Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    16/04/2023    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quando io e Kenji ci staccammo l’uno dall’altra eravamo entrambi imbarazzati, ma lui lo era molto più di me. Come lo sapevo? Nonostante l’illuminazione fosse debole, potevo scorgere chiaramente il colorito vermiglio che aveva assunto la sua pelle, dal collo fino alle orecchie. Sapevo di aver combinato un guaio. Eppure, una parte di me mi diceva che non era stato un errore, che se ero capace di lasciarmi amare, ero anche capace di amare. E se fosse stato proprio Kenji la chiave di tutto?
La mia fu una domanda che non trovò risposta, perché la porta del ripostiglio venne sfondata. Considerato che la stanza era circa tre metri per tre, fu un miracolo che né io né il mio compagno venimmo colpiti. Per terra, tra le scope, vi era un sottoposto di Kaido che stava emettendo del lamenti di dolore, mentre sulla soglia, con un’espressione grave, si ergeva un samurai. Quest’ultimo finì il nemico con un fendente rapido e preciso prima che potesse rialzarsi, poi fissò me e il rosso. Mi resi conto di essere avvinghiata a lui e mi allontanai. Dopo qualche attimo di esitazione ci alzammo in piedi, scavalcammo il corpo esanime del pirata e uscimmo dallo stanzino. L’uomo ci fissava con sguardo enigmatico, come se non fosse certo di cosa fare con noi, se risparmiarci o scatenare la sua furia omicida. Aveva un’aria seria, i capelli biondo cenere raccolti nella tipica pettinatura dei samurai e indossava una tunica, ormai logora, di stoffa gialla e bianca.
«Siamo vostri alleati, facciamo parte della ciurma di Trafalgar Law,» si affrettò a dire Kenji per fugare ogni dubbio. «E non stavamo facendo niente di male qui nel ripostiglio!» Agitò le mani davanti a sé, la voce stridula e... colpevole.
Sospirai e alzai gli occhi al cielo. Perché tutte le persone che baciavo non riuscivano a mantenere il segreto neanche per mezzo minuto? E perché complicarsi la vita quando nessuno glielo aveva chiesto? Ora eravamo costretti a spiegarci.
«Siamo medici. Cercavamo dei medicinali.» Cercai di non scompormi e di rimediare ai danni che stava facendo il mio compagno. Tecnicamente non era neanche una bugia.
A quel punto il samurai sollevò un sopracciglio. «In un ripostiglio?»
«Sì, in un ripostiglio.» Scrollai le spalle. «Non sappiamo dove sia l’infermeria e siamo a corto di equipaggiamento. Ogni tentativo è buono.»
«Voi pirati siete strani.»
«Invece voi samurai con il vostro Bushido e i chonmage in testa siete perfettamente normali, vero?» domandai ironicamente, il tono un po’ infastidito.
Quello mi guardò male.
«Sai per caso dove sia l’infermeria?» intervenne timidamente Kenji per mettere fine al battibecco.
«No.» Girò i tacchi e fece per andarsene, ma io lo fermai.
«La ferita va pulita e coperta.» Indicai una striscia rossa sul suo braccio dalla quale colava parecchio sangue.
«Possiamo metterci un po’ d’acqua.» Kenji aveva già tirato fuori la bottiglia dallo zaino. «Mi dispiace, ma non avendo né garze né disinfettante questo è tutto ciò che abbiamo da offrirti.»
«Sto bene, non mi fa male,» si affrettò a dire il samurai.
«D’accordo, ma questo non le impedirà di infettarsi. Lasciaci fare il nostro mestiere e non dovrai preoccupartene.» Mi avvicinai a lui per osservare meglio la lacerazione. Non era estesa, né profonda, ma andava trattata.
Alla fine acconsentì, seppur malvolentieri. Mentre il rosso si occupava di pulire la lesione, io strappai un pezzo di stoffa dalla sua tunica e, quando Kenji ebbe terminato, glielo annodai attorno al braccio. I muscoli sotto la pelle color caramello si contrassero per il fastidio, ma per tutto il processo fu stoico.
«Grazie.» L’uomo chinò leggermente il capo in segno di riconoscenza. «Mi rincresce di non potervi aiutare a reperire altro materiale medico.»
«Non importa. In qualche modo ce la caveremo.» Kenji fece il solito sorriso ottimista e io mi sforzai di annuire. Osservammo mentre se ne andava e decidemmo di gettarci di nuovo nella mischia. Del resto, il nostro nascondiglio era ormai diventato inagibile.
 
Il secondo piano era più caotico del terzo. Era una sorta di “piano di passaggio”, in cui si fermavano a combattere i nemici più scarsi o quelli che non se la sentivano di salire ai piani superiori. Speravo vivamente che l’infermeria non si trovasse lì, perché con tutta la confusione che c’era avremmo potuto passarci davanti e non rendercene nemmeno conto. Forse la prima volta che vi ci eravamo recati era stato così. Non avevo idea di come avremmo fatto a districarci in quel groviglio di pirati, samurai, Visoni e altre creature strane. Per fortuna passavamo abbastanza inosservati anche lì e potevamo procedere con le nostre ricerche a un buon ritmo.
«Credi che il Capitano stia bene?» chiese Kenji all’improvviso. «È da un po’ che non abbiamo sue notizie.»
Mi voltai verso di lui e sospirai. «Non lo so. Mi auguro di sì.»
Non avevo avuto modo di pensare al chirurgo, perché il mio chiodo fisso nelle ultime ore era stato reperire del materiale medico per poter curare adeguatamente tutti i feriti, ma ora che il rosso me lo aveva ricordato era inevitabile non preoccuparsi. Era vero, non avevamo sue notizie da un po’. In base a ciò che sapevamo non era più sul tetto e non era stato sconfitto da Kaido o Big Mom: se così fosse stato, non avrebbero esitato nell’annunciarlo con l’altoparlante. Quindi, dov’era? Stava combattendo contro un pezzo grosso? No, io conoscevo Law e sapevo che non si sarebbe accontentato delle briciole. Non voleva essere da meno delle altre Supernove, se avesse avuto la possibilità si sarebbe scontrato con un Imperatore. Non avevo idea di dove fosse Charlotte Linlin – e questo un po’ mi spaventava – ma avevo la certezza che il Capitano non stesse combattendo con il padrone di casa, che non era sceso dal tetto per “fare pulizia” nel castello come aveva promesso – grazie al Cielo – ma era da qualche parte ad occuparsi di qualcos’altro. Oppure mi sbagliavo, il medico che era in lui aveva prevalso sul pirata e si era fermato per aiutare Rufy. Un pensiero funesto si fece strada in me e il cuore iniziò a martellarmi nel petto. E se fosse stato lui ad aver bisogno di aiuto? Se fosse stato abbandonato in una stanza obsoleta del castello con ferite gravi che non poteva curarsi da solo? Dovevo trovarlo. Dovevo accertarmi che stesse bene. Cominciai a guardarmi in giro, il panico nelle iridi. Se anche lo avessi trovato, non avrei potuto fare molto senza il giusto equipaggiamento. Cosa avrei dovuto fare? Mi girava la testa.
«Sono sicuro che sta bene. Il Capitano è forte, e sa come cavarsela. Noi dobbiamo pensare a trovare l’infermeria,» mi disse Kenji, probabilmente per provare a calmare la mia angoscia. Non funzionò, ma mi sforzai di reprimerla e archiviarla in un punto remoto del mio cervello. Non potevo permettermi di perdere la testa per l’ennesima volta.
«Sì, Law è un osso duro,» affermai, sollevando un angolo della bocca. Dovevo credere che stesse bene. «Il Capitano. Volevo dire il Capitano,» mi corressi poi, con un po’ di imbarazzo.
Il mio compagno rise. «Credo che tu sia l’unica componente della ciurma che può chiamarlo Law senza essere punita.»
«Non ne sarei così sicura...» Mi ricordai del patto che avevamo stretto prima di incontrare i Mugiwara e di come me l’avesse già fatta pagare per essermi dimenticata di chiamarlo “Capitano”.
Udii un rumore sinistro e frenai bruscamente, un braccio a trattenere Kenji. Una voragine si aprì nel soffitto e due creature piombarono su di noi. Non mi caddero addosso solo perché il mio compagno ebbe la prontezza di afferrarmi per un gomito e trascinarmi via. Atterrarono con un tonfo sordo: erano un Visone di tipo scoiattolo – o qualcosa del genere – e un uomo che aveva mangiato uno Smile. La metà sinistra del suo corpo era umana, ma la metà destra aveva l’aspetto di un bisonte. La creatura recuperò in fretta la sua arma, un mazzafrusto, e si rialzò. Non feci in tempo a suggerire a Kenji di andare via che dovetti assistere alla crudele dipartita dello scoiattolo. Fu velocissimo, scagliò tre colpi alla testa del Visone senza che questi potesse fare nulla, tutti nello stesso punto. Fu raccapricciante vedere il suo cranio sfondato, sangue e materia cerebrale sparsi per il pavimento insieme alla polvere. Gli occhi aperti guardavano nella nostra direzione con l’inespressività di chi non aveva più vita in corpo. Mentre io prendevo un respiro profondo, incapace di distogliere lo sguardo da quell’atrocità, il rosso si portò una mano alla bocca, trattenendo un conato di vomito. Anche se eravamo avvezzi al corpo umano, ai suoi organi e ai suoi fluidi, certe cose non potevano lasciarci indifferenti.
Il bisonte si girò verso di noi, ci osservò per qualche secondo e fece un ghigno maligno. Sentii il sangue gelarsi nelle vene. Prima che potessi fare qualsiasi cosa vidi il sottoposto di Kaido muoversi in avanti. Percepii uno spostamento d’aria alla mia sinistra e udii un gemito di dolore.
Kenji era stato spazzato via.
«Kenji!» gridai, il terrore nella voce. Mi voltai verso di lui. Era volato a circa cinque metri da me e si stava tenendo la coscia destra con entrambe le mani. Corsi da lui, senza curarmi del bisonte.
«Almaz-sama! Meno male che è qui!» lo acclamarono alcuni quando si accorsero della sua presenza. Non era un buon segno per noi, significava che era uno tra i più forti. Se avevo ragione, non potevamo batterlo: l’unica opzione che avevamo era fuggire.
Il mio compagno tremava e ansimava. Mi accovacciai e gli scostai i palmi per verificare l’entità del danno.
«Merda,» sibilai a denti stretti. La ferita non aveva un bell’aspetto. Il mazzafrusto gli aveva perforato la carne in più punti e in profondità. Stava perdendo molto sangue, se non avessi trovato il modo di fermare l’emorragia si sarebbe dissanguato in fretta. Sperai che l’arteria femorale non fosse stata recisa, altrimenti sarebbero stati guai.
«È grave.» La voce di Kenji era flebile e non capii se fosse una domanda o un’affermazione.
«Dobbiamo andarcene da qui. Riesci a camminare?»
Scosse la testa. Stava diventando sempre più pallido e iniziava a sudare. Imprecai più volte.
«D’accordo, ti porto io.» Dopo tutti i colpi che avevo ricevuto non pensavo di avere la forza di farlo, ma dovevo fare di necessità virtù. Tentai di tirarlo su e di issarlo sulla schiena.
«Perché tanta fretta?» fece una voce profonda che mi mise i brividi. Lasciai andare il mio compagno e mi voltai. Di fronte a me si ergeva l’acclamato Almaz con un sogghigno dipinto sul viso. Ebbi modo di osservarlo meglio: per la sua parte umana la pelle candida era in contrasto con l’occhio e i capelli neri come la pece, il corpo tonico gli permetteva di sostenere la sua parte animale, più muscolosa. Il bisonte aveva il pelo scuro, l’iride rossa e un’espressione famelica, un solo corno spuntava dalla metà destra della sua testa. Sul naso, anch’esso per metà umano e per metà animale, aveva un piercing ad anello. Era spaventoso. Avevo davanti due metri e mezzo di una creatura che non avrebbe dovuto esistere e che voleva mettere fine alla mia esistenza.
Deglutii, cercando di capire quale fosse la mia opzione migliore. Combattere non mi sembrava saggio, non sarei durata molto con un avversario del genere. Fuggire era fuori discussione: non potevo lasciare Kenji lì e darmela a gambe, ma con lui in quelle condizioni non saremmo stati abbastanza veloci da evitare Almaz. Gettai un’occhiata al rosso. Aveva bisogno di cure immediate. Presi un respiro profondo e attivai l’Ambizione e l’Heat Dial sull’ascia. Non avevo altra scelta, dovevo scontrarmi con il bisonte. Non avevo speranze di farcela, ma forse, se me la giocavo bene, potevo rallentarlo abbastanza da permettermi di portare Kenji in un posto sicuro. Dovevo almeno provarci, e dovevo sbrigarmi, perché non aveva molto tempo: si stava dissanguando più in fretta del previsto.
«E così vuoi combattere? Una scelta temeraria, ma stupida. Non hai alcuna speranza di vincere contro di me, ragazzina.» La voce della Star mi fece concentrare su quello che stava per accadere.
“Non avere paura, Cami,” cercai di incoraggiarmi. “Il tuo avversario non è altro che un esperimento mal riuscito, uno scherzo della natura.”
«Non chiamarmi “ragazzina”,» sibilai, prima di lanciarmi verso di lui e sferrare un colpo con la mia Mr. Smee. Era una mossa suicida e normalmente non lo avrei mai fatto, però il mio amico non aveva tempo.
L’energumeno parò il mio attacco con facilità con il manico del mazzafrusto. Lessi nei suoi pensieri che voleva rifilarmi una ginocchiata nel ventre e allungai l’ascia al massimo per proteggermi. L’impatto con il suo ginocchio fu più forte di quanto mi aspettassi e venni scaraventata per aria. Feci in modo di riatterrare in piedi ma, nel momento in cui toccai il pavimento, il bisonte scattò in avanti. Era rapido, troppo rapido per me, troppo rapido perché potessi reagire. Grazie all’Haki conoscevo le sue intenzioni, ma non potevo far altro che subire il suo attacco.
La palla chiodata si conficcò nel mio stomaco. Udii un crack, forse due. La vista si sfocò e si oscurò per qualche secondo. Mi sembrava che ogni mia terminazione nervosa stesse gridando per la sofferenza. A causa della potenza del colpo fui sbalzata indietro. Mi sembrò di cadere per ore. Quando la mia schiena toccò terra, altre fitte di dolore si irradiarono nel mio corpo. Non riuscivo più a respirare. Era una sensazione orribile. Sentivo i miei stessi rantoli mentre cercavo di far entrare aria nei polmoni, senza riuscirci.
«Cami!» mi chiamò qualcuno, ma io non ero più in grado di orientarmi, né di pensare.
Mi mossi solo dopo che la vista smise di essere sfocata e che tornai a respirare regolarmente. Mi portai una mano all’addome e mi girai a fatica su un fianco. Battei un pugno sul pavimento, tanto era il dolore. Ogni respiro mi provocava una sofferenza atroce. Scostai il palmo dallo stomaco. Le dita erano insanguinate, come immaginavo. Realizzai che stavo perdendo sangue anche dalla bocca. Non era un buon segno. Provai a rimettermi in piedi, fallendo miseramente. Sbattei di nuovo un pugno al suolo, stavolta per la rabbia di non riuscire a muovermi. L’unica cosa che potevo fare era localizzare il mio avversario. Cercai Almaz con lo sguardo. Quando lo avvistai, notai che continuava a guardare prima me e poi Kenji, e mi resi conto che l’unico motivo per cui ero ancora viva era che il bisonte stava decidendo chi finire per primo tra me e il mio compagno. A giudicare dal sorriso malizioso che aveva, la cosa lo divertiva.
Osservai il rosso, che mi fissava a sua volta con preoccupazione. Continuava a premere le mani sulla ferita e sembrava essersi ridestato dal suo stato catatonico, almeno questo era positivo. Vidi il nostro avversario incamminarsi a passo lento verso di lui. Aveva scelto la sua prima preda. Anche il mio compagno se ne accorse, e recuperò in fretta i suoi sai per provare a difendersi. Non aveva speranze, non riusciva a stare in piedi e la ferita sanguinava copiosamente se non vi faceva pressione.
Non sapevo se fosse per il fatto che Kenji sarebbe potuto morire, per l’adrenalina, l’allenamento di Zoro o altri strani avvenimenti da guerra, ma mi rialzai. Feci un po’ di fatica a mantenermi eretta, l’addome pulsava, per fortuna la cintura metallica aveva attutito il colpo, come aveva fatto anche in passato. Era una certezza in un oceano di incertezze. E fu lì che realizzai quanto fossi stata stupida fino a quel momento. Mi sarei data una botta in testa. Perché c’era un modo per passare inosservati, per sparire senza bruciare l’ultimo desiderio della Stella. E il fatto che non ci avessi pensato prima mi fece infuriare con me stessa, ma mi giustificai dicendomi che era perché ero stata sopraffatta dagli eventi e avevo la mente annebbiata. Richiamai l’ascia – che era volata via nel contrasto – premendo il pulsante nero sul bracciale magnetico. Tirai fuori dalla tasca l’Impact Dial, lo legai alla mano con un elastico, ignorai il dolore e tornai all’attacco, stavolta con una strategia ben precisa.
 
«Ti sei già dimenticato di me?» chiesi ad Almaz, prima che potesse colpire Kenji. «I bisonti hanno la memoria corta, per caso?»
Si girò verso di me e ghignò divertito, riportando le braccia lungo i fianchi. «Hai ragione. Avevo deciso di farti fuori dopo il tuo amichetto, ma bisogna essere galanti. Prima le signore.»
«Non farlo, Cami,» mi supplicò il rosso a un paio di metri da noi. «Lasciami qui e scappa.»
Se io lo guardai male, il sottoposto di Kaido rise.
«Voi pirati sentimentali siete i peggiori. Come può esistere gente tanto stupida da essere disposta a morire per qualcun altro? Se tu fossi scappata anziché venire qui a fare la martire, almeno uno di voi sarebbe sopravvissuto. Invece ora morirete entrambi. Patetico!»
Né io né Kenji rispondemmo alla sua provocazione. Non ce n’era bisogno, sapevamo che quello che legava noi Pirati Heart era molto più di semplice sentimentalismo. E se me la fossi giocata bene, nessuno dei due sarebbe dovuto morire. Ciò che mi disturbava era che quel bisonte parlava esattamente come Doflamingo. Quasi mi sembrava di averlo di nuovo davanti. Però non avevo paura. Se non avesse voluto uccidermi avrei provato pena per lui. Non avrebbe mai saputo cosa fosse la solidarietà, l’amicizia, la fratellanza e non avrebbe mai conosciuto cosa significasse essere compagni. Era una vita arida, la sua.
Mi basterà colpirti di nuovo allo stomaco e sarai morta prima che possa accorgertene,” lo sentii pensare.
Indietreggiai quel tanto che bastava per darmi il tempo di posizionare la mano con l’Impact Dial sull’addome e cercai di attirarlo il più possibile vicino al muro. Ero troppo debole per contrastarlo, l’unica soluzione era riversare la sua stessa forza contro di lui e sperare che questo lo avrebbe rallentato abbastanza da permetterci di fuggire. Dovevo essere rapida e precisa, avevo una sola occasione.
Vidi l’arto animale muoversi e aspettai che la sua arma mi colpisse.
«Cami!» gridò Kenji, disperato. Avrei voluto dirgli di non preoccuparsi, che era tutto sotto controllo, ma non sapevo neanche io se avrebbe funzionato.
Mi concentrai e indirizzai la mano dove avrebbe voluto colpirmi. Fu incredibile. L’attacco venne assorbito totalmente dalla conchiglia che avevo nel palmo, come se non l’avesse mai scagliato. Non percepii nemmeno un po’ della potenza che aveva usato, il braccio non tremò e non sentii alcun dolore. Almaz fece una faccia stranita, e anche il mio compagno poco più in là. Ghignai e, senza dargli il tempo di riprendersi dallo shock, mi tolsi la cintura, lasciandola cadere a terra insieme all’ascia. Mi servivano tutte e due le mani libere. Adottò la stessa espressione e iniziò a guardarsi intorno.
«Ti piace giocare sporco, eh?»
«Pensavi che noi patetici sentimentali non fossimo in grado di giocare sporco? Che ti aspettavi? Siamo pur sempre pirati!» Gli risposi anche se non poteva sentirmi, posizionandomi con la schiena aderente al muro. Tesi entrambe le braccia e le portai a un palmo dal viso di Almaz mentre questi continuava a cercarmi con lo sguardo, il mazzafrusto ben saldo nella sua mano. «Non starò zitta e buona mentre cerchi di eliminare il mio compagno.»
Quello che non avevo calcolato – e che era il motivo per cui non avevo utilizzato l’Impact Dial fino ad adesso – era che la mia strategia rischiava di uccidermi, perché la potenza che veniva incanalata dalla conchiglia andava rilasciata, e il colpo danneggiava entrambe le parti. Se avessi avuto altra scelta non l’avrei messa in atto, ma Kenji era steso per terra e stava per perdere conoscenza. Mi presi gli ultimi istanti per fare un respiro profondo. Quello era il momento giusto, non potevo lasciare che il bisonte si allontanasse. Piantai i piedi ben saldi per terra, feci in modo che tutto il mio corpo aderisse alla parete e premetti i bordi del Dial. Chiusi gli occhi.
L’impatto mi investì in un’onda d’urto. Le spalle si contrassero in un movimento innaturale. Se non fossi stata “furba” e non le avessi fatte poggiare contro il muro, avrei potuto giurare che mi si sarebbero strappate dal resto del corpo. Battei la nuca, la guancia sinistra mi si spalmò contro la parete e il cervello rimbalzò nella sua scatola cranica. Intravidi l’avversario che veniva scagliato via prima di ricadere floscia sul pavimento.
«Almaz-sama!» mi parve di sentir gridare qualcuno, ma i suoni erano ovattati e la vista sfocata.
Non riuscivo a muovere le braccia e avevo appena peggiorato la ferita allo stomaco. Rimasi cosciente solo perché dovevo occuparmi di Kenji. Spostai lo sguardo su di lui. Era sempre steso per terra, le palpebre socchiuse e una pozza di sangue sotto la sua gamba. Una di quelli che aveva acclamato Almaz, un ibrido tra una ragazza e una rana, si avvicinò a lui e fece per colpirlo con un machete, forse per vendicarsi della sconfitta della Star.
«No!» urlai. Tentai di muovermi, però non riuscii a farlo. Era inutile. Dopo tutto quello che avevo fatto per evitarlo, avrei dovuto assistere alla morte di uno dei miei migliori amici. Non potei fare a meno di pensare che se fosse rimasto con gli altri del gruppo invece che salvare me non si sarebbe trovato in questa situazione. Era la sconfitta peggiore della mia vita. E maledissi il mio corpo per essere troppo debole. Avrei potuto fare tutti gli allenamenti speciali che quell’universo aveva da offrire, non sarei comunque stata pronta per quella guerra.
Proprio nel momento in cui sollevò l’arma, un’altra sottoposta di Kaido le si scagliò contro. La disarmò e le due rotolarono per qualche metro.
«Ma che cazzo...» Sbattei più volte le palpebre, confusa. Forse avevo avuto un’allucinazione data dallo stordimento. Decisi di non farmi troppe domande e di non cercare risposte. Dopotutto eravamo nell’universo di One Piece, dove le stranezze erano all’ordine del giorno. L’importante era che Kenji fosse salvo.
Non appena ebbi recuperato le funzionalità motorie mi rimisi la cintura, ripresi l’ascia e andai dal mio amico, che ormai era privo di conoscenza. Pressai due dita sul suo collo: il battito era debole, però c’era. Controllai meglio la ferita e stabilii che l’arteria femorale non era stata recisa.
«Kenji!» gli gridai scuotendolo, come se questo potesse risvegliarlo. «Kenji, resta con me!»
Dovevo fermare l’emorragia, stava perdendo troppo sangue. Mi guardai intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse fare da laccio emostatico.
«Bingo!» Gattonai fino a un nemico di Kaido steso a terra e gli tagliai le bretelle di cuoio con uno dei miei pugnali.
Tornai dal mio compagno e gliele strinsi attorno alla coscia. Se solo avessi avuto gli strumenti giusti avrei potuto curarlo in un battito di ciglia. Lì non avevo niente. Mi servivano garze, disinfettanti, kit da sutura, antidolorifici e, in un mondo utopico, anche qualche sacca di sangue. Era diventato imperativo trovare l’infermeria.
Udii il clangore di due armi bianche scontrarsi. Mi voltai di scatto e vidi la donna di prima battersi con un altro suo compagno di ciurma.
«Ma che cazzo...» ripetei, sempre più confusa.
La ragazza, che doveva avere i poteri di un ippopotamo, lo sconfisse facilmente, mi diede un’occhiata e si gettò di nuovo nei combattimenti. Mi resi conto che alcuni dei sottoposti di Kaido che erano sopraggiunti stavano combattendo al fianco di samurai e Visoni. Non capivo. Ma non mi interessava capire, volevo solo portare Kenji in un posto sicuro e curarlo con il giusto equipaggiamento. L’unica opzione che avevo, se volevo tenerlo in vita, era trovare un luogo riparato, lasciarlo lì e andare a cercare l’infermeria: in quelle condizioni era un peso morto che non avevo la forza di portare con me. In più, se mi fossi tolta la cintura sarei passata inosservata e avrei potuto fare più in fretta. Non era sicuro lasciarlo da solo, ma non avevo altra scelta. Era meglio che guardarlo spegnersi pian piano; almeno così avrebbe avuto una possibilità.
Ispezionai la zona. Non vedevo posti in cui rifugiarsi, solo posti in cui avrebbero ucciso il mio compagno. L’occhio mi cadde sulla parete alla quale ero stata schiacciata poco prima e notai che nella pietra era impressa la mia forma. La testa, lo zigomo, le braccia e lo stomaco tornarono a farmi male. Il rinculo era stato peggio di quello che pensavo. Distolsi lo sguardo, e proprio in quel momento mi resi conto che Almaz e il Visone-scoiattolo, cadendo dal soffitto, avevano scheggiato il pavimento. C’era qualcosa di innaturale. Mi alzai e andai ad esaminare la crepa. Schivai i colpi di due tizi che combattevano a qualche metro da me per miracolo. Quando fui abbastanza vicina, realizzai che le tavole di legno facevano da tetto a un piano che non era il primo e che non avevo mai visto. Era... un controsoffitto. Ed era deserto. Era ciò che faceva al caso nostro. Mi diressi verso quello che mi sembrava l’angolo più remoto del corridoio, aspettai che nessuno fosse nelle vicinanze e utilizzai uno dei pugnali per scavare una botola nel pavimento. Quando fu pronta, vi trascinai Kenji dentro e la richiusi, rimettendo le tavole esattamente dove erano collocate, così nessuno si sarebbe accorto del “passaggio segreto” che avevo creato.
Mi ritrovai ad ansimare con le mani sulle ginocchia. Lo stomaco pulsava, facevo di nuovo fatica a rimanere eretta. Ero ridotta peggio di quanto pensassi.
«Cami...»
Feci un piccolo sorriso. Kenji si era ripreso, era un buon segno. Almeno avrei potuto spiegargli la situazione. Si guardò intorno, confuso.
«Siamo nel controsoffitto tra il primo e il secondo piano. Ti ho portato io qui, dovremmo essere al sicuro,» gli spiegai. Annuì. «Come ti senti?»
«Un po’ a corto di sangue.» Rise flebilmente, poi tornò serio e mi sfiorò la tempia sinistra con le dita, provocandomi una fitta dolorosa. «Hai bisogno di cure.»
Quando tolse la mano, capii perché mi faceva male: le sue falangi erano insanguinate.
«Anche tu. È per questo che sto andando a cercare l’infermeria.» Lo vidi spalancare gli occhi e agitarsi. «Sì, andrò da sola, non sei nelle condizioni di venire con me. Ti conosco e so che tenterai di dissuadermi, ma non è negoziabile. Tutto ciò che devi fare è restare qui e rimanere vivo.»
«È una pazzia.»
«Starò bene, vedrai,» lo rassicurai con un sorriso.
«Ti do mezz’ora di tempo. Conterò minuto per minuto, se ci metterai un secondo in più verrò a cercarti.»
Gli diedi un bacio sulla fronte. Speravo che potesse tranquillizzarlo. Entrambi sapevamo che lui una mezz’ora poteva non averla, ma non volevo pensarci.
«Cerca di resistere, ok? Torno presto.» Gli accarezzai una guancia e presi anche il suo zaino: più spazio avevo, più cose potevo prendere.
«Fai attenzione, ti prego,» si raccomandò, le iridi piene di preoccupazione.
Annuii solenne, tolsi la cintura, sollevai il legno e uscii dal nostro nuovo nascondiglio, alla ricerca dell’infermeria.
 
Il primo piano era ancora più caotico del secondo. Se l’infermeria si trovava lì – come sospettavo – sarebbe stato un problema trovarla, come lo era stato la prima volta. Mi sembrava di essere tornata alle elementari, quando all’ora di ginnastica ci facevano giocare a palla avvelenata. Solo che stavolta, se non schivavo quello che mi arrivava addosso, rischiavo di morire. Anche se ero invisibile al resto del mondo, non era facile destreggiarsi tra proiettili, esplosioni e pugni. Solo perché gli attacchi non erano diretti a me non significava che non potessero colpirmi. Tenere attivata l’Ambizione, oltre che costarmi molta fatica in quelle condizioni, era deleterio quando non avevo un avversario fisso che combattesse con me. La mia mente diventava un groviglio di pensieri altrui che non avevano né un inizio né una fine. Era tutto troppo confuso perché potessi carpire qualcosa. Dovevo affidarmi all’istinto e sperare che ciò fosse abbastanza per farmi sopravvivere.
«Cami!?» fece una voce a pochi metri da me.
Mi voltai. Rimasi sorpresa dinnanzi a ciò che vidi: il cecchino, la Gatta Ladra e una bambina in groppa a un’enorme creatura che assomigliava a un cane con il muso schiacciato. Un’altra cosa strana da aggiungere alla lista.
«Usop!» A volte la vita era beffarda. Avevo cercato i miei compagni disperatamente fino a quel momento e non ne avevo incontrato nessuno, e invece da “invisibile” venivo notata da Usop.
«Cami è qui? Come sta?» chiese Nami, guardandosi intorno. Ero contenta di rivedere delle facce familiari ed ero contenta che si preoccupassero per me.
Il cecchino fece un’alzata di sopracciglia non convinta. Se volevamo puntualizzare, nemmeno lui aveva un bell’aspetto. Supponevo che ciò che gli colava dal viso non fosse salsa di pomodoro.
La battaglia non era stata gentile neanche con la Gatta Ladra. Era piena di lividi, tagli e sangue rappreso. Faticavo a capire come facesse a combattere in una minigonna striminzita e con i tacchi, ma non erano affari miei. Io avevo la divisa dei Pirati Heart e i soliti stivali marroni, che erano l’anticristo della haute couture, ma se non altro erano comodi e proteggevano bene. Solo in quel momento notai che il moro stava utilizzando la sua Kabuto per lanciare piccole sfere bianche nelle bocche dei nemici.
«Che stai facendo? Cosa sono quelle palline bianche?» gli chiesi, affrettandomi per stare al passo del “cane”. Sorvolai su quest’ultimo, non avevo tempo da perdere.
«Sono kibi-dango! In breve, chiunque con i poteri degli Smile li mangi, dovrà obbedire a questa bambina, Tama!»
«Così possiamo portare gli avversari dalla nostra parte!» aggiunse Nami, fissando un punto di poco alla mia sinistra.
«Fratellone Usop, sorellona Nami, con chi state parlando?» volle sapere Tama. Non ascoltai la risposta che le venne data, ero troppo impegnata a collegare i puntini. Ora aveva un senso il comportamento dei sottoposti di Kaido al secondo piano. Non erano impazziti, erano solo vittime di un frutto del diavolo.
«Un vero miracolo...» mi lasciai sfuggire, ripensando a quanto il tipo di potere e il tempismo fossero stati provvidenziali.
«Tu che stai facendo quaggiù?»
«Sto cercando l’infermeria. Voi sapete dove sia?»
«Ehi, tu!» Usop richiamò un tizio con le fattezze di un ghepardo che aveva appena ingoiato un kibi-dango. «Dov’è l’infermeria?»
Quello guardò prima la bambina, come a chiederle il permesso di rispondere, e lei annuì.
«Al primo piano sotterraneo, vicino alla dispensa.»
In un’altra situazione avrei riso della stupidità mia e di Kenji. Per forza non la trovavamo, era su un piano che non ci era nemmeno passato per la mente di perlustrare. Però ero contenta di avere finalmente una destinazione precisa, così non avrei sprecato altro tempo prezioso. Il mio compagno aveva una speranza, una speranza concreta.
«Grazie. Grazie mille!» gridai al mio amico con gli occhi lucidi. Usop aveva appena salvato una vita.
«Figurati. Buona fortuna!» mi gridò di rimando, caricando la Kabuto per l’ennesima volta con le palline bianche.
«Anche a voi!»
E così le nostre strade si separarono. Ma quando voltai l’angolo per prendere le scale che mi avrebbero portato al primo piano sotterraneo, le mie ginocchia cedettero. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a rialzarmi.
“Non adesso, ti prego. Non adesso.”
Di fianco a me passò una ragazza che aveva l’aspetto di un dinosauro, gridava così tanto che all’inizio pensai fosse una gallina. Aveva l’aria di essere un pezzo grosso della ciurma di Kaido e ce l’aveva con Nami. Poi passò un ragazzo, o più precisamente uno spinosauro, con lunghi capelli viola sistemati da un lato del viso. Era più silenzioso rispetto alla compagna, ma non meno potente. Supposi che cercasse Usop. Infine, capii il motivo per cui le mie ginocchia avevano ceduto. Non era stanchezza, era... timore. Anzi, più precisamente Haki. Un Haki tanto potente che ero fortunata a non aver perso conoscenza con la schiuma alla bocca. Il mio corpo aveva captato il pericolo prima della mia mente e stava cercando di avvisarmi.
«Oh, merda.»
A una ventina di metri da me, in tutta la sua fierezza e potenza – perché di splendore non si poteva parlare – si ergeva Big Mom. Anche solo averla di fronte era terrificante. Emanava un’energia tale da impedirmi di muovermi. Era schiacciante, facevo fatica perfino a respirare. Era enorme, più grossa di quanto avessi immaginato, e il kimono, il trucco e la pettinatura da geisha contribuivano a renderla più inquietante del solito. Aveva un’espressione da pazza furiosa, e come lei il cappello sulla sua testa e il sole che si portava dietro. In quella forma sembravano innocui, ma io avevo letto la saga di Whole Cake Island e sapevo quello che erano in grado di fare.
A quanto pareva cercava Eustass Kidd. Il pensiero che non ce l’avesse con Law mi confortò. Alcuni samurai suicidi provarono ad attaccarla. Inutile dire che li respinse senza fatica, semplicemente con una manata. Lo spostamento d’aria provocato dal suo colpo quasi mi spazzò via. Non potevo restare lì, in balìa di quella vecchia psicotica. Ero ancora viva solo perché non mi poteva vedere. Mi imposi di rialzarmi e di proseguire la mia avanzata: più lontano fossi stata da lei, meglio sarebbe stato. Stavolta il mio corpo capì e collaborò. Mi rimisi in piedi e feci per muovermi, quando l’Imperatrice vide qualcosa dietro di me che la fece scattare.
«Pirati di Cappello di Paglia!» gridò, la voce acuta ma profonda. Mi voltai anche io e vidi passare di nuovo Usop, Nami e Tama in groppa al cane gigante. Big Mom ce l’aveva con loro. Erano spacciati. E lo ero anche io, se rimanevo lì. C’era solo un piccolo problema: non potevo andarmene. La capostipite dei Charlotte aveva occupato tutto il corridoio. Le era bastato allargare i piedi. In mano stringeva Napoleon, che si era trasformato in una spada, e davanti a lei c’era Prometheus, ora diventato fuoco, il cui calore mi toglieva il respiro. Voleva attaccare a piena potenza. Non potevo scappare e tornare da dove ero venuta, l’attacco era diretto lì. Non c’erano vie di fuga rapide o porte che potessi aprire per mettermi in salvo. Se le fossi passata in mezzo alle gambe sarei rimasta traumatizzata a vita, ma forse mi sarei salvata. Decisi di tentare. Non c’era altro che potessi fare, se volevo arrivare in infermeria dovevo scavalcarla – o passarle sotto – e proseguire in quella direzione. Mi mossi troppo tardi, però. Prometheus si era espanso e il corpo di Big Mom era andato in tensione, il braccio con Napoleon pronto a scagliarsi su qualunque bersaglio vi fosse dinnanzi a lei, cioè io e pochi altri samurai e Visoni. Un nodo si formò nella mia gola e mi ritrovai con le lacrime agli occhi. Tuttavia non piansi. Non perché avevo promesso a Manny che non lo avrei fatto, ma perché mi sembrava surreale. Mi sembrava surreale che la mia morte sarebbe avvenuta perché mi ero trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato e a causa delle persone che mi avevano salvato. Era davvero così che sarebbe finita? Per una stupida coincidenza? Come vittima sacrificale e invisibile al resto del mondo? Non era in questo modo che mi ero immaginata di andarmene. Non che esistesse un modo ideale per morire, ma in queste circostanze era stupido. Sminuiva ciò che ero stata in vita, ciò che avevo lottato per essere.
Big Mom ordinò a Prometheus di disporsi a raggiera. Mi feci il segno della croce. Non ero mai stata una persona religiosa, ma non volevo morire, e se mi avesse aiutato a restare in vita avrei recitato tutto il rosario e avrei anche imparato a memoria la Bibbia. Serrai le palpebre, incapace di guardare la mia fine negli occhi, e mi preparai al peggio.
Aspettai qualche secondo. Non successe niente. Almeno non era stato doloroso.
«Tama!» esclamò sorpresa l’Imperatrice.
Riaprii gli occhi. Big Mom non sembrava più avere l’intenzione di attaccare a pieno arsenale. Prometheus era tornato ad essere un sole e Napoleon ad essere un cappello. Se era come sospettavo, quella bambina mi aveva appena salvato per la seconda volta. Se fossimo sopravvissute, le avrei offerto un gelato o qualsiasi altra cosa avesse voluto mangiare. Sperai solo che Big Mom non ce l’avesse anche con lei.
LinLin avanzò con i due homies al seguito e io potei solo schiacciarmi contro il muro per evitare che mi travolgessero. I suoi passi facevano tremare il pavimento. Poco dopo i tre sparirono per il corridoio perpendicolare al mio, all’inseguimento di Nami e Usop. Tirai il più lungo sospiro di sollievo della mia vita e permisi ai miei muscoli di rilassarsi. Avrei voluto stendermi sul pavimento e rimanere lì per sempre, ma Kenji aveva bisogno di me e il tempo stringeva. Inoltre avevo la sensazione che se mi fossi rilassata non sarei più riuscita a rialzarmi. Mi feci coraggio – di nuovo – e proseguii la mia avanzata verso l’infermeria.
 
Rispetto ai piani superiori, il primo piano sotterraneo era più tranquillo. Non era una passeggiata attraversare i corridoi, c’era qualcuno che combatteva e qualche proiettile vagante, ma non c’era il rischio di incontrare uno come Almaz, o altri pezzi grossi. I più forti non se ne stavano relegati nei sotterranei, erano in prima linea a scontrarsi con gente potente come loro. Questo e il fatto che nessuno potesse vedermi mi rendevano più tranquilla. Quello che mi faceva agitare era che non riuscivo a trovare l’infermeria. Ero arrivata a quel piano perché per una volta in vita mia sapevo esattamente dove andare, ma c’erano tante porte da aprire e il tempo stringeva. Non conoscere le condizioni di Kenji non aiutava a calmare i miei nervi già poco saldi. Avevo controllato varie stanze, e nessuna sembrava essere quella che cercavo.
Mi fermai e ripensai alle parole del tizio-ghepardo. L’infermeria era vicino alla dispensa. Non era molto, ma era pur sempre un indizio in più. Ricominciai a cercare. Cercai e cercai per cinque minuti buoni, finché... Mi misi a ridere. L’avevo trovata. La dispensa, perlomeno. Una grande insegna ne indicava l’ingresso, delimitato da due grosse porte a vento rosse. C’erano tre stanze adiacenti, due ai lati e una di fronte, perciò l’infermeria non poteva che essere una di esse. Non c’era nessun cartello che la indicasse, ma da sotto la porta alla destra della dispensa proveniva una luce. La aprii. Ed eccola lì. Quando la vidi dovetti aggrapparmi alla maniglia per non cadere un ginocchio. Non era niente di speciale, ma mi sembrava di aver trovato il Paradiso. L’oasi in mezzo al deserto. Era più grande dell’infermeria del Polar Tang, ma meno accogliente e, se possibile, ancora più impersonale. Alla mia sinistra vi era una schiera di letti, alcuni occupati da nemici feriti; alla mia destra numerosi scaffali riempiti con un’ampia varietà di medicinali e strumenti medici. C’era tutto ciò che mi serviva. Per un attimo pensai che fosse un miraggio. Avevo passato ore a cercare quella stanza, a desiderarne il contenuto, chi poteva dirmi che non fosse un’illusione creata dalla mia mente disperata? Avanzai di qualche passo. L’odore familiare del disinfettante mi invase le narici. Poi sentii il rumore dei monitor elettronici e mi rilassai. No, non era una miraggio, era tutto reale. Era come se fossi tornata nel mio habitat naturale. Il mio posto non era sul campo di battaglia, era lì, tra garze e antibiotici. Una parte di me avrebbe voluto restare in quel luogo per sempre e curare i feriti, senza fare distinzioni tra fazioni, tra amici e nemici. Ma non potevo. C’era una persona da cui dovevo tornare, che aveva più bisogno di me di tutti quelli che giacevano nei letti.
Mi affrettai a controllare gli scaffali. Tra lo “scherzetto” di Big Mom e le difficoltà che avevo avuto nel localizzare la stanza, ad occhio e croce dovevano già essere passati una ventina di minuti. Non ero sicura che Kenji ne avesse altri venti. Misi negli zaini tutto quello che mi serviva e che avrebbe potuto servirmi. Non entrava tutto quello che avevo in mente di prendere, ma riuscii comunque a sgraffignare parecchie cose: un kit da sutura, tre diversi tipi di antibiotici, garze – tante garze – e degli unguenti per trattare le contusioni. Per raggiungere gli antidolorifici dovevo arrampicarmi, e lo sforzo che compii per farlo mi ricordò che anche io avevo delle ferite da curare, possibilmente in fretta, perché il dolore stava diventando insopportabile.
Stavo per raggiungere i tanti agognati flaconi, quando notai un colibrì con un occhio disegnato su un foglio di carta che gli copriva il viso posato sul bordo di una mensola. Mi chiesi a che cosa servisse, ma lo ignorai.
«A... A tutti gli amici che hanno mangiato i kibi-dango!» Una voce uscì all’improvviso dall’uccellino e riecheggiò per l’infermeria. Il suono mi spaventò e per poco non mi fece cadere dagli scaffali. Capii che quegli animaletti erano gli occhi e le orecchie dei nemici, nonché il loro modo di comunicare. «Vi prego, adesso dovete tutti combattere per fratellone Rufy e Momonosuke-kun! Sconfiggiamo Kaido tutti insieme!»
Era la voce di Tama. Ce l’aveva fatta. Se erano arrivate a tutti, le sue parole avrebbero potuto cambiare le sorti della battaglia. Sorrisi. Le cose si stavano mettendo bene per noi.
Scesi, ingoiai un paio di pasticche e infilai gli antidolorifici nello zaino. Per fortuna la mia sofferenza si affievolì poco dopo.
Sarei stata pronta a tornare dal mio amico se un congelatore non avesse attirato la mia attenzione. Assomigliava ai contenitori che utilizzavano i bar per conservare i gelati. Mi avvicinai e lo aprii, attenta a non farmi scoprire dai medici che si aggiravano per le corsie. Al suo interno vi erano pacchi di ghiaccio e... sacche di sangue. Sbuffai una risata sollevata.
«Porca troia!» Ora capivo come si sentivano quelli che vincevano alla lotteria. Con quelle Kenji era praticamente già salvo. Sarebbe tornato in una forma decente nelle ore successive. Cercai quelle del suo gruppo sanguigno e, quando le trovai, dovetti fare una scelta. Ne presi tre e rinunciai a un rotolo di garza. Potevo solo sperare che la mia decisione non sarebbe costata la vita a qualcun altro.
Uscii dall’infermeria e decisi di fermarmi un’ultima volta prima di tornare dal rosso. Entrai nella dispensa e andai alla ricerca di un paio di bottiglie d’acqua. Gli zaini erano saturi: avrei dovuto tenerle in mano e sperare che non ci fosse stato bisogno di ricorrere alle armi. Il magazzino era enorme ed era pieno di alcolici. Non era una sorpresa. C’erano anche diverse bottiglie di vino, e dovetti resistere alla tentazione di rubarle o di scolarmele sul posto. Non mi sembrava una scelta saggia. Alla fine trovai quello che stavo cercando e mi rimisi a correre verso il terzo piano. Il tempo stringeva.
La risalita fu rapida e andò meglio rispetto all’andata. Ci fu un’esplosione a pochi metri da me che mi fece perdere l’equilibrio e cadere, ma a parte questo, seppur con qualche livido in più, riuscii ad arrivare alla botola che avevo creato. Quando la aprii e mi infilai nel controsoffitto, però, ciò che vidi mi fece perdere un paio di battiti. Kenji era steso a terra, sotto di lui una pozza di sangue, il bianco della sua divisa si era tinto di rosso. Aveva gli occhi chiusi e il torace fermo. Non respirava. Lì vicino, come avvoltoi pronti a nutrirsi della carne del nemico, c’erano due sottoposti di Kaido che osservavano il mio compagno. Uno rise e gli diede un calcio nel costato.
«Non sprecare energie con questo qui. È già morto, non vedi?» lo ammonì l’altro, rinfoderando la sua spada. Poi anche lui si mise a ridere.
«No...» Iniziai ad ansimare, ogni respiro era doloroso. Andai in confusione. Le bottiglie d’acqua mi caddero dalle mani, la testa cominciò a girare. Non riuscivo a pensare a niente. Nelle mie orecchie risuonava un tinnito assordante. I miei occhi andavano a fuoco. La mia gola, il mio petto, andava tutto a fuoco. Bruciavo di rabbia. Non sapevo se verso di me o verso di loro, ma ero furiosa. Lo avevano ucciso. Come era possibile che lo avessero trovato? Lì avrebbe dovuto essere al sicuro. Invece era morto. Perché era morto?
Prima di perdere la ragione notai a pochi passi da loro una specie di biscia con lo stesso disegno del colibrì. E capii tutto. Come avevo fatto a non arrivarci prima? Come avevo potuto essere così negligente?
Percepii il mio ultimo granello di sanità mentale scivolare in un abisso profondo, e persi la testa.
   
 
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