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Autore: udeis    16/04/2023    0 recensioni
L'ufficio alle relazioni babbane ha l'arduo compito di contattare i neo maghi e rivelargli l'esistenza del mondo magico. Non è un lavoro facile: ci vuole professionalità gentilezza e una grande conoscenza dei programmi tv.Tra genitori infuriati, convinti di avere davanti dei pazzi, genitori iper-protettivi che vorrebbero assicurarsi che Hogwarts rispetti le normative di sicurezza (Dove sono le scale antincendio, eh?), incantesimi sbagliati, incredulità e mazze da baseball, la vita di questi dipendenti ministeriali è davvero un inferno, ma loro non si perdono mai d'animo.
Genere: Azione, Commedia, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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- Questa storia fa parte della serie 'L'Ufficio alle relazioni babbane e le sue dis/avventure.'
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Era il nostro primo incarico e io e Arthur esitavamo davanti al campanello lanciandoci sguardi significativi e in parte ostili: all’epoca andavamo d’accordo come una casa in fiamme. Sebbene i nostri rapporti a Hogwarts fossero stati tra la simpatia e l’indifferenza reciproca, eravamo pur sempre un Serpeverde e un Grifondoro che collaboravano insieme per la prima volta. A neanche un anno dalla fine della scuola, i pregiudizi erano ben lontani dall’essere superati, soprattutto visto che Ernest li alimentava alla prima occasione utile.

Però il sergente Stipwell, come amava farsi chiamare il nostro burbero capoufficio, aveva detto che le nostre due teste di legno non erano la cosa peggiore che avesse mai visto sulla faccia della terra e quindi che poteva provare ad affidarci quell’incarico. Forse ce l’avremmo fatta anche senza che lui ci facesse da balia e ci cambiasse il pannolino. Margaret aveva detto che era evidente che ci saremmo bilanciati alla perfezione, perciò non vedeva che cosa potesse andare storto, mentre Ernest, come suo solito, aveva malignato che sperava proprio tanto che non andassimo nel panico. “È per quello che li mando insieme” Era intervenuto il sergente “almeno non faranno la figura dei pesci lessi.”

Anche se le parole non erano delle più incoraggianti, non potevamo tirarci indietro dopo la più grande (e finora unica) dimostrazione di fiducia che il nostro nuovo ufficio ci aveva tributato. Perciò ci eravamo smaterializzati a poca distanza dalla casa assegnataci, cercando di mantenere le apparenze.

 

Restammo a fissare il campanello un tempo che ci sembrò infinito, poi, prima che l’attesa diventasse eccessiva Arthur suonò, facendosi immediatamente indietro. Mi ritrovai così faccia a faccia con un austero reverendo che mi guardava con aria poco amichevole. L’uomo indugiò a lungo sui miei tratti orientali e sul discutibile abbinamento di vestiti di Arthur: un maglione a Rombi rosa e arancioni, da donna, pantaloni a zampa di elefante e infradito e un cappello da notte.

Il mio completo perfettamente curato color carta da zucchero acquisiva ancora più punti al solo confronto.

Poi ci chiese chi eravamo e in qualche modo ci fece entrare. La scusa di essere i rappresentanti di una scuola privata aveva funzionato ancora una volta, come per magia. Non smetterò mai di ringraziare lo basso livello dell’istruzione pubblica del Regno Unito per questo.

Il reverendo ci fece accomodare in salotto, su un divano di un colore scuro e prese posto sulla poltrona là di fianco. “Allora, mi potreste dire che scuola privata si tratta?” Chiese il babbano, scrutandoci severo e sospettoso. La parte difficile iniziava in quel momento: io e Arthur ci lanciammo uno sguardo complice e poi lui rispose “Di Hogwarts, naturalmente!”

“Non ne ho mai sentito parlare”

Era una risposta da manuale e mi sentii incoraggiato a continuare.

“Si tratta di una scuola privata dall’altissimo profilo internazionale che offre la migliore istruzione che si possa desiderare”

“Senza parlare delle strutture a disposizione degli studenti!” Mi diede manforte il mio collega: “Sale comuni spaziose, un laboratorio specializzato, la biblioteca più fornita d’Inghilterra e un campo da Quidditch che tutto il mondo ci invida!”

“Campo da Quidditch?” Chiese. Se io mi accorsi immediatamente di avere appena complicato le cose, il pensiero non parve sfiorare Arthur in nessun modo: “Come non conosce il Quidditch? Certo, lei è un babbano, ma non conoscere il Quidditch… è proprio assurdo!”

Un silenzio imbarazzante dopo, mi affrettai a spiegare dell’esistenza della magia, del Ministero britannico della stessa e di cosa fosse realmente Hogwarts. I dubbi sulla nostra sanità mentale non solo aumenteranno, ma vidi chiaramente che stavano per essere sostituiti da un accesso d’ira.

 

“Le darò ben volentieri una dimostrazione di ciò di cui le ho parlato e della sua innocuità”

Dissi, estraendo la bacchetta con un gesto che io cercai di rendere pomposo, ma che fu solo nevrotico.

Detto fatto puntai la bacchetta verso il gatto di casa che se ne stava pigramente appollaiato su un bracciolo del divano dal taglio severo. L’idea era semplicemente far passare il pelo del gatto dal grigio al bianco, ma sarà stato lo sguardo scettico ed esasperato di Arthur ai miei toni formali, quello inflessibile e quasi arrabbiato del reverendo o la coda del gatto che, quando gli puntai addosso la bacchetta, ebbe un guizzo improvviso, ma qualcosa non andò come previsto.

Il gatto divenne di un verde squillante una protuberanza iniziò a gonfiarsi trasformandosi rapidamente in una seconda testa e quando sembrava che niente potesse andare storto di così il gatto aprì le fauci e sputò una vampata di scintille che diede fuoco al tappeto.

Edgar urlò, il reverendo strabuzzò gli occhi, il gatto saltò in aria pelo dritto e coda alzata, io cercai di minimizzare “Non è grave, non è grave, un piccolo incidente, niente che non si possa aggiustare”

“Che diavolo hai fatto Tokai?” Urlò Arthur, facendo scaturire un getto d’acqua dalla bacchetta. Da buon Grifondoro, faticava a mantenere il sangue freddo e, infatti, impegnato ad imprecarmi contro com’era, invece del tappeto colpì il gatto, scagliandolo contro lo schienale del divano con un certa violenza.

“E poi l’idiota sarei io” masticai tra i denti muovendomi verso il principio di incendio e iniziando a pestarlo, per soffocare il fuoco, mentre il mio collega aggiustava la mira e mi aiutava a limitare i danni con un getto d’acqua meglio indirizzato.

Il felino, soffiando e sputacchiando, si rimise in piedi e quasi piroettando su sé stesso si voltò nella nostra direzione: ci rivolse quattro malevoli occhi gialli e fece fuoco con entrambe le teste. Come un sol uomo io ed Arthur lanciammo un incantesimo scudo che deviò le fiamme in direzione dei nostri ospiti. Il reverendo si gettò a terra, bianco di terrore, con quella che riconobbi, con mia sorpresa, come una colorita bestemmia, suo figlio Edgar si lanciò dentro al camino spento, togliendosi dalla traiettoria delle fiamme per un soffio.

Il gatto saltò sulla poltrona di raso nera, soddisfatto.

“Dobbiamo immobilizzarlo, dammi una mano” dissi ad Arthur, ma il gatto parve sentici perché con un balzo fu sullo schienale della poltrona per lanciarci una nuova fiammata.

“Evanesco!” Gridammo in contemporanea: il suo incantesimo mancò il bersaglio e fece sparire la poltrona, il mio annullò le fiamme. Il gatto rimasto inaspettatamente senza appoggio crollò per terra con un miagolio di protesta.

“Voi e la vostra bestia satanica fuori da questa santa casa! Non trascinerete la mia progenie nella perdizione!” Urlò il reverendo, che alzatosi ci agitava contro una grossa croce istoriata, recuperata chissà dove.

“Reverendo Green, non tragga conclusioni affrettate, la prego!” chiesi con tono isterico, cercando di non perdere di vista quel gatto malefico che nel giro di un attimo si era ripreso dallo spavento ed era elegantemente saltato sul davanzale della finestra. “Attento!” gridai, spostando il reverendo dalla traiettoria della nuova fiammata: “Evanesco!” urlò Arthur contemporaneamente. Il suo incantesimo saettò in mezzo noi facendo inaspettatamente svanire la croce dalle mani di un reverendo sempre più sbigottito. Le fiamme, invece, ci mancarono di un pelo.

“Tu come osi dissacrare il simbolo del Signore…!” Infuriò il reverendo, gonfiando il petto e preparandosi allo scontro, ma non finì mai la frase: “Papà la biblioteca!” urlò Edgar, accoccolato dentro al camino, indicando il principio di incendio che stava iniziando a consumare la libreria.

“Le mie Bibbie istoriate!” ululò il reverendo “La sacra parola del Signore!” E si precipitò sulla libreria a pronto a salvare i suoi libri dalle fiamme a mani nude.

“Ci penso io, Reverendo, ci penso io. Arthur il gatto!” Ordinai, la testa rivolta al mio collega e la bacchetta puntata verso la libreria: un grave errore, riflettendoci adesso, perché sbagliai mira e investii il reverendo con un getto d’acqua della forza di un idrante.

“Reverendo! Lasci che l’aiuti” Dissi e corsi a a soccorrerlo “Le Bibbie!” ululò lui sputacchiando acqua ovunque e spingendomi via con violenza: “Le mie Bibbie! La sacra parola del Signore!” urlò lottando con gli abiti bagnati per rimettersi in piedi. “Ci penso io, ci penso, io non si preoccupi!” dissi continuando a lanciare getti d’acqua discontinui e troppo potenti sulla libreria facendo cadere libri e inzuppando anche quelli che non stavano bruciando per niente.

“Dissacratori! Figli del diavolo! Demoni con le corna!”

Crash! La finestra andò in frantumi all’ennesimo incantesimo sbagliato di Arthur e il gatto se la filò via in un lampo, alla ricerca di un posto più tranquillo.

“Ci pensiamo noi!” dissi e in un attimo fui fuori dalla finestra seguito a ruota dal mio collega che non voleva certo restare a dare spiegazioni.

Il gatto filava via a passo sostenuto percorrendo con disinvoltura i muri a secco delle villette a schiera.

 

“Tokai, i babbani lo vedranno!” strepitò, isterico, il mio collega mentre mi raggiungeva. “Non possiamo di certo disilluderlo o non lo troveremo più!”, risposi io di rimando, guardandomi freneticamente intorno, preoccupato almeno quanto lui delle conseguenze.

Il gatto nel frattempo aveva trovato i suo primo ostacolo- una cassetta della posta- e si era fermato agitando la coda. “Approfittiamone: un Incarceramus, dovrebbe bastare, è solo un gatto” disse, Arthur, speranzoso. Il gatto aprì entrambe le bocche e fece fuoco: una rombante sfera di fiamme investi la prima cassetta e la successiva, bruciacchiando il prato di tre ville più in là.

“Per le mutande di Merlino!”

Iniziavo a pensare che avremmo dovuto utilizzare gli incantesimi antidrago, se volevamo cavarci un ragno dal buco e io non ero ma stato bravo a cura delle creature magiche.

“Per fortuna che la gente è a lavoro a quest’ora” mormorò Arthur, sconvolto.

“Vediamo di fare in fretta: io lo appello e tu lo blocchi d’accordo? Non ha senso che continuiamo ad inseguirlo” Dissi. “Pronto?” Arthur annuì.

“Accio gatto!”

Il gatto fu strattonato indietro dalla magia nel bel mezzo di un salto e volò verso di noi a tutta velocità: il felino non dovette gradire il trattamento perché miagolò e si divincolò con tutte le sue forze. “Incarcer…” iniziò a dire Arthur, ma il gatto sputò una palla di fuoco nella nostra direzione. Il mio collega si gettò a terra tentando disperatamente di evitarla e io, dalla sorpresa persi il controllo sull’incantesimo. Il gatto atterrò elegantemente sul marciapiede, trotterellò via e si infilò in una siepe: la palla di fuoco si schiantò contro una macchina e ne fece partire l’antifurto.

“Non questa volta!” Urlò Arhur sovrastando il frastuono di quella diavoleria babbana e balzando in piedi con un gesto degno dei migliori giocatori di Quindditch: la siepe ebbe un fremito e si contrasse su se stessa regalandoci un secondo dopo un involto di gatto ed arbusti.

Le bocche erano bloccate da due forti tralci, ma per non sbagliare lanciai un incantesimo che rendesse ignifuga la nostra catena improvvisata. “Maledetto gatto”, imprecai, “non mi stupirei se fosse davvero la progenie di Satana, qualunque cosa voglia dire”.

Arthur annuì, guardandosi intorno nervosamente: “Torniamo al Ministero. Mi sa che siamo nei guai.”

 

Purtroppo, le previsioni del mio collega si rivelarono esatte: quando entrammo in ufficio ansiosi e tesi, Margaret rivolse uno sguardo d’intesa a Ernest che rapido come un fulmine chiuse la porta del nostro ufficetto. Il sergente Stipwell seduto a una scrivania sul lato corto della stanza, appose la sua firma incomprensibile su un documento e poi, lentamente, alzò gli occhi e ci fissò.

“Cosa è successo?” chiese, freddo come il polo.

Spiegammo approssimativamente i fatti, tirando fuori da sotto il mantello il grosso involto verde del gatto sputafuoco. La calma glaciale del nostro collerico sergente non durò a lungo: “La prossima volta avvertite! Mandate un gufo, un Patronus, una fottuta srtrillettera. Come vi è passato per la testa di lasciare lì la famiglia e andare a rincorrere quel gatto?”

“Ma sputava fiamme ed era verde! Tutti i babbani l'avrebbero visto…“ Tentò Arthur, eroicamente.

“Al diavolo i babbani!”

“Ma il gatto…”

“Si avrebbero visto un gatto molto strano e avrebbero pensato di aver sognato o di aver bevuto troppo. Se quegli allocchi del Ministero avesse ricevuto una qualche segnalazione, cosa molto improbabile, fidatevi, avrebbe attribuito la magia al minorenne e non ci sarebbero stati problemi. Il vostro compito, però, era un altro!”

”Ma…”

Dovevo ammetterlo il coraggio e la testardaggine dei Grifondoro era davvero qualcosa di incredibile: io non avrei mai osato ribattere al nostro capoufficio: ci tenevo davvero a quel lavoro. Inoltre, io mi rendevo perfettamente conto di quanto fosse inutile polemizzare. Avevamo fatto un fiasco senza precedenti e anche piuttosto vistoso.

“Niente ma! Il vostro preciso compito, quello per cui il Ministero vi paga, è annunciare ai nati babbani la loro vera natura e rassicurare i loro genitori, nient’altro. Quindi, -e non fatemelo ripetere teste di legno che non siete altro- qualunque cosa esca dalle vostre bacchette voi non abbandonate la famiglia in preda a una crisi di panico. Voi rappresentate il mondo della magia dovete essere professionali, per Merlino!”

Chinammo il capo, contriti. “Avevamo pensato che…”

“Avevano pensato, li senti Maggy? Non ci sono più le reclute di una volta! Vi ho mai detto di lasciare le famiglie da sole? Vi ho mai detto di fare incantesimi complicati? E dimmi un po’ Tokai, non eri tu quello che si vantava di conoscere i babbani?”

Tacqui, imbarazzato. Nei primi giorni avevo addirittura preso entusiasticamente appunti sul taccuino, eppure avevo miseramente fallito. Anche se, bisogna pur dirlo, l’incapacità di Arthur a lanciare un incantesimo dritto aveva giocato un ruolo fondamentale in tutta quella faccenda, non lo si poteva negare.

“E comunque non sei un po’ troppo cresciuto per la magia involontaria?” Malignò Ernest.

“La cosa ti diverte?” Scattai, immediatamente, voltandomi inviperito verso il collega. Non era da me scaldarmi per così poco, ma Ernest ed io ci detestavamo cordialmente fin dal primo secondo di convivenza in quell’ufficio e non avrei lasciato che mi mettesse in una luce ancora peggiore solo per ripicca.

“Divertirmi? Affatto, ho solo la conferma di quanto i Serpeverde non siano altro che palloni gonfiati.“

“Chi sarebbe il pallone gonfiato?”

“Ricapitoliamo.” Ci interruppe il sergente portandosi una mano a sostenere la fronte, “tu” disse e mi

indicò, “hai fatto apparire un gatto sputafuoco davanti a un reverendo e ora ti crede un emissario di Satana in persona. Entrambi” disse, abbracciando con lo sguardo anche il mio compagno di sventura “avete abbandonato la famiglia inseguendo il gatto per tutto il quartiere”.

“Potrebbe essere una faccenda da obliviatori e comitato di scuse ai babbani, George.” Si intromise Margaret, scartabellando tra alcune pergamene.

“Quei rospi secchi degli obliviatori possono baciarmi le chiappe” rispose il sergente “dove entrano gli obliviatori entrano i tagli del personale, Maggy, e non mi farò portare via le mie reclute per così poco. Abbiamo spazio di manovra?”

Margaret controllò ancora una volta le pergamene che aveva davanti e poi disse: “Rispolvera la tua tonaca George andiamo in missione per conto di Dio.”

“Ah la numero 42” Annuì il sergente Stipwell con un ghigno che non faceva presagire nulla di buono: “John, Arthur, voi due venite con me e portate quel gatto e la faccia più contrita che avete. Ernest a te spetta il giro lungo dei testimoni, so di poter contare su di te: mi raccomando coerente serio e noioso. Trenta minuti e siamo pronti a partire: tempo di chiedere a quelli delle creature magiche come far tornare questo gatto normale. Maggy?”

“Ci penso io, George, ho il solito buon contatto”.

 

Mezz’ora dopo precisi e puntuali eravamo di nuovo davanti a quella maledetta porta. Il gatto era tornato di un accettabile grigio perla e anche se aveva perso la facoltà di lanciare perfette e letali palle di fuoco, non sembrava affatto meno pericoloso e continuava ad attentare alla mia salute fisica con morsi e graffi. Il sergente Stipwell indossava un lungo vestito nero con un colletto bianco e aveva in mano una Bibbia consunta, io e Arthur avevamo indosso i vestiti babbani della mattina. Anche se il mio completo, bisogna ammetterlo, era parecchio spiegazzato e il maglione di Arthur aveva una grossa macchia d’erba sul davanti mentre i suoi capelli erano ancora bruciacchiati sulle punte. Stipwell non aveva permesso che ci rimettessimo in ordine, anzi, aveva personalmente strappato un bottone del mio completo, arruffato i capelli di Arthur e sporcato la faccia di entrambi di fuliggine.

Ad aprirci venne il reverendo che, alla nostra vista strabbuzzò gli occhi e gonfiò le guance come una vecchia rana: la sua carnagione divenne rossa fiammante, mentre una vena pulsava pericolosamente sul lato del suo collo. “Voi!” disse riuscendo a mantenere il tono miracolosamente calmo e fece per chiuderci la porta in faccia, tentativo che fu sventato prontamente da un incantesimo non-verbale.

Mentre la porta diventava all’improvviso più difficile che mai da spostare, il sergente si fece avanti, alzò la Bibbia sopra il suo capo, piazzandola all’altezza degli occhi del reverendo e recitò una lunga frase in latino. Il reverendo smise di cercare di chiudere la porta stupito, “Oh padre perdona loro perchè non sanno quello che fanno! Possa tu avere pietà di questi peccatori” declamò Stipwell, baritonale, lo sguardo al cielo, la Bibbia nuovamente stretta al petto.

“Padre, la prego di perdonare questi ragazzi che la giovane età rende irruenti e arroganti. Essi sono ancora all’inizio del loro percorso ecumenico, tuttavia il loro cuore è puro e la loro fede salda! Non veniamo qui con le più sincere intenzioni e l’animo soffuso di contrizione, datemi la possibilità di rimediare all’operato dei miei goffi confratelli e fateci la grazia del perdono, così come nostro padre celeste ci ha insegnato.” Affermò con la foga del vero credente, stringendolo in abbraccio fraterno. “Ma lasciate che io veda con i miei occhi” aggiunse poi, in un tono molto più mondano introducendosi in casa. Lo seguimmo a ruota, sperando di risultare completamente invisibili. Stipwell riuscì a controllare l’entità dei danni causati dal nostro maldestro intervento per due minuti buoni, prima che il reverendo si riprendesse dallo shock, chiudesse la porta e lo affrontasse di petto.

 

 

Due ore di intense professioni di fede e parecchie citazioni bibliche dopo, ci trovammo a camminare per il vialetto tutti e tre affiancati, ognuno immerso nei propri pensieri: il sole era ormai al tramonto e le nostre ombre si allungavano davanti a noi, precedendoci. Mi feci coraggio e interruppi il silenzio, dando voce ai miei dubbi: “Non lo abbiamo preso troppo in giro? Insomma tutte quelle storie sui maghi che sono la progenie degli angeli non sono molto credibili”

“Se non aveste mandato tutto in vacca, non ce ne sarebbe stato bisogno.” Rispose il sergente. Poi tacque un attimo, guardando un punto lontano e mi diede una pacca sulla spalla sereno: “Ma poi ragazzo che ne vuoi sapere tu? Nessuno sa perché solo parte degli esseri umani ha questi poteri, la mia spiegazione vale quanto le altre.”

“Sì, ma” si intromise Arthur: “rischiano di andare incontro a una grave disillusione: non ci sono maghi preti e nemmeno teorie ufficiali del genere tra i purosangue e il ragazzino sarà il primo ad accorgersene”

“Magia e scienza sono una cosa, la fede è tutt’altra. Se crede come dice, non avrà bisogno di fatti.” Sentenziò Stipwell. “In ogni caso, non lo scoprirà così presto, scriverò a Silente e gli dirò di parlarci, vedrete andrà tutto bene, non è certo la prima volta che uso la numero 42…”

 

 

Edgar Green fu assegnato a Corvonero non appena il Cappello Parlante gli sfiorò la testa e dimostrò immediatamente un eccezionale talento per la trasfigurazione animale.

Finita la scuola approfondì i suoi studi e ne divenne in poco tempo un esperto rispettato in tutto il mondo magico: fu ospite dei congressi più prestigiosi e divenne una presenza fissa a quelli tenuti in Europa, riempendo di gloria il Regno Unito con le sue scoperte. Sapeva come affascinare il suo pubblico, dandosi l’aria del vecchio saggio ben prima che fosse anche solo lontanamente vecchio e così, ben presto, il suo parere iniziò a venire richiesto anche su argomenti che esulavano del tutto le sue competenze.

Quando uno di queste opinioni riguardò la stirpe magica, si premurò di insinuare come considerasse i maghi ben più che un gradino sopra ai babbani. Non sostenne mai apertamente Tu Sai Chi, ma aizzò subdolamente l’opinione pubblica a suo favore e non disdegnò mai di donare le sue conoscenze a servizio di ricchi finanziatori dalla dubbia fedina penale.

Non fu mai coinvolto in qualche scandalo, non fu neanche mai associato a personaggi indesiderabili o sospetti e tantomeno perseguito come sostenitore di Tu Sai Chi: era furbo famoso utile e sopravvisse a guerra e dopoguerra senza un graffio e senza doversi mai nascondere.

Noi dell’ufficio lo consideriamo tutt’oggi uno dei nostri più grandi fallimenti: evidentemente la trafila di bugie che avevamo rifilato al padre e la sua rigida educazione religiosa lo avevano in qualche modo portato sulla cattiva strada.

 

Anni dopo, durante il mio esilio babbano mi capitò di incontrare il reverendo: l’uomo fiero di un

tempo aveva lasciato il posto a un vecchio alcolizzato che vestiva di stracci e viveva alla giornata.

Cercai di aiutarlo come potevo e mi offrii di farlo vivere nella mia casa babbana, ma rifiutò: disse che meritava quella condizione, era il giusto castigo per uno come lui che, sebbene saldo nei suoi principi e di fede incrollabile non aveva saputo riconoscere e scacciare il diavolo che albergava nel cuore del suo stesso figlio.

Mi spiegò, tra le lacrime, che il figlio aveva abbandonato casa a diciassette anni, dichiarandosi ateo e urlando che la Bibbia non era altro che una stupida storia per bambini. Edgar aveva urlato che avrebbe continuato a compiere trasfigurazioni animali che ne avrebbe fatto il vanto proprio perché andava contro i dettami di quel cielo che suo padre tanto stupidamente adorava. Scommetteva che non sarebbe andato incontro a nessuna punizione divina, aveva detto. Da quel giorno lui, il reverendo, non era più riuscito ad esercitare il suo sacerdozio e piano piano era scivolato nel vizio: dopo la madre aveva perso anche il figlio e proprio non riusciva a sopportarlo.

“Come mai non è diventato un bravo ragazzo come te, Tokai?” Mi ripeteva spesso il reverendo tra i fumi dell’alcol e, io, tutte le volte non sapevo proprio cosa avrei potuto rispondere e mi limitavo a porgergli il pasto d’asporto che avevo portato per lui.

  
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