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Autore: aurora giacomini    19/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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      Tre




Vidi la Panda verde del Pietro risalire la collina e scomparire oltre il terzo tornante, che passava dietro a essa. Mi voltai poi dalla parte opposta, verso est, dove la distesa di grano incolto si estingueva con le montagne; prima delle rocciose alture c'erano le colline e, come ogni volta che prendevo posto sulla conchiglietta metallica del trattore, mi concentrai su quello che ritenevo essere un abete o un larice: rompeva la linea già di per suo frastagliata con la sua imponenza, costringendomi a pensare a un dito medio. Quell'invito ad andare a quel paese era per me, mi convinsi quel giorno.

Rimasi sotto l'acquerugiola per qualche minuto, meditando se tornamene al rudere o chiudermi in stanza.

Decisi per il rifugio domestico: quel mal di pancia stava aumentando d'intensità.


Entrai in casa come una ladra e schizzai su per le scale, sperando che Peppa Pig, che ora grufolava a tutto volume, coprisse i miei passi e lo scricchiolare delle assi nuove, che ancora non avevano capito come adattarsi allo scheletro preesistente. Non avevo voglia di avere a che fare con la mia famiglia; non a causa della vergogna, non a causa dell'improvvisa stanchezza che aveva assopito perfino l'esuberante mostriciattolo, semplicemente volevo cessare di esistere per il mondo, sperando che esso mi riservasse medesimo trattamento. Solo per un po'.

Mi gettai sul letto vestita, avendo però la premura di lasciare le scarpe a penzolare oltre il bordo, lontano dal lenzuolo che fungeva da coperta per quelle calde notti. Fissai il soffitto bianco e il pianto mi sorprese a tradimento ancora una volta.


Fu il dolore al basso ventre a svegliarmi, a strapparmi dall'incubo che stavo avendo; le immagini sfumavano man mano che riprendevo coscienza di me, ma il senso era ben chiaro: mia mamma e tutto ciò che non volevo in alcun modo collegare a lei.

Il pianto stava per salirmi di nuovo, alimentato da quel dolore persistente ma altalenante; a fermarlo ci pensarono tre semplici colpi alla porta. La Patrizia, al contrario di Lilla e spesso anche di mio padre, aveva a cuore la privacy di una giovane donna.

«Posso entrare, Andrea?»

«Vieni...» mugugnai dopo essermi sollevata a sedere. Non volevo farmi trovare distesa e sconfitta: mi avrebbe fatta sentire troppo vulnerabile e, in ogni caso, non mi pareva modo di accogliere una persona.

Patrizia entrò lentamente, come volesse la sicurezza assoluta di poter invadere quel mio spazio.

«Hai fame?», mi chiese, fermandosi sulla porta.

Ci pensai per un lungo momento.

«Non molta, però ho bisogno di prendere un Oki, ne hai?», dissi infine.

Mi guardò e strinse le labbra.

«Ti sono arrivate», constatò.

«Ed è una delle volte brutte», conclusi io.

Lei annuì, si voltò e si chiuse la porta alla spalle.

Sì, lei ci teneva veramente al rispetto, e la cosa mi piaceva. Probabilmente era stato quel suo trattarmi come una sua pari, ciò che realmente mi aveva conquistata. Aveva dei modi morbidi e giocosi, ma riusciva sempre a farsi prendere sul serio, perché nella sua calma c'era la solennità di chi sa come si sta al mondo e non ha bisogno di mettere i piedi in testa a nessuno, per sentirsi migliore o potente.

Una volta, dal momento che lei dava lezioni di yoga e meditazione in generale, le avevo chiesto se avesse raggiunto il nirvana. Non l'aveva raggiunto. Secondo lei, gli uomini e le donne di questo secolo, soprattutto nella nostra civiltà, non ne sarebbero in grado: troppe preoccupazioni, troppi averi, e l'avere causa sofferenza.

“Perché?”, le avevo chiesto.

“Perché il desiderio è ciò che più ci allontana dalla calma interiore”, mi aveva risposto. “Soffro, perché ho paura di perdere ciò che possiedo; soffro, perché desidero ciò che non possiedo.”

In quel momento mi aveva fatto visualizzare il Cavaliere d'Oro Virgo, precisamente quello dei Cavalieri dello Zodiaco, quando anche lui ammette di non aver raggiunto lo stato supremo. Ah, come l'avevano rovinata quella serie! Dopo il cambio del direttore del doppiaggio, le citazioni Dantesche e il linguaggio cavalleresco erano finiti nel dimenticatoio, con solo pallide imitazioni poi... Pazienza. Che poi, era stata lei a farmi notare la cosa, dal momento che quella serie l'avevamo guardata insieme.

Un giorno era arrivata ed era rimasta immobile e silenziosa fino alla pubblicità, poi mi aveva chiesto se poteva sedersi con me a guardare anche lei. Avevo accettato, anche se inizialmente la prospettiva mi aveva messo a disagio; e poi, cosa vuoi che ne capisca un'adulta, di certe cose? Ma quello non era un cartone per bambini e lei si divertì molto, contagiandomi. La nostra saga preferita è - sì, ancora oggi - quella del Santuario; dove abbiamo visto le rappresentazioni dei nostri segni sotto forma di Cavalieri: lei Aquario - invero è cuspide: Aquario-Pesci - io Scorpione.

“Credo che al creatore non vadano molto a genio il Cancro e i Pesci”, aveva commentato a un certo punto. “Però ha trattato peggio Death Mask, piuttosto che Aphrodite.” Eh sì, aveva perfino imparato i nomi di tutti! Poi, dopo una breve ricerca, aveva concluso, ridendo: “E ora capisco anche tutta la cosa di Micene: il creatore è del Sagittario!”

Nei giorni successivi avevamo parlato e analizzato tutto, giungendo, fra le altre cose, alla conclusione che il protagonista è un pirla.

Quello è uno dei miei ricordi più felici. Fu bello perdersi in quelle immagini, in quei suoni e in quelle sensazioni. Mi fece stare meglio... e anche ora è riuscito a strapparmi un sorriso.

Tre nuovi colpi alla porta furono seguita da: «Di nuovo io. Posso?»

«Vieni.»

La porta si aprì e sulla soglia comparvero di nuovo la Patrizia e la sua chioma leonina. Aveva un bicchiere con un liquido biancastro, un panino e una borsa dell'acqua calda; come avesse fatto a bussare e aprire, è per me ancora un mistero... Secondo me è una creatura magica, poco da fare.

«Mangiane almeno metà», mi disse, porgendomi un sandwich con marmellata e burro d'arachide; quelle americanate piacevano a entrambe. Poi posò il bicchiere sul comodino e la borsa rossa sulle mie gambe, verso il basso ventre, dove avevo male.

«Grazie», mormorai, mordendo il pane adeguatamente farcito. «Sei sempre gentile.» Forse era stato il ricordo, che mi aveva scaldata e consolata, a indurmi a quell'esternazione per nulla da me.

Mi sorrise e mi fece una carezza sui capelli.

«Essere una donna può rivelarsi davvero deprimente, ma se ci aiutiamo fra di noi è tutto più semplice, vero?»

«Sì», annuii, deglutendo il primo bolo.

«Ti lascio tranquilla.»

Fece per andarsene, ma io non volevo rimanere sola.

«Ti va di stare un po' con me?», le chiesi; poi aggiunsi, dato che c'era una strana calma: «Il papà e la Lilla?»

«Ha portato Lilla a prendere un gelato e a vedere un film... di principesse, credo», disse, sedendosi accanto a me sul letto. «Tuo papà apprezza quei film quanto, se non più di Lilla», concluse, ridacchiando.

«E' vero», ne convenni; e aggiunsi: «A me fanno venire il mal di vivere...»

Ricevetti un'altra carezza sulla testa e il suo supporto: «Annoiano anche me.»

Quella fu probabilmente la prima volta che non provai rancore o gelosia per essere stata lasciata a casa, non aver ottenuto anch'io un gelato e un film. Mi concentrai su quella nuova esperienza, realizzazione mentre finivo, senza quasi accorgermene, il panino.

La Patrizia aveva preso a strofinarmi la schiena, me ne accorsi quando emersi da miei pensieri, tornando alla realtà della stanza. Aveva un tocco delicato ma deciso che mi piaceva moltissimo, forse al pari di quello del suo calore corporeo, che assomigliava a quello di mia mamma; ma non li avrei mai e poi mai confusi.

Ascoltai il suo respiro calmo e provai a sincronizzarmi.

E così rimasi interi minuti a pensare alla sua mano sulla schiena e ai nostri respiri, finalmente uguali.

Apprezzai molto il fatto che anche lei rimanesse silente: non aveva bisogno di colmare quel silenzio, perché non la metteva a disagio. Mi rassicurava e calmava.

La mia mente si perse ancora; andò a Nevrè, e fu allora che vidi i contorni del mio ginocchio.

«Abbiamo per caso del Voltaren o una pomata di quel tipo?», le chiesi, toccandomi istintivamente il punto offeso. «Ho preso una bella tega.» Poi sorrisi, primo perché ricordai la figura meschina, e secondo perché quella sera stavo facendo collezioni di medicinali.

«Posso vedere?»

Non si era minimamente scomposta, come invece faceva mio padre quando gli rivelavo di essermi fatta qualcosa. Non è che non le importasse, al contrario, ma giustamente non vedeva motivo di creare del panico, dal momento che stavo palesemente bene.

Senza non poca fatica, alzai la gamba dei pantaloni ancora umida; quel dettaglio mi ricordò che mi ero fatta male dove non avrei dovuto essere. Così, mentre esponevo la zona ormai violacea, inventai: «Ero lì del mulino. Sono caduta nel rigagnolo.»

«Domani avrai l'articolazione un po' dura, ma non è così gonfio», constatò. Ebbi idea che avesse colto la menzogna, ma non fece o disse nulla a riguardo. «Prendine un po', una noce, e spalmala per bene. Trovi il tubetto nell'armadietto al lato dello specchio, in bagno.» Poi si raccomandò: «Rimettila lì quando hai finito, se no tuo papà non potrà usarlo per la schiena, va bene?»

Feci di sì con la testa.

Mi leccai le labbra e decisi di parlare di quello che era avvenuto quel pomeriggio, ripromettendomi di fare attenzione ai dettagli della location.

«Ho conosciuto una persona...»

Mi guardò per un po'; poi, vedendo che non aggiungevo altro - perché ero impegnata a costruire uno scenario diverso - mi chiese: «E' simpatica?»

Avevo esordito con soggetto indefinito, neutro, ma lei aveva replicato col femminile, perché lei è capace di cogliere le sfumature nella mia voce che, a quanto pare, variano quando mi riferisco a uno o l'altro sesso.

Inoltre, lei sapeva.

Era successo l'inverno di due anni prima: stavamo guardando un film, lei e io, e a un certo punto mi era uscito un commento piuttosto esplicito - non volgare - riguardo un'attrice. Mi ero morsa la lingua e avevo sbirciato nella sua direzione, ma lei non aveva avuto la minima reazione; ma io sapevo che mi aveva sentita: lo avevo detto bello forte, presa com'ero dalle vicende.

Avevo aspettato la pubblicità e avevo balbettato qualcosa riguardo la mia esternazione. Lei mi aveva lasciato finire, poi mi aveva detto che non capiva assolutamente i motivi della preoccupazione e del disagio. E allora mi si era sciolta la lingua, e le avevo detto che pensavo fermamente che mi piacessero le ragazze.

Quella volta ottenni una delle sue carezze sulla testa e la rassicurazione che andasse tutto bene. Non ho mai davvero avuto un conflitto interiore, per questa mia natura, ma mi ero guardata bene dal farne parola con mia madre o mio padre, di cui, comunque, ignoravo la possibile reazione.

Non avevo paura e non ero a disagio con me stessa: per me era - ed è - naturale come naturale era - ed è - che fossi nata donna, punto. Ma quell'argomento era intimo e personale e non mi andava di urlarlo ai quattro venti; non in quel momento della mia vita, dove l'amore, e soprattutto il sesso, non mi riguardavo.

“Ci sarà sempre qualcuno che verrà a dirti che questo o quello non va bene”, mi aveva detto infine. “Ma non possiamo e non dobbiamo stare dietro agli altri e le loro idee; anche perché, te lo giuro, piacere a tutti è impossibile: potrai piacere o non piacere a molti, a pochi, ma tutto e nulla non esistono”.

Nonostante tutto, alla fine avevo un po' pianto; avevo pianto di sollievo e avevo capito che, in fondo in fondo, quella cosa era davvero importante per me, dunque sentirmi capita e minimamente rifiutata fu bellissimo.

«Forse la parola che voglio scegliere per lei è: dolce», risposi infine. «Non ho avuto molto tempo per capirla e osservarla, perché poi ho visto le vostre chiamate e mi è preso il panico, e allora sono corsa a cercare la Lilla, perché pensavo fosse successo qualcosa a lei, ma posso dire che mi ha fatto una buona impressione», dissi tutto d'un fiato, e conclusi, più calma: «E posso dire anche che è veramente carina...»

«Vuoi descrivermela?»

Gliela descrissi nei dettagli; le parlai anche del fatto che fosse francese e del modo buffo in cui avevamo comunicato.

«Però non ho idea se a lei piacciano le ragazze o i ragazzi», conclusi, con un po' meno entusiasmo. Ma mi rincuorai subito e spiegai il motivo: «Non ha tutta quest'importanza, pensandoci: potremmo essere amiche in ogni caso!»

«Di per suo, conoscere persone nuove è un'esperienza arricchente», commentò. «Fare la conoscenza di qualcuno che viene da un Paese diverso, con un'altra cultura, è ancora meglio.»

«E' vero», ne convenni, «lo penso anch'io.»

E poi, all'improvviso, mi si riempirono gli occhi di lacrime e nel petto si formò una nebulosa bianco-argentata.

«Non devi sentirti in colpa», mi disse la Patrizia, come se mi avesse letto nella mente. «Rimuginare e rimuginare riguardo qualcosa su cui non abbiamo alcun potere, è inutile. Hai il diritto di distrarti, e quel diritto non può togliertelo nessuno. Neppure tu.»

Mi voltai e l'abbracciai con tutta la forza che avevo.

Le fui estremamente riconoscente, per aver detto quello che aveva detto: mi aveva liberata da un peso, mi aveva dato il permesso di sorridere, di sentirmi felice per qualcosa, nonostante tutto.

Affondai il volto nell'incavo della sua spalla e piansi; piansi anche di sollievo, piansi per quel senso di liberazione che diceva: “Tu non hai il potere di fare nulla, di certo non con la mente: la tua è una tortura inutile. Non sei cattiva solo perché non vuoi soffrire”.


«A volte anche gli adulti non sanno bene cosa fare», soggiunse quando, ormai più calma, mi staccai da lei. «Non siamo infallibili, anche se ci piacerebbe. Anche noi abbiamo paura e spesso ci sentiamo persi, nonostante l'enorme bagaglio che ci siamo costruiti nel corso degli anni: siamo umani. Tua mamma ha una fragilità più forte, rispetto a molte persone, ma lei non è una donna fragile: non siamo le nostre fragilità.» Mi guardò negli occhi: «Anche a te sarà capitato di voler fuggire, di volerti nascondere, vero?»

Annuii, ma non fui capace di dire nulla, perché parlare mi avrebbe di nuovo indotta al pianto.

«Il problema, è che gli adulti hanno perso il diritto di scegliere se fare o meno parte della società, almeno a piacimento, perché sono una colonna, e quella colonna regge infinite dinamiche, dal valore più o meno importante. Quel peso, a volte, ci sembra troppo, perché siamo fatti di carne, ossa ed emozioni: non siamo marmo, non cemento e neppure acciaio. Forse dovremmo semplicemente ricordarcelo.»

Mi soffermai su quelle parole e mi chiesi se avrei potuto rafforzare la colonna di cui parlava la Patrizia. L'ultimo messaggio che avevo scritto a mia mamma risaliva a una decina di giorni prima, l'ultima chiamata a due settimane prima. Non l'avevo cercata, non mi ero preoccupata per lei: volevo solo godermi l'estate e stare lontana dal mostro nero e dalle gemelle; non volevo avere a che fare con lei e la sua malattia. Ma queste cose me le dicevo ora, ora che davvero ci riflettevo. Volevo molto bene a mia mamma, certo che le volevo bene; ma il disagio era stato evidentemente più forte di quell'amore che si pensa incondizionato. Mi sentii meschina e macchiata di tradimento, del tradimento più grande: verso coloro che ci hanno dato la vita. Sentii il bisogno di rimediare, ma sapevo di non avere il potere per farlo... forse non avrei mai potuto fare ammenda, togliermi quel peso dal petto. Forse era troppo tardi. Troppo tardi: una roba violenta e agitata, qualcosa di quasi insostenibile.

«Pietro e io pensiamo di no, ma...» Dovetti deglutire e lottare, per ricacciare indietro le lacrime che non ero neppure certa di avere, dal momento che pensavo di aver svuotato la cisterna. «E se fosse morta...?»

Patrizia mi guardò per un lungo momento e accennò qualcosa di simile a un sorriso.

«Non lo so, Andrea. Se tua mamma non dovesse tornare, tu saprai cosa fare, così come se lei dovesse tornare. Non spetta a me dirti o fingere di rivelarti una verità che potresti non condividere: troverai la tua. E credimi, so che queste mie parole potrebbero apparirti senz'anima, ma non posso darti risposte che non ho, non posso né voglio illuderti che lei stia bene, perché non lo so. Però posso dirti, e te lo dico con tutto il cuore, che spero che Lucrezia stia bene e che torni da noi, sana e salva, magari con una nuova prospettiva, con una nuova forza.»

«Cos'hai fatto quando è morta tua mamma?»

Ricordavo me l'avesse accennato qualche anno prima, quando le avevo chiesto dove fossero i suoi genitori. Era stata sua mamma a crescerla, tutta da sola, perché il fidanzato l'aveva lasciata quando aveva scoperto della gravidanza. Un classico intramontabile, pare, sia per un sesso che per l'altro: a volte i bambini sono un legante, altre volte un cuneo.

«Pensai fosse tutto finito», mi rivelò. «Pensai che non ce l'avrei fatta, che il dolore prima e l'inadeguatezza poi mi avrebbero sopraffatta. Avevo vent'anni e del mondo e delle sue dinamiche non capivo assolutamente nulla; inoltre, lei era tutto ciò che avevo.» Mi sorrise. «Ma sono qui, perché i giorni sono trascorsi, sono diventati mesi e anni; il dolore non è mai scomparso, ma ha assunto sfumature diverse. Nuovi dolori e nuove gioie, e tutto si è mischiato. Forse viviamo per abitudine, ma viviamo, perché è l'ordine imperativo della natura.»

Quella sera mi apparve immensamente fredda; ma quello che disse, scoprii, aveva senso anche per me. Quelle parole, quelle considerazioni crearono una base d'appoggio, solo la bozza di fondamenta, però: sarebbe toccato a me decidere ed essere in grado di costruirci qualcosa sopra. Apprezzai la sua sincerità, apprezzai il fatto che non avesse cercato di ingannarmi e mentirmi su qualcosa che, come aveva detto, non poteva sapere. Sì, forse una parte di me, più precisamente il mostriciattolo, sentì di non aver ricevuto la giusta compassione, ma non era di quella che avevo bisogno: forse la volevo, ma non mi serviva.

E, comunque, ricominciai a piangere; il pianto era salito senza che potessi farci nulla: le emozioni mi avevano travolta, il senso di colpa minacciava di divorarmi.

E mi calmai di nuovo, ricordando di non avere potere. E fu per quella sensazione d'impotenza che, pochi istanti dopo, fui investita da una nuova ondata di pianto.

Sembrava non esserci via d'uscita.

Patrizia rimase accanto a me, a strofinarmi la schiena e ad assistere alla mia altalena.

«Ha senso, se dico che la mamma ora non è né viva né morta?», chiesi in un momento di consolazione. «E' come il gatto in quella scatola: finché non ci guardiamo dentro, non è nessuna delle due cose... o entrambe, giusto?»

«Sì», confermò, «teoricamente è esattamente così. Tua mamma è scomparsa; nessuno sa dove si trova, ma qualcuno invece sì, e quel qualcuno potrebbero essere diverse persone o solo lei.»

«E' come se mi fosse caduto addosso un mantello da cui non riesco a liberarmi», decisi di dirle, «mi intrappola e mi soffoca, ma a tratti mi consola...»

«Hai il diritto di sentirti fragile, triste o arrabbiata, ma anche tutto insieme; così come hai il diritto di farti consolare da questa sensazione di irrealtà che ti spinge a pensare di non avere obblighi, perché nessuno potrebbe pretendere nulla da te. E' un sistema di difesa ed è giusto che tu ne faccia uso; solo fallo saggiamente: è un'illusione che inganna la mente e distorce la realtà.»

Da quel suo discorso, capii che lei sapeva esattamente di cosa stavo parlando; e se una parte di me ne fu annoiata, perché mi toglieva di unicità, l'altra ne fu felice e appagata.

Scoppiai a piangere un'ultima volta in sua presenza, quella sera, perché, per un breve istante, mi ritrovai a pensare che avrei voluto fosse lei, la mia mamma. Ma semplicemente perché avrebbe reso tutto più semplice, meno doloroso, più logico e meno inquietante, sporco, disarmonico e precario.

Prima di andarsene mi chiese se volessi guardare un film o una serie con lei, o leggere o fare qualcosa insieme, insomma. Le dissi che avrei chiamato i miei amici e poi sarei andata a letto, perché, nonostante avessi dormito qualche ora, mi sentivo esausta.

In realtà non chiamai i miei amici: chiamai solo Mario, perché era con lui che mi sentivo di voler parlare.

  
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