Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    22/06/2023    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non provavo dolore. Non ancora, almeno. Dentro di me c’era solo un’immensa rabbia. Gridai. A squarciagola. Fu un grido sinistro, potente, liberatorio. E durò parecchio. Se avessi avuto la cintura addosso mi avrebbe sentito tutta Onigashima. Avevo bisogno di sfogarmi, non solo per la morte di Kenji, ma per tutto ciò che avevo vissuto quella notte. Sfoderai l’ascia e mi scagliai contro la biscia. La tagliai a metà. Non perse sangue come mi aspettavo, quello che avevo reciso erano dei cavi elettronici. Non era neanche un animale vero, era un fottuto cyborg. Poi fu la volta dei sottoposti di Kaido. Loro non vedevano altro che un’ascia che fluttuava per aria, mi compiaceva così tanto guardare la confusione e la paura nei loro occhi. Li avevo in pugno, e avrebbero avuto ciò che meritavano. Fui rapida, ma non per questo gentile. Tagliai la gola ad entrambi e li osservai mentre i loro corpi erano scossi dagli spasmi e il sangue sgorgava copioso dalle ferite. I due avevano mangiato uno Smile, perché prima di morire risero fino alle lacrime. Io ero un medico. Mi ero ripromessa che non avrei ferito o ucciso nessuno a meno che la mia vita non fosse in pericolo. Avrei potuto convincermi che lo avevo fatto perché ero sotto minaccia, ma la verità era che provavo piacere nel guardarli morire. Per quella volta lasciai che l’oscurità dentro di me vincesse. Il mio compagno era stato assassinato, e io volevo vendetta.
Presi un respiro profondo, gettai l’ascia a terra e mi dedicai a Kenji. C’era poco che potessi fare ormai, ma non potevo lasciarlo lì. Anche se non era più vivo era comunque un essere umano, un amico, una brava persona che meritava una degna sepoltura, un ultimo addio da parte dei suoi compagni. La prima cosa da fare era accertarsi che fosse veramente morto. Appoggiai due dita sul suo collo: non c’era battito. Mi passai una mano tra i capelli e inspirai a fondo. Controllai le ferite che gli erano state inferte. Tuttavia, a parte quella sulla gamba, non trovai niente. Non era possibile che il suo corpo perdesse sangue senza avere delle ferite, e l’emorragia causata dall’unica che aveva era stata parzialmente fermata dalle cinghie di cuoio. Com’era possibile?
«Kenji?» Lo scossi per la spalla, come se potesse risvegliarsi magicamente e darmi le risposte che cercavo. Mi resi conto che, se anche si fosse svegliato, senza cintura non poteva né vedermi né sentirmi, e dopo aver controllato che non ci fossero altri animali con “occhi indiscreti” nei dintorni, me la rimisi. Lo scossi di nuovo e stavolta vidi per puro caso una fialetta rotolare dalla mano di Kenji fino al mio ginocchio. La presi in mano.
«Oh.» Mi venne da piangere, per sciogliere tutta la tensione che si era formata dentro di me negli ultimi minuti. Mi sentivo così stupida. Come avevo fatto a non pensarci prima? Non era morto, era sotto l’effetto del siero Giulietta. Prima della guerra ne avevo preparate quante più fiale possibili e le avevo distribuite ai miei compagni. Kenji l’aveva usato, ed era vivo. Come io avevo cercato di fare con Law, anche il rosso l’aveva preso per depistare i nemici. Aveva preferito giocare in difesa e non in attacco, e se le mie ipotesi erano corrette... Feci scorrere un dito nella pozza di liquido rosso e lo assaggiai.
«Salsa di pomodoro. Come pensavo.» Sbuffai una risata. Un’intuizione di Usop. Se la portava sempre dietro e quando gli avevo spiegato a cosa servisse il siero Giulietta – ne era rimasto entusiasta – mi aveva consigliato di tenerne un po’ pronta all’occorrenza, per rendere più credibile la messinscena. “Se  sei immerso in un lago di sangue, nessuno dubiterà della tua morte,” mi aveva detto, e aveva ragione. Perfino io mi ero convinta che il mio amico fosse defunto. Dovevo dargliene atto: il cecchino era un genio. Tuttavia sarebbero stati sforzi vani se non mi fossi sbrigata a curare Kenji. Tirai fuori il necessario dagli zaini e iniziai a darmi da fare.
Mentre suturavo la lacerazione gettai uno sguardo ai cadaveri dei due nemici che giacevano un po’ più in là. Li avevo uccisi per vendetta in un impeto di furia quando non era colpa loro. Eppure non riuscivo a sentirmi dispiaciuta. Non pensavo che se lo meritassero, ma non ero pentita di averlo fatto. Non potevo tornare indietro in ogni caso, ormai erano morti. Era più facile quando si accettava la propria oscurità.
 
Appoggiai la schiena e la testa alla parete e sospirai, esausta. Kenji non si era ancora risvegliato, ma il suo incarnato non era più pallido e smunto. La sua gamba era stata medicata ed era a posto. Si sarebbe rimesso senza problemi se la trasfusione fosse andata bene. Avevo appeso la sacca di sangue a un chiodo che sporgeva dal muro e ora stavo monitorando la situazione. Non ero sicura di riuscire a resistere per molto. Mi faceva male la testa, mi sentivo stordita ed ero estenuata. Il ronzio non se ne andava dalle mie orecchie e la mia vista stava diventando sfocata. Non dovevo cedere alla stanchezza, però non potevo farci niente, non avevo più il controllo del mio corpo. Gli antidolorifici diminuivano il dolore, ma non avevano il potere di rinvigorirmi.
Avevo appena chiuso gli occhi quando un rumore di passi mi mise in allerta e l’adrenalina tornò a circolare nelle mie vene. Mi presi un istante per riflettere su quale fosse la strategia migliore. L’unica opzione che avevo era combattere, dovevo proteggere Kenji. Presi la mia arma, mi rialzai e la puntai contro chiunque fosse di fronte a me.
Pochi secondi dopo, l’ascia cadde a terra con un tonfo metallico.
«Law!?» Forse stavo avendo un’allucinazione.
La figura mi squadrò da capo a piedi, come se stesse valutando la situazione, e io feci altrettanto. A differenza di me era ancora capace di stare eretto, ma il volto e le parti visibili del suo corpo erano un quadro astratto di sangue rappreso. Aveva l’aria stanca e sospettavo stesse nascondendo ferite profonde e dolorose. Ma era davvero il mio Capitano? Non c’era da fidarsi di nessuno, i sensi potevano ingannare. Ripresi in fretta la Mr. Smee e gliela puntai di nuovo contro.
«Tuo zio ha un negozio di materassi ed è molto geloso di te,» si limitò a dire.
Dapprima rimasi sconcertata, poi tornai a rilassarmi. Solo chi era stato nel mio universo poteva saperlo ed era un’informazione troppo specifica perché qualcun altro potesse esserne venuto a conoscenza, per cui non era un nemico. Inoltre quella era la voce di Law, era inconfondibile. Sentirla instillò un certo sollievo in me. Era vivo, aveva ancora tutti gli arti e si reggeva in piedi.
«Cosa ci fai qui?» gli chiesi, avvicinandomi a lui. Gli appoggiai una mano sulla spalla per accertarmi che non fosse una creazione della mia mente. Era reale, c’era davvero il Chirurgo della Morte di fronte a me. Sorrisi, mentre lui spostò lo sguardo su Kenji, nelle iridi una punta di preoccupazione. Lo guardai anche io.
«Sta bene,» lo rassicurai. «Cioè, se la caverà. Il sangue che vedi è in realtà salsa di pomodoro ed è privo di sensi perché ha assunto il siero Giulietta. Dovrebbe riprendersi a breve, ho pulito e suturato le sue ferite e gli sto facendo una trasfusione.»
«Una trasfusione di sangue nel bel mezzo di una guerra?» Sollevò un angolo della bocca, divertito da quell’idea assurda.
Feci spallucce. «Si fa quel che si deve fare per salvare gli amici.»
«Li hai uccisi tu?» Indicò i corpi esanimi dei sottoposti di Kaido.
«Sì...» Abbassai gli occhi. «Non avevo capito che Kenji stesse inscenando la sua morte, pensavo che quei due lo avessero fatto fuori. Mi sono infuriata, ho perso il controllo e...»
«Hai preso la decisione giusta,» affermò, facendomi rialzare lo sguardo. Ero sorpresa da quella dichiarazione, non capitava spesso che gli sentissi pronunciare quelle parole. «E hai fatto un buon lavoro con Kenji.»
Serrai le palpebre per non piangere. Avevo così bisogno di sentirmelo dire da qualcuno. No, di sentirmelo dire da lui.
«Tu però non hai un bell’aspetto.» Non lo disse con apprensione, quanto piuttosto con scherno. Ed ecco che era tornato ad essere il solito Law.
Sbuffai una risata. «Senti chi parla, hai più sangue in faccia che nelle vene.»
Tornò serio, mi posò due dita sul mento e costrinse le mie iridi ad incontrarsi con le sue. Sussultai al suo tocco gelido, anche se mi era quasi mancato, nonostante tutto. «Le tue pupille sono dilatate, hai una commozione cerebrale.»
Feci un mugugno di assenso. Era possibile, questo spiegava il mal di testa, il senso di stordimento e vari altri sintomi.
«In ogni caso, non hai risposto alla mia domanda. Che ci fai qui?»
Sembrava riluttante a rispondere, ma sapeva che non mi sarei arresa fino a che non avessi avuto una risposta. «Ti ho sentito gridare.»
Sbattei le palpebre un paio di volte, confusa. Non aveva senso. Sì, avevo urlato, e sì, senza cintura lui poteva sentirmi comunque, ma come faceva a sapere che il grido proveniva da me? Come faceva ad esserne certo in una battaglia piena di rumori molesti?
«Non è importante,» disse, come se potesse leggermi nel pensiero. Non ero d’accordo, però conoscevo il Capitano: non avrei ottenuto più di così. In fondo aveva implicitamente ammesso che si era preoccupato per me.
Spostò di nuovo lo sguardo verso Kenji e io lo seguii. Sorrisi sollevata quando notai che si era risvegliato.
«Cami, Capitano.» Ci sorrise. Sembrava un po’ smarrito, ma era contento di vederci e – supponevo – di essere vivo.
«Prenditi cura di lei,» si raccomandò il chirurgo, serio. Poi girò i tacchi e si mise a camminare nella direzione opposta alla nostra.
«Aspetta un attimo!» Affrettai il passo per raggiungerlo. Lo osservai attentamente. «Tu vuoi tornare a combattere.»
«Non sono affari tuoi,» fece, tagliente.
Lo ignorai e inorridii dinnanzi all’epifania che avevo avuto. «Oh, mio Dio. Vuoi scontrarti con Big Mom. Sei impazzito, per caso!?»
Lo afferrai per un braccio e lo costrinsi a girarsi verso di me.
«Non sono affari tuoi,» ripeté, il fastidio cominciava a diffondersi in tutto il suo corpo.
«Sì che lo sono! Sei esausto, ferito e hai bisogno di cure. Ti reggi a malapena in piedi, sei sopravvissuto per miracolo allo scontro con Kaido e ora vuoi affrontare un altro Imperatore? È un suicidio!» Il mio tono di voce era più alto di quanto avessi programmato. Non sapevo se fossi più preoccupata o arrabbiata, ma cercai di darmi una calmata. «Non devi dimostrare niente a nessuno. Non sei inferiore a Rufy o a Kidd. Ti sei battuto con onore contro l’uomo più forte del mondo. Hai fatto la tua parte, il tuo nome riecheggerà per tutti i mari come hai sempre voluto, ora puoi riposarti.»
Stavolta fu lui a prendermi per un braccio. Mi avvicinò a sé e portò la sua bocca a pochi centimetri dal mio orecchio. «Sconfiggere quella vecchiaccia potrebbe essere la chiave per scoprire qualcosa di più sulle origini del mio nome e sul mio destino. Non mi farò sfuggire un’occasione del genere.»
Non potei controbattere. Sapevo quanto fosse importante per lui. E non potevo neanche consigliargli di avere fiducia in Rufy, perché io avevo il privilegio di leggere quello che accadeva in quell’universo e lo avrei saputo comunque. Lui non poteva permettersi di affidare il suo destino a qualcun altro, né avrebbe voluto farlo.
Sospirai rassegnata.
«Lasciati almeno curare prima di andare.» Quasi lo supplicai.
«Non c’è tempo.» Si staccò da me. «Cercate un posto sicuro, recuperate le vostre energie e, quando la battaglia si sarà placata, andatevene dal castello.»
«E che ne sarà dei feriti da curare?» chiese Kenji, che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
«Pensate a mettervi in salvo. Le cose presto si faranno movimentate.» Law ghignò e un guizzo di malizia attraversò le sue iridi cineree, poi ricominciò a camminare.
«Law...» lo richiamai, trattenendolo per un polso. Tirai fuori dalla tasca un flacone di antidolorifici e glielo passai. Se lo infilò nel cappotto. «Ti prego, fa’ attenzione. Non voglio rimanere orfana di Capitano.»
Mi sorrise, fu un sorriso genuino, ma anche di sfida. «Pensa per te. Sopravvivi. Ci vediamo all’ingresso di Onigashima all’alba.»
Annuii prima di vederlo sparire nella bolla bluastra della sua Room.
Mi passai una mano sul viso, sussultando al mio stesso tocco per il dolore delle ferite. Mi sentivo così stanca, non riuscivo più a stare in piedi. Tornai a sedermi accanto a Kenji e notai con disappunto che stava sorridendo.
«Cos’hai da sorridere? Il Capitano sta andando incontro a morte certa,» lo rimproverai, infastidita dalla leggerezza con cui entrambi affrontavano la cosa.
Scosse la testa, come a scacciare qualunque pensiero stesse avendo. «Non dovresti sottovalutare il Capitano.»
Alzai gli occhi al cielo. «Non lo sottovaluto. Semplicemente, mi preoccupo per lui. È forse un crimine?»
«No, ci mancherebbe.» Tornò a fare lo stesso sorriso sornione di prima.
Sbuffai, poi tornai seria. «Come ti senti?»
«La gamba mi formicola un po’, ma a parte questo come nuovo.» Fece forza sulle braccia e tirò su il busto, appoggiando la schiena al muro.
«Non devi fare sforzi, hai perso molto sangue.» Cercai di aiutarlo a sistemarsi meglio, ma avevo a malapena le forze per tenere gli occhi aperti. La scarica di adrenalina si era esaurita.
«Sto bene, grazie a te. Mi hai rimesso in sesto. Ora dobbiamo pensare a te.» Mi appoggiò una mano sul ginocchio mentre con l’altra tirò fuori dagli zaini le garze. «Dove ti fa male?»
Risi. «Dappertutto.»
«Cami, devi rimanere con me. Non puoi addormentarti.» La voce del mio compagno era angosciata e iniziò a darmi piccoli colpetti sulla guancia per tenermi sveglia. Ma a quel punto nemmeno una scarica da tre milioni di Volt avrebbe potuto impedirmi di perdere conoscenza.
 
Riaprii gli occhi per trovarmi davanti il viso preoccupato di Kenji, che si rilassò quando si accertò che fossi reattiva e non avessi danni cerebrali.
«Per quanto tempo sono rimasta priva di sensi?»
«Il tempo di farti un’iniezione di vitamine.»
«Meno male che sono svenuta allora.» Ridacchiai, ma dovetti fermarmi quando sentii una fitta allo stomaco. Mi portai una mano sull’addome e percepii un liquido bagnare le mie dita. Sospirai. Stavo ancora sanguinando.
«Lascia che ti aiuti,» il rosso quasi mi supplicò, le iridi di nuovo riempite di preoccupazione.
Acconsentii e abbassai la cerniera della divisa fino all’ombelico. Evitai di sghignazzare quando lo vidi arrossire; però da bravo medico tornò serio e valutò la situazione. Emisi un gemito sofferente quando pressò i palmi sulla mia pancia.
«Non ti servono punti, le ferite sono superficiali, ma credo che tu abbia qualche costola rotta e lo stomaco potrebbe aver subìto dei danni.»
Annuii. Non c’era altro che potessi fare. Le costole rotte non potevano essere risanate con farmaci o fasciature e non c’era modo di scoprire se il mio stomaco fosse danneggiato, né di curarlo. I mezzi a nostra disposizione erano scarsi, ma finché ero viva e cosciente mi andava bene così. Con un po’ di fortuna sarei tornata presto sul sottomarino dove avrei fatto gli accertamenti che dovevo fare e mi sarei curata. Law aveva confermato l’appuntamento all’alba, perciò si trattava di resistere qualche altra ora, poi sarebbe tutto finito.
Lasciai che Kenji mi fasciasse l’addome, la testa e applicasse qualche cerotto qua e là, come io avevo fatto con lui. Per il mio zigomo gonfio usò una pomata. Poi entrambi prendemmo un paio di antidolorifici, ci sistemammo con la schiena appoggiata alla parete e per un po’ nessuno dei due parlò. Dovevamo aspettare che la trasfusione fosse completata prima di muoverci da lì, ci sarebbe voluta un’altra ora. Il controsoffitto non era il posto più sicuro, ma era sempre meglio che tornare nel vivo della battaglia. Se ci avessero trovati ci saremmo difesi in qualche modo.
«Grazie,» disse il rosso per rompere il silenzio. «Per avermi salvato, intendo.»
«Ti sei salvato da solo quando hai ingerito il siero Giulietta e ti sei cosparso di salsa di pomodoro,» gli feci notare con un sorriso sulle labbra.
«Ho ingerito il siero da te creato e ho seguito il consiglio che mi hai dato tu. Perciò sì, mi hai salvato la vita.» Mi strinse la mano tra le sue in segno di gratitudine.
Gli sorrisi. «Hai corso un bel rischio, però.»
«È stato un rischio calcolato. Hai presente quando negli scacchi sacrifichi un pezzo per mangiarne un altro all’avversario?»
«Certo,» mentii, un sorriso finto sulle mie labbra. Kenji sarebbe andato d’accordo con Marco. A guerra terminata avrei dovuto presentare i due, così avrebbero finalmente potuto giocare una partita di scacchi con un degno avversario, uno che avesse voglia di farlo.
«Puoi permetterti di farlo solo se un tuo pezzo è protetto da un altro,» mi spiegò, poi sollevò un angolo della bocca. «Io ero protetto dalla Regina.»
«La Regina sarei io?» Percepii l’imbarazzo farsi strada nel mio corpo. Non ero sicura di voler continuare la conversazione.
«Certo. Non sei conosciuta nel mondo come la Regina di Cuori?» Allargò il suo sorriso.
«Oh, già. Pare di sì.» Feci spallucce e sorrisi anche io. Con il tempo avevo imparato a non disprezzare quell’appellativo. Non era un nomignolo datomi da un giornalista idiota a definirmi, l’importante era che non perdessi di vista chi ero io e chi volessi essere. E se il resto del pianeta credeva che io fossi la fidanzata di Law, pazienza.
«Sapevo che saresti tornata a breve e che ci avresti pensato tu,» affermò convinto, poi gettò uno sguardo ai due cadaveri. «E avevo ragione.»
«Pensavo che ti avessero ucciso. Mi sono infuriata, ho perso il controllo e...»
«Lo so,» mi interruppe. «Ero sveglio, ho ascoltato la conversazione che hai avuto con il Capitano.»
Annuii, non sapendo che dire. Non volevo tornare sull’argomento, li avevo uccisi e basta. Kenji capì che avevo bisogno di silenzio, si avvicinò a me e mi cinse le spalle con un braccio, stringendomi a sé. Appoggiai la testa sul suo petto e ascoltai il suo cuore che batteva. Quello cancellava il senso di colpa.
«Sono così felice che tu sia vivo.» La voce mi tremò e tradì tutta la mia emozione.
Posò una mano sulla mia guancia. «Te l’ho detto, è merito tuo.»
Rimanemmo fermi in quella posizione per diverso tempo, e la verità era che non mi dispiaceva.
 
Un rumore sinistro rimbombò per il controsoffitto, le pareti tremarono e una pioggia di polvere si riversò sulle nostre teste. Qualcuno sopra di noi gridò in totale agonia. Sbuffai, mi passai una mano tra i capelli e mi misi a fissare un punto imprecisato di fronte a me. Andavamo avanti così da mezz’ora. Non sopportavo più quei suoni, mi toglievano ogni energia, e come a me anche a Kenji. Non parlavamo, non ci guardavamo neanche, ce ne stavamo in silenzio a contemplare l’atrocità di quella guerra. Di che cosa si poteva chiacchierare quando attorno a noi continuavano a soffrire e a perire? Solo ogni tanto, a causa della commozione cerebrale, il mio compagno controllava che fossi ancora vigile con domande di prassi. Non volevo essere lì. Sapevo che non era colpa mia, ma il peso delle persone che avrei potuto salvare e che invece erano morte cominciava a diventare schiacciante. Negli ultimi minuti avevo messo a punto un metodo per scappare mentalmente da quella brutalità. Non mi trovavo più su Onigashima, ero su un’altra isola, un’isola che mi apparteneva. I rumori angoscianti erano spariti, ero circondata dal cinguettio degli uccellini e dallo sciabordio delle onde che si infrangevano sulla spiaggia. Ero seduta sulla bianca sabbia della costa, di fronte a me l’immenso orizzonte azzurro. Le mie caviglie erano lambite dall’acqua cristallina, la temperatura era perfetta come sempre. Il mio corpo era cullato da una leggera brezza. Ero sola, ma ero in pace. In qualunque momento avessi voluto mi sarei potuta alzare e librare in volo sopra il mare, sopra gli alberi, sopra le montagne.
Mi distrassi da quell’idillio perché percepii lo sguardo del mio amico su di me.
«Che c’è? Ti fa male qualcosa? È la gamba?» Mi agitai, cercando di capire quale fosse il problema.
Scosse la testa. «È da un po’ che sei assorta nei tuoi pensieri. Le persone attorno a noi stanno morendo come mosche, eppure tu hai un’aria così serena. Mi chiedo cosa possa renderti tanto serafica.»
Lo guardai. Avrei voluto sorridere, ma non mi sembrava rispettoso, perciò mantenni un’espressione e un tono neutrale. «Stavo pensando al mio posto speciale, mi immaginavo di trovarmi lì, dove non ci sono guerre in corso e nessuno muore.»
«Qualche ora fa mi hai chiesto come facessi a non farmi turbare da ciò che stavo vedendo. Ti ho risposto che è perché ho una persona da proteggere, ed è vero, ma ho resistito anche perché mi sono aggrappato al mio posto speciale.»
Gli posai una mano sulla spalla e gliela strinsi. Era umano anche lui.
«Il mio posto speciale è il salotto della casa dove sono cresciuto,» confessò con un sorriso amaro sulle labbra. «Non so neanche se esista ancora, ma nella mia mente il ricordo di quella stanza è immacolato.»
Avrei voluto chiedergli di parlarmene, ma non ci fu bisogno che dicessi niente. Iniziò da solo a raccontarmi ogni centimetro di quel salotto, le parole gli uscivano dalla bocca come un fiume in piena, come se avesse bisogno di condividere quel ricordo con qualcuno. Con me.
«Era la mia stanza preferita, quella in cui passavo più tempo, perché era la più vicina alla porta di casa e lì aspettavo con ansia che mio padre tornasse dal lavoro e giocasse con me. Le pareti erano gialle. Era un giallo strano, ma accogliente e allegro. Le tende alle finestre erano della stessa tonalità. Non mi piacevano, erano troppo pompose per me. Al centro del salotto c’era un tappeto ovale rosa. Non si intonava bene con i muri, però è la prima cosa che mia madre ha cucito quando era bambina, perciò lo sfoggiavamo con fierezza. Con gli anni si è scolorito, ma è sempre rimasto intatto. Sopra al tappeto c’era un tavolino che io usavo per giocare. A mia madre sembrava spoglio, perciò ci aveva messo un vaso con dei tulipani dello stesso colore del tappeto. Mi rimproverava sempre, perché io mi dimenticavo lì la scacchiera per giorni e così si formava uno spesso strato di polvere. Avevamo due vecchi divani in pelle marrone disposti ad angolo retto, erano scomodi e scricchiolavano ad ogni movimento che facevo.» Fece una pausa per ridacchiare. I suoi occhi erano distanti, non era più accanto a me, era tornato lì. «E infine il pezzo forte: a sinistra, nell’angolo, c’era un pianoforte. No, non un pianoforte. Il pianoforte più bello che abbia mai visto. Era antico, in legno, dello stesso colore dei divani. Mia madre lo suonava quasi ogni sera. Appena finiva di lavorare, per rilassarsi si sedeva sullo sgabello e iniziava a suonare. Aveva le mani piccole, le sue dita delicate producevano magia. La domenica faceva sempre la crostata di mele. Era buonissima. Mentre aspettavo che si cuocesse mi sedevo sul panchetto del pianoforte accanto a lei, la ascoltavo suonare e guardavo fuori dalla finestra, che dava su un grande prato. Quando il sole tramontava i fili d’erba si tingevano di oro e a volte mi immaginavo di potermi sdraiare su quel prato dorato e rimanere lì per sempre. Ed è così che mi voglio ricordare la mia infanzia, con una stanza colorata, la musica nelle orecchie, il profumo di crostata di mele nell’aria, i fiori non ancora appassiti e la vista su un grande prato dorato. È qui che vado con la mente quando ho bisogno di pace.»
Prese un respiro profondo, come se si fosse appena liberato di un peso enorme. Avevo l’impressione di essere la prima a cui confessava una cosa tanto intima, non lo aveva detto nemmeno ad Omen. Seguì un minuto buono di silenzio. Non sapevo bene che dire. Mi limitai ad osservare le sue mani. Erano piccole e graziose. Doveva averle riprese da sua madre. Le era molto affezionato.
«Quel pianoforte poi è sparito, mio padre ha dovuto venderlo a causa dei debiti accumulati per l’alcol,» riprese a parlare, la sua espressione era diventata dura. Mi venne il magone a pensare che il suo posto speciale era costruito su un ricordo che suo padre era riuscito a distruggere completamente. Ma almeno c’era stata luce prima del buio.
Mi trovavo di nuovo senza sapere che dire. Erano bei ricordi macchiati dalla nostalgia e dai demoni di suo padre. Avrei potuto dirgli che mi sarebbe piaciuto conoscere sua madre, ma rischiavo di rattristarlo ancora di più.
«Il mio posto speciale è un’isola,» confessai infine. Mi uscì senza pensare, non avevo intenzione di dirlo, tanto che anche Kenji si girò a guardarmi sorpreso.
«Un’isola?»
Annuii. La mia mente ritornò sull’Isolachenoncè e sorrisi.
«Ti va di parlarmene?» La sua espressione era tornata serena.
Mi bloccai per qualche istante, non sapendo cosa rispondere. Gettai un’occhiata alla sacca della trasfusione, ci sarebbe voluta un’altra mezz’ora. Sospirai. Mi ero ripromessa di raccontargli tutto di me, la mia vera storia, e il mio posto speciale faceva parte di essa. Da qualcosa si doveva pur cominciare, giusto?
E così gli parlai dell’Isolachenoncè. Gli dissi di quanto fosse meravigliosa, e che in realtà ne esistevano diverse. Ce ne era una per ognuno di noi, e la creavamo a nostra immagine e somiglianza, a seconda di come ce la immaginavamo. La mia era silenziosa e deserta, le uniche creature che vi abitavano erano un gruppo di fatine che di tanto in tanto venivano a danzare attorno a me e spruzzavano sul mio corpo la loro polvere magica. E dopo mi libravo in aria e sorvolavo l’isola fino ad arrivare alla Roccia del Teschio. Gli parlai dell’Accampamento degli Indiani, del Covo dei Cannibali, della Laguna delle Sirene e dell’Albero dell’Impiccato. Tutto attorno al mio nascondiglio c’era una fitta vegetazione, e l’isola profumava di rosmarino e salvia. Più sopra, però, tra le nuvole, c’era odore di zucchero filato, che si intensificava ogni volta che volavo accanto a loro. Ogni tanto si udiva il frinire di qualche grillo dispettoso, che cessava non appena mi stufavo di sentirlo. Ciò che non mancava mai era il cinguettio all’alba degli uccellini appollaiati sugli alberi.
Avrei voluto raccontargli di Peter Pan, Campanellino, i Bimbi Sperduti, Capitan Uncino, Spugna, Giglio Tigrato, del coccodrillo e di tutti coloro che in principio abitavano l’isola, ma non era il tempo e il luogo per farlo. Sapevo che se avessi cominciato non mi sarei più fermata, e la priorità era uscire da lì. Potevamo rimandare la nostra chiacchierata a quando le nostre vite non sarebbero state più in pericolo.
Kenji non mi chiese niente. Mi lasciò fare il mio monologo e continuò a fissarmi con aria beata, come se pendesse dalle mie labbra. Era interessato a quello che avevo da dire, e non aveva bisogno di conoscere quali fossero le origini dell’Isolachenoncè. Non voleva sapere se fosse un luogo reale, o come ne fossi a conoscenza. Voleva solo sentirmi parlare, ascoltarmi. Per tutto il tempo, però, mi sentii un po’ a disagio nel raccontarglielo. Ponderai parola per parola, perché non volevo ancora rivelargli troppo per non destabilizzarlo, né sembrare una pazza fanatica, cosa che probabilmente ero. Però ciò che mi faceva sentire più a disagio non era quello che avrebbe potuto pensare Kenji di me, quanto il fatto che rivelargli i dettagli dell’Isola fosse come mettermi a nudo. Perché quello era il mio posto. Parlarne per me era una cosa molto intima, era come consegnare in mano al mio interlocutore un pezzo della mia anima. Era la prima volta che rivelavo i dettagli di quel luogo, la versione dell’Isolachenoncè creata da me, a qualcuno. E mi ero meravigliata del fatto che lo stessi facendo proprio con lui. Non ne capivo la ragione. Forse era perché il mio compagno si era aperto con me e mi aveva rivelato quale fosse il suo segreto. O forse era per la gratitudine che provavo nei suoi confronti per non essersi mai arreso con me. Oppure era perché rischiavamo di morire in una guerra epocale, e se mi fosse successo qualcosa quello sarebbe stato il mio lascito. No, non era solo questo. C’era qualcos’altro, ma non sapevo cosa.
«Ho scelto questo come il mio posto speciale perché mi fa sentire libera. Non solo libera di fare ciò che mi pare, ma anche libera dai miei demoni. Se esiste un Paradiso, spero che l’Isolachenoncè sia il mio.»
Mi ritrovai la mano di Kenji sul ginocchio e tornai alla realtà. Mi resi conto che si era avvicinato a me, mi guardava in un modo diverso dal solito, non gli avevo mai visto quello sguardo.
«So che hai detto che la tua Isolachenoncè è un luogo silenzioso e deserto, ma... c’è qualche speranza che accetti la visita di un amico?»
Sbuffai una risata. «Vedrò che posso fare.»
La sua mano si spostò sulla mia guancia, le iridi di acquamarina continuavano a scrutarmi con un’aura indecifrabile. Si avvicinò ancora, il cuore iniziò a martellarmi nel petto.
«Scusa,» mi sussurrò, poi mi ritrovai le sue labbra morbide pressate sulle mie. Di nuovo. Stavolta però non mi irrigidii. Me lo aspettavo, e mi andava bene così. Accolsi lui e il suo bacio e lo ricambiai. Non pensai a niente. Non mi chiesi perché lo fece, né perché io non lo avessi fermato. Non ragionai sulle conseguenze che quel gesto avrebbe potuto avere. Lo baciai e basta. E, libera dalle paranoie mentali, non potei evitare di considerare che non mi dispiacque. E per un attimo, per un solo attimo, davanti a me apparve l’Isolachenoncè.
Una cosa era certa: avrei lasciato Onigashima – sempre che vi fossi riuscita – con un nuovo legame. Quella notte tra me e Kenji si era stabilita una connessione profonda e indissolubile. Di che tipo, andava chiarito.
 
Approfittai degli ultimi minuti che rimanevano perché il mio amico finisse la trasfusione e mi appartai in un angolo per fare pipì. Erano passate molte ore dall’ultima volta che ero andata in bagno, e tra l’ansia e l’acqua che avevo bevuto per tenermi idratata, era inevitabile che la mia vescica si fosse riempita. Mi presi qualche istante in più per farmi forza e ricordarmi di respirare. Quando tornai da Kenji lo trovai intento a scribacchiare qualcosa su un foglietto di carta. Non appena si accorse della mia presenza si affrettò a rimetterlo in tasca.
«Che stai facendo?» gli chiesi, sospettosa. Il solo fatto che si fosse portato carta e penna in una guerra era strano.
«No, niente!» Si grattò la nuca e fece un finto sorriso innocente.
«Farò finta di crederci...» Decisi di lasciar perdere. Il mio unico pensiero in quel momento era uscire dal castello. Se fosse stato qualcosa di importante me l’avrebbe detto.
Mi disinfettai le mani, sfilai l’ago dal braccio del mio compagno e buttai via la sacca – ormai vuota – di sangue. Infilare e sfilare aghi era sempre la parte peggiore per me, ma non avevo altra scelta. Come ci aveva detto Law, era arrivata l’ora di metterci in salvo e lasciare che i pezzi grossi si scatenassero. Rufy non era ancora tornato a combattere con Kaido. Non era nemmeno su Onigashima, lo percepivo. Mi chiesi dove fosse e se stesse bene. Sì, era vivo, però in che condizioni era? Forse il Capitano lo sapeva, nella confusione mi ero dimenticata di chiederglielo. Non saperlo mi angosciava, non solo perché era un mio amico, ma anche perché il mio destino dipendeva da lui. Chiunque stesse trattenendo l’Imperatore al momento, non avrebbe retto a lungo. Anzi, era un miracolo che fosse riuscito a resistere così tanto. Era un guerriero valoroso, e gli ero infinitamente grata.
Tesi una mano a Kenji e lo aiutai a rialzarsi. Anche se la salsa di pomodoro era una diventata una macchia asciutta sulla sua divisa era inquietante vederla coperta di rosso. Nessuno dei due era in condizioni ottimali, supponevo che dovessimo contare sul principio del “reggimi ché ti reggo.”
«Ce la fai a camminare?» Pregai che mi rispondesse di sì. Non ce l’avrei fatta a trascinarlo.
Ingerì un antidolorifico, ne offrì uno anche a me e annuì. Presi un respiro profondo prima di tornare nella bolgia infernale del terzo piano. Quello che non avevo previsto era che sarebbe stata letteralmente infernale. Il castello stava andando a fuoco. L’incendio si stava propagando velocemente. Dal controsoffitto avevo sentito qualcuno gridare qualcosa in proposito, ma non pensavo che fosse così grave. Non stava combattendo più quasi nessuno, la maggior parte delle persone stava correndo verso le scale che portavano al secondo piano. Qualcuno stava tentando di spegnere le fiamme con degli idranti. Era spaventoso. Stavano inghiottendo tutto e, se non ci fossimo dati una mossa, avrebbero inghiottito anche noi. Come era potuto accadere? Chi avrebbe mai potuto lasciare che bruciassero tutti? Supponevo che non avesse importanza, adesso dovevamo pensare solo a salvarci.
«Dobbiamo affrettarci.» Mi voltai verso il mio compagno, che fece un cenno d’assenso e prese un altro antidolorifico.
Intrecciai le dita alle sue per fare in modo che non ci perdessimo di vista. Nessuno dei due poteva sopravvivere da solo. Si vedeva che Kenji stava soffrendo, zoppicava; ma per il mio bene stava stringendo i denti. Eravamo quasi arrivati alle scale quando il castello – per l’ennesima volta – prese a tremare. Lo avevo messo in conto, ormai mi aspettavo di tutto. Tranne quello che successe dopo. Ci fu un frastuono incredibile. Il pavimento si spaccò, le tavole di legno volarono in ogni direzione come fossero proiettili, tanto che io e il rosso dovemmo proteggerci la testa con le braccia per non farci colpire. Anche qualche malcapitato venne scaraventato via da quella calamità.
«Porca puttana!» esclamò Kenji, e se perfino lui imprecava doveva essere grave. Io avevo ancora le mani sul capo, da brava codarda non avevo il coraggio di guardare. Anzi, stavo già pensando a una via di fuga.
«Fermati! C’è un altro muro!» gridò una voce familiare. A quel punto non potei non voltarmi in direzione di essa.
«Oh, porca puttana,» ripetei ad occhi spalancati. A una ventina di metri da noi c’era Rufy che cavalcava un enorme drago rosa. Un drago che si stava per schiantare contro un muro. Anche lui aveva un’aria familiare. Possibile che fosse Momonosuke? No, non diventava così grande quando si trasformava.
«Momo, apri gli occhi!» lo rimproverò Cappello di Paglia. E invece era proprio il futuro Shogun di Wa. Assurdo.
Mi misi a ridere, un po’ per la stanchezza, un po’ per il sollievo, sotto lo sguardo perplesso del mio compagno. Non era una minaccia. Non del tutto almeno, visto che il drago stava distruggendo l’intero castello e rischiava di spazzare via anche noi. Ma il peggio era passato, la coppia si stava già dirigendo verso il quarto piano e io e Kenji eravamo salvi.
«Stai tranquillo.» Gli diedi una pacca sulla spalla per rassicurarlo, poi ghignai fiera, fissando il cratere che Momonosuke aveva lasciato nella parete. «Questo è il segnale che Rufy sta bene e che sta andando a prendere a calci in culo Kaido. E stavolta vincerà. E la guerra finirà.»
«Ma... ma... cos’era quel...»
«Drago? Era il futuro Shogun di Wa.»
Alla fine il poveretto rinunciò a tentare di capire, mi riprese per mano e si diresse a passo svelto verso le scale. Nemmeno a me era chiaro come quella mezza calzetta avesse fatto a diventare enorme in una notte, ma non mi interessava saperlo, volevo solo andarmene da lì.
 
«A volte vorrei che tu non fossi una persona così buona d’animo,» dissi a Kenji mentre gli passavo un rotolo di garza.
Se io fremevo per uscire dal castello, lui insisteva che dovevamo aiutare i feriti. In quanto medico non avevo potuto obiettare, giacché mi sentivo in colpa per non aver compiuto il mio dovere nelle ore precedenti.
Il Visone che stavamo curando urlò e si contorse.
«Ecco, ho quasi fatto,» lo tranquillizzò Kenji.
Sospirai. La cauterizzazione delle ferite senza anestesia era terribile, soprattutto se la ferita in questione era il moncone di un polpaccio, ma il tempo e i mezzi che avevamo erano scarsi, perciò avevo attivato l’Heat Dial sulle lame dell’ascia e l’avevo praticata. Solo allora l’uomo-tasso si era reso conto che la sua gamba non c’era più e che non l’avrebbe riavuta. Si era immobilizzato ed era rimasto a fissare l’arto con espressione vuota, e a quel punto era dovuto intervenire Kenji, perché io avevo smesso di funzionare. Continuavo a pensare che la guerra aveva portato via qualcosa a tutti. In una sola notte si era presa così tanto...
«Burrow!»
Mi voltai verso la voce. Era un Visone – forse di tipo Antilope? – che stava fissando il Tasso.
«Oh, amico mio...» Si avvicinò a lui e lo scrutò, sussultando quando notò il moncherino. Poi si rivolse a noi. «Grazie per esservi presi cura di lui. Come sta?»
«Il fuoco è arrivato al secondo piano!» gridò qualcuno in lontananza.
Poco dopo un’orda di persone si riversò nel corridoio, tutti correvano verso le scale. L’incendio ci aveva raggiunti.
Non facemmo in tempo a rispondere al Visone – per fortuna, non avrei saputo che dirgli – perché si caricò l’amico sulla spalla e si mise a correre.
«Dobbiamo andare,» esortai il mio compagno, riprendendomi l’ascia e iniziando a rimettere le garze nello zaino.
«Sì,» concordò, rimettendosi in piedi. Mando giù un altro antidolorifico. Lo conoscevo bene, e sapevo che stava cercando di farsi coraggio e ignorare il dolore. Lo presi per mano e ci mettemmo a correre.
Arrivammo in fondo al corridoio stanchi morti, per ritrovarci di fronte tre sottoposti di Kaido che sembravano avere l’intenzione di battersi con noi.
Deglutii e guardai Kenji. «Tu sei in grado di combattere?»
«No, tu?»
«Neanche io. Cosa facciamo?» Dietro di noi il fuoco era così vicino che ne percepivo il calore sulla schiena.
«Sentite,» iniziò il rosso, con una sicurezza nella voce che non pensavo avesse. «La situazione è questa: siamo in trappola. Tutti noi. Se restiamo qui, moriremo.»
Uno dei pirati delle Cento Bestie sbuffò una risata. «Voi morirete.»
«No, se ci mettiamo a combattere moriremo tutti,» intervenni io.
«Negli scacchi questa sarebbe una partita patta per stallo. Non avete modo di farci Scacco Matto.»
Alzai gli occhi al cielo senza farmi vedere. Già mi immaginavo lui e Marco come migliori amici. Avrebbero potuto passare intere giornate a giocare a scacchi e io li avrei evitati come i broccoli.
«Il succo è che o vinciamo tutti o perdiamo tutti. Se combattessimo noi moriremmo per primi, ma nemmeno voi vi salvereste,» rincarai la dose, voltandomi verso l’incendio, ormai vicinissimo, e sperando che la vista delle fiamme divampanti potesse convincerli.
Alla fine ci diedero ragione, cedettero e ci mettemmo a correre tutti verso l’ingresso del castello. Non c’erano più fazioni, c’era solo un’accozzaglia di persone che tentava disperatamente di salvarsi da una fine infausta. Il problema era che l’uscita era lontana e c’erano troppi ostacoli da superare. Big Mom che stava combattendo con Law e Kidd sul nostro stesso piano, per esempio: la sua Haki mandava in tilt il mio già debole corpo e quello di tutti gli altri. Il panico che dilagava e cominciava a farsi strada anche in me, impedendomi di ragionare in maniera lucida. Il mare di fuoco che ci circondava, che avanzava imperterrito e ci impediva di percorrere la strada che avremmo voluto percorrere. L’unica fortuna era che i Pirati delle Cento Bestie conoscevano tutte le strade alternative, per cui virarono verso l’emisfero destro del cranio e noi li seguimmo.
E poi...
«Cosa diavolo è quello!? Uno Youkai!?» urlò uno dei sottoposti di Kaido.
Frenai con le suole delle scarpe e ripresi Kenji per un braccio. Davanti a noi si ergeva qualcosa di indescrivibile. Non aveva forma, né colore, né anima. Aveva solo due grandi occhi – ammesso che fossero tali – inespressivi che spuntavano tra le fiamme che lo contornavano. Era enorme e terrificante. Uno dei Pirati delle Cento Bestie fu inghiottito da quell’ammasso infuocato e la sua carne prese a bruciare.
«Non toccatelo, o prenderete fuoco!» ci avvisò qualcuno.
Indietreggiai di qualche passo. Attorno a noi c’erano le fiamme, di fronte a noi quel mostro, quindi altre fiamme. Non c’era via di scampo. Proprio mentre iniziavo ad andare nel panico la creatura attraversò un muro e scomparve. Ignorai il fatto che fosse in grado di attraversare i muri e tirai un sospiro di sollievo. Non ce l’aveva con noi. Era come se avesse un obiettivo preciso, che – grazie al cielo – non era su quel piano. Ma era davvero una fortuna? Supponevo che non servisse a niente preoccuparsene, non avevo alcuna speranza contro quel mostro. L’unica soluzione era allontanarsi il più possibile dal castello e lasciare che qualcuno in grado di farlo se ne occupasse. Però non si poteva ignorare la scia di distruzione che aveva lasciato.
L’aria si riempì dell’odore di carne bruciata. Il pirata che prima era stato inghiottito dal mostro stava ancora andando a fuoco, il suo corpo si contorceva e le sue grida di dolore erano atroci. Qualcuno lo spense con un idrante. Accanto a me, Kenji sussultò: era rimasto ben poco di quell’uomo. Era praticamente carbonizzato.
«Dobbiamo aiutarlo!» Il rosso si inginocchiò e aprì lo zaino.
Scossi la testa. Non potevamo farlo, per lui non c’era niente da fare. «Kenji...»
«Dobbiamo aiutarlo!» ripeté, urlando.
Mi guardai intorno. Ogni secondo che passava l’aria diventava meno respirabile. I miei polmoni iniziavano a gridare pietà. «Kenji, non possiamo aiutare tutti. Dobbiamo pensare a salvare noi stessi e non a chi non ha speranza.»
Ci guardammo. Per un momento, il mondo si fermò. Io capii lui e lui capì me. Fece per alzarsi quando l’uomo gli arpionò un polso, pregandolo di aiutarlo con gli occhi, l’unico organo che non era stato consumata dalle fiamme. Il mio cuore si spezzò. La sola cosa che mi trattenne dallo scoppiare a piangere fu che sapevo che sarebbe morto a breve. Non avevo idea se il pirata ne fosse consapevole, forse non voleva morire da solo, dato che gli altri suoi compagni se l’erano svignata. Era terribile, ma non potevamo fermarci e aspettare che spirasse.
«Kenji, ti prego...» lo esortai con gli occhi lucidi.
Kenji sospirò, distolse lo sguardo dall’uomo e si rimise in piedi.
Mi raggiunse e le nostre iridi si incontrarono di nuovo. Il suo sguardo era diverso, non più limpido. Un’altra crepa si formò nel mio cuore. Avevo giurato che avrei protetto quello sguardo, quella luce che aveva dentro, e non ci ero riuscita. Al Visone Tasso quella guerra aveva portato via una gamba. A tanti altri la vita. Ad alcuni la propria famiglia. A me aveva portato via la speranza. A Kenji l’innocenza. Quanto ancora avremmo dovuto soffrire?
Mentre scendevamo le scale che ci avrebbero portati al primo piano, arrivò la risposta alla mia domanda: non molto distante da noi, ci fu un’enorme esplosione.
Le uniche cose che percepii furono un rumore assordante e una forte onda d’urto che fece volare il mio corpo in aria e lo scaraventò lontano. Poi più niente.
   
 
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