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Autore: aurora giacomini    19/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«... e poi ci siamo arresi e siamo tornati lì del mulino», finì di raccontare Mario; ma prima ribadì: «Però noi ti cercavamo in paese, perché la Lilla ci ha detto che eri andata là.»

«Ho capito», mi limitai a dire. 

Cominciavo a chiedermi perché non mi fossi semplicemente messa a guardare l'episodio che aspettavo - ma di cui non sembrava importarmi più così tanto - o direttamente a dormire. Poi mi ricordai.

«Sono andata dalla Cascata e lì-»

«Ma!», m'interruppe Mario. «Ma avevamo detto-»

«Lo so!», lo interruppi io. «Non era nei miei piani: stavo cercando voi due!»

«Non è colpa nostra se tu spegni il cellulare e i tuoi chiamano noi, per vedere di trovarti...» mugugnò. «Noi cercavamo di aiutare...»

Mi passò brevemente per la testa che avrei potuto ringraziarlo. Scacchiai l'idea: ero ancora piccata per essere stata piantata in asso... anche se ora ne conoscevo le ragioni.

«Bon», liquidai. «Ho incontrato una tipa francese.» Mi venne da sorridere, ricordando quei pochi momenti trascorsi con lei. «Mi ha detto che la ragazza che è annegata voleva saltare dall'altra parte; a lei non è andata bene come a te, che ti sei solo sbucciato un ginocchio.» 

«Aperto, slabbrato!», mi corresse, e il riverbero mi offese i timpani; ai cellulari, proprio come alle persone, non piace quando ci urli addosso. «Sei punti di sutura!»

«Bon», replicai. «Hai una bella cicatrice. Alle ragazze piacciono: di che ti lamenti?» Questa l’avevo sentita dalla mia serie preferita; anche se la protagonista, parlando con la sorella, aveva detto “ai ragazzi” e l’altra, a cui piaceva la poliziotta, le aveva chiesto: “E alle ragazze?”. 

Bon, sto inserendo robe che interrompono la narrazione e basta.

«Dici?» Ora aveva assunto un tono quasi sognante; cosa che si intensificò quando aggiunse: «Pensi che alla Clarissa potrebbe piacere?»

Clarissa: puah! Tutti - i maschi - a dire che è la più gnocca della scuola, ma dove? Un manichino rinsecchito che sta sempre a guardarti come fossi una cacca sulla sua - finta - borsa firmata! Avesse un altro atteggiamento, forse, potrei rivedere la mia posizione. Ma comunque non potrebbe competere con Nevrè, in nessun caso.

«Non lo so», ammisi. «Lei non funziona come le ragazze normali. Io punterei più sulla Martina: lei, come me, è il tipo che apprezza quelle robe. E poi si vede che le piaci.» E ci avevo visto bene, ma di questo parlerò alla fine.

«Ma c'ha i brufoli», si lagnò. «Sulla fronte c'ha la Costellazione del Cigno!»

«Perché, tu no?»

«Ma io sono un maschio! Quelli me li tiro dietro fino ai trenta, a sentire mio cugino!»

Feci un gesto spazientito con la mano, anche se lui non poteva vederlo: «Bon. Possiamo parlare di quella tipa, ora?»

«Eh dimmi!», sbottò, infastidito, dato che avevo probabilmente disintegrato i suoi sogni di gloria e di conquista. 

«E' in vacanza con i suoi: viene qui ogni estate, da quello che ho capito. Solo a me sembra un po' strano, che una si faccia un viaggio dalla Francia al Friuli?» Quello era il primo momento in cui davvero riflettevo sulla cosa, invero.

«Boh», si limitò a commentare. Eh niente, l'avevo proprio atterrito. «Fatti loro.»

«Va bene. Sai cosa? Vado a dormire.» 

Quel suo atteggiamento mi stava dando sui nervi, e io avevo già dato sui nervi a lui, quindi tanto valeva finirla con quella farsa.

«Aspetta!», mi fermò. «E di tua mamma?»

Lo odiai profondamente per avermi fatto quella domanda: mi ero finalmente distratta! Perché diavolo aveva dovuto tirare fuori l'argomento?! 
In fondo, però, la sua era preoccupazione, gentilezza, come minimo. Decisi dunque di non arrabbiarmi e, respingendo le lacrime, dissi: 

«Non so... Ora vado, son stanca.»

Esitò per un lunghissimo momento; poi: «Scusami, volevo solo... non lo so. Non lo so.» Poi cambiò argomento, sfoggiando un tono esageratamente gioviale e spensierato: «Allora domani ci vediamo? E riporta le sigarette, che Fede mi ha fatto una testa così! Manco fossi stato io... Okay?»

«Non so», replicai. «Magari passo solo per restituire il maltolto: mi devo vedere con Nevrè. Ho promesso.» Non era andata esattamente così, ma quello era il succo.

«Chi è Nevrè?» 

Mi diede quasi fastidio il fatto che lui avesse colto la pronuncia al primo colpo.

«La ragazza francese!», sbottai. «Quella di cui cercavo di parlarti!»

«Ma l'hai incontrata dalla Cascata?» Sembrava scettico.

Il mostriciattolo si tirò su le maniche e gonfiò il petto. 

«Ma mi ascolti?!», esplosi.

«Ma non sta a incazzarti con me!», strillò di rimando. «C'è già Federico che mi urla per qualsiasi cosa! Prima mi dici che eri dalla Cascata, poi parti a parlarmi di 'sta qua! Mica mi avevi detto che erano robe collegate!»

«Se non m'interrompevi, magari!» E poi si capiva, secondo me.

«Bon!»

«Bon!», gli feci eco.

Passò forse un minuto, che riempimmo con i nostri respiri mezzo affannati.

«Che ci faceva lì?», mi chiese, tornando tranquillo e pacato. 

«Non ne ho idea», ammisi, ora anch'io più calma. «Non ho avuto tempo di chiederglielo: stavo per farle ascoltare i Lordi, poi ho visto le chiamate...»

«Strano posto, per una ragazza», commentò. «Per di più tutta sola. Ho capito bene?»

«In effetti...» dovetti convenirne. 

Ci perdemmo in alcune ipotesi, tutte piuttosto fantasiose, e non concludemmo davvero nulla.


«Bon, allora buonanotte», mi salutò infine. «E ricordati le cicche, se no quello non mi lascia più vivere.»

«Sì, sì...» brontolai.

Terminai la chiamata e mi misi a guardare lo schermo, che si scurì per poi spegnersi completamente. Sullo specchio nero vidi la mia immagine riflessa: avevo gli occhi gonfi e cerchiati da profonde occhiaie. Quegli occhi non mi appartenevano. 

Mi contemplai per un po', chiedendomi se il giorno successivo Nevrè avrebbe potuto coglierne i rimasugli; se l'avesse fatto, le avrei detto il perché, da un pomeriggio all'altro, il mio volto apparisse tanto diverso? Non lo sapevo ancora. Forse no, pensandoci: Nevrè avrebbe dovuto essere la mia distrazione, qualcosa da non inquinare con le mie preoccupazioni. 

Nevrè. 

Pensai a lei anche mentre mi facevo la doccia, mi lavavo i denti e poi anche mentre mi spalmavo la pomata sul ginocchio.


«Sei davvero... evanescente, Nevrè...» commentai, spostando il bicchiere dove c'erano i rimasugli dell'Oki, per fare posto al cellulare, sul comodino. 

Avevo pensato a lei per tutto il pomeriggio, a intervalli irregolari, in momenti casuali, l'avevo inserita in tutto, eppure avevo avuto così poco a che fare con lei. Richiamavo alla mente quei momenti con lei e, più lo facevo, più mi apparivano confusi, slegati, quasi come fosse stato un sogno. Ma lei non era stata sogno. Giusto? 

Mi addormentai pensando che l'indomani l'avrei rivista e che avrei avuto certezza che era reale.


Mi svegliai che mancava un quarto alle tre. Meglio: fu il dolore a svegliarmi. Il magico effetto dell'antidolorifico era ormai finito. Ero tutta sudaticcia, e la cosa mi diede dieci volte più fastidio del solito. Mi sentii proprio lezza e misera.

Gemendo e imprecando scesi dal letto. Con la mente mezza annebbiata dal sonno e dal male, feci le scale: ero diretta in cucina, per riempire di nuovo la borsa, che ormai conteneva solo un pallido ricordo dell'acqua calda che mi aveva portato la Patrizia.

La TV era accesa, ma l'unico spettatore era addormentato. Mio padre sosteneva che la schiena gli facesse meno male sul divano, che nel letto. Boh. Ormai la Patrizia dormiva quasi sempre da sola; non che mi dispiacesse: mi infastidiva pensare a loro due a fare robe. 

Gli passai davanti senza preoccuparmi di svegliarlo: uno perché tanto non lo svegliavano manco le cannonate, ma solo il male all'ernia, e due perché avevo fretta di fare le mie robe e ottenere sollievo.

Sul tavolo della cucina trovai un piatto coperto da un altro piatto e una bustina dell'Oki. Dio, quanto volevo bene alla Patrizia! Mi commosse un po' il fatto che si fosse preoccupata per me fino al punto di prevedere l'epilogo della mia notte. Non era cosa rara, la sua gentilezza, ma mi commosse comunque.

Mangiai la mela e le due fette di formaggio, e subito dopo presi il medicinale. Mi sedetti sulle caviglie e attesi i fatidici cinque, sei minuti.

Il sollievo mi fece quasi venir voglia di urlare, ma ebbi la decenza di mantenere un contengo. 

Il primo giorno era quasi andato, dopo sarebbe stato tutto in discesa... fino il mese prossimo...

Stavo per uscire dal salotto, quando mio padre parlò:

«Stai male?»

«Sono in fiore», replicai. Quella cosa l'avevo sentita dalla Patrizia, e da quella volta la usavo quando dovevo spiegare la determinata condizione al sesso maschile.

Feci per andarmene, ma lui parlò ancora:

«Andrà tutto bene.»

Deglutii a vuoto un paio di volte e pensai: Non lo puoi sapere. 

«Sì, lo so...» mormorai invece, ostinandomi a guardare le scale che volevo salire.

«Ti voglio bene, Andrea, lo sai, vero? Ci sarò sempre per te.»

Un giorno morirai, come tutti, pensai. Non ci sarai per sempre. Un pensiero cinico e lapidario, valutai, così poco da me. Inoltre, le tre del mattino non mi parvero il momento per lo sfoggio di quei sentimentalismi... però in cuor mio apprezzai. 

«Anch'io ti voglio bene, papà...» mi costrinsi a dire. Era vero, ma morivo d'imbarazzo! Cos'erano? Tre anni, che non gli dicevo una roba del genere? «Ho sonno», aggiunsi, per farla finita.

Non potevo, ma in qualche modo lo sentii annuire e sorridere. 


Richiusi la porta e ci appoggiai le spalle. Stringendo convulsamente la borsa rossa, mi abbandonai a un pianto pacato e lento, più simile a quello di un adulto.


Mi svegliai verso le nove e mezza. Avevo solo un lieve dolore: qualcosa che potevo tollerare; ma mi diede fastidio doverlo e poterlo fare. 

Ci avevo messo parecchio ad addormentarmi; avevo passato gran parte di quelle sei ore su YouTube a guardare gente che costruisce ripari nel bosco e gente che intaglia il legno, per farci mestoli o ciotole.

Alienante il giusto.

Andai in bagno a fare quello che dovevo e poi mi misi alla scrivania. Contemplai per un cinque minuti buoni lo schermo nero del PC, concentrandomi più che altro sul mio volto, esattamente come avevo fatto la sera prima col cellulare.

Specchi neri. 

Mi venne da pensare a un film: se ricordo bene, parlava di bullismo ed emarginazione, forse di un'arte e un dolore incompresi, mescolati con le solite cagate da horror... che comunque a me piacciono. E, seguendo quel pensiero, mi chiesi se volessi vedere quel benedetto episodio. Infine decisi che sarei andata avanti con la lettura de La Ragazza Drago di Licia Troisi; forse ero un po' grande, per quello, ma tanto chi mi vedeva? Non riuscivo a empatizzare con la protagonista, perché io ero decisamente più sicura di me; ma nondimeno mi risultava godibile, l'insieme.

A fare i compiti non ci pensai neppure; avevo finito italiano, storia e scienze, matematica e inglese potevano aspettare anche il giorno prima del rientro in classe. Inglese... le prime frasi che avevo rivolto a Nevrè. 

Il suo volto cominciò a sostituire quello di Sofia, anche se lei aveva i capelli rossi e gli occhi verdi, e dopo poco non riuscii più a concentrarmi sulle vicende. Rimasi imbambolata sulla pagina 313: non vedevo l'inchiostro, vedevo la cascata, non vedevo i punti, vedevo i suoi occhi.

Che mi fossi presa una cotta? 

Scossi la testa: Sto facendo tutto da sola!

Avevo passato un pomeriggio e una notte a disegnare, inventare e definire immagini che non si erano verificate, se non nella mia testa. Quanto c'ero stata con lei? Dieci, venti minuti? Come poteva, dunque, il film nella mia testa durare ore? No be', se per quello poteva: come quella volta che avevo macchiato i pantaloni bianchi dell'Eleonora - una compagna delle elementari che avevo perso di vista alle medie - con della tempera rossa; una frazione di secondo che avevo vissuto e rivissuto per mesi. La goffaggine è traumatizzante, soprattutto se entra in collisione con la tua prima crush. 

Bon.

Tornai alla lettura: ero a una trentina di pagine dalla fine.


Arrivò l'una e mezza e mi tirai su dal letto. 

Avevo finito il primo libro e iniziato il secondo, poi mi ero gettata sul giaciglio notturno, dato che mi ero sentita immensamente stanca. Ero riuscita a dormire un paio d'ore, minimo. Bene. Volevo essere in forma e apparire fresca.

La casa era silenziosa: di domenica si usciva tutti insieme a pranzo; si andava in pizzeria.

Forse, la volta prossima, potrei invitare Nevrè a unirsi a noi.

Non mi dispiacque l'essere stata lasciata ancora una volta a casa, anzi! Apprezzai il fatto che, vista la mia notte, mi avessero lasciata in pace. Tanto poi mi avrebbero portato uno o due tranci di quella al tonno e cipolla, già sapevo. E poi fu rassicurante il fatto che fossero comunque usciti, che avessero rispettato la tradizione: mi diede un senso di normalità ed equilibrio. Probabilmente i due adulti l'avevano fatto più che altro per la piccola, ma l'importante era solo e unicamente il risultato.

Di solito non badavo troppo alla cascata di spaghetti neri che avevo in testa, ma quella mattina mi impegnai a spazzolarli con cura; provai pure a farmi una crocchia, ma poi mi sentii idiota e la sciolsi. 

Mi lavai i denti - cosa che di solito facevo solo la sera, indispettendo la mia dentista. Ebbi persino la cura di pulirmi la lingua, usando il bastoncino dei cotton fioc, e usai quell'orrendo collutorio che mi faceva lacrimare.

Tornata in stanza indossai una maglietta nera, simile a quella del giorno prima - dato che a Nevrè era piaciuta - e sopra misi una camicia bianca, senza maniche. Forse avrei patito un po' il caldo, ma ne valeva la pena, per fare bella figura. 

Jeans, scarpe e il gioco era fatto.  

Rimasi un po' davanti allo specchio, decidendo fossi okay.


In cucina trovai due arance, un limone e lo spremi agrumi, con la confettura di mirtilli e delle fette biscottate lì accanto. Storsi il naso, perché avevo ancora l'anestesia mentolata del collutorio. No, niente colazione: erano già le due passate e poi avrei avuto della pizza, al ritorno. 

Anche quel giorno era nuvolo; non mi dispiacque, dal momento che avevo indossato la camicia.

Vidi che la mia bici era stata rialzata e poggiata al suo piedino. Era accanto a quella della Patrizia: solo con le uscite di famiglia rimaneva lì. Quella della Lilla doveva essere dietro la casa, nel suo posto speciale.


Mi ricordai del salto solo dopo che la Collina dei Salti fu ben dietro di me; non sarei tornata indietro neppure quel giorno: avevo fretta e dovevo fare una strada un po' più lunga, per evitare sia il ''buon cittadino'' che i rovi.

Pedalai a ritmo sostenuto, dato che il ginocchio non mi dava chissà che problemi, inserendo una sorta di pilota automatico. 

Mi venne in mente che invece di starmene a guardare video di cose che non avrei mai fatto, avrei potuto impiegare quel tempo per imparare un po' di francese. Almeno le basi della conversazione. Sul tubo è pieno di gente che ti fa tutorial su tutto: non avrei avuto problemi a trovare qualcosa. Perché non ci avevo pensato prima? Sai che bella figura, avrei fatto, a sfoggiare qualche convenevole nella sua lingua!

«Che occasione sprecata...» mugugnai, risentita. «Son proprio mona...»

Il sacchetto col cellulare e le sigarette mi premeva contro la coscia, al ritmo della pedalata: quella sensazione mi ricordò che dovevo passare dal mulino, per tornare le cicche ai quei due mona. Ma, avendo scelto un'altra strada, il mulino era da tutt'altra parte. 

Ci avrei pensato al ritorno.


Lasciai la bicicletta in un prato, proprio prima dell'inizio del bosco, e mi inoltrai. 

Questa volta non mi misi a camminare nel torrente, visto che non ce n’era motivo; lo fiancheggiai. 

L'ombra e l'umidità di quel posto non mi fecero pentire di aver messo la camicia. Un po', però, mi dispiacque fosse nuvolo: non avrei potuto guardare gli infiniti arcobaleni con Nevrè.

Mi persi in quelle immagini e annullai la distanza che mi separava dalle spiaggette.


Il mostriciattolo cambiò posizione; una che gli risultasse congeniale per brontolare: lì non c'era nessuno, esattamente come il giorno prima.

Mi fermai un paio di metri oltre la pietra su cui si era seduta Nevrè e guardai in alto, verso la cima: niente.

Effettivamente il mostriciattolo prese a brontolare, ma più che una roba irosa fu una roba piagnucolosa. 

«Mi sono illusa come un mona...» mormorai. «Probabilmente mi ha detto che ci saremmo riviste solo per educazione, ma in realtà le ho fatto una pessima impressione e le sono-»

«Dico ancora: tu aimes parler seule!»

Mi sfuggì un gemito e mi voltai di scatto.

Nevrè era a un metro da me; mi sorrideva e mi guardava come fossi una cosa strana, seppur puccia. Indossava lo stesso vestito del giorno prima, credo... o forse era un po' più scuro. Boh, a me pareva uguale.

«Je suis contente tu venuta qui ancora», rincarò, dal momento che la fissavo in completo silenzio.

Da dove diavolo era sbucata? E va bene il rombo dell'acqua, ma proprio non l'avevo sentita arrivare...

«Te l'ha mai detto nessuno che sei un po' inquietante?», fu il mio saluto. Mi pentii subito del termine e del tono brusco; cercai di rimediare: «Anch'io sono contenta che tu sia tornata.»

Il sorriso, scomparso dopo la mia prima domanda, tornò a ornarle il bel viso.

S'indicò l'orecchio col dito - in quel momento notai che neppure lei aveva i buchi - : «Più lontano, oui?» 

Annuii: effettivamente era difficoltoso avere una conversazione così vicino alla cascata.

Lei tornò padrona della pietra liscia, io cercai un punto simile.

Restammo in silenzio per un tempo che non saprei quantificare. Ogni tanto sbirciavamo nella direzione dell'altra e sorridevamo; poi, però, abbassavamo subito lo sguardo.
Il giorno prima l'interazione era stata spontanea e naturale, oggi pareva ci fosse dell'imbarazzo. Penso che nella testa di entrambe passò la scritta ''che diavolo ci faccio qui?''.

«Ahm...» feci, giusto per rompere il silenzio.

«Oui?»

Alzai la testa e mi costrinsi a guardarla. 

Il formicolio allo stomaco si manifestò nell'istante in cui cominciò a sostenere il mio sguardo.

«Mi dici cosa ci facevi qui, ieri?» Glielo volevo chiedere in ogni caso, quello mi sembrò il momento opportuno, forse il migliore, per iniziare davvero una conversazione. 

«E' un posto fuori dal tempo. Triste, ma bellissimo.»

«Hai ragione», annuii. 

Poi mi accorsi e uno strano brivido mi corse lungo la spina dorsale. Le cose erano due: o mi aveva sempre presa per i fondelli, oppure il suo italiano si era evoluto per... magie.

«Cos'è successo al tuo italiano infrancesato?»

Prese a ridere di gusto.

Il mostriciattolo non gradì e si trasformò momentaneamente in Zanna Bianca, il quale proprio non poteva soffrire il riso, lo scherno dell'uomo.

«Tu devi guardare il tuo visage, mon amie!», ridacchiò, e si asciugò pure una lacrima. «Visto fantôme?»

Il mio cervello spese qualche secondo in una traduzione inutile; poi ricordò le priorità... o forse fu il mostriciattolo. Chissà.

«Cos'era quello? Perché hai usato un italiano perfetto e poi hai ricominciato col misto? Ti stai prendendo gioco di me?»

«Non», affermò. «Tu ti stai prendendo gioco di me.»

Questa volta non mi preoccupai e non mi feci troppe domande, perché aveva semplicemente ripetuto quello che avevo appena detto.

«Perché dici?»

«''Il tuo italiano è buonissimo, non ho problemi a capirti''», mi fece il verso. «Ora tu detto non buono più. Voir? Tu ti stai prendendo gioco di me.»

«No, no, no!», sbottai, gesticolando come un buon italiano. «Cos'era quello? Poi parliamo anche del tuo registratore incorporato, ma prima rispondi alla mia domanda!»

Scosse mestamente la testa e il suo sguardo mi fece venir voglia di scomparire sotto una pietra.

«C'est l'ère d'Internet! Pensato tu mi fai quella domanda, imparato risposta. Studiato un peu et migliorato, per parlare con te, Andrea. Voilà!», esclamò, spalancando le braccia.

Perfetto...

Non mi sarei mai più ripresa da quella figura, sapevo già. E il bello è che, andando lì, mi ero pure rimproverata di non aver sfruttato quel tempo per imparare un po' di francese. Lei non aveva commesso lo stesso errore e, invece di un po' di apprezzamento, aveva ricevuto la mia stupidità...

Non potevo reggere la situazione: mi sentivo esattamente come il giorno prima, quando tutti mi guardavano, accusavano e giudicavano. 

Avevo un'unica mossa disponibile, solo un pelo più utile dello ''splash'' di Magikarp.

Mi alzai e, tenendo lo sguardo sui sassi che mi sarei voluta dare in testa, mi voltai per andarmene. 

Andrea usa ''fuga'', ma solo perché non è un allenatore che disponga di una Fune di Fuga.

«Andrea!»

Il suo richiamo non fece altro che farmi venire voglia di correre - cosa che non avevo fatto per il solo motivo che avrei rischiato di rompermi il cranio. Invece mi fermai, ma non osai voltarmi.

«Non via, s'il vous plait... Euh... Per favore. Non voglio tu vai. C'est bon.»

Ma non sta a essere gentile, zio ladro, pensai, ma dissi: «Bon?»

«Euh... Buono... bene... Oui?»

«Anche noi lo usiamo, ma non è proprio italiano...»

«Viens ici, Andrea, per favore. Je ne suis pas en colère.»

«Non sei in... collera?», chiesi, voltandomi.

Effettivamente, i suoi occhi mi parvero limpidi e rassicuranti.

I nostri livelli di maturità non erano paragonabili. 

«Perché? Hai tutti i motivi di essere in co- arrabbiata con me!», insistetti.

«Non», mi sorrise.

«Tu lo capisci che mi sento un'idiota di quarto livello, vero? Non so cosa fare... e la tua gentilezza... Bon. Sai cosa? Scusami: questa è l'unica cosa che dovrei dire...» farfugliai.

«Tu es pardonné!»

«Grazie...» mormorai. 
  
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