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Autore: Violet Sparks    03/09/2023    7 recensioni
Ushijima Wakatoshi pensa di sapere tutto.
Pensa che la sua vita sia una strada dritta, precisa, incontrovertibile. Un percorso duro, forse, ma perfettamente definito, un segmento geometrico con un punto di partenza e un'unica meta, da tenere sempre a mente.
Ma Ushijima Wakatoshi ha dimenticato che, sopra alla strada, esiste il cielo, con un sole bollente che brucia e illumina e non vuole essere ignorato.
La domanda è: lui sarà pronto ad alzare lo sguardo?
***********************************************************************
Una notte come tante, dopo la sorprendente sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi incontra Hinata Shoyo in circostante bizzarre ed è costretto a trascorrere con lui la notte più assurda della sua vita.
Wakatoshi prova una ostilità viscerale nei confronti del piccolo corvo e non vede l'ora di dividere nuovamente le loro strade.
Peccato però, che il mocciosetto non sia del suo stesso avviso.
E stia per stravolgere completamente la sua vita.
[USHIHINA - Ushijima Wakatoshi x Hinata Shoyo]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tendo Satori, Wakatoshi Ushijima
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO XXV
Ad occhi chiusi
 
 
“Non si bacia una persona solo protendendo le labbra.
La si guarda e ci si ricorda perché la si desidera.
Il sistema nervoso simpatico fa accelerare il battito,
il lobo frontale riduce l’inibizione
e si sente il bisogno di baciarla.
Succede tutto in contemporanea.
Siamo sia impulsivi che compulsivi.
Il cervello funziona così.”
- Grey's Anatomy
 
 
Wakatoshi impiegò un tempo indefinibile a mettere nuovamente a fuoco il mondo circostante.
Non era svenuto, tuttavia il pugno di Ivanov si era infranto dritto contro il suo zigomo, riverberandosi lungo tutte le ossa del cranio, sicché per diversi minuti ogni cosa si trasformò in una confusa macchia di colore e i suoni presero ad accavallarsi l’uno all’altro, fondendosi in un fischio fastidioso.
La chioma scarlatta di Tendou, in particolare, divenne l’unico appiglio in mezzo al disordine.
“Lasciatelo respirare! Lasciatelo respirare!”
“Wakatoshi? Riesci a sentirci? Rispondi, per favore!”
“Forse ha una commozione! Quanto ci mette l’ambulanza?”
“Presto, serve del ghiaccio! Del ghiaccio!”
All’improvviso, una consistenza gelida e dura venne premuta proprio contro l’epicentro del suo dolore, allora una scarica elettrica gli attraversò lo scheletro intero, schizzando fino al cranio dove, almeno, parve rimettere in moto le sue sinapsi intorpidite. Afferrò il primo lembo di stoffa che gli capitò sotto le dita – un asciugamano, probabilmente, a giudicare dalla morbidezza – e vi sputò dentro un grumo ferroso di sangue e saliva. Poi impose alle sue palpebre di rimanere sollevate sui volti preoccupati dei compagni, tutti intorno a lui.
“Wakatoshi-kun? Stai bene?” chiese Tendou, accovacciato davanti alle sue gambe.
Solo in quel momento, si rese conto di essere seduto su una delle panche degli spogliatoi della loro palestra, appoggiato alla parete. Non aveva la minima idea di come ci fosse arrivato.
“Sì, sto bene.” rispose piano, sebbene anche il più piccolo movimento delle labbra gli regalasse delle fitte acute qua e là per il volto. Scansò la borsa del ghiaccio che Reon gli teneva sulla guancia e si toccò cautamente lo zigomo: era gonfio e dolente, però non gli sembrava che ci fosse qualcosa di rotto, inoltre la botta aveva interessato più la porzione verso la mandibola che quella verso l’occhio, constatazione che gli fece tirare un sospiro di sollievo.
Un danno alla zona orbitale gli sarebbe costato settimane e settimane di fermo; era stato molto fortunato.
“Sei stato grande, capitano!”
A quelle parole, Wakatoshi alzò lo sguardo verso i ragazzi della Shiratorizawa con una certa perplessità.
Onestamente, non pensava affatto di essere stato “grande”. Aveva ignorato per anni i soprusi di cui i membri della sua squadra erano stati vittime, concentrando le proprie energie esclusivamente sulla pallavolo; aveva lasciato i suoi compagni indifesi e soli, nonostante la qualifica di capitano avrebbe imposto di guidarli, di proteggerli, deludendo così la cieca fiducia che questi riponevano nei suoi confronti e, dulcis in fundo, in campo aveva appena messo a tacere Ivanov nel modo peggiore possibile, abbassandosi allo stesso livello di quel vigliacco senza scrupoli.
Ciò nonostante, mentre una parte di lui lucidamente e fermamente formulava quelle conclusioni, un’altra vorticava furiosa sotto l’epidermide, danzando gloriosa fra le spinte di un sentimento che Wakatoshi non aveva mai provato, ma che pure lo faceva sentire inebriato come mai prima di allora: la dolce soddisfazione della lotta, l’orgoglio di leggere negli occhi dei suoi soldati la gratitudine e il sollievo di aver trovato finalmente vendetta.
“Posso sapere cosa diavolo è successo?!” tuonò dal nulla una voce, sgretolando di colpo quel picco di energia positiva. Poco dopo, il coach Washijo spuntò in mezzo al gruppetto di studenti, minuscolo rispetto alla possenza dei giovani giocatori che gli stavano intorno, eppure così austero e minaccioso nel cipiglio che gli stava indurendo il volto, da apparire dieci volte più grande.
“Una rissa! Avete scatenato una rissa! Avete la minima idea di che immagine vergognosa avete appena dato della nostra accademia?” li sgridò, senza risparmiare un briciolo della sua collera “Per non parlare di te, Wakatoshi, io…”
“Il capitano non ha fatto niente! Sono stati quelli della Tomagawa a cominciare!” proruppe Goshiki, piazzandosi davanti a Wakatoshi a braccia tese, lasciando tutti a bocca aperta. In realtà, il primino dovette rendersi conto di essersi rivolto al loro coach con un po' troppa vemenza, per cui subito incassò la testa nelle spalle, alquanto rammaricato e “Coach, davvero, non se la prenda con Ushijima, lui non ha colpe…” rimarcò, sebbene con un tono decisamente più pacato.
“È vero! La Tomagawa è una squadra terribile, si è sempre comportata in maniera scorretta!” intervenne quindi Eita, affiancandosi a Goshiki.
“Non è stata colpa di Wakatoshi! Ci hanno provocato!” fece eco Yamagata, aggiungendosi allo scudo dei compagni.
“Sì, è vero! Confermo tutto!” aggiunse Shirabu.
“Sono dei disonesti! Ushijima non ha fatto niente! Non lo sgridi, la prego!” rincarò Reon.
“Non è colpa sua! Non se la prenda con lui!”
“Non è giusto! Non deve sgridarlo!”
“Sono loro il problema, non lui!”
“Non è giusto! Non è giusto!”
Ben presto, le voci dei ragazzi iniziarono a frapporsi, così come le loro figure, tutte fermamente piantate innanzi al capitano a formare una specie di testuggine contro l’espressione di rimprovero del loro allenatore.
Wakatoshi era senza parole.
I suoi compagni di squadra lo stavano difendendo, esponendosi per lui senza la minima esitazione, al di là di qualsiasi richiamo disciplinare, al di là di qualsiasi ripercussione.
Quel pensiero gli suscitò un’emozione difficile da descrivere.
Il punto era che, Wakatoshi sapeva che la pallavolo era uno sport di squadra, era consapevole dell’importanza di fidarsi del proprio team; ognuno dei membri della Shiratorizawa, invero, era stato scelto e voluto in nome delle potenzialità che possedeva, fisiche o sportive che fossero. Ciononostante, la pallavolo per lui era sempre stato qualcosa di strettamente individuale, una battaglia da combattere in solitaria puntando su quel talento che lo ergeva sì alla testa dell’esercito, ma sempre e irrimediabilmente da solo con la propria spada.
Adesso che era a terra però, disarmato e ferito, Wakatoshi comprendeva per la prima volta che cosa significasse essere parte di qualcosa di compatto e forte, che cosa significasse avere qualcuno a coprirti le spalle, mettendo in gioco la sua stessa vita. E il senso di inviolabilità che questo gli regalò, sembrò caricarlo di una potenza indomita, luminosa come una fiamma, che gli accese le membra.
Ad ogni modo, la discussione venne interrotta quando gli operatori dell’ambulanza fecero il loro ingresso nello spogliatoio, carichi di attrezzature e kit di primo soccorso; sia i ragazzi della squadra che il coach, a quel punto, dovettero farsi da parte per lasciare lavorare i dottori sul viso di Wakatoshi, deponendo le armi.
Fortunatamente la sua auto-diagnosi venne confermata quasi subito: non aveva niente di rotto né per quanto riguardava lo zigomo né altre parti del corpo, tuttavia si era guadagnato un gran bel livido, insieme ad una piccola costellazione di contusioni sparse per l’addome, per cui gli sarebbe toccato un periodo di riposo di almeno tre giorni, scandito da pomate e ghiaccio da applicare a intervalli regolari.
Preferì non immaginare il biasimo di sua nonna per tutta quella situazione.
Non appena i medici si chiusero la porta alle spalle, poggiò la nuca contro il muro e chiuse gli occhi.
Ormai la maggior parte dei compagni aveva lasciato lo spogliatoio, quindi l’ambiente era tornato calmo e silenzioso, tutto al contrario dell’adrenalina che ancora turbinava nelle sue vene, incapace di accettare la fine della battaglia. Si toccò il petto, come a voler rallentare con il palmo stesso della mano, il suo cuore che pompava senza tregua dentro alla cassa toracica: aveva decisamente bisogno di una doccia fredda.
Peccato che, nell’esatto istante in cui fece per alzarsi, il coach Washijo si accomodò accanto a lui, in silenzio, scrutando fisso il pavimento innanzi a sé.
A differenza di prima, il suo sguardo non trasmetteva rabbia o delusione, piuttosto una stanchezza palpabile e un velo sottilissimo di apprensione che gli accentuava le rughe profonde della fronte. Sembrava più vecchio, in qualche modo. E all’improvviso Wakatoshi rifletté che, sebbene l’uomo che aveva di fianco rappresentasse una figura cardine della sua adolescenza e della sua preparazione atletica, quella era la prima volta che sedevano insieme, a parlare, fuori da una palestra.
Non sapeva niente di lui, nemmeno se avesse figli o se fosse sposato.
Washijo Tanji era colui che più di tutti aveva contribuito a plasmare il celeberrimo capitano della Shiratorizawa.
Ed era, fondamentalmente, un perfetto estraneo.
“Coach Washijo…”
“Non sono nato ieri, Wakatoshi, e nonostante la mia età, ti assicuro che non sono un vecchio moralista: non credo nella filosofia buonista del porgere l’altra guancia. Credo nell’occhio per occhio, do ut des. affermò senza guardarlo, stringendo saldamente l’impugnatura del bastone che utilizzava come supporto per camminare “Nicholay Ivanov ti ha aggredito, lo hanno visto tutti. E tu non hai potuto fare altro che difenderti, non ti dirò che questo è sbagliato. Tuttavia…” di scatto, l’uomo ruotò il capo nella sua direzione, quindi infilò gli occhi nei suoi, due chiodi che lo bloccarono sul posto e lo sviscerarono, lo denudarono, non lasciandogli alcuna via di fuga “I membri della lega, mi hanno chiesto se la pallonata che ha subito Ivanov durante la partita, sia stata un mero errore tecnico o un atto volontario. Perché Ivanov ha il setto nasale spaccato e ha perso tre denti – tre! - il colpo è stato talmente ravvicinato e violento che avrebbe potuto provocargli dei danni di natura cerebrale; pertanto, qualora si sia trattato di un’azione deliberata, una rappresaglia di qualche tipo, il suo artefice potrebbe subire non soltanto una penalità sportiva in grado di compromettere la sua intera carriera, ma addirittura una denuncia penale per aggressione.”
“E lei che cosa ha risposto?”
“Io ho detto la verità.”
Wakatoshi serrò i pugni, il suo stomaco fece una capriola.
“Ho detto che conosco Ushijima Wakatoshi da ben tre anni e lui non farebbe mai – mai!- una cosa del genere. È troppo maturo, troppo assennato e soprattutto troppo corretto per compiere un’azione tanto deplorevole, qualsiasi possa essere stato il motivo scatenante.” se possibile, l’intensità dello sguardo di Washijo si acuì, inghiottendolo in un abisso nero “È così, giusto Wakatoshi?”
Il sangue gli si cristallizzò nelle vene.
Il mondo, intorno a loro, arrestò la propria rotazione, in attesa.
“Sì.” rispose, cupo “È stato soltanto un errore, coach Washijo.”
 
*****

 
Wakatoshi fece scorrere il dito sul pulsante di spegnimento, quindi osservò - non senza una punta di sollievo- lo schermo del proprio IPhone diventare buio, decretando ufficialmente il suo distacco dal mondo esterno.
Trentacinque chiamate perse da parte di sua nonna.
Quarantadue dalla sua equipe, tra avvocati, agenti, medici e sponsor.
Era semplicemente troppo.
Non era un idiota né tantomeno uno che fuggiva dalle proprie responsabilità: sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare le conseguenze delle sue azioni, ma non quella sera, non quando gli sembrava di avere un trapano ficcato nel cervello e, nelle sue vene, il sangue ancora ribolliva delle minacce di Ivanov, del suo ghigno cattivo, delle parole di scherno che aveva rivolto a Tendou e agli altri compagni.
Voleva solo smettere di pensare.
Per una volta - forse la prima nella sua vita- non gli interessava fare ciò che era giusto, non gli interessava dimostrarsi coscienzioso, onesto e responsabile. Gli interessava soltanto fare ciò di cui aveva bisogno. E ciò di cui aveva bisogno, in quel momento, era cancellare tutto. Tutto. Solo per una notte. Dimenticarsi il suo nome, a volte così dannatamente pesante, la sua carriera tanto luminosa quanto difficile, la scuola, l’educazione, la disciplina, i giornalisti e le illazioni prive di fondamento che avrebbero sollevato sulla questione, sua nonna e gli obiettivi che continuava a tracciare al suo posto, sul suo percorso - ciò che la gente si aspettava da lui.
Per una volta – una soltanto!- Wakatoshi desiderava che ogni cosa fosse inghiottita dal buio, un buio dove non esistevano né logica né regole né catene e lui poteva respirare, libero, senza doversi addossare l’onere di splendere.
Inserì la chiave nella toppa, sfregando distrattamente la consistenza fredda del ferro tra le dita: decise che sarebbe stato l’ultimo barlume di realtà, prima di entrare nelle tenebre dell’incoscienza.
La sera stava calando lentamente; il salotto era bagnato dalle tinte sature del sole, simile al filtro di una fotocamera, l’odore buono dei gelsomini soffiava dalla porta-finestra aperta insieme ad un piacevole alito di vento e il vociare esterno della gente del quartiere si affievolì, non appena la porta di casa scattò dietro la sua schiena. L’aria sembrava immobile, immortalata in una immagine di pace inviolabile e perfetta, così diversa dal caos che c’era fuori che Wakatoshi si chiese ingenuamente se qualcuno avesse fermato il tempo per concedergli un po' di tregua.
E, completamente fuso in quell’atmosfera, a confondersi tra i raggi aranciati del tramonto, Hinata Shoyo sedeva di spalle sull’isola della cucina, oscillando piano le gambe nude.
Wakatoshi appoggiò il borsone sul pavimento, si tolse le scarpe e camminò nella sua direzione.
Doveva avere le cuffiette, perché stava osservando un video sul telefonino e non dava segno di essersi accorto della sua presenza. Quando gli fu accanto, provò ad allertarlo in modo gentile, sfiorandogli il braccio con la punta delle dita, tuttavia il ragazzino finì per spaventarsi lo stesso, il suo intero corpo sussultò e per una buona manciata di secondi, lo fissò coi suoi soliti occhi immensi, resi ancora più espressivi dalla sorpresa.
Poi, nel giro di un istante, mise da parte tutto ciò che teneva tra le mani, ruotò di scatto le gambe e il busto e gli buttò le braccia al collo.
Col naso affondato nel profumo dolce dei suoi capelli, Wakatoshi si gelò.
Doveva ancora scendere a patti con tutta quella faccenda degli abbracci.
“Hinata…”
“Oddio, stai bene? Dimmi che stai bene! Pensavo di non vederti tornare a casa stasera! Ti sei rotto qualcosa? Sei andato in ospedale? Hai visto un medico? Che ti ha detto? Non dovresti stare facendo degli esami, adesso? Non ci sei andato in ospedale, dì la verità, stai facendo l’eroe! È pericoloso! Potresti avere delle ferite di cui non ti sei accorto, devi farti controllare subito! Adesso, io… io…”
Il capitano interruppe quel fiume in piena di parole, circondando a sua volta Hinata tra le braccia e stringendolo forte a sé. Buttò un’occhiata al video ancora in riproduzione sullo schermo del suo cellulare: come aveva sospettato, si trattava di un servizio del telegiornale sportivo locale riguardo la rissa avvenuta alla Shiratorizawa. “Tu… Tu devi ass-assolut-” balbettò ancora il piccolo corvo sulla sua spalla, e le sue ossa non smettevano di tremare, la sua voce veniva spezzata continuamente da rantoli convulsi.
Stava avendo un attacco d’ansia.
Seguendo il proprio istinto, Wakatoshi poggiò allora una mano dietro al suo collo e prese a muovere le dita tra i capelli dietro la nuca - il fatto che sua madre compisse lo stesso gesto, quando da bambino aveva fatto un brutto sogno, gli provocò una fitta di dolore all’altezza dello stomaco.
“Sto bene, Hinata.” gli disse vicino all’orecchio, per essere sicuro che l’altro lo ascoltasse “Non ho niente di rotto, i medici mi hanno visitato, ho soltanto qualche contusione.”
“No… devi farti altre analisi… devi farti controllare… tu devi…”
“Le ho fatte tutte. Sto bene, smetti di tremare.”
“Resti qui stanotte, quindi?”
“Sì, resto qui.”
“Resti qui… resti qui…”
“Sì, resto qui con te.”
A quel punto ci fu un momento di silenzio, in cui Wakatoshi si rese conto che stava ancora giocherellando coi suoi capelli e che Hinata, intanto, pareva essersi rilassato sotto il suo tocco, infatti aveva girato il viso in modo da premere la guancia sul suo sterno, poco sotto la congiunzione delle clavicole, dopodiché il suo respiro si era fatto sempre più lento, fino ad assumere una cadenza regolare.
Wakatoshi non contemplò la possibilità di staccarsi da lui neanche in quel caso.
Gli piaceva il calore confortante che sprigionava la pelle del piccolo corvo, gli piaceva la consistenza morbida delle sue ciocche in mezzo alle dita, gli piaceva il modo in cui il suo petto sottile sembrava combaciare perfettamente dentro al proprio come il nocciolo di un frutto, gli piaceva il suo profumo di sapone e gli piaceva sentire il peso della sua mano nella piega del gomito, qualche strato di epidermide appena sopra il flusso sanguigno. Gli piaceva, sì. E così decise che, almeno per quella sera, avrebbe potuto concederselo - le conseguenze si sarebbero messe in fila insieme alle altre che lo attendevano l’indomani al suo risveglio, pronte a chiedergli lo scotto di tutta quella imprudenza.
“Piuttosto…” ricordò all’improvviso, allontanando Hinata da sé quel tanto che bastava a guardarlo negli occhi “Tu sei stato in infermeria? Il collo è un punto delicato, la pallonata è stata violenta.” rifletté, prima di afferrargli malamente metà della faccia e manovrarla per esaminare il punto in cui – ricordava- l’altro era stato colpito.
Dall’altra parte, il ragazzino si esibì in una sequela piuttosto articolata di proteste, “Non mi sono fatto niente, la dottoressa mi ha solo consigliato di metterci del ghiaccio!” esclamò, indicando un bicchiere pieno di cubetti in via di scioglimento e un canovaccio da cucina “Figurati, sono abituato a prendere pallonate in testa…” ammise poi, mettendo su un broncio da moccioso “Cioè, oddio! Se mi avessero centrato in piena faccia con quella specie di bomba che hai schiacciato contro Ivanov, credo che anche a me sarebbe saltato qualche dente! Facevi davvero paura!”
Wakatoshi aggrottò la fronte, “Non volevo farti paura.”
“No, no, in senso figurato!” si corresse subito Hinata “Non è che mi hai fatto paura sul serio! Dico… in generale! Anche quando quell’idiota ha colpito me… mi ha spaventato un po' vederti così, non ti ho mai visto tanto arrabbiato… non sembravi tu…”
Il giovane capitano annuì con un sospiro, “Ho perso il controllo, oggi e ho commesso un errore. Non è così che si risolvono i problemi.”
“Che?! Ivanov se l’è cercata! È una persona meschina!”
“Se lui è una persona meschina, non significa che debba diventarlo anche io, Hinata.”
“Ma…”
“È stato un errore, punto.”
“Okay, va bene, d’accordo! Forse hai fatto davvero una cavolata oggi… una cavolata di dimensioni bibliche!” asserì, allargando teatralmente le braccia per rimarcare il concetto “Ma lasciatelo dire da uno che di cavolate ne fa mille al giorno: non è una tragedia! Ivanov era un gran bastardo, un pugno glielo avrebbe dato chiunque! E poi mi sembri molto consapevole di aver sbagliato, inoltre… beh, tu sei tipo il re della maturità! Non credo proprio che tu abbia intenzione di evitare la valanga di cacca che ti piomberà addosso, perciò… non ti rimproverare troppo, intesi?”
Wakatoshi sollevò un angolo delle labbra, a metà tra il divertito e il sorpreso: il discorso del ragazzino, per quanto colorito, aveva una sua logica, ed effettivamente più rimuginava su quelle parole, più gli sembrava di sentire la testa leggera, sgravata da un peso. Pensò che, nella sua semplicità, Hinata Shoyo aveva un modo di vedere la vita alquanto singolare, privo delle solite impalcature fatte di doveri, regole e imposizioni; un modo diametralmente opposto al suo, insomma, ma che comunque filava, inesorabile e libero, come un ruscello che scorreva tra le rocce.  
D’un tratto però, Hinata gli rivolse un sorrisetto furbo, “Puoi ammettere che ti ha dato soddisfazione vederlo coperto di sangue?”
“Assolutamente no.”
“Dai!”
“No, Hinata.”
“Giusto un briciolino, una puntina minuscola… non lo dirò a nessuno, giuro!”
L’asso scosse la testa, ma con tutti gli sforzi del mondo non riuscì a rimanere impassibile di fronte alla buffa espressione inquisitoria dell’altro, per cui “Forse un po'…” gli concesse infine, annoiato solo per finta.
La reazione di Hinata fu una risata bellissima, che gli illuminò il viso di sprazzi dorati più caldi dei raggi del tramonto fuori dalla finestra e che riempì la cucina di un suono argentino, dolcissimo. Senza alcuna ragione, Wakatoshi restò ad osservarlo in silenzio, assorbendo ogni linea del suo volto, collezionando quei guizzi di luce nei suoi occhi limpidi prima che quello li richiudesse e lasciasse solo le ciglia lunghe a ombreggiargli le guance.
Sentì prudere le dita.
Avrebbe voluto baciarlo.
Si riscosse soltanto perché notò che il sorriso del ragazzino si era spento all’improvviso, e la sua espressione pareva vagamente allarmata. “Non avrai niente di rotto, ma quel bastardo ti ha fatto male…” mormorò infatti, stringendo le labbra “Hai lo zigomo tutto gonfio.”
Di rimando, Wakatoshi si tastò la guancia e costatò che sì, la botta stava cominciando a dare il peggio di sé. Si girò prendendo il primo coltello con la lama abbastanza larga che gli capitò sottomano, quindi si specchiò nel suo riflesso: non solo il dolore stava aumentando, ma ormai aveva una bella macchia rossa e viola poco sotto l’occhio.
“È normale, non ti preoccupare.” ribatté, posando il suo specchietto improvvisato.
“Aspetta!” fece però Hinata, ostinato come suo solito. A quel punto, recuperò dal bicchiere al suo fianco i pochi cubetti di ghiaccio superstiti, li avvolse accuratamente dentro il canovaccio colorato e glielo sventolò sotto al naso, pieno di entusiasmo “Usa questo! A me ha dato sollievo!”
Wakatoshi scrollò le spalle, “Sì, certo.” rispose, poi si protese verso il ragazzino per facilitargli il lavoro. Era un’ottima idea in effetti, lo avrebbe fatto lui stesso dopo cena per evitare che l’ematoma si gonfiasse troppo, ma forse era preferibile cominciare a occuparsene fin da subito.
Quando i minuti passarono e niente di freddo arrivò a sfiorargli la guancia, tuttavia, il giovane capitano si girò di nuovo verso Hinata con aria perplessa.
Lo trovò imbambolato, bocca spalancata e occhi vitrei, come se avesse visto un fantasma.
“È successo qualcosa?”
“T-tu vuoi c-che sia io a metterti il ghiaccio?”
Wakatoshi aggrottò la fronte, sempre più confuso. Non capiva perché il ragazzino fosse diventato tutto rosso e soprattutto perché stesse boccheggiando senza articolare alcuna frase di senso compiuto. Dopo un po', “Ah, volevi che lo facessi da solo, scusami.” concluse, ma lo stesso la reazione dell’altro continuò a sembrargli piuttosto esagerata.
Non appena provò a prendergli il fagotto di ghiaccio dalle mani, comunque, Hinata fece un salto di circa tre metri sulla superficie del bancone, ritrasse il braccio e prese a gesticolare. “No, no! Hai ragionissimo! Faccio io, faccio io, tranquillo! È meglio così! Tu non puoi vederti la faccia!” esclamò, con una dose di imbarazzo eclatante tanto quanto immotivata.
Ormai avulso alle stranezze del piccolo corvo, il capitano preferì non indagare oltre, quindi “D’accordo…” acconsentì soltanto e tornò nella medesima posizione di prima, appoggiando i palmi sull’isola da cucina per mantenere l’equilibrio.
Fu nell’istante in cui Hinata avvicinò la mano al suo zigomo che Wakatoshi comprese finalmente ove risiedesse la ragione di tanto disagio.
L’ultima volta che erano stati così vicini, risaliva a quella mattina.
La mattina in cui si erano baciati.
D’un tratto, l’ossigeno nella stanza parve prosciugarsi, un silenzio statico li avviluppò come se la vita avesse deciso di rallentare fin quasi a smettere di scorrere, e la realtà tutta si illuminò aumentando improvvisamente di gradazione, al punto che Wakatoshi divenne mortalmente consapevole di ogni cosa, folgorato da ogni dettaglio, ogni colore, ogni spigolo.
Si accorse allora di stare in piedi, sì, ma tra le gambe seminude di Hinata, ferme intorno al suo bacino come lo erano state in molti di quei sogni che la notte lo facevano vergognare di sé stesso – così poco rispettosi. Si accorse di aver posato le mani sul bancone per stare più comodo, ma dietro la schiena del ragazzino, approssimando pericolosamente i loro corpi, permettendo al suo fiato irregolare e caldo di sfiorargli la pelle del volto. Si accorse che il suo profumo di bucato si era quadruplicato, invadendogli i polmoni e si accorse che tra le loro labbra la distanza si era fatta brevissima, quasi ridicola, per cancellarla sarebbe bastato un piccolo slancio – un millimetro, due millimetri, tre, quattro…
Si accorse anche di non volersi muovere da lì per nessuna ragione al mondo, e che il suo cuore aveva cominciato a comportarsi in maniera bizzarra, battendo nella gabbia toracica talmente forte da rimbombargli anche nella testa.
Una goccia di condensa gli colò lungo la guancia.
Hinata la raccolse con il pollice, e all’improvviso i loro occhi furono agganciati l’uno all’altro, intrappolati in un limbo senza contorni né suoni.
Rimasero immobili, così, per un tempo indefinito.
Un tempo che Wakatoshi riempì con lo stridio degli artigli di un bisogno sconosciuto che gli montava dentro, consumando la sua razionalità grammo a grammo, viscerale e atavico come un urlo, come un morso.
“D-dove altro ti fa male?” sussurrò il piccolo corvo, senza fiato.
L’asso sospirò, ma l’aria buttata fuori, invece che raffreddargli il sangue, sembrò cedere terreno a quella strana fame. “Qui.” soffiò, prima di ruotare l’arto sinistro.
A quel punto, almeno, Hinata gli lasciò un po' di tregua liberandolo dalla presa del suo sguardo per osservare i quattro lunghi graffi che gli adornavano l’interno dell’avambraccio.
“Sono unghie?” gemette, con voce triste.
“Sì, Ivanov mi ha graffiato quando mi è saltato addosso.”
“Bruciano?”
“Niente di insopportabile.”
Di nuovo calò il silenzio, mentre Hinata passava il suo panno freddo su tutta la lunghezza delle ferite, seguendo le linee rosse una ad una, con una delicatezza a Wakatoshi assolutamente estranea: nessuno lo aveva mai toccato in quel modo, come qualcosa da non scalfire, come qualcosa di cui avere cura. Dopotutto, lui era sempre stato quello grande e grosso, il ragazzo dei miracoli, il dio del campo inavvicinabile e potente. La gentilezza di Hinata Shoyo disciolse un nodo nelle profondità del suo stomaco, regalandogli brividi bollenti che lo fecero tremare.
“Hai qualche altra ferita?”
“Sull’addome.”
Questa volta, l’asso non ci mise molto ad intuire che la risposta istintiva e spontanea che aveva appena elargito, era aperta ad interpretazioni oltremodo imbarazzanti per entrambi. Dal suo canto, il ragazzino non emise un fiato né provò a rialzare lo sguardo; semplicemente restò in attesa, rinsaldando la presa sul suo impacco di ghiaccio.
“Lascia stare, poss-”
“No, fammi vedere dove ti fa male…” lo interruppe l’altro, la voce che era diventata un fruscio quasi impercettibile “Se non ti dà fastidio, ovvio… perché in quel caso, non fa niente, io non-“
“No, va bene.” fu la risposta di Wakatoshi, quindi sollevò un poco l’orlo della maglietta per scoprire il busto. Non gli sfuggì affatto il sussulto che ebbe Hinata davanti a quel gesto, ma non riuscì a soffermarcisi quanto avrebbe voluto: la temperatura della sua carne si era alzata ancora, incontrollata, e adesso ogni pensiero bruciava prima ancora di raggiungere una forma finita.
“Qui, vicino alle costole, giusto?”
“Sì, esatto.”
“Da questa parte?”
“Più in basso.”
A quel punto, successe tutto molto in fretta.
Hinata poggiò il canovaccio con il ghiaccio sul suo petto, lungo il bordo inferiore del costato, ma nello stesso istante, Wakatoshi racchiuse la sua mano calda nella propria in modo da guidarlo nel punto esatto in cui si trovava la contusione.
Poi, il desiderio di baciarlo smise di essere semplicemente un desiderio.
Si trasformò in istinto, in pulsione, in gesto.
Per questo, quando riaprì gli occhi che non ricordava di aver chiuso, Wakatoshi scoprì che la bocca del ragazzino era contro la sua e il suo singulto di sorpresa gli era già scivolato giù, nelle profondità della gola.
Gli strinse la mano ancora ferma sul suo petto, schiacciando gli ultimi rimasugli di ghiaccio, mentre con l’altra, corse ad afferrargli il mento, mosso dall’urgenza di appigliarsi a qualcosa di tangibile. Il sapore di Hinata era dolce e fresco, buono da saggiare come una di quelle caramelle che si sciolgono lentamente sulla lingua, e Wakatoshi si ritrovò a berlo a sorsate, con una avidità che non aveva mai provato ma che lo terrorizzò, perché – immaginò- nessun essere umano al mondo poteva provare un cataclisma del genere, senza venirne irrimediabilmente consumato.
In un barlume di lucidità, riuscì a retrocedere di qualche centimetro, sebbene il distacco dalle labbra del ragazzino suonò al proprio corpo come una specie di violenza.
“Scusami…” mormorò a corto di fiato, scuotendo la testa.
Aggrappato alle sue braccia, lo stesso, identico respiro zoppicante, Hinata poggiò la fronte contro la sua “S-scusa di cosa?” chiese, stordito.
Wakatoshi sollevò lo sguardo su di lui.
Scelta pessima.
Hinata aveva gli occhi sfocati e liquidi, le ciglia scurissime, le guance rosse e le labbra tumide, ancora protese, leggermente schiuse.
Richiuse gli occhi di scatto.
Impedirsi di ghermirlo nuovamente, al di là di qualsiasi buon senso, gli richiese uno sforzo abominevole.
“Non avrei dovuto baciarti in questo modo. Avrei dovuto chiederti il permesso. È stata una mancanza di rispetto. È la seconda volta che succede e non voglio che t-“
Le parole seguenti vennero ingoiate una ad una dalla bocca affamata di Hinata.
Con una forza insospettabile, infatti, il piccolo corvo si aggrappò al tessuto della sua maglietta, dunque lo tirò a sé, cercando le sue labbra in un bacio disordinato e caotico che non sembrava seguire altra logica che non fosse nudo istinto, autentica bramosia.
Quando si staccò, alla disperata ricerca di ossigeno, questa volta fu il turno di Wakatoshi di osservare l’altro ragazzo, alquanto disorientato.
“Tu mi piaci.” affermò Hinata Shoyo prendendolo in contropiede, e nella sua voce vi era una tale dose di certezza e di ardore che Wakatoshi non poté che far altro che rimanere in ascolto, inchiodato da quel fuoco indomito “E no, prima che tu me lo chieda, non sto parlando soltanto in generale. Intendo che tu mi piaci davvero, Wakatoshi. Mi piaci nel senso che ti penso sempre, da quando mi sveglio a quando vado a dormire. Vorrei passare ogni secondo di ogni giorno in tua compagnia, faccio sogni su di te che mi fanno vergognare il mattino dopo e quando mi guardi – o ancora, peggio mi sfiori!- io vado completamente in tilt, non riesco a concentrarmi più su niente, per il resto della giornata. Perciò, non chiedermi il permesso, non ne hai bisogno. Baciami sempre. Baciami tutte le volte che vuoi. Ti prego…”
Sarebbe stato difficile, per Wakatoshi, spiegare a parole ciò che quella confessione provocò dentro di lui. La sua pelle si trasformò in una distesa di fuoco che però non bruciava, scaldava; il suo cuore rallentò il ritmo, lesinando i rintocchi, allora sorridere divenne un bisogno viscerale, un impulso naturale quanto necessario. Dopodiché le loro labbra si incontrarono di nuovo, cercandosi come se fosse la cosa più ovvia del mondo, incastrandosi con una facilità insospettabile. 
Fu un bacio diverso dai precedenti, meno irruento ma non meno esigente, intenso proprio perché consapevole, voluto, vero.
Hinata si aggrappò ai suoi fianchi e Wakatoshi affondò le dita tra i suoi capelli per spingerselo addosso – qualcosa che, finalmente ammise a se stesso, aveva sempre bramato fare. Quando il ragazzino schiuse la bocca, lo lasciò fare prima ancora di poter riflettere, ormai stanco di combattere, di resistere.
Di negare.
 
Si era sbagliato.
Pensava di essersi lasciato cadere nel buio dell’incoscienza quella sera, invece Hinata Shoyo era sempre stato lì ad attenderlo, fulgido e vivo come una stella che brucia.
 
E lasciarsi accecare dalla sua luce – scoprì - era semplicemente bellissimo.
 
“C'è una cosa strana nella resa:
quando ti lasci andare veramente,
quando molli la presa,
dimentichi persino il motivo per cui ti eri tanto affannato a combattere.”
 
 


NOTE AUTORE
 
Sapete, questo è stato uno dei capitoli più difficili da scrivere, e forse la ragione è che ci tenevo tantissimo alla sua riuscita: perché sì, la scena del bacio in cucina è in assoluto la prima che la mia mente ha partorito quando ho cominciato a pensare questa long; addirittura, avrebbe dovuto essere questo il primo bacio degli Ushihina, pensate un po'!
Poi si sa, quando si affronta la stesura di una storia particolarmente lunga e articolata come questa, si finisce sempre per cambiare qualcosina in corso d’opera, tuttavia ci tenevo da morire a che questo pezzo ci fosse, che avesse una sua importanza e soprattutto che vi regalasse le stesse emozioni che regalava a me, quando era soltanto roba mia.
 
Ma andiamo con ordine!
Il percorso di Wakatoshi, in questi ultimi capitoli ha raggiunto il suo picco massimo, non soltanto da un punto di vista sentimentale. Ushiwaka capisce per la prima volta cosa significa essere parte di una squadra, non soltanto da un punto di vista di responsabilità e doveri, ma anche rispetto alla bellezza di avere qualcuno su cui contare.
Certo, c’è qualcosa di storto… non vi pare? Non voglio fare spoiler, tuttavia vi consiglio di non abbassare la guardia: presto, ahimè, ci addentreremo nella terza fase della storia.
 
Intanto però, direi di goderci questa! Ahaha
La strenua resistenza di Ushijima è andata a farsi benedire finalmente e il nostro ragazzo dei miracoli ha finalmente accettato la sua attrazione per Hinata. Come molti di voi avranno notato, la scena in cucina ha come parallelo quella delle bende nel capitolo “Nana”, dove però l’attrazione di Wakatoshi era ancora in fase di sviluppo, pertanto veniva vissuta come qualcosa di spaventoso, da reprimere a tutti i costi.
Adesso invece, complice la stanchezza di dover sempre sottostare a regole e ad aspettative, Wakatoshi ha cominciato ad abbracciare il lato più istintivo di sé, in cui le pulsioni non vengono catalogate più come qualcosa da temere, ma come qualcosa da cui lasciarsi dolcemente dominare. E ovviamente, chi se non Hinata Shoyo – che fin dalla partita degli interliceali ha stuzzicato queste pulsioni- poteva rappresentare la molla per farlo scattare?
 
Spero di essere un po' più celere con l’aggiornamento del prossimo capitolo
Pregate con me ;)
 
A presto,
Violet Sparks
   
 
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