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Autore: Zyadad_Kalonharysh    16/06/2023    0 recensioni
[KilluGon]
Gon Freecss è quasi morto. Ed è ormai prossimo ai quindici. La sua avventura con il suo inseparabile gruppo di amici è finita ormai da un anno e mezzo. Non ha contatti con Killua dalla separazione mentre Kurapika e Leorio non ci sono quasi mai. Ha assimilato la solitudine e si è concentrato su altro, ma sa di non stare bene. Il ragazzino esuberante che parlava troppo e agiva in modo impulsivo con il suo volto puro e sorridente sembra ormai un lontano ricordo. Oggi fa più fatica a parlare, balbetta, tende ad essere riflessivo, si chiude a riccio e non esce mai di casa. Ogni notte ha un incubo, si sveglia piangendo e passa la giornata a studiare. Questo è ormai un ciclo continuo, le sue giornate sono tutte così. La vita monotona di Gon continua finché delle vecchie insolite conoscenze non interverranno per invertire questo trend.
In questa dramedy avremo a che fare con le sfide personali di Gon prossimo alla vita adulta, sfide quotidiane molto meno avvincenti di quelle di un tempo. Molte di queste riguarderanno il suo rapporto con Killua post-separazione.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gon Freecss, Jin Freecss, Killua Zaoldyeck, Kurapika, Leorio
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 15

Gon ha un problema e ne parla a letto con Killua.

Eternamente bambini

Per spiegare il motivo per cui stiamo scendendo in maniera sparsa, bisognerebbe fare un approfondimento su cosa stia succedendo nel Rockefeller in questo momento. Io ho lasciato l’edificio alle 2:30 di notte, Sebastian è arrivato all’incirca dieci minuti prima. Quando Espedito è sceso, cogliendo Killua di sorpresa, sono le 2:45. Io ho fatto il mio discorso alle ore 0:30. Giusto per mettere dei punti di riferimento.
Cominciamo riavvolgendo il nastro, torniamo alle 11:30, orario in cui Espedito sta prendendo l’ascensore in salita dopo essere sceso per comprare le sigarette. Nell’ascensore incontra Shuk, intenta a portare a quasi duecentocinquanta metri di altezza il comunicato stampa ufficiale della casa editrice.
«Perché in formato cartaceo?» chiede l’attore.
«Elaine lo vuole, non ho capito bene perché. Credo sia per preparare Gon alla sala stampa.» spiega, abbracciando e custodendo quel plico come se fosse un figlio. «A proposito, te lo dico in confidenza perché al posto tuo vorrei saperlo…»
«Iniziamo bene. Drammi dal New Jersey, sono pronto.» ironizza lui.
«Mentre ero sul balcone, il biondino che credo sia Kurapika e un ragazzo alto con gli occhiali stavano parlando di te. A quanto pare tu ci avresti provato con Kurapika e il tizio con gli occhiali diceva che sei fuori di testa perché pensavi di avere speranze con lui. L’altro ha detto che ti vuole bene, ma moralmente vali meno di una mosca.»
E mentre l’ascensore sale di settanta piani, Espedito inizia ad infuriarsi. Ma, tra il cinquantacinquesimo e il sessantesimo piano, ritrova la sua calma e capisce che deve affrontare la situazione con i suoi tre punti fondamentali: sangue freddo, classe e protagonismo sfrenato.
Appena raggiunge la Rainbow Room, Espedito prende al bancone un calice di champagne, lo beve tutto d’un sorso senza farsi vedere e ne prende un altro, stavolta come oggetto scenico. Dopo di che, raggiunge il balcone dove Danielle e gli altri sono seduti a un tavolino mentre Kurapika è da solo a guardare il panorama dalla ringhiera.
«Stavo pensando che se siete così destinati a stare insieme, allora non c’è bisogno di usarmi come espediente.» L’attore si avvicina al Kurta con un tono calmo e sicuro, camminando lentamente e con eleganza, mentre l’altro si volta verso di lui.
«Non ho capito.» risponde sinceramente Kurapika.
«Non capisco perché devi prendermi in giro alle mie spalle. Io ho voltato pagina da un pezzo.» continua Espedito, accendendosi una sigaretta. «Ti senti talmente insicuro da dover parlare male di me al tuo ragazzo?»
«Sai, non volevo darti questa notizia scioccante così… ma non tutto ruota intorno a te, Espedito.» mormora l’altro, mantenendo la stessa calma e classe.
«È qui che ti sbagli.» dice, spiazzando l’altro. «Tutto ruota intorno a me, oggettivamente parlando. Quando entro in una stanza, tutti mi guardano e tutti mi giudicano. Quando entro nella vita di una persona, questa non può fare altro che parlare di me. Perché io sono nato così.»
«Questo è il momento dei tuoi discorsi istrionici?» Kurapika non trattiene una punta di fastidio nelle sue parole.
«No, constatavo un semplice fatto. Ed è grottesco che tu dica in giro che io sia egocentrico quando, numero uno, lo sono e lo ammetto fieramente e, numero due, sei tu che parli di me come un illuso che ci ha provato come se stesse puntando un bersaglio irraggiungibile.» Per quanto Espedito ami i giri di parole, in queste occasioni preferisce non andare per il sottile.
«Sono stato io ad averti rifiutato anni fa, sbaglio?»
«E con questo? Adesso non varrei nulla solo perché non sono riuscito a conquistare una mia cotta? Vola basso, Kurapika, che tu non sei meglio proprio di nessuno. Sei come tutti gli altri, vuoi sentirti adulare perché nel profondo del tuo cuore e inconsciamente sei un narcisista.» Da una conversazione di classe si è passati a un bombardamento nucleare. «Ma che ragazzo bello e dannato, l’uomo impenetrabile che tutti vogliono e nessuno può avere. E bla, bla, bla. Scemo tu e chi ti viene dietro.»
«E tu cosa sei? Un riccone viziato che è disperato per stare sotto i riflettori giorno e notte e non riesce a farsi amare da nessuno perché ha l’umanità e il rispetto di un panzer?» Kurapika è passato direttamente a un tono arrabbiato. «L’unico amore che troverai sarà un uomo del doppio dei tuoi anni a cui piace andare con chi potrebbe essere suo figlio. Il giorno in cui ti si chiuderà il sipario in faccia e queste luci si spegneranno, quando non sarai più così famoso e richiesto, voglio sapere cosa ti resterà.»
In quel momento, Espedito sente che Kurapika si meriterebbe un ceffone di quelli memorabili e non ha minimamente paura di darglielo. Ma sente anche che se gettasse all’aria la sua compostezza, dimostrerebbe di non avere il controllo della situazione e il suo personaggio ne uscirebbe rovinosamente danneggiato, ledendo di molto la sua credibilità. Così, il furbo attore decide di bluffare.
«Ti sbagli proprio qui. Io so che arriverà la mia ora e a quel punto ti garantisco che mi resterà tutto ciò di cui ho bisogno: me stesso. Ma quel giorno è ben lontano e fino ad allora sarò ancora io il centro di tutto. Invece, a me della tua agenda non interessa. A nessuno interessa. Mi dispiace dirtelo così, ma non tutti aspettiamo la tua approvazione.» fa un tiro alla sua sigaretta e dà le spalle al panorama poggiando i gomiti sulla ringhiera. «E comunque, commenti così volgari non me li aspettavo mica. Sei proprio caduto in basso, la rabbia ti ha bruciato i neuroni. Non prendertela con me se la tua vita fa schifo.»
«Non mi interessa fare bella figura con uno come te.»
«Mi spieghi perché ti ha così turbato il fatto che tu un tempo mi piacessi? Prima di quella sera, andavamo d’accordo. Non che la cosa mi manchi ma… uhm… è curioso, non ti pare?» la risatina di Espedito fa rabbrividire.
Kurapika non risponde.
«Io avrò anche preso un palo, ma almeno ho giocato le mie carte. Tu, invece, le tieni in mano da anni perché non vuoi aprire il tuo cuore per paura che qualcuno te lo rompa. O lo faccia scoppiare come un palloncino con una lama conficcata…» scherza Espedito.
«Questa era una battutaccia inutile.» Kurapika si fa serio, guardando l’altro negli occhi.
 
Quando allontano Leorio da Enid dicendogli di Espedito sul balcone, sono le 11:45. Nel tragitto verso il balcone, Leorio viene chiamato da Biscuit per dei consigli medici. Raggiungerà il balcone sette minuti dopo.
 
«Mi spieghi cosa stai aspettando?» l’attore continua a infierire senza sosta.
«E a te cosa importa?»
«Dovresti essere coerente con le critiche che fai agli altri e affrontare i tuoi problemi. Stiamo tutti aspettando che tu faccia una benedetta mossa con Leorio; invece, stai da anni con le mani in mano. Ma il tempo per parlare male di me lo trovi, per quello c’è sempre. Figuriamoci.» Espedito fa per andarsene, ma viene fermato dall’altro.
«Mi spieghi qual è il tuo problema?» Kurapika lo guarda fisso, sa che per comprendere a fondo Espedito deve cercare i suoi occhi. Quegli occhi di colore ametista, dovuti a una rara mutazione genetica, che sapevano dire tutto e nulla.
«Penso che la vita mi stia stancando.» Risponde, tornando sereno e sorridendo ancora un po’. Quella risposta è più che mai vera.
 
 
 
Ore dopo, sono finalmente a casa. Graziina mi aiuta a mettere i fiori di Sebastian in un vaso. Cavolo, è tardissimo. Vedo Killua tornare dal corridoio con uno sguardo sereno da cui deduco che Alluka stia dormendo tranquilla. Magda ha sistemato per lei il divano-letto dello studiolo che si trova vicino alla mia camera. Quella è una stanza curiosa, è la più diversa di tutte, un po’ come anche la camera da letto di Graziina lo è.
Questo perché ha deciso di lasciare tutta la casa nuova e ammodernata, con le sue pareti nere e in generale uno stile elegante ma ricercato. Nello studiolo, invece, le pareti sono coperte da una carta da parati rosa antico e ha messo insieme la mobilia del nonno, il suo unico ricordo della casa familiare in Svizzera, nella quale non riesce più a tornare per il ricordo della tragedia che l’ha segnata. Come dicevo, è ovvio che trattandosi di Graziina il rosa sia il colore predominante, alternandosi talvolta a qualcosa di bianco o beige (come il lampadario Juliette composto da perle di legno). È uno studio comunque elegante, ma decisamente vintage. C’è una scrivania di legno con dei motivi sui bordi intagliati a mano, una libreria piena di edizioni originali di classici della letteratura, un piccolo vecchio televisore che sarà stato degli anni Sessanta, l’uscita sul balcone dietro le spessissime tende bianche e, infine, il divano viola aperto dove c’è Alluka.
«Se Alluka è nello studio, Audrey dove dorme?» chiedo alla padrona di casa.
«Chi è Audrey?» chiede Killua.
«La mia cagnolina! L’ho chiamata Audrey Hepburn, come l’attrice.» Le si illuminano gli occhi quando ne parla. «Comunque, i cani dormono in stanza con me stasera. Ho semplicemente spostato le cuccette.»
«Quanti cani sono?» chiede lui.
«Sono tre, Audrey e le sue due figlie Chanel e Diana. Prima non le hai viste perché erano al parco con Magda.» spiega.
Parlando del diavolo, una delle tre reginette arriva dal corridoio. Sono fieramente una delle poche persone capaci di distinguerle perché per gli altri sono perfettamente identiche, i Cavalier King in genere sono molto simili tra loro. Graziina, invece, ha messo un fiocchetto di colore diverso su ognuna delle loro teste.
 
Killua dorme in stanza con me, nello stesso letto.
«Questa città è tua, ormai.» mormora, mentre è girato dall’altra parte. «Tu rendi tutto più bello.»
«Io non sarei qui se non fosse per te.» Gli ricordo. «Tu mi hai dato la possibilità di ricominciare. Te ne sarò grato per sempre.»
«No. Non dirlo. Sai che mi dà fastidio.» In un lampo, Killua si irrigidisce come fa sempre.
«Non mi meritavo una seconda possibilità. Eticamente parlando, io avevo chiuso. Tu sei riuscito a cambiare come gira il mondo solo per me.» Voglio che lui sappia cosa ha davvero fatto. «Il punto non è il fatto che io non senta di meritarmi di vivere. Il che è vero, io vado avanti per non rendere vani i tuoi sforzi ma non sento di meritare la vita. Il punto però non è questo, è che non sento quell’attaccamento, quel trasporto emotivo e quella gioia che provavo prima.»
Mi rendo conto solo troppo tardi che avrei potuto dirgli qualsiasi cosa tranne questo. Non posso dire a lui una cosa del genere.
«Nanika ti ha curato solo fisicamente, c’era da aspettarselo.» mormora lui. Stranamente non si è arrabbiato. «Però, a me tu sembri felice.»
«Una nuova felicità a cui mi devo abituare.» specifico. Davanti al suo sguardo interrogativo, mi spiego meglio. «Non sento più le emozioni con la stessa intensità di prima. Ti ricordi come era quando ci siamo conosciuti? Ecco, ora le cose sono un po’ cambiate in quel senso.»
«Capisco.» Un sorriso amaro compare sul suo viso.
«Ma sono felice.» Gli dico. «Mi piace tutto qui.»
«Anche la scuola?» mi stuzzica, non sapendo la novità.
«Certo. Ho una media alta.» Gli dico con fierezza. «Ho preso “A meno” in matematica.»
«Questa non me l’aspettavo. Hai ufficialmente vinto su tutta la linea.» ride, avvicinandosi un po’ di più.
«Ehi! Pensavi che non ne sarei stato capace?» mi offendo. Da lì, prendo un cuscino e glielo sbatto sulla testa facendo scoppiare una guerra.
Ci addormentiamo a furia di colpi in faccia, io con la testa sul suo petto e lui che occupa l’intero letto a due piazze. Nel mentre, lo sento caldamente abbracciarmi nel sonno. Rivivere un momento del genere mi ha investito di così tanta gioia che non bastano le parole per descriverla.
Ma l’amara consapevolezza che ci separeremo di nuovo, che gli sforzi di questi giorni per ristabilire un minimo la nostra chimica e intesa andranno perduti e che la prossima volta, se ci sarà, bisognerà rifare tutto da capo, mi pervade il corpo e non va via. Il modo in cui stare insieme sia diventato totalmente diverso, pieno di momenti morti, silenzi e imbarazzo da ambo le parti, mi distrugge dentro. Non ci meritavamo questa fine. Non noi. Tra tutti, proprio noi no. Sto assimilando con una difficoltà mostruosa la consapevolezza che questo rapporto sia destinato lentamente a sbriciolarsi e che non ci sia nulla che io possa fare contro la forza distruttiva del tempo che ha tutta l’intenzione di separarci, stavolta in maniera definitiva e insindacabile. È per questo che, stavolta, devo fare la scelta giusta e affrontare la cosa con maturità. Non posso essere egoista anche ora, non posso distruggere la mia vita e ferirlo per l’ennesima volta. Se da un lato non può tornare (e non potrà mai), dall’altro continua a prendere i colpi delle mie azioni e delle mie parole. Il fatto che non gli facciano effetto vuol dire che li riesce a sopportare, non che non gli facciano male. Se ragionassi con l’istinto anche questa volta, farei fuori tutto ciò che di buono ho costruito e allo stesso tempo torturerei lui senza motivo.
Non voglio.
 
Questa mattina ho preparato la colazione da solo. In sala da pranzo ci sono Espedito, Maxine e Danielle. Alluka è seduta a capotavola mentre disegna qualcosa e la padrona di casa sta rientrando dalla passeggiata mattutina con i cuccioli. Killua esce dal corridoio ancora assonnato e in pigiama, facendo una faccia indescrivibile appena trova tutti vestiti.
«Dio… mi ero dimenticato che voi vi vestite per colazione.» si mette le mani nei capelli e sbuffa. «Pure tu, Alluka? Hai deciso di tradirmi?» Dice, fissando la sorella già pronta come se dovesse uscire.
«Non farti di questi problemi, ieri è stata una serata molto lunga. Vieni a tavola, Gon ha preparato la colazione.» lo rassicura Graziina.
Da poco, per avere qualcosa da fare il pomeriggio mentre Sebastian ha gli allenamenti di football, mi sono iscritto al club di arte culinaria “Cordon Bleu” gestito da Gina Gambarro e Amalita Amalfi. Traffico in cucina intento a preparare due vassoi, uno di crêpes e uno di galettes, per accontentare sia Espedito e Graziina che amano il salato che Killua e Maxine che preferiscono il dolce. Sono determinato: devo farcela, sia per fare bella figura con chi di dovere che per il prossimo incontro di lunedì.
«Adesso anche dietro ai fornelli! Hai deciso di vincere tutto.» entra Killua, intento ad ammirare l’enorme cucina della casa di Graziina. Il suo complimento mi fa arrossire, ma non posso farglielo vedere perché creerebbe molti dubbi. «Cosa prepari?»
«Normali crêpes al cioccolato bianco e poi delle galettes di grano saraceno al prosciutto con raclette. Questa settimana, Gina Gambarro ci ha detto di concentrarci sui piatti per la colazione di tutto il mondo. Io ho scelto i piatti francesi, visto che seguo il corso di francese.» dico, mentre sistemo le galettes nel vassoio bianco. Hanno un ottimo aspetto.
«Gina chi?» mi domanda, ridendo all’ennesimo nome strano che mi sente dire.
«La tutor del club di cucina. Avevo bisogno di qualche hobby pomeridiano… ti prego non ridere, ho scelto il “Cordon Bleu”, il club di cucina della nostra scuola.»
Mentre lo spiego, Killua fa delle facce tenere e buffe davanti alle quali mi è impossibile restare serio. Poi si avvicina e assaggia un pezzo di prosciutto. Ora siamo davvero troppo vicini.
«Il cordon bleu!» continua a prendermi in giro, mentre le sue braccia poggiate all’isola della cucina mi bloccano a sette centimetri da lui. «Perché non hai scelto qualcosa che preveda attività fisica?»
«Perché dopo la storia di Razor, anche senza Nen potrei decapitare qualcuno con una pallonata. Figuriamoci se dovessi braccare o altro. Gli sport qui sono tutti così violenti…» gli spiego, tentando di ignorare la posizione pericolosamente romantica in cui siamo. «Sebastian gioca a football, per un gioco con la palla si picchiano come indemoniati, perciò ho capito che non era il caso. Poi c’è quella di rugby, ma è anche peggio. Vorrei provare con il baseball, ma non inizierà prima della primavera. Perciò, nel frattempo, cucino. E poi, mi andava di fare qualcosa di diverso.»
«Ne prepari un altro vassoio mentre io porto questo con me in camera?» propone, scherzosamente, allontanandosi di qualche centimetro per prendere in mano i dolci caldi.
«Posso preparartene quante ne vuoi quando ci rincontreremo.» So che può sembrare ambiguo, ma voglio usare questa storia per fargli capire che voglio assolutamente vederlo di nuovo.
«Sebastian è così fortunato.» mormora a voce bassissima.
«Non ho sentito, ripeti.» Sorrido, parla così basso che il rumore del forno lo copre.
«Ho detto che chi mangia così bene è fortunato!» Subito si ricompone, con uno sguardo spaventato e imbarazzato che sul momento non ho compreso.
 
Quando mi siedo a tavola, prendo posto vicino ad Alluka da un lato e Maxine dall’altro. L’iPhone mi continua a vibrare.
Oggi avrei voluto vederti, ma sono bloccato con gli allenamenti.
Sarà difficile giocare bene se non smetto di pensarti :P
A parte gli scherzi, buongiorno cucciolo❤️
  • Sebastian
Quando leggo il messaggio, divento tutto rosso e quasi mi commuovo. Cavoli, ci sa proprio fare.
«Conosco quello sguardo. Qualcuno ha ricevuto il buongiorno!» Espedito subito mi punzecchia.
«Com’è romantico!» aggiunge Graziina.
«Siete una delle coppie più sexy della scuola. Lo hanno scritto sul giornalino!» mi informa Danielle, mentre Killua fa una faccia confusa a quell’ultima informazione. «E Donna LaDonna mi ha detto del tuo viavai nello spogliatoio quando gioca la squadra di football. Beati voi gay.»
«Oh, mio Dio…» mormoro, tra il divertito e l’imbarazzato.
«Anche tu sei fidanzato, giusto?» Danielle chiede a Killua.
«Stai facendo una sorta di sondaggio o ti piace sentire parlare di queste cose?» le risponde con un modo di fare sicuro di sé che non gli ho mai visto fare prima. «Sì, da cinque mesi.»
Dopo un po’ di insistenza da parte della non-Petracelli, Killua le mostra una foto di Frank. Una foto in cui è alto, abbronzato, muscoloso (anche troppo), sorridente e con un sorriso irresistibile. Non sarò mai come lui.
«Che cosa…» mormora Danielle, con stupore. Ti prego, non dirlo. «…porno!» Oh, mio dio.
Di tutta risposta, lui scoppia genuinamente a ridere. Sì, la scena della spiaggia mi dà un’idea di come sia visivamente la sua porno-relazione con Frank. Non che la mia con Sebastian sia un romanzo settecentesco, però ci sono delle differenze abbastanza marcate.
Cavoli, sto morendo dalla smania di chiedergli i dettagli. Mi spezza il cuore immaginare loro due che lo fanno, ma è allo stesso tempo intrigante. Non vedo l’ora di vedere Sebastian oggi, almeno mi farà passare questo senso di calore dentro.
«Il fratellone e Frank fanno un sacco di allenamenti nella camera da letto!» sbotta improvvisamente Alluka, distraendosi dal suo disegno. Tutti scoppiamo a ridere, meno Killua che vorrebbe sotterrarsi. E io sto ridendo per finta.
«Parli di quello stupendo diavolo e…» anche a Killua squilla il telefono, stavolta per una telefonata. «È lui, lo prendo sul balcone.»
«A Killua piace prenderlo sul balcone.» ripete Espedito, senza particolare espressività, facendomi ridere sul serio. L’albino, mentre chiude la finestra dietro di sé, gli fa il dito medio.
«Vabbè, sono gusti.» rispondo io, chiudendo quell’imbarazzante argomento una volta per tutte.
«Sbaglio o ci avete messo una pietra sopra?» Maxine sembra parecchio soddisfatta dalla cosa.
«No, tesoro. Gon ha imparato a fare una cosa chiamata arrendersi.» Stavolta la frase sagace arriva, con enorme sorpresa, da Graziina.
 
Quando Alluka e Graziina escono per andare a fare compere, io sento che tutto questo non è abbastanza. Non bastano una battaglia di cuscini, una chiacchierata in cucina e un pasto insieme per cancellare il vuoto che mi ha lasciato. Ho bisogno di risolvere la cosa al più presto, perché non posso far crollare tutto. Non adesso che ci parliamo di nuovo, non adesso che lui è felice e io sto abbastanza bene da potermi alzare dal letto la mattina senza sforzarmi.
 
Verso le undici convinco Killua ad uscire. Kurapika e Leorio ci hanno dato appuntamento per le cinque, così abbiamo tutto il tempo per andare a pranzo, girare e vedere qualcosa di carino. Killua è uscito di casa indossando una felpa blu e dei pantaloni cargo, voleva stare comodo. Io, non avendo a New York quella ristrettissima selezione di vestiti che indossavo prima, indosso i miei occhiali da sole di Chanel, pantaloni larghi e una camicia di flanella.
«Taxi!» urlo, appena siamo sulla strada alla vista di uno di quei veicoli gialli.
«Ma cosa fai?» mi dice, imbarazzato, vedendo il taxi accostare.
«Qui si fa così!» rido, vedendo la sua faccia scioccata. «Ma come hai fatto quando sei arrivato?»
«Qualche tratto a piedi e poi ho mandato Graziina in ospedale» risponde, mentre saliamo ridendo sulla vettura.
Il taxi ci porta a Central Park mentre Killua non può fare altro che guardare fuori dal finestrino per tutto il tragitto.
Sto gongolando troppo all’idea di mostrargli il posto in cui vivo, voglio proprio dimostrargli a tutti i costi che io sia felice. Non solo per la soddisfazione di farglielo sapere, ma anche perché spero che la cosa lo faccia stare meglio.
Camminiamo venti minuti per il parco ammirando la vegetazione e il laghetto, fino a trovare il Ladies Pavilion libero e insediarci lì.
«Vieni spesso qui?» mi chiede. Non posso fare a meno di notare il sorriso tranquillo che ha sul volto, per poco non ci annego dentro.
«Una volta ci sono stato con Sebastian.
»
Killua non fa altre domande, si limita a guardare verso il basso e a proseguire la passeggiata. 
 
Qualche ora dopo, ci incontriamo tutti e quattro al Magnolia Bakery, fortemente consigliato dalle ragazze per gli squisiti cupcake che, per molti, sono addirittura i migliori degli Stati Uniti. Ammetto che non sapevo cosa fosse un cupcake prima che una sera Graziina ne portasse una scatola piena a casa.
«Questa città è stupenda. Avevano ragione, York Shin non è nemmeno paragonabile.» commenta Leorio.
«Io non so se potrò mai fare a meno di questi.» Killua è già al suo terzo cupcake alla vaniglia. «Che delizia! Dovresti provarli.» dice a Kurapika, il quale ha deciso di prendere un dolce diverso.
«Ma quelli sono i cupcake di Carrie!» realizzo, appena vedo il disegno sul dolce che Killua ha in mano. Si tratta dell’episodio di Sex and The City che ho visto proprio l’altro ieri. In effetti dovevo capirlo dalla foto di Carrie e Miranda appesa all’interno del locale.
«Non dirmi che guardi anche tu quella roba!» sbotta Leorio, con fare schifato.
«Ogni giovedì sera ci riuniamo noi quattro per guardarlo. Io penso sia interessante.» dico, assaggiando il banana pudding di Kurapika.
«Ne ho sentito parlare, anche Palm ci si è fissata. Non è una serie nuova, ma da noi è arrivata da poco per ovvi motivi.» spiega Killua, decidendo che può anche fermarsi al quarto cupcake. «Non so più cosa inventarmi per impedire a mia sorella di vederlo. È una cosa così frivola e di un piattume disarmante.»
«La promozione di un’affettività disfunzionale e una sterilità emotiva mediante quattro donne benestanti che sono ossessionate dall’estetica, dai beni materiali e dai rapporti carnali.» Interviene Kurapika, che evidentemente ha trovato il tempo di dare un’occhiata alla serie. «In effetti, fa proprio per il tuo gruppetto.»
«Tu ed Espedito siete ancora ai ferri corti?» Domando.
«Cosa mi sono perso?» Domanda Killua, ignaro dell’intera situazione.
«Riappacificazione finita male.» borbotta Leorio. «Espedito qualche anno fa ci ha provato con Kurapika.»
«Stai scherzando?» L’albino per poco non salta dalla sedia. «E quando…»
«Credo durante le spedizioni tripartite.» Spiego io.
«Il punto è che, in queste situazioni, lui non attacca direttamente. È lì, mentre parla normalmente inserisce sacche di veleno che ti tira addosso all’improvviso con nonchalance.» Ci risponde Leorio. «A me dispiace perché non è una cattiva persona. O meglio, non completamente. Ha tantissime qualità e quando vuole è anche gentile, ma ha questo carattere orrendo che lo rende insopportabile. Gon, tu come fai?»
«Se ci passi tanto tempo diventa buono.» dico io. «Espedito si comporta così per difendersi. Come un gatto randagio che soffia alle persone che si avvicinano. Se impari a tenerlo buono, diventa un’altra persona.»
«Come è con te?» domanda Killua.
«Si preoccupa, si interessa di me, non mi insulta gratuitamente e mi lascia parlare senza interrompermi e iniziare a parlare di sé.» gli racconto.
«Non ci credo!» a Leorio sembra cadere la mascella.
«Solo perché in termini di egocentrismo ve la giocate.» Killua mi mette una mano sulla testa, ridendo bonariamente.
«Ma quando deve dire le cose in faccia, non si controlla proprio.» ammetto. «Sono già fortunato così, sono l’unico maschio con cui Espedito non dà il peggio di sé. Con le donne invece è un’altra persona, le venera.»
«Sì, tipico dei gay.» questa risposta di Leorio è alquanto inappropriata.
«Possiamo cambiare argomento? Non ne posso più di lui e di tutto ciò che lo riguarda.» Il biondo sembra davvero infuriato. «Sì, le cose sono andate così. Io l’ho rifiutato, lui non ha reagito male ma ho preferito tenere le distanze, per quel motivo ha iniziato a sputare veleno come suo solito ed eccoci qui. Ora vorrei che si parlasse di altro.»
Per quanto il triangolo Leorio-Kurapika-Espedito sia così intricato da volerci far approfondire la cosa anche per giorni se necessario, ci adattiamo alla volontà del biondino cambiando argomento. Ovviamente tampinerò Espedito appena possibile.
 
 
 
Arriva la notte. L’ultima notte prima che Killua se ne vada nuovamente. E io lo so già qual è il problema. È lo zsa zsa zsu, non mi fa dormire e mi fa contorcere da un dolore non riconducibile a nessun danno fisico. Solo l’idea della separazione mi accende un attacco d’ansia, mi sembra di tornare a NGL e sentire continui scoppi nella mia testa che mi inquietano. E sento la separazione con una sorta di dolore dell’arto fantasma.  
E ora lo so cosa provo. Ora lo so qual è il problema. È lo squisito dolore di cercare di vincere le battaglie più difficili. Le conseguenze del non averne mai abbastanza, del continuare a volere più potere, più forza, più tutto. Della stronzata che “se voglio, posso” e che basti non arrendersi per raggiungere gli obbiettivi. Tutte queste cose sono state scariche elettriche ad alto voltaggio che hanno fatto saltare l’intero impianto. Non ho abbastanza tolleranza del dolore. Almeno, non reggo questo tipo di dolore, non reggo lo zsa zsa zsu, che avrà sicuramente un nome in una lingua comprensibile, ma io non lo conosco. Questa è la tortura più pesante a cui io sia mai stato sottoposto.
E mentre mi contorco per il mio dolore fantasma, c’è lui. Con i fantasmi del suo passato, con i flash e gli scoppi dovuti alle torture che ha subito, con tutto il male che ha ricevuto e con tutto il male che gli ho fatto io. Come può anche solo volermi ancora bene? In un mondo così, che è stato ingiusto fino a quel punto. Come si può sovrastare una differenza che quando eravamo bambini sembrava non esistere, ma che oggi è talmente reale da tenerci separati più che mai?
Lui, per me, fa tutta la differenza nel mondo.
 
Un amaro risveglio alle cinque del mattino. Magda ha preparato il caffè e Graziina sta per uscire dalla doccia. Killua partirà alle sette e io dovrò essere a scuola per le otto. Sono nel mio letto, lui è qui accanto a me, girato verso la mia direzione e dorme ancora.
Non resisto e lo abbraccio.
«Gon, cosa…» si lamenta in dormiveglia. Poi apre gli occhi, mi fissa e sembra sorridere. Mi stringe mentre ho la testa schiacciata sul suo petto. Faccio passare il braccio sul suo fianco e mi arpiono a lui senza intenzione di schiodarmi.
«Mi mancherai.» gli piango sulla spalla. Non so che altro dirgli.
«Dai, non fare così…» mi dice, poco convinto, mentre mi accarezza la testa. Poi mi prende delicatamente il mento per farsi guardare negli occhi. I nostri visi sono troppo vicini, i nostri occhi pure. Mi fanno male le orbite, non reggo. È un pugnale conficcato direttamente nel cuore.
Come faccio? Questo è uno dei giorni peggiori. Restiamo stretti per cinque minuti. Il mio corpo cerca di accaparrarsi tutto il calore possibile, la mia mente fa scorta della sua gentilezza preparandosi ad una lunga carestia. Vorrei poter andare in letargo finché non lo vedrò di nuovo.
Il punto non è l’amore. Il punto è che il vuoto che ho dentro non si limita alla questione delle relazioni. Di fidanzarmi con lui, della dimensione romantica o sessuale non mi importa.
È lui, lui, lui. Punto.
Per un momento mi sembra essere tornato a cinque mesi fa. La voglia di non alzarmi più e vegetare nel letto è tornata. Non dovevo riprovarci, non dovevo ricascarci, dovevo tenerlo lontano e lasciarlo in pace. E, se avessi avuto il coraggio, tagliare i ponti definitivamente e non lasciare ottomila porte aperte.
«Killua! Se sei già sveglio, la macchina sarà qui tra quaranta minuti! Magda ha preparato la colazione.» dopo qualche bussata, Graziina ci parla dal corridoio.
«Quando ti deciderai a liberarmi?» Una scelta di parole pessima abbinata a un sorriso che mi spacca dentro.
«Ti voglio bene.» è tutto ciò che riesco a dire.
«Anche io. E tu non sei così debole.»
Non è vero. Non penso di essere mai stato forte, secondo una moderna rilettura decostruzionista di ciò che ero prima, ma il punto è proprio che non lo sono e basta.
«Io sono qui, più vicino che posso e sono dalla tua parte.» sussurra alla fine.
Questa era una mazzata gratuita che poteva benissimo evitare.
 
Per colpa mia, Killua ha perso così tanto tempo da dover fare colazione in piedi. Alluka è già pronta da almeno un’ora, con la sua valigia all’ingresso e perfettamente vestita. Mi saluta calorosamente, con un lungo abbraccio e la promessa di rivederci al più presto. È tutto così drenante.
La macchina è sul vialetto, Alluka è già corsa dentro a sedersi mentre Killua porta le valigie. Scendo per dargli una mano e così, dalle scale del portico, decido di tirare le somme. Ci sono delle domande che, se non gli facessi ora, mi perseguiterebbero per chissà quanto altro tempo. Togliamolo il cerotto.
«Direi che dobbiamo salutarci qui.» Dice, dopo aver caricato anche il piccolo trolley rosa di Alluka, facendo un sorriso sincero. Non mi merito questo sorriso.
«Aspetta, ti prego.» faccio per fermarlo, decidendo di giocarmela ora. «Ho bisogno di un segno. Voglio sapere che questi giorni non sono stati vani.»
«Gon, devo partire… e poi, cosa posso fare?» non sembra scocciato, ma decisamente ho avuto un tempismo pessimo.
«Dimmi solo…» singhiozzo. «Dimmi solo che è tutto finito, che questo fantasma ci abbandonerà prima o poi e che possiamo tornare ad avvicinarci.»
«Gon…» In verità non dice nulla, non sa cosa dire.
«Non devi dirmelo ora e non è una promessa da mantenere. È solo un segno. È tutto ciò che mi serve per andare avanti. Non dobbiamo per forza tornare ad essere quelli di prima. Io voglio solo essere nella tua vita e vivere ancora un numero indefinito di momenti insieme a te.» Sono già vicino a lui, poggiando la mia testa sulla sua spalla.
«Non posso dirtelo adesso.» Lui mi abbraccia e cerca di tenermi calmo, percependo la mia inquietudine.
«Io ti prometto che-»
«Non dirlo. Non adesso.» Ha capito subito dove volessi andare a parare. «Questa è una cosa che dobbiamo fare insieme. Non ti lascerò solo e in balia di te stesso a cercare di rammendare le cose.» Il suo tono diventa serio, ma quelle parole mi confortano. «Ora è meglio che io me ne vada.»
 
Lascio che la macchina parta, mentre mi siedo sulle scale e mi accendo una sigaretta. Tutto ciò che avrei voluto dire e che non ho detto mi passa davanti.
Dimmi che sono io, non deve saperlo il mondo o nessun altro se non vuoi. Dimmi che vuoi ancora camminare al mio fianco, che ti fidi di me e che possiamo essere inseparabili. Eternamente legati, eternamente bambini.
 
Poi, d’un tratto, una nuova sensazione mi investe cogliendomi di sorpresa.
È la fede. Fede in me stesso. Fede nel fatto che, nonostante piangerò senza pause per una settimana, saprò rinascere da queste macerie. La fede nel sapermi costruire, un giorno, quello che oggi tanto mi manca e cerco in lui.
E che forse, un giorno, saprò concedermi totalmente a chi mi dirà che sono io, che vuole camminare al mio fianco e che si fida di me. 
   
 
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