto giro XD!
Non so se è rimasto qualche lettore dopo una sì lunga pausa. Per parte mia, Loki e Sigyn continuano a far parte di me e ultimamente ho iniziato due nuove storie e rivisto gli appunti di quelle vecchie. In questi mesi ho visto serie tv, film e letto libri in una misura che solo chi mi segue su Goodreads può capire – lì mi trovate, se volete, con questo identico nickname), ma questi due piccioni adorati restano nel mio cuore e non accennano ad andarsene. Tradotto, nessuna ship mi coinvolge al punto da immaginare storie come fanno loro.
Due parole sul finale: fin dall’inizio ho saputo che Loki doveva ritornare in vita e che Sigyn si sarebbe svegliata trovandoselo davanti e fin dall’inizio ho pensato che la storia dovesse finire quando i due si sfiorano. Tutto il resto – baci, amore, Loki che riprende possesso delle sue cose tranne il pugnale che Thor tiene negli stivali perché quello ormai è da considerarsi radioattivo), vanno da sé. Spero vi sia piaciuto!
Per contattarmi non su Efp, cercate la mia pagina su FB. Anche se non la aggiorno spesso ce l’ho sempre sotto gli occhi ;)

Ringrazio di cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco. ♥ Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo. A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose,
Sempre Vostra,
Shilyss

   
 
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