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Autore: Violet Sparks    11/06/2023    7 recensioni
Ushijima Wakatoshi pensa di sapere tutto.
Pensa che la sua vita sia una strada dritta, precisa, incontrovertibile. Un percorso duro, forse, ma perfettamente definito, un segmento geometrico con un punto di partenza e un'unica meta, da tenere sempre a mente.
Ma Ushijima Wakatoshi ha dimenticato che, sopra alla strada, esiste il cielo, con un sole bollente che brucia e illumina e non vuole essere ignorato.
La domanda è: lui sarà pronto ad alzare lo sguardo?
***********************************************************************
Una notte come tante, dopo la sorprendente sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi incontra Hinata Shoyo in circostante bizzarre ed è costretto a trascorrere con lui la notte più assurda della sua vita.
Wakatoshi prova una ostilità viscerale nei confronti del piccolo corvo e non vede l'ora di dividere nuovamente le loro strade.
Peccato però, che il mocciosetto non sia del suo stesso avviso.
E stia per stravolgere completamente la sua vita.
[USHIHINA - Ushijima Wakatoshi x Hinata Shoyo]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tendo Satori, Wakatoshi Ushijima
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO XXIV
Quando chiama il sangue
 
 
I sistemi pressurizzati hanno bisogno di una valvola di sfogo,
ci deve essere un modo per ridurre la tensione, lo stress,
prima che diventi impossibile da sopportare.
Dobbiamo trovare un modo per avere sollievo,
perché se la pressione non trova una via di uscita…
beh, esploderà.
La pressione non scende mai.
Mai.
La pressione aumenta... aumenta…
Aumenta.
- Grey’s Anatomy
 
 
Wakatoshi ruotò il capo lentamente, alzò e abbassò le spalle più volte, aiutandosi con una mano per manovrare le articolazioni con la dovuta cautela, dopodiché si sedette a terra per cominciare il riscaldamento pure nella parte inferiore del corpo.
Nello stesso istante in cui allungò la gamba sul lucido pavimento della palestra, Hinata gli passò davanti, spingendo una cesta di palloni grande quasi quanto lui.
“C-ciao, Wakatoshi!” esclamò, con una voce almeno tre ottave più alta del normale.
Wakatoshi gli rivolse un breve cenno di saluto, prima di tornare a fissare i muscoli in tensione della propria coscia neanche se nascondessero una qualche operazione matematica da risolvere.
Erano passati tre giorni da quella mattina.
La mattina in cui aveva baciato Hinata Shoyo.
Non riusciva nemmeno a formulare quel pensiero senza sentire le ossa schizzargli fuori dalla sua stessa pelle.
A stento si erano rivolti la parola, da allora e ogni loro interazione era stata del medesimo tenore di quella appena avvenuta: assolutamente imbarazzante.
Hinata evitava di guardarlo negli occhi, farfugliava frasi sconnesse e si portava addosso talmente tanta agitazione che in casa era un disastro, Wakatoshi sudava freddo ogni volta che lo vedeva avvicinarsi ai fornelli – o peggio ancora, ai coltelli! Certo, lui non stava avendo un atteggiamento più maturo del suo. Andava in allarme non appena avvertiva i suoi passi nel corridoio, cercava di rimanere fuori casa più tempo possibile e quando rientrava, inventava qualsiasi scusa plausibile pur di ridurre i loro incontri al minimo; solo il giorno precedente aveva mangiato la sua cena così in fretta, che per poco non aveva finito per vomitarla, non appena si alzato da tavola.
Sembravano tornati ai primissimi giorni di convivenza.
Anzi no, era tutto decisamente più strano e spiacevole.
Almeno, all’epoca Wakatoshi riusciva a dormire.
E a concentrarsi su qualcosa che non fosse il corpo caldo di Hinata Shoyo premuto contro il proprio, il suo sapore dolce fermo sulla lingua…
Dannazione.
Approfittando della posiziona prona, il capitano nascose il viso in mezzo alla piega del gomito, per poi esalare un lento e profondo sospiro di sconforto.
Non avrebbe mai dovuto baciare Hinata.
Non aveva alcun senso ciò che aveva fatto.
Era stato un gesto sconsiderato, avventato, impulsivo.
Un attimo di debolezza.
Non era lucido in quel momento, non stava ragionando.
Altrimenti, cosa mai avrebbe potuto spingerlo a compiere un’azione tanto folle come unire le proprie labbra a quelle del ragazzino, e poi stringerlo, e poi toccarlo, e poi bere il suo respiro come se il mondo avesse dovuto finire da lì a pochi istanti.
Forse era stato il sangue, convenne.
Lo stesso, maledetto sangue che non smetteva di bruciargli nelle vene da quando aveva lasciato quel letto, dopo che Hinata si era riaddormentato – colpevole e furtivo neanche fosse stato un ladro - e che adesso sfrigolava, pungendo sottopelle, ogni qualvolta il piccolo corvo inavvertitamente accorciava le loro distanze.
Si alzò in piedi massaggiandosi le tempie, quindi trascinò indietro i capelli, nel vano tentativo di catturare qualche grammo di ossigeno in più e riconquistare un ritmo cardiaco regolare.
Il vociare del pubblico che prendeva posto sugli spalti, non faceva che aumentare l’irrequietezza che gli stava annebbiando la mente, ma si costrinse a ritrovare la dovuta lucidità: non poteva - e non voleva! - rimanere ancora in quello stato. Già le sue performance durante gli allenamenti con la nazionale erano state pessime, sarebbe stato riprovevole fare lo stesso sul campo della Shiratorizawa, dove oltretutto era chiamato a guidare la propria squadra in qualità di capitano.
Al fine di distrarsi, indugiò sul volto dei suoi compagni, intenti come lui a portare a termine il riscaldamento, accanto alla panchina.
Questo genere di match era davvero importante per loro; d’altronde, dopo la sconfitta agli inter-liceali di primavera si trattava delle uniche, nonché ultime occasioni che avevano per giocare insieme, indossando la maglia bianca e amaranto della Shiratorizawa.
Notò che sembravano parecchio concentrati.
Forse... troppo concentrati?
Nessuno dei ragazzi stava proferendo parola, cosa alquanto bizzarra dato che di solito chiacchieravano molto per stemperare l’adrenalina del prepartita; i loro sguardi apparivano sfuggenti, alcuni persino crucciati, mentre i loro movimenti trasmettevano una tensione latente, al punto da risultare scattosi, meccanici come quelli di un mucchio di burattini.
C’era una strana atmosfera nell’aria.
In realtà, Wakatoshi lo aveva percepito fin dagli spogliatoi, dove i ragazzi si erano presentati uno dopo l’altro, snocciolando un saluto a mezza voce per poi chiudersi nel religioso silenzio in cui vertevano ancora adesso, ma ne aveva attribuito la causa alla naturale ansia da prestazione, ora stava seriamente cominciando a preoccuparsi.
Quando alla fine vide Shirabu – il quieto e imperturbabile Shirabu- posare la borraccia sulla panca con un gesto tanto inconsulto da rovesciare anche metà delle altre bottigliette lì in fila, capì che i suoi sospetti erano fondati.
“C’è qualche problema?” si decise quindi chiedere, attirando l’attenzione del gruppetto.
Al suono della sua domanda, i ragazzi quasi trasalirono, dopodiché si scambiarono un’occhiata silenziosa e prolungata, la quale contribuì a mettere ancora più in allarme i sensi del giovane asso, tuttavia, “Nessuno, capitano, ci prepariamo soltanto ad affrontare il match.” fu l’unica risposta che ottenne da Reon, accompagnata da un flebile sorriso di circostanza.
“Non è vero.” insistette Wakatoshi “Non vi ho mai visto così nervosi, nemmeno durante le partite del torneo nazionale. Qualora ci fossero dei problemi, vi pregherei di mettermene al corrente. Sono il vostro capitano, devo sapere se c’è qualcosa che può influire sulle vostre prestazioni in campo.”
La scena si ripeté uguale e identica: i ragazzi della Shiratorizawa si limitarono a guardarsi l’un l’altro senza dire nulla, dondolandosi sul posto in uno stato di agitazione sempre più evidente.
Fu Tendou, seduto sulla panchina dietro le loro spalle, a prendere la parola.
“È che non ci piace giocare contro la Tomagawa. Ogni anno è un supplizio per noi avere a che fare con i ragazzi di quella squadra.” spiegò, con un sospiro.
Wakatoshi aggrottò la fronte, volgendo istintivamente gli occhi verso gli avversari che intanto schiamazzavano, rilassati, dall’altra parte della palestra.
La Tomagawa era una università privata di Osaka, gemellata con l’accademia Shiratorizawa da tempo immemore: i fondatori dei due poli di istruzione erano fratelli, per cui erano numerosi gli eventi che vedevano coinvolti i rispettivi studenti, in particolare le trimestrali partite di beneficenza di pallavolo, volte a raccogliere fondi per borse di studio e altre agevolazioni economiche da indirizzare agli studenti meno facoltosi.
In linea di massima, a Wakatoshi non dispiaceva disputare quelle partite. Da un punto di vista strettamente sportivo, scontrarsi con ragazzi più grandi, con più esperienza e fisici più robusti, costituiva sicuramente un’occasione di arricchimento, tuttavia comprendeva lo stato d’animo dei suoi compagni di squadra: non aveva avuto chissà quante interazioni coi ragazzi della Tomagawa, ma gli erano sempre parsi alquanto spocchiosi, per non dire proprio maleducati
“Mi rendo conto che gli studenti della Tomagawa possano risultare un po' arroganti.” asserì dunque, cercando di non risultare troppo severo “Ma questa partita rappresenta una tradizione importante per la nostra accademia, dobbiamo dare il massimo e… ho detto qualcosa di sbagliato?” domandò perplesso, innanzi all’inaspettata reazione degli altri: non aveva nemmeno finito di parlare che i volti dei ragazzi si erano rabbuiati visibilmente, ad alcuni di loro erano venuti perfino gli occhi lucidi, come fossero stati sul punto di piangere.
Non li aveva mai visti in quelle condizioni.
Ma che stava succedendo?
“Wakatoshi è con te che loro sono soltanto un po' arroganti…” intervenne Reon, con aria mesta “Perché tu sei forte e influente, se si comportassero male, attirerebbero troppo l’attenzione. Con noi, invece, sono assolutamente tremendi!”
“Che intendi dire?”
“Che si comportano di merda, capitano!” proruppe Yamagata, arrabbiato.
“È vero, sono aggressivi sia fisicamente che verbalmente!” aggiunse subito Kawanishi.
“Quando siamo sotto rette è uno strazio! Ci minacciano, ci insultano o ci deridono in modo pesantissimo!” raccontò Goshiki con la voce rotta.
“Già, l’anno scorso c’era la mia fidanza a fare il tifo sugli spalti… hanno detto certe cose su di lei che non riesco neanche a ripetere! Non l’ho mai più invitata a vedere una nostra partita… mai!”
“E spesso passano direttamente alle mani! Ci trattengono per la divisa, ci fanno gli sgambetti, a volte volano addirittura calci e pugni!”
“Due anni fa, li ho incontrati in bagno subito dopo la partita: mi hanno sbattuto la testa contro il lavandino, dopodiché mi hanno chiuso dentro ad uno dei cubicoli, bloccando la porta!”
“Quando so di dover giocare contro di loro, non dormo per una settimana… È semplicemente orribile...”
Wakatoshi ci mise diversi secondi a processare ciò che era appena uscito dalle bocche dei suoi compagni di squadra. Si sentiva come se si fosse svegliato nel bel mezzo di una scena del crimine. Quanto raccontato dai ragazzi era sconcertante, fuori da ogni realtà, eppure il capitano non pensò nemmeno per un istante che stessero mentendo o esagerando: le loro espressioni affrante, terrorizzate, parlavano da sole.
“Perché non avete mai segnalato niente di tutto questo all’arbitro?” chiese, frastornato.
Tendou schioccò la lingua, carico di amarezza, “Intendi l’arbitro che da tradizione viene dalla loro università? Lui fa finta di non vedere, ovviamente! Anzi, se proviamo a dire qualcosa, poi cerca di sabotarci, chiamando dei falli inesistenti!”
“E i guardialinee, allora? Loro sono della nostra scuola, non possono essere di parte.” constatò Wakatoshi; all’improvviso, un ricordo gli attraversò la mente “Eita, tu hai fatto una cosa del genere l’anno scorso, me lo ricordo. Hai detto al guardialinee che la loro ala sinistra ti aveva trattenuto per la maglietta, infatti è stato espulso, non è vero?”
La figura di Eita Semi venne attraversata da un brivido così intenso che Reon, in piedi di fianco a lui, si affrettò a stringergli le braccia intorno alle spalle, quasi che quello potesse accasciarsi al suolo da un momento all’altro. Il giovane alzatore strinse i pugni, emise un sospiro di autentica frustrazione, quindi abbassò lentamente la testa, gesto che, tuttavia, non celò l’espressione ferita che gli adombrava il volto.
“Sì, ti ricordi bene, capitano.” disse, cacciando ogni sillaba dalla bocca a fatica “E ti ricordi anche che cosa è successo il giorno dopo?”
“Il giorno dopo?” a Wakatoshi servì qualche secondo per fare mente locale e capire a cosa si stesse riferendo Eita, poi “Ah, sì, giusto… hai fatto quell’incidente in biciclett-“
Sgranò gli occhi, mentre la verità si delineava nella sua testa.
Non poteva essere vero.
“Mi hanno aspettato fuori dal parcheggio in quattro. Mi hanno pestato a sangue, è stato spaventoso. Ho avuto gli incubi per settimane.” gemette Eita, lasciando che una lacrima sola solcasse il suo viso cementato dietro ad una maschera tremolante di strenuo orgoglio.  
“È per questo che non abbiamo mai detto niente nemmeno ai senpai o all’allenatore…” aggiunse Tendou, prendendo sottobraccio il compagno ancora molto scosso “Se sanno che abbiamo fatto la spia, è la fine!”
“Quei tizi sono davvero pericolosi!” sospirò Shirabu “Li detesto!”
Allibito, Wakatoshi ruotò di nuovo il capo verso la panchina avversaria, esaminando uno ad uno i membri della Tomagawa, questa volta attraverso la lente di rancore e paura appena costruita dai ragazzi della sua squadra.
Metabolizzare tutto era semplicemente impossibile.
La Tomagawa non gli aveva mai fatto una buona impressione, certo, ma mai avrebbe potuto immaginare che quelle persone potessero avere un comportamento così disonesto e violento nei confronti degli avversari; sulla carta, oltretutto, si trattava di ragazzi per bene, provenienti da famiglie altolocate di Osaka.
Un pensiero fra tutti però, lo rattristò ancora di più.
“Perché non ne avete mai parlato con me?” chiese, riportando la propria attenzione sui compagni della Shiratorizawa.
Si sentì un vigliacco.
La domanda che avrebbe voluto fare loro era diversa – e molto, molto più difficile da formulare: perché non mi sono mai accorto di nulla?
Ci fu un secondo di silenzio, in cui i ragazzi si ritrassero, abbassando lo sguardo.
“Perché tu sei tu, Wakatoshi.” affermò Reon, rivolgendogli un sorriso gentile “La pallavolo è il tuo chiodo fisso, il tuo intero universo. Pensi solo a giocare, lo sappiamo. E va bene così.”
“Io sono il vostro capitano. Il mio compito è guidarvi e… difendervi, in questo caso.”
“E lo fai!” proruppero i ragazzi, in coro.
“Nessuno lo fa meglio di te… in campo! Sei il nostro cannone d’attacco! La nostra invincibile arma di distruzione di massa!” aggiunse Goshiki, con la voce piena di una ammirazione che, per la prima volta, Wakatoshi non pensava affatto di meritare.
“Dovrei essere più di questo…”
“A noi basta che tu li metta a tacere con le tue schiacciate killer durante la partita! È una soddisfazione impareggiabile vederli crollare, davvero!” fece Yamagata.
“Già! Non puoi capire quanto sia bello sapere che qualunque angheria verrà ripagata dalla loro disfatta!”
“È vero, fuori dal campo ce la vediamo da soli! Possiamo farcela…”
Wakatoshi aggrottò la fronte, “Ma io non voglio che voi subiate tutto questo, è disumano! Se solt-”
“Wakatoshi…” lo interruppe all’improvviso Tendou, scrollandolo per il gomito.
“Aspetta, Tendou, voglio dire questa cosa.”
“Wakatoshi, ascolta un attimo…”
“Aspetta, devo chiarire ch-”
“Wakatoshi!”
“Tendou, che succede?”
L’esasperazione dell’asso si spense, sostituendosi all’angoscia, nell’esatto istante in cui il suo sguardo incontrò quello serio e cupo di Satori Tendou. “Wakatoshi, vai immediatamente a prendere Hinata!” gli intimò infatti l’amico, muovendo un cenno verso la panchina avversaria.
Il suo stomaco fece una capriola.
Hinata era attorniato dai membri della Tomagawa, i quali stavano evidentemente prendendosi gioco di lui, lanciandogli occhiate e sorrisetti di scherno, ma soprattutto rubandogli le felpe della Shiratorizawa che il ragazzino stava portando tra le braccia, giocando a rotearle sopra le loro teste o a passarsele dall’alto, dove lui non era in grado di recuperarle.
Wakatoshi si accorse di stare marciando nella loro direzione, quando ormai era già arrivato a metà del campo.
Non avrebbe saputo dire cosa lo avesse fatto scattare con quella prontezza, se i tremendi racconti dei suoi compagni o gli occhi lucidi e frustati di Hinata.
Oppure il modo vile, inopportuno e deplorevole con cui quei vigliacchi continuavano insistentemente a toccarlo.
“Lasciatelo stare. Adesso.” proruppe una volta giunto a destinazione, piombando in mezzo al gruppetto e strappando loro dalle mani le felpe rubate.
In una situazione diversa, si sarebbe limitato a rimproverare i suoi avversari, cercando di istaurare un dialogo che permettesse a entrambe le parti in causa di esternare le proprie ragioni, ma non in quel caso, non dopo tutti i soprusi che la sua squadra aveva sopportato in silenzio, non quando gli uomini che aveva davanti lo guardavano con l’arroganza tipica di chi credeva di poter fare tutto ciò che gli aggradava a discapito del prossimo, senza avere conseguenze.
E infatti, mentre qualcuno della Tomagawa era retrocesso, intimorito dalla sua incursione, Fujita Shuntaro, centrale, Nishimura Kyuma, opposto e soprattutto Nicholay Ivanov, il loro capitano, avevano assunto un’espressione scanzonata, intimidatoria, piantandosi davanti a Hinata in modo da impedirgli di raggiungerlo.
“Ushiwaka, che piacere vederti! A cosa dobbiamo l’onore e il piacere della tua presenza?” proruppe Nicholay l’ironia nella sua voce marcata dal forte accento bulgaro. Si trattava di un ragazzo alto e magro, dai tratti evidentemente europei, coi lineamenti squadrati, la pelle chiarissima e gli occhi, i capelli e la barba di un nero pece. Era figlio di ambasciatori, per questo frequentava una scuola di Osaka; non aveva chissà quale talento per la pallavolo, ma la precisione delle sue schiacciate oggettivamente era invidiabile.
“Hinata sta con noi, non mi piace che lo prendiate in giro. Non mi piace niente di quello che fate contro i miei compagni, in realtà.” disse Wakatoshi, serissimo.
Nicholay Ivanov strinse gli occhi in un’espressione maligna; Fujita Shuntaro, invece, “Questo piccoletto sta con voi? Davvero? Non è troppo fragilino per i vostri canoni?” cinguettò, ignorando le sue accuse e passando un braccio intorno al collo di un Hinata ormai spaventato a morte, come un uccellino braccato.
“Japan…” mormorò invero quest’ultimo, rivolgendogli uno sguardo che era un silenzioso grido di aiuto.
A quel punto, Wakatoshi avvertì qualcosa di indefinibile montargli dentro, un’ondata acida, bruciante e corrosiva che irrigidì ogni fibra del suo corpo e spinse il suo cuore ad un ritmo vertiginoso, incontrollabile, febbrile.
“Sì, ci dà una mano anche se non è della nostra scuola.” rispose sbrigativo, dopodiché si mosse in avanti, scansando bruscamente Fujita col fine di recuperare Hinata.
Prima che riuscisse ad arrivare a lui, tuttavia, Nicholay lo tirò a sedere sopra le proprie ginocchia, sulla panchina della Tomagawa.
“Che dici, Ushiwaka, Hinata può darla anche a noi una mano?” sibilò quello, mellifluo, accanto al padiglione auricolare del ragazzino, il quale prese subito a divincolarsi e a protestare.
“Non lo toccare.” intimò Wakatoshi, e non riconobbe la sua stessa voce.
Non si era mai sentito così.
Era furibondo.
“Quanto interessamento per un piccolo raccattapalle.” insinuò Nicholay con un sorrisetto, poi, fissandolo dritto negli occhi, circondò il ragazzino con un braccio, in modo tale da bloccare i suoi movimenti, mentre dall’altra parte, strinse le dita sul suo interno coscia, sotto i pantaloncini della tuta, cominciando lentamente a risalire “Deve essere proprio bravo con le mani, allora…”
Wakatoshi scattò.
Afferrò con forza il polso di Nicholay, arrestando il suo tragitto sulla gamba di Hinata e “Ho detto che non lo devi toccare.” ordinò a denti stretti, ogni sillaba impregnata di livore.
Ivanov pareva non stesse aspettando altro.
Quasi buttando Hinata per l’aria, si alzò dalla panchina, fronteggiando Wakatoshi faccia a faccia, allora agguantò a sua volta il polso del capitano della Shiratorizawa per distorcerlo con deliberata violenza, provocandogli un sibilo di dolore.
“Ushiwaka…” disse minaccioso, a pochi millimetri dal suo viso “tu mi stai simpatico, sul serio. Ma se non te ne rimani zitto e buono al tuo posto, come hai fatto fino ad ora, te ne pentirai.”
“Io sono dove devo stare, Ivanov. E tu hai smesso di dare fastidio ai miei compagni.”
“E chi mi fermerà? Tu?”
“Sì, esatto.”
“Che c’è? Una scopata col raccattapalle e magicamente hai smesso di fare l’autistico del cazzo?”
“Sei soltanto un vigliacco.”
Wakatoshi fu grato quando il fischio dell’arbitro arrivò a decretare l’inizio del gioco e, inconsapevolmente, la fine del loro scontro, visto che il capitano della Tomagawa pensò bene di lasciare subito la presa sul suo braccio di fronte agli allenatori che entravano in palestra.
Wakatoshi non aveva paura di Nicholay Ivanov.
Nel corso della sua carriera, aveva già avuto a che fare con personaggi subdoli e arroganti come lui, giocatori che lo prendevano di mira col puro intento di umiliarlo, tentando di spodestarlo dall’olimpo della pallavolo che lui presiedeva. Di solito però, le prepotenze si concentravano esclusivamente su di lui, entro i confini del campo. Nessuno aveva mai messo in pericolo le persone che aveva intorno, nessuno aveva mai fatto del male a coloro a cui – Wakatoshi ammise a se stesso – in qualche modo teneva, e la rabbia che questo gli generava dentro, era un’emozione del tutto nuova, aggressiva e potente, simile a una gittata di lava liquida su cui non era certo di riuscire ad esercitare alcuna forma di controllo.
“Andiamo, Hinata.” disse dunque il giovane capitano e così, sebbene con qualche remora, diede le spalle ai ragazzi della Tomagawa, incamminandosi verso la panchina della Shiratorizawa.
“G-grazie, Japan…” pigolò Hinata, al suo fianco, le felpe recuperate strette al petto come una specie di scudo protettivo.
“Ti hanno fatto del male?”
“No, sto bene, tranquillo! Cavolo, quei tizi sono davvero spaventosi… io me la farei sotto a giocare contro di loro!”
“Sono soltanto dei codardi, in campo avranno quello che si meritano.”
“Japan, stai bene? Non ti ho mai visto così arrabbiato, avevi det-“
La frase di Hinata venne spezzata da un colpo sordo, seguito dal grido di dolore del ragazzino che si piegava su se stesso e dal suono del pallone che rimbalzava sul pavimento.
“Hinata? Che è successo? Cos’è stato?” chiese subito Wakatoshi, accovacciandosi vicino al più piccolo, il quale si teneva il retro del collo, gemendo forte.
Anche il pubblico sugli spalti prese ad agitarsi.
“Wakatoshi, sono stati loro!” esclamò Yamagata, mentre accorreva vicino a lui e a Hinata insieme ad altri della Shiratorizawa “Gli hanno schiacciato una pallonata addosso! L’ho visto!”
“Sì, sono stati quelli della Tomagawa, li ho visti anche io!”
“Lo hanno fatto apposta, quei bastardi!”
“L’impatto è stato fortissimo! La distanza era così ravvicinata…”
“Bisogna portarlo subito in infermeria! Deve fare malissimo!”
“Ops! Ma che spiacevole inconveniente, il piccolo raccattapalle si è fatto male, per caso?”
Nonostante il caos generale, la voce sarcastica di Ivanov arrivò a Wakatoshi forte e nitida, come se fossero stati da soli, immersi nel silenzio.
A quel punto, il giovane asso si raddrizzò con una lentezza irreale, ruotò il capo di traverso e fissò i propri occhi in quelli bui dell’altro capitano, non prima però di aver gettato uno sguardo sfuggente alle proprie mani: stava tremando.
“Lo hai quasi preso alla testa, potevi provocargli una commozione cerebrale.” affermò, ma gli sembrò di non essere lui a parlare, il suo stesso corpo era un’entità estranea, tutto ciò che riusciva a sentire era rabbia.
Rabbia.
Rabbia!
“Sono costernato, è stato un incidente!” rispose Ivanov, scimmiottando un’espressione di teatrale innocenza.
“No, lo hai fatto di proposito.”
“Di proposito?!” sollevò le braccia in aria in segno di resa, tintinnò le dita “Non so proprio di cosa stai parlando…”
Fu il coach Washijo, avvicinatosi al gruppetto per sincerarsi delle condizioni di Hinata, ad interrompere per la seconda volta quella guerra fredda.
Hinata venne portato in infermeria da una riserva.
I ragazzi della Shiratorizawa tornarono alla panchina, preparandosi ad entrare in campo, ancor più carichi di angoscia dopo l’aggressione al povero studente del Karasuno.
Wakatoshi, in stato di trance, rimase ad osservare le proprie mani, in silenzio.
Si vergognò quando ammise a se stesso che, se l’allenatore non fosse intervenuto in tempo, adesso probabilmente sarebbero state sporche di sangue.

 
*****

 
Wakatoshi non si considerava perfetto.
Era questa la prima regola per diventare un campione, glielo aveva insegnato suo padre.
C’era sempre qualcosa di nuovo da imparare.
C’era sempre qualcosa da potere migliore.
C’era sempre quello o quell’altro dettaglio da dover correggere.
E sì, la pallavolo era il suo intero universo, i suoi compagni di squadra avevano ragione sul punto.
Tutta la sua vita era incardinata intorno a ciò che era necessario per diventare il migliore su quel campo, e quando ne varcava il perimetro, per lui non esisteva nient’altro che non fosse la consistenza rassicurante del cuoio sotto le dita, la trama morbida della rete, il numero di passi necessari prima di un salto.
Era sempre stato così, fin dal primo bagher, fin dalla prima battuta.
Forse per questo non si era mai domandato se, alla fine, quell’isolamento volontario fosse giusto o sbaglio.
Se lo stava chiedendo adesso, però, per la prima volta nella sua carriera d’atleta.
E la risposta non gli stava piacendo affatto.
Come aveva fatto a non accorgersi di quello che succedeva durante le partite contro la Tomagawa? Come aveva fatto a non vedere la difficoltà dei suoi compagni? Come aveva fatto ad ignorare i soprusi di cui erano vittime, quando questi erano così gravi, così frequenti, così lampanti?
Insulti a mezza voce, sgambetti, trattenute, risate, intimidazioni.
Wakatoshi era nauseato.
Tanto da quei codardi che sapevano vincere soltanto attraverso la violenza, quanto da sé stesso per aver tenuto troppo a lungo gli occhi chiusi…
“Non è solo una questione fisica.” gli diceva suo padre, tra un passaggio e l’altro “L’asso non è soltanto colui che fa più punti durante una partita. È il condottiero che guida in battaglia i suoi soldati. È il generale a cui i compagni affidano i propri sogni di gloria, dietro la ferma convinzione che lui saprà proteggerli e realizzarli.”
Serrò i pugni lungo i fianchi.
Mai come in quel momento gli sembrava di non essere degno di portare il titolo di asso.
“Goshiki, che ti hanno detto quei bastardi? Sei stravolto!” proruppe all’improvviso Kawanishi, alla sua sinistra; in effetti, la loro matricola aveva il capo chino e si stava mordendo le labbra nel vano intento di trattenere il pianto. Wakatoshi aggrottò la fronte. Era in seconda linea, ma aveva visto benissimo Nishimura Kyuma parlare al ragazzo con aria provocatoria e, sebbene non fosse riuscito a intendere la conversazione completa, ne aveva sicuramente afferrato la frase di chiusura: ti spacco la faccia.
“Ti ha minacciato, vero?” intervenne quindi Wakatoshi, approssimandosi allo schiacciatore laterale.
“Mi ha d-detto che se faccio un altro mani e fuori, mi aspetta fuori scuola per ammazzarmi di botte, come ha fatto con Eita…” mormorò l’altro, affossando la testa in mezzo alle spalle.
“Questa storia deve finire.” sentenziò il capitano “Il coach deve essere messo al corrente, vado a…”
“NO!” gridò però Goshiki, tenendolo per il braccio “No, capitano, ti scongiuro non dire niente!”
“Ma…”
“Ti prego! Se sanno che ho fatto la spia, quelli mi uccidono sul serio! Per favore, non è niente! Devo solo essere più cauto, non è un problema!”
L’arbitro fischiò la ripresa del match.
Wakatoshi tornò in posizione, quasi trascinando i piedi sul parquet del pavimento, ma con la testa rimase lì dov’era, a quella conversazione lasciata a metà e al tremore negli occhi del suo kohai.
Sentiva il sangue pulsargli nelle tempie, i suoi muscoli erano ghiacciati in una tensione che pareva sul punto di spaccarlo e le orecchie gli fischiavano forte - sempre più forte, sempre più forte- come dopo un’esplosione. Non era presente a sé stesso. Giocava, ma in realtà non vedeva altro che i sorrisetti boriosi dei membri della Tomagawa. E li odiava. Li odiava con ogni cellula del suo organismo. E una parte di lui sapeva benissimo che la cosa migliore era riacquistare la lucidità e la calma, perché emozioni del genere erano sbagliate, tossiche e assolutamente controproducenti, ma poi eccola, un’altra battuta cattiva a ferire Reon accanto alla rete, eccolo uno sgambetto per far sbagliare l’alzata a Shirabu, eccolo un pugno nello stomaco di Kawanishi per impedirgli di saltare a muro, eccolo… eccolo… eccolo…
Wakatoshi osservò la sua schiacciata fare punto, il pallone che rimbalzava in un angolo scoperto della difesa avversaria, mentre i cori della Shiratorizawa acclamavano il suo nome.
Non c’era nulla da festeggiare.
Le mani gli tremavano talmente tanto, ormai, che era stato un miracolo se, dopo il muro di Tendou, era riuscito a coprire e perfino a riposizionarsi per saltare sull’alzata.
“Pensavo avresti scardinato il muro di questi idioti, capitano!” colse per caso Wakatoshi, mentre riprendeva fiato sotto rete.
Ivanov schioccò la lingua, “Stai scherzando, cazzo?!” proruppe il ragazzo bulgaro, con una fragorosa risata “Quando c’è quel mostro di Satori Tendou a fare muro, a me vengono i conati di vomito! Non riesco nemmeno a guardarlo, mi fa ribrezzo!”
“Già, fa veramente schifo!”
“Una volta di queste, devo mirare alla faccia. Magari gli cambio i connotati, gli faccio un favore.”
Wakatoshi si voltò di scatto.
Tendou era immobile, dando le spalle al gruppetto della Tomagawa, con gli occhi fissi sul pavimento e le labbra strette fino a scomparire del tutto.
Aveva ascoltato ogni parola.
“Tendou…”
Il ragazzo si ridestò all’improvviso, si girò verso di lui e abbozzò un sorriso tirato, fasullo, “Sì, Wakatoshi? Dimmi pure!” esclamò, cercando di dissimulare il suo vero stato d’animo.
Wakatoshi scoprì di non sapere cosa dire.
La verità era che lui non aveva mai consolato nessuno, non gli era mai importato davvero di un’altra persona al punto da volergli dare sostegno o solo cambiargli l’umore. E si odiò per questo, si odiò perché adesso la cosa più vicina a un amico che avesse mai avuto, aveva lo sguardo distrutto e lui non era in grado di fare altro che muovere la bocca, senza emettere alcun suono.
“Oh, ti stai preoccupando per quello che hanno detto quei tizi su di me?” fece Tendou, in tono bonariamente sorpreso “Ma no, figurati! Sono abituato! Non è la prima volta che la gente mi dice cose brutte, ormai non fa più male.”
“Satori…”
“Tranquillo, Wakatoshi-kun, sul serio. Sto bene. Pensiamo a giocare, dai.”
Eppure, quando si riposizionò sotto la rete, i fari della palestra scintillarono sui rivoli di lacrime che gli bagnavano le guance.
Wakatoshi era stanco.
Voleva solo che quella maledetta partita finisse il più presto possibile, in modo da mettere al sicuro i suoi compagni di squadra e dimenticarsi per sempre della Tomagawa. Avrebbe parlato coi suoi avvocati per prendere i provvedimenti adeguati a fermare le angherie pur preservando i ragazzi, dopodiché avrebbe convocato il coach e il consiglio studentesco così da non organizzare mai più un evento del genere, nonostante i benefici economici e la tradizione.
Sì, era quella la migliore strategia da adottare.
Avrebbe usato la sua influenza, non si sarebbe abbassato al loro livello.
Tutto sarebbe andato per il meglio.  
All’improvviso, la palla entrò nella metà campo della Shiratorizawa.
Era pulita, per cui Yamagata non ebbe alcun problema a difenderla.
Avevano vinto il primo set, il punteggio era fermo a 23 a 21 per loro, quindi bastavano soltanto due punti per vincere: tra poco quel supplizio sarebbe finito, la sua squadra sarebbe tornata incolume negli spogliatoi e lui si sarebbe occupato del resto, difendendo i suoi compagni come avrebbe dovuto fare fin dal principio.
Chiamò l’alzata e Shirabu gli lanciò un’occhiata di intesa.
Avrebbe fatto personalmente quei due punti, gli avversari non avevano scampo.
Prese la rincorsa, Fujita e Nishimura fecero lo stesso dall’altra parte della rete per tentare un muro.
Constatò che Ivanov era poco dietro di loro, pronto a coprire dal basso.
I suoi occhi scuri, occidentali, seguivano l’azione che si realizzava in aria, mentre sulla sua faccia già si apriva il solito ghigno di sfida, sfrontato e cattivo.
Fu quella l’immagine che rimase impressa a Wakatoshi, nell’istante in cui i suoi piedi si staccarono da terra.
Poi il suo braccio frustò l’aria, il palmo della sua mano impattò contro la solida consistenza del pallone.
E di colpo realizzò che il suo bersaglio non era né il lucido parquet sotto di loro né il muro composto da Fujita e Nishimura né la linea bianco di bordo campo.
Era il ghigno di Nicholay Ivanov.
E, come sempre accadeva, la palla gli ubbidì.
Il volto del capitano della Tomagawa si accartocciò dietro la forma sferica del pallone, il suo corpo massiccio fu sbalzato all’indietro, cadendo di schiena, mentre il suo grido di sorpresa venne stroncato dal tonfo del cuoio che rompeva la cartilagine, il quale parve riecheggiare fino al soffitto della palestra improvvisamente ammutolita.
Quando si rialzò sui gomiti, tremando, Nicholay Ivanov era una maschera di sangue.
“Figlio di puttana…” ruggì quello, tossendo un misto di rivoli rossi e saliva. I suoi occhi neri erano spalancati dallo shock, respirava in maniera convulsa, come un animale imbizzarrito e nonostante cercasse di fermare l’emorragia con le mani, sputava sangue a fiotti dal naso e dalla bocca.
Wakatoshi osservò la scena, inerme.
Non stava provando niente, né paura né rimorso, nemmeno la rabbia di poco prima.
Solo una calma irreale, come se il suo ritmo cardiaco fosse rallentato di colpo, frenando anche i pensieri - e in mezzo a quella densa nube di fumo, uno spillo sottilissimo ficcato nelle viscere, luccicante e gelido: l’oscura esaltazione della vendetta.
Si guardò le mani.
Avevano smesso di tremare.
“Figlio di puttana!” ripeté Ivanov, stavolta aggrappandosi di peso ai suoi compagni per sollevarsi in piedi “Lo hai fatto di proposito! Lo hai fatto di proposito!”
Wakatoshi sentì un angolo delle sue stesse labbra sollevarsi appena.
Non lo impedì
“Di proposito?” gli fece il verso, tintinnando in aria le dita proprio come aveva fatto lui, quando aveva colpito Hinata in precedenza “Non so proprio di cosa stai parlando…”
Ivanov gli si lanciò addosso prima che avesse il tempo di reagire.
Caddero a terra. Wakatoshi sibilò dal dolore nell’istante in cui la sua nuca batté conto il pavimento, ma non ebbe il tempo di pensarci troppo, dato che Ivanov iniziò ad accanirsi su di lui a suon di pugni. Sollevando le braccia, riuscì almeno ad evitare i colpi diretti al viso, allora provò a bloccare le mani del suo nemico, a ribaltarlo usando le gambe o la spinta del bacino, tuttavia ogni tentativo si dimostrò vano: Ivanov sembrava essersi trasformato in una tempesta furiosa di pietre che si infrangeva sul suo corpo, senza alcuna pietà.
“Ti ammazzo! Hai capito, Ushiwaka? Ti faccio pentire di essere nato!” urlava a sprazzi, gocciolando sangue addosso a Wakatoshi “Ammazzo te e tutti quei mocciosi dei tuoi amici, hai capito? Il raccattapalle sarà il primo! Vedrai! Non lo riconoscerai nemmeno quando avrò finito con lui!”
A quelle parole, il suo battito cardiaco schizzò alle stelle.
Approfittando di una piccola apertura, il capitano della Shiratorizawa finalmente sbilanciò l’altro ragazzo, invertendo le loro posizioni, così che Ivanov rimanesse incastrato sotto di lui, intontito dalla sua mossa repentina e dal battere violento della schiena contro il parquet.
Tentò di dimenarsi, ma Wakatoshi lo neutralizzò, facendo perno con le ginocchia su entrambe le sue braccia, sovrastandolo di peso.
Poi sollevò il pugno in aria.
L’ira che per qualche istante aveva trovato appagamento nel sangue era tornata più forte di prima, reclamandone altro con rinnovata ferocia e così Wakatoshi strinse forte le dita, esponendo le nocche, pronto a prendersi ciò che voleva.
“USHIJIMA WAKATOSHI!”
La realtà si riaccese intorno a lui in un istante.
Si voltò nella direzione da cui era sopraggiunto il suo nome: il coach Washijo era in piedi, vicino alla panchina, col volto sudato e arrossato, stravolto dalla collera.
Una confusione di suoni e colori lo investì.
Le proteste dei suoi compagni che avevano preso, a loro volta, a litigare coi membri della Tomagawa, le urla del pubblico aizzato dalla mischia, i fischi impazziti dell’arbitro e dei guardialinee che questionavano con quello o quell’altro team, i senpai che tentavano invano di placare sul nascere altri scontri fisici.
“TORNATE TUTTI NELLO SPOGLIATOIO! ADESSO!”
Wakatoshi abbassò il braccio, ansimando come se avesse corso venti chilometri in salita.
Non appena fece per alzarsi però, un pugno gli fece girare la testa da sinistra a destra.
“Spero di averti spaccato la faccia, bastardo Ushiwaka.”
 
 
 
NOTE AUTORE
Siete sorpresi, lo so: dopo gli eventi del capitolo precedente, questo non è assolutamente ciò che vi aspettavate! Eppure, sappiate che vi trovate di fronte ad uno dei passaggi più importanti controversi del percorso che sta compiendo Ushijima Wakatoshi in questa fanfiction.
 
Il senso è che, Ushijima sta affrontando un cambiamento che coinvolge tutti gli aspetti della sua vita, non soltanto quello sentimentale. Lentamente Wakatoshi sta cominciando a cambiare prospettive, a prendere consapevolezza di non essere da solo al centro dell’universo e che il mondo non ruota solo e soltanto intorno alla pallavolo: ad esempio, esistono delle persone intorno a lui che contano molto sulla sua figura di capitano, ma che lui ha sempre dato per scontate.
 
Il cambiamento però non è una strada in discesa. Ci sono ostacoli, ci sono errori. E così Wakatoshi che, grazie a Hinata, ha appena allentato la presa sui suoi freni, sulle sue barriere, adesso deve imparare a gestire delle emozioni del tutto nuove, nel bene e nel male. In questo caso, io ho sempre pensato che Ushiwaka sia di base una persona molto matura e controllata, ma che sotto-sotto possieda un lato istintivo dirompente che, se stuzzicato a dovere, può farlo diventare brutale, come è successo con Ivanov.
 
ATTENZIONE! La scena della pallonata è ovviamente romanzata, prendetela come tale! Mi rendo conto che nella realtà, una cosa del genere sarebbe abbastanza inverosimile, ma Ushiwaka è il ragazzo dei miracoli, no? Ahahah
 
Questo episodio non sarà senza conseguenze, vi avviso…
Intanto però, vi aspetto nel prossimo capitolo e non vedo l’ora di sapere le vostre impressioni su questo Ushiwaka furioso!
 
A presto,
Violet Sparks
   
 
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