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Autore: LettriceEllie    28/06/2023    0 recensioni
Non importa quanto stretti fossero gli spazi vuoti del cuore di Severus, lei avrebbe trovato la sua piccola crepa dove scaldarsi, all'ombra del fantasma di una donna che lui non avrebbe mai dimenticato.
Evaline Rosier ha il peso di un nome che non ha chiesto e un solo desiderio dal giorno lontano in cui ha incontrato un silenzioso serpeverde in biblioteca: stargli vicino nonostante tutto. Ma il "nonostante tutto" che la aspetta sarà la prova più dura.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alastor Moody, Albus Silente, Serpeverde, Severus Piton
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Una canzone sui deretani strombazzanti fece da sottofondo a quell’ultima, solitaria passeggiata di Evaline in direzione dei sotterranei. I M.A.G.O. erano alle sue spalle, i voti avevano soddisfatto le sue aspettative, dandole anche delle piacevoli sorprese. Aveva sospettato che Piton avesse alzato la sua media di un punto o due, ma aveva sempre preferito non soffermarsi su quel dubbio, limitandosi a seguire l’anno senza aspettarsi granché. L’esame di pozioni fu quello più semplice di tutti, perché la pozione da realizzare era la stessa che aveva realizzato al suo fianco quel Natale di quasi due anni prima. Probabilmente la sua fu semplice fortuna, ma ottenne comunque il suo Oltre Ogni Limite e ne fece tesoro. Il suo futuro era incerto e un’ottima media le avrebbe fatto comodo, dopotutto. Si sentiva svuotata mentre avanzava, le dita che di tanto in tanto sfioravano le pareti, gli occhi che salutavano i dipinti sparsi per i muri e rendevano omaggio a quei volti che le sarebbero mancati immensamente. Ad ogni passo era come se stesse sradicando le sue radici, la paura crescente di non avere idea di dove le avrebbe piantate. Nessuna divisa addobbava il suo corpo che lei sentiva ancora acerbo, qualcosa di non fatto, non definito. Sentiva i vestiti larghi, ma la verità è che provava fastidio nel sentire una stoffa che non fosse la divisa scolastica. Aveva addosso una gonna plissettata color ambra, una maglia di cotone color porpora e un paio di stivaletti bassi in cuoio marrone. Non aveva badato ai propri capelli, sentiva che non le importava più sentirsi bella o sicura di sé. Aveva paura, tanta paura, e una pettinatura più carina non avrebbe cambiato quello che provava. I suoi compagni stavano preparando i propri bauli, lei il suo l’aveva terminato da ore, gettando tutto alla rinfusa senza badare troppo a come piegare i vestiti. Tenne sulla testa la spilla di sua madre, lo stemma dei Rosier a tenere ferme due ciocche a liberare il viso, chiudendole sulla nuca. Augustus l’aveva invitata in Francia per l’estate, l’avrebbe presentata a Colette e insieme avrebbero girato alcuni castelli infestati. Era contenta di quell’opportunità. Tulip aveva preparato la sua stanza seguendo le direttive che le aveva dato l’ultima volta, ricreando un ambiente confortevole, fresco, con carta da parati a motivi naturali e dipinti che ricordassero Hogwarts. C’erano già alcune foto nei portafotografie dorati, i volti delle sue compagne sarebbero rimasti lì, insieme ad Augustus che le metteva un braccio sulle spalle e, molto distante, un uomo dal mantello nero che dava loro le spalle e si incamminava per sparire oltre la cornice. Farfalle, poi. Farfalle ovunque. Le stesse che la stavano seguendo giusto adesso. Volavano frenetiche, eccitate, i colori diversi tra loro cozzavano come cozzavano i sentimenti contrastanti che la stavano martoriando. Fuori appariva calma, in quella discesa, ma il suo incedere si faceva sempre più incerto man mano che la porta dell’ufficio di Piton si faceva vicina. Sapeva che l’avrebbe trovato lì. C’era una sorta di tacito accordo, una resa di conti, un appuntamento che si erano imposti man mano che la fine dell’anno si stava avvicinando. Con la stagione calda ormai agli inizi, il tempo scandiva i giorni, le ore e i minuti in una corsa inesorabile. Non aveva cercato altri contatti dopo il suo compleanno, non aveva provato a stare da sola con lui, né osato altro che non fosse un fugace sguardo che l’uomo assai di rado ricambiava. Era sempre distante, coperto dal grigiore di quel suo perenne distacco, la durezza negli occhi e lo scherno, a volte, nel modo in cui sorrideva davanti un grifondoro in difficoltà. A conti fatti, Evaline sapeva che lui c’era un seme di cattiveria che, ormai germogliato, lei non avrebbe avuto la forza di estirpare. Ma quei sette anni erano passati e tante cose erano cambiate, ma non lui come centro dei suoi pensieri. «Sto entrando.» Disse dietro la porta, non chiese neppure il permesso, limitandosi ad aprirla con calma per poi richiuderla alle sue spalle. Vi posò la schiena contro, quasi rassegnata, il sorriso un po’ mesto era inebriato dalla speranza. Non gli disse nulla quando lo vide in piedi davanti la libreria, intento a consultare libri che non si decideva a raccogliere. «Ora che non sono più una tua studentessa posso parlarti come vorrei?» Lui tacque per diversi istanti in cui parve non averla neanche sentita. Poi parlò, la voce annoiata e priva di calore. «Lo hai sempre fatto, mi sembra.» «No.» Fece lei senza staccarsi dalla porta, le mani dietro la schiena. «Non ti ho mai detto quanto mi sento bene se tu sei nella stessa stanza in cui mi trovo.» Le farfalle avevano smesso di svolazzare freneticamente, limitando un lentissimo volo in scie rosa pallido. Lei riusciva a parlare con voce stranamente calma, per quanto poco più di un dolce mormorio. L’osservava attraverso un velo di languore che appannava gli occhi chiari, di quell’azzurro che a tratti pareva verde chiaro a seconda della luce. Adesso parevano un po’ cupi. «Non ti ho detto neppure di amare la tua voce.» Disse poi, lo sguardo che crollò in basso nel momento in cui lui si era voltato verso di lei. Aveva paura di trovare altra durezza nei suoi occhi. Non avrebbe retto. «A volte ho sistemato i miei capelli nella speranza che a te piacessero, come se ti volessi far venire voglia di accarezzarli solo perché li avevo curati con oli profumati.» Sbuffò una risata priva di allegria. «A te non importano queste sciocchezze, lo so. Non mi guardi neppure.» Sollevò una mano verso il volto, sfregò un occhio con il polso, arrossandolo. «Non ti ho detto una marea di pensieri che ho avuto per la testa, Severus.» «Li ho visti tutti, quei pensieri.» Lo sentì dire, la voce più vicina di quanto si aspettasse. Il suo sguardo corse in avanti, lungo il pavimento, trovando la punta delle scarpe nere a pochi passi da lei. Ancora non sollevò il volto, lui pareva distante più che mai nonostante ce l’avesse davanti. «Te ne libererai quando lascerai questo posto dietro di te.» Lei scosse il capo, il polso che strofinava anche l’altro occhio, scoprendolo bagnato. «Non è possibile. Ti penso sempre.» «Smetterai.» fu la sua replica. Era implacabile, una barriera su cui la devozione di Evaline si scontrava. «Perché sminuisci quello che provo? Il fatto che tu sia indifferente non vuole dire che…» «Non sono indifferente.» Il suo sibilo squarciò l’aria e la costrinse a cercare il suo volto. Era terreo, la bocca serrata in una smorfia che tradiva furia e dolore insieme. I suoi occhi, poi, facevano spavento tanto erano taglienti. «Severus.» Lo implorò con le lacrime ancora impigliate sulle ciglia, la mano che osò sfiorargli il petto. Lui non si ritrasse, né lei cercò altro oltre quel contatto. «Cosa ho che non va? Non sono più una studentessa. Possiamo…» «Non sai niente, ragazzina.» Era furioso, una paura che non si riusciva a spiegare la costrinse a ritrarre la mano, ma lui l’afferrò e la premette con ferocia contro il proprio petto, tenendo il palmo sul suo dorso come se volesse schiacciarla. «Noi non possiamo un bel niente.» L’altra mano osò posarsi sulla porta accanto al suo volto. «Non c’è e non ci sarà mai nessun noi.» Incise quella promessa con tale livore da farle male. «Lo dici perché…perché sono più giovane?» Non mosse la mano che lui le teneva serrata contro il proprio petto in una morsa che non le lasciava scampo. Sollevò la mano libera per toccargli un lembo della veste e stringerlo appena, quasi temesse di vederlo scivolare via da lei da un momento o l’altro. «Crescerò più in fretta, se lo vorrai. Sarò più donna, sarò…» Farfugliò frasi senza senso, quasi potesse davvero controllare il tempo con la sola imposizione di quelle promesse, quando i suoi occhi gli dichiaravano un amore che non trovava la forza di pronunciare. La bocca stava già formulando nuovi giuramenti, ma lui la chiuse con la propria, incombendo sulle sue labbra in una fame rabbiosa, crudele. Evaline aveva immaginato di essere baciata da lui e aveva creduto di dover seguire dei movimenti di rito, qualcosa che fosse dolce ma appassionato insieme, magari intrecciando le braccia dietro la sua nuca per tendersi teneramente verso di lui. In quell’istante ciò che fece fu abbandonarsi all’uomo in una fiducia totale, incrollabile, fatta del tocco della mano contro il suo petto, ancorata lì anche quando la mano di Piton abbandonò la sua per toccarle la linea della mandibola, sfiorandola in una lenta corsa fino al collo. I polpastrelli sfioravano la pelle in un tocco casto, reverenziale, in netto contrasto con la disperazione della sua bocca che, quando si staccò, non si allontanò per molto tempo. Aveva la fronte contro quella di lei, gli occhi serrati, la bocca umida che raccoglieva il suo respiro, tornando a depositarle un bacio più piccolo, tanto innocente quanto era stato famelico il precedente. «Sei perfetta, Evaline.» Non allontanò la fronte dalla sua, accarezzò il suo profilo con il proprio, concedendosi di sfiorare le sue labbra mentre parlava, costantemente tentato di divorare ancora la sua bocca. «Il problema è proprio questo.» Lei continuava a respirare contro le sue labbra, la bocca umida e schiusa che lo invitava a continuare, inconsciamente schiava di una lascivia così inconsapevole da renderla innocente. La mano contro il suo petto aveva stretto la veste nera sgualcendola sotto il suo tocco. «Severus…» Il richiamo languido e lamentoso venne interrotto da un altro tocco della sua bocca che la cercò ancora, forse per zittirla, forse perché inebriato dal suo canto. «Zitta.» Tornò ad intimare con rabbia, la fronte nuovamente contro la sua. «Non merito la salvezza che mi offri, maledetta sciocca.» A tratti sembrava stringersi a lei, a tratti incombere sulla sua figura stretta tra lui e la porta. Sollevò entrambe le mani, raccolse il suo volto tra i palmi e riprese a guardarla, gli occhi due braci. «Uscirai da qui, adesso.» Il pollice andò a posarsi contro le sue labbra, un tocco a metà tra carezza e sigillo. «Avrai una vita, Evaline. Una bella vita. Non sprecarla a guardarmi, non sprecarla a cercarmi. Sono marcio, lo capisci? Marcio fino al midollo. Mi sono scavato una fossa e poco a poco mi ci rintanerò e tu non potrai fare nulla per impedirlo, mi sono spiegato? Non sei qui per salvarmi, non devi darmi nessuna via d’uscita, perché io non la voglio.» Ad ogni parola sembrava sempre più tentato dal suo profilo, dalla bocca che tornava a guardare con occhi lucidi, una fame che gli leggeva nel tremore della voce. La testa di Evaline girava, i suoi occhi pieni di languore lo imploravano mutamente di non smettere di parlare, di far durare quel momento il più a lungo possibile. Non poteva essere un addio, non aveva senso. «Perché?» Gemette lei, le labbra che strofinavano contro il suo pollice. «Non posso rintanarmi con te, in quel fosso?» La domanda era sorta con tale semplicità da strappargli un sorriso incredulo, amaro. Scosse il capo a metà tra la resa e l’esasperazione. Sembrava più deciso che mai, adesso. Eppure, le concesse ancora il contatto con le sue labbra, un bacio meno irruento in cui lui affondò le dita tra i capelli di Evaline come lei si era sempre immaginata. Avrebbe tanto voluto avere la forza di sollevare le braccia e cingergli il collo, ma si limitò ad assecondarlo, assaporando quei pochi secondi in cui ebbe la dolorosa certezza di amarlo e di non avere alcuna possibilità di imporsi nella sua vita. Sembrarono passati secoli quando emerse dal suo ufficio. Sentiva il suo sapore sotto la lingua, il calore delle mani ancora tra i capelli e del suo corpo contro il proprio. Avvertiva lo sguardo su di sé anche adesso che ripercorreva i gradini che l’avrebbero portata via da lui. Lo aveva lasciato alle sue spalle, è vero, ma la sua presenza pareva penetrata più a fondo nel suo petto, quasi vi avesse trovato un cantuccio in cui raggomitolarsi e non andare più via. Era finita, ma lo avrebbe amato comunque, anche senza vederlo.
   
 
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