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Autore: Ciuscream    07/07/2023    5 recensioni
Lucius al processo ritratta, abbozza, giustifica. La voce non trema perché è troppo allenata a mentire ma il resto – il sangue sporco, il cuore marcio – sono tutto un subbuglio. Ringrazia che i vincitori abbiano, in realtà, la mollezza – l’arrendevolezza – dei vinti (ché la compassione, il perdono, non fanno parte del suo orizzonte). Così, quella che sarebbe stata facilmente una condanna a vita diventa un’ammenda, poca prigione e molta speranza, seconde possibilità farcite di illusioni e buonismo.
[Questa raccolta di storie è stata scritta per l'iniziativa "Due ore, quattro prompt" indetta sul Forum Ferisce la Penna]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucius Malfoy, Pansy Parkinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
- Questa storia fa parte della serie 'Pozzi di pece (mai di pace) – Lucius/Pansy'
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Note: queste “storie” sono state scritte per la challenge “Due ore, quattro prompt” indetta sul Forum Ferisce la Penna. La sfida consisteva nel partecipare tutte assieme ad una serata di scrittura: sono stati estratti quattro prompt tra quelli proposti in segreto in precedenza dalle partecipanti e, per ognuno estratto di volta in volta, si aveva mezz’ora di tempo per svilupparlo. Questo è ciò che ho partorito, non corretto ma rivisto (con dolore). Lascio tutto così perché il meglio di questa iniziativa penso sia “il bello della diretta” e perchè è stato bello scrivere con voi, senza freni e sovrastrutture.
Le storie non sono necessariamente collegate una all’altra ma i protagonisti sono comunque Lucius e Pansy, o come singoli o come coppia. Molta della loro caratterizzazione per una completa comprensione forse necessita della lettura della mia storia “Autres Temps”. 
Il titolo è un estratto della canzone “Due vite” di Marco Mengoni.






Che giri fanno due vite
 

Prompt n. 1 di BlueBell (21:31 - 22:01):
“E tu, ora che mi hai visto come sono veramente, riesci ancora a guardarmi?”
1984

 

L’orgoglio – rintocca nel petto come un pendolo, detta regimi di vita che hanno solo lo scopo di pretendere. Di più, di più. Ma poi la maschera cade e, dietro la scorza, rimangono speranze spezzate e sogni perduti, una gloria di fango.

Lucius al processo ritratta, abbozza, giustifica. La voce non trema perché è troppo allenata a mentire ma il resto – il sangue sporco, il cuore marcio – sono tutto un subbuglio. Ringrazia che i vincitori abbiano, in realtà, la mollezza – l’arrendevolezza – dei vinti (ché la compassione, il perdono, non fanno parte del suo orizzonte). Così, quella che sarebbe stata facilmente una condanna a vita diventa un’ammenda, poca prigione e molta speranza, seconde possibilità farcite di illusioni e buonismo.

Voldemort è perduto, lui no – del suo orgoglio, però, ne è svanita ogni traccia. Draco e Narcissa siedono silenziosi lì accanto, sordi forse, sordi a forza, a parole che tracciano una realtà così farlocca, verità mozzate e bugie gonfie. Anche lui avverte le parole uscirgli dalla gola ma non le riconosce proprie, le riconosce meccaniche, stridenti, troppo anche per lui. Eppure, li sta salvando, li ha salvati – come prima non è riuscito a fare, come non potrà fare mai più.

Pansy ascolta, in un angolo buio dell’aula del Wizengamot, e l’immagine che aveva costruito del grande Lucius Malfoy le si incrina davanti, sillaba dopo sillaba. Hanno già condiviso il letto una volta ma la persona che sente averle sfiorato le labbra, non è quella che ha conosciuto in quest’aula, con queste parole. Vede sovrapporsi due persone, due maschere, tanto simili, tanto strette da non poter distinguere una dall’altra. Non sa quello che sente in pancia, non sa descriverlo: un uomo getta il figlio in pasto al male e, al momento di pagarne lo scotto, sfugge, temporeggia, evade. Bravura o spavento, furbizia o codardia, Pansy non sa scegliere; la bocca di Lucius si muove, non per darle piacere. Parla, dice, trafuga schizzi di verità alla realtà e li restituisce capolavori di menzogne. Chiude gli occhi, un attimo dopo aver fissato Draco; il suo capo chino le crepa il petto.

 

Qualche giorno dopo, Lucius è in piedi di fronte alla porta del suo studio e fissa Pansy con occhi enormi, che lei mai gli aveva visto addosso. L’orgoglio non gli rintocca più nel petto, è la vergogna – la bruttura – ad aver preso il comando, ad aver occupato tutto lo spazio libero lasciato da cuore, milza, polmoni. Parla piano, molto più piano che in quell’aula, con molta più reverenza, con molta più sfacciata, arrendevole, onestà. Cerca i suoi occhi scuri, ci cerca all’interno un’assoluzione impossibile.

“Ora che hai visto come sono veramente, riesci ancora a guardarmi?”

 

 

Prompt n. 2 di Mari Lace (22:06 - 22:36):
“Maybe she wasn't perfect, but she would never be. But she was still worth something—she was worth a thousand possibilities.”
{Grimrose girls}

 

Sfacciata – Pansy prende le parole che gli versano addosso e se le beve come bile liquida. Sa che parla chi non ha altro da fare e lei, invece, si muove per arrivare, si muove fino al punto in cui la corda tira troppo, si muove fino al limite, al bordo del precipizio, allo sfinimento controllato. Prova, riprova, ci riesce, fino alla capitolazione. Chi si ferma metri prima del traguardo, sta dietro le sue spalle e lei non riesce a sentirlo.

 

Provocatrice – Il Cappello Parlante non fa in tempo ad avvicinarsi ai suoi capelli corvini che già lo urla ai quattro venti e alle altrettante Case: Serpeverde, fino al midollo e ritorno. Pansy stuzzica, Pansy provoca, Pansy conosce soltanto il linguaggio aguzzo dello scherzo e dello scherno. Non ha mai imparato a fare diversamente, mai le è stato insegnato: se ti viene chiesto sempre di più, sempre di più pretenderai dagli altri. Non c’è pena e non c’è pietà per chi non tiene il passo – non in casa Parkinson, quantomeno.

 

Sola – Daphne ha ridotto le parole che le rivolge, che indietro tornano soltanto sillabe al retrogusto di veleno. C’è chi conosce una fedeltà assoluta all’amore, agli ideali, al lavoro, ad una fede: Pansy si immola soltanto per capelli tanto biondi da sembrare neve, occhi dello stesso colore, un mento aguzzo come i suoi modi. Null’altro intorno da coltivare, tutto da perdere concentrato in un solo nucleo spesso – Draco non è nemmeno in grado di accorgersene.

 

Illusa – Draco sposa Astoria in un giorno di inverno, con una luce tiepida come la sua consorte. Pansy resiste aggrappata ad un bicchiere di vino, ché tutto quello per cui aveva investito adesso sfuma come polvere di polline in un giorno di una primavera che le sembra lontanissima. Il suo abito scuro sembra quello di un lutto – forse lo è. Aspirazioni e sogni sono morti con un “sì”. Lei non ancora.

 

Pansy – La magia le trema nelle mani come da molto tempo non succedeva più. Sente il cuore vibrare, i polmoni pieni, i palmi colmi di magia, le narici che annusano un veleno che sobbolle in un calderone, il calore mentre lo mescola piano. Lo sente: può creare la vita, avercela in pancia, poi può toglierla, ficcando in pancia quell’intruglio a qualcun altro. Capace di creare o di uccidere, capace di crescere o recidere, capace di innalzarsi o morire. Tutto nei suoi palmi dalle linee confuse, pieni di mille e mille possibilità. Perfetta non è mai stata, mai lo sarà. Mai potrà (vorrà) esserlo.

 

 

Prompt n. 3 di Millythegoat (22:38  23:08):
I had all and then most of you
Some and now none of you
Take me back to the night we met
I don't know what I'm supposed to do
Haunted by the ghost of you
Oh, take me back to the night we met
(Lord Huron- The night we met)

 

Parigi dorme serena, ignara delle vite che gli brulicano in pancia, ignara del dolore, del livore, del sesso e dell’amore. Respira coi polmoni delle Tuileries, piange con l’acqua sporca della Senna, sente e vibra di auto e battelli, scintilla di mille luci su una Tour Eiffel che di notte si veste a festa. Pansy scende a Rue Cortot con l’anima pigiata in mille angoli, che il petto ce l’ha pieno di pensieri che sono esondati dalla testa, le hanno invaso il sangue, si sono propagati veloci come una malattia mortale. Respira ma non c’è posto nemmeno per l’aria umida di una sera d’agosto, non c’è posto per altro che per rimpianti, per parole non dette, per sliding doors su milioni di possibilità infrante. Passa vicino a quella che un tempo era casa sua, casa loro – adesso non fa fatica a dirlo, che il tempo anestetizza tutto – e un capogiro la ferma sul posto. Appoggia le mani contro un muretto, palmi contro pietra e muschio: questa è ancora calda da un pomeriggio afoso, con un cielo coperto a promettere pioggia e a non mantenere nessun altro impegno.

Chiude gli occhi: non può vedere ma sente tutto, immagina. Vede i loro passi sull’acciottolato, ascolta un rimprovero del passato, uno stralcio di litigata, il rumore di un bacio, la promessa breve di un amore umido appena varcata la soglia. Sente la voce di Lucius, ne vede il viso, le mani grandi, qualche macchia degli anni che passano a sporcargli la pelle, i capelli d’argento, gli occhi mortali, le labbra sottili, il bastone d’argento, un anello, una promessa, una vita che doveva starle in pancia e invece è stata strappata via. È scappata da Londra per tornare lì, non sa bene per cercare cosa: forse la Giratempo che le diceva di possedere, forse per capire che non c’è più nulla da capire, che c’è stato un tempo che non è più e più mai sarà. Che ci sono amori che sono parentesi e parentesi che sono mondi, mondi che invece crollano e restano soltanto brandelli e briciole. Respira – il glicine è sfiorito ormai ma le sembra di sentirne ancora l’odore. Come sente quella voce, tanto reale da sembrare presente, da sembrare viva, da sembrare lì. E, invece, di Lucius resta solo una lapide, un pensiero grattato sul marmo, un fantasma d’attesa e l’illusione che duri anche ciò che è destinato a morire, come lui – ti prego, ti prego, riportami indietro. Riportalo qui.

 

 

Prompt 4 di blackjessamine (23:09-23:39):
"Quando si è di fronte alla morte, meglio ballare che sdraiarsi ad aspettarla".
– Leigh Bardugo, "Hell Bent"

 

Invincibile, potente, mastro di lingua e lusinghe – Lucius sente che il mondo ha la grandezza perfetta per stare dentro il suo palmo, lui ha la forza sufficiente per stringerlo fino a soffocarlo, fino a piegarlo. 
 

Padre, marito, Mangiamorte – i confini che gli cuciono addosso gli altri sono stretti, sono gabbia, ma definiscono chi è meglio di quanto sarebbe in grado di fare lui stesso. Strappato lungo i bordi, precisi al millimetro, di tutti i ruoli che la vita gli ha assegnato, Lucius ingombra la sua dimensione, la occupa – liquido – meglio che può. 
 

Sconfitto, tradito, traditore – cosa rimane, quando di quello che sei non resta che un’immagine persa e sbiadita? Lucius se lo chiede mentre, della sua vita di prima, può giusto sondare i ricordi, prenderli a prestito da un altro sé. Ha abdicato da ogni ruolo, infranto ogni contratto, stracciato ordini e promesse. E, finalmente, dalla gabbia dorata passa uno spiffero di vento. 

 

Riscritto, reinventato, risorto – il Lucius di prima fa parte di una vita che non c’è più, morto, sepolto, seppellito in anfratti di vergogne millenarie, di nomi infangati, di battaglie perse. Non cede, però: finché respira, sa che c’è una possibilità che il mondo si possa riscrivere da capo, si possa stringere e piegare ancora, possa tornare a portata di palmo, a portata di piuma.
L’inchiostro lo trova in due occhi di un nero densissimo che vedono in lui la verità, la franchezza, del relitto umano che è rimasto ad abitare.
 

  “Ora che hai visto come sono veramente, riesci ancora a guardarmi?”
“No… ora finalmente riesco a vederti”
 
   
 
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