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Autore: aurora giacomini    20/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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      Cinque

 

 

Avevo appena scoperto la data del suo compleanno - perché volevo sapere di che segno fosse senza chiederglielo direttamente - quando il cellulare prese a suonare. A quanto pareva, Nevrè aveva il potere di estendere il raggio del ripetitore...

Col fantasma del palloncino argentato, tirai fuori il tutto e guardai lo schermo: Mario. 

Bon. 

Misi fine alla chiamata e tornai a concentrarmi mentalmente su Nevrè, che avevo scoperto essere del Cancro. Scorpione e Cancro: perfetto! Se non avessi trovato altri modi per offenderla, avrei potuto cominciare a pensare a come conquistarla.

Con la coda dell’occhio la vidi osservare il cellulare che stavo riponendo nel sacchetto; forse avrebbe voluto chiedermi qualcosa al riguardo, ma evidentemente decise diversamente. Quindi fui io a parlare, e lo feci pensando al soggetto che lei non aveva indagato:

«Con quel vestito, ti sarà impossibile portarti dietro il cellulare. I tuoi non ti costringono a farlo?»

«Non», replicò garbatamente. «Non mi piace quelle cose: volent... Euh... Rubano l’intelligenza.»

«Effettivamente», annuii, pensando alla mia notte. «Però non devi pensare che io stia sempre lì a guardarlo. Se mio padre non mi costringesse, non me lo porterei dietro d’estate. Ma ora devo averlo, perché...» 

No, niente riferimenti a cose brutte. 

«Bon. Ce l’ho perché così i miei non si preoccupano. Lo so che sono grande, ma sai... insomma... lo faccio per loro. Bon.»

«Je comprends. Non devi sentire imbarazzo, Andrea.»

«Non sono in imbarazzo...» mentii.

«Tout rouge», ridacchiò; poi disse: «Et la tua petite... Euh... Sorellina? Ella è bene? Ieri tu molto preoccupata, oui?»

«Un falso allarme», liquidai. «Grazie per esserti preoccupata, però!», mi affrettai a dire.

«Euh-»

L’inizio di qualunque cosa stesse per dire, fu interrotta dallo squillo del cellulare.

Mi sentii un po’ ipocrita a ritirarlo fuori, dato il discorso appena avvenuto, ma se ci fossero state novità, volevo saperlo subito.

Era di nuovo Mario. 

Buttai giù e guardai Nevrè: «Scusami. E’ solo che...»

«Non devi dire niente, Andrea. Tu ancora preoccupata, posso vedere nei tuoi occhi.»

Prima di dire qualcosa, pensai che quando non la facevo agitare era più facile per lei provare a parlare quasi interamente in italiano. La ringraziai mentalmente, per quello sforzo per nulla ricambiato.

«Davvero riesci a vederlo nei miei occhi?»

Lei annuì.

Mi misi a studiare i suoi, di occhi, dimenticandomi l’imbarazzo.

«Forse anche i tuoi occhi mi dicono che sei preoccupata... no: sei triste. Perché sei triste?»

Mi sorrise, piegando leggermente la testa di lato. 

«Tu vuole parlare di tuo male?»

Scossi la testa.

«Aucun de nous ne veut parler de sa souffrance.»

Annuii. Ero riuscita a decifrare grazie all’ultima parola, più che altro.

«Mais je suis aussi contente, perché tu qui, Andrea. Pesavo meglio sola, mais meglio con te.»

Già, lei era rimasta sola, chissà per quanto tempo, e poi, a caso, ero spuntata a disturbare quella quiete. Effettivamente, non mi aveva respinta e non aveva fatto nulla per farmi capire che probabilmente quello era il suo posto; un posto per la sua solitudine e il suo dolore. Ma mi sentii colpevole.

«Scusa, non ti ho mai chiesto... Non importa. Grazie, sei molto dolce.»

«Tu molto dolce, Andrea.»

«No, dico dav-»

Di nuovo il cellulare.

«Ma porco di quel cane!», sbottai, irosa, e ancora una volta misi fine alla chiamata.

«Forse bisogno di te», ipotizzò Nevrè.

«No, no. Non preoccuparti, è solo un mona.»

«Euh... Come Monnalisa?»

Non riuscii a trattenermi e mi misi a ridere, perché nella mia testa partì: ‘‘Ora ridateci la nostra Gioconda, perché siamo noi, i campioni del mondo’’. Appropriato, vista la mia interlocutrice. Fu difficile trattenersi dal cantarlo ad alta voce.

«Non proprio, Nevrè», ridacchiai. «Però mi hai fatto ridere. Grazie, ne avevo bisogno.»

«Je suis contente, anche se non capito perché tu ride.»

«Un giorno te lo spiego, promesso.»

In quel momento arrivò un messaggio:

Federico mi sta fracassando il fracassabile. Vieni dal mulino, ora! >:(

Alzai gli occhi su Nevrè: «Senti, possiamo rivederci dopo? Il mona non mi lascerà in pace finché non risolverò questa cosa.» Mi alzai e aggiunsi: «Scusami, sai. Spero che tu non pensi che io sia una maleducata o robe. O che non mi piaccia stare qui con te... perché mi piace molto...»

Mi sorrise e mi assicurò che non ci fosse problema.

Nonostante il permesso e l’obbligo di andare via, me ne stetti impalata a fissarle le mani: volevo un contatto fisico con lei, volevo sapere di che colore fosse il suo calore, volevo... toccarla e farmi toccare da lei, forse per rendere tangibile tutto quanto.

«Andrea?»

Alzai lo sguardo sui suoi occhi, che mi fissavano con perfino più curiosità del solito. 

Dopo aver ragionato un momento ancora su quanto effettivamente mi apparissero tristi, cercai di capire se potessi chiederle una stretta di mano o qualcosa, e farlo senza apparire una maniaca.

Niente, non riuscivo a produrre nessun suono e il mio corpo rifiutava ancora di muoversi. Così avrei finito solo per inquietarla e traumatizzarla.

Fa’ qualcosa, pirla d’un cervello!

«Sei davvero bella, Nevrè.»

Ma che cacchio?! No! Peggio ancora, peggio ancora! 

Non guardai la sua reazione e non sentii, se c’era stata, la sua replica: schizzai via, stavolta senza preoccuparmi del mio cranio, che avrebbe potuto frantumarsi sulle pietre.

 

«Sei davvero bella, Nevrè», mi scimmiottai, quando fui a qualche centinaio di metri. «Ma son robe da dire?! Be’, robe brutte non sono, ma... zio bon! Nicole quanto ha impiegato a dire una cosa del genere a Waverly? Tipo due stagioni, e quelle due si corteggiavano da metà della prima. Bon, ma quelle due erano un caso disperato, per quello mi piacciono. Non sapevano parlarsi chiaro, ma sapevano quello che volevano dal principio.»

Stetti un momento zitta, quasi sperando che Nevrè mi avesse raggiunta, per ripetermi che ‘‘amo parlare da sola’’. Sperandolo e temendolo. 

Comunque c’era solo il rumore del fiume, che ora costeggiavo.

«Forse, a livello inconscio», ripresi, «speravo davvero di vivere un’avventura simile.» 

Certo, pensandoci ora, è proprio quello che speravo.

«Ma non potevo semplicemente chiederle di stringerci la mano o, meglio ancora, andarmene e basta, salutandola come una persona normale? Eh, si vede proprio di no!»

In breve decisi fosse tutta colpa di quei due mona, perché mi avevano messo premura. 

Me l’avrebbero pagata.

 

Recuperai la bicicletta. 

Prima di mettermi in marcia, però, scrissi a quel mona di Mario, così non mi avrebbe più fatto suonare il cellulare e gonfiato il fantasma del palloncino. Se il mio cellulare avesse squillato, sarebbe stato per la mamma.

Qualcosa si mosse sopra il mostriciattolo, che si allarmò non poco, temendo che il soffitto gli arrivasse in testa: mi stava di nuovo venendo da piangere.

«Pensarci non serve. Non ho potere. Lei è come quel gatto», mi ripetei, tentando di calmarmi. 

Ci riuscii quel tanto che bastava. 

 

Appoggiai la bicicletta contro il muro esterno del mulino con un po’ di malagrazia: volevo annunciare il mio arrivo. Un arrivo non pacifico. 

Guardai la bici nera di Fede e, per un lungo momento, meditai di bucargli una ruota. Decisi di non farlo, perché il tempo in più mi serviva per pensare a come ripresentarmi da Nevrè. 

Per trovare il coraggio di farlo.

 

«Ecco!», urlai, facendo irruzione. «Tabagista del cazzo!»

Invece di incazzarsi - come mi ero vividamente immaginata - Fede recuperò il pacchetto che gli avevo lanciato addosso e mi guardò come fossi una bambinetta scema.

Avrei semplicemente potuto girarmi e andarmene, ma quel suo ghigno stuzzicò il mostriciattolo, che faceva proprio schifo a lasciar perdere.

«Che c’è?! Vuoi un poster?»

«Come sta il tuo fantasma?», chiese, usando lo stesso tono che usava sua madre quando, da piccoli, ne combinavamo una delle nostre.

Aprii la bocca, per vomitargli addosso ogni sorta d’insulto, ma mi bloccai, perché stavo analizzando la domanda. Una domanda che non aveva il minimo senso, fra le altre cose.

«Ma sì», continuò, col tono color lavanda della signora Parodi, «il fantasma.»

«Ma si può sapere che minchia ti sei fumato, mona?»

«Fede...» boccheggiò Mario, che si era fossilizzato al momento della mia irruzione. «Finiscila, per favore.»

Feci girare lo sguardo fra i due. Uno si stava accendendo con tutta calma una sigaretta, continuando a ghignare; l’altro fissava il vuoto siderale, bianco come un cencio. 

«Non eri dalla tua amica morta?», fece, soffiando fuori il fumo come fosse stato un gangster o Doc Holliday. «Belin», ridacchiò poi, «ho sempre pensato che tu fossi un po’ storta, ma arrivare a inventarsi questa storia. Non ti hanno insegnato a lasciare in pace i morti, a rispettarli?»

Dal momento che il mio cervello non riusciva a trovare un modo per ordinare al mio corpo di fare qualcosa, una qualsiasi cosa, lui continuò:

«Tua madre è scomparsa: non ti bastava questo, per avere l’attenzione su di te? Come se l’attenzione non fosse sempre su di te. Ora ti inventi pure di parlare con la ragazza morta affogata lì dalla Cascata.»

«Nevrè è viva e vegeta, mona!» 

Ma un dubbio, un piccolo tarlo cominciò a rosicchiarmi qualcosa alla base della nuca.

«Già», fece Federico. «La ragazza di cui stiamo parlando non è forse nera, di origini francesi, sui sedici o diciassette anni?» Mi guardò ed esultò con lo sguardo, probabilmente a causa dello sgomento che avevo dipinto in volto.

Quella cosa la stava costruendo sulla base di quello che avevo raccontato la sera prima a Mario, di sicuro! Solo che non gli avevo detto che era nera e neppure che era più grande di noi, per le stesse ragioni per cui non avevo menzionato la rottura del mio record nel scendere: irrilevanti.

Piantai lo sguardo su Mario, che sembrò percepirlo come una forza fisica, dal momento che rabbrividì. Ma fu su Federico che riversai la mia collera:

«Sta’ zitto, deficiente!»

«Effettivamente, non puoi replicare con altro, se non insulti», ridacchiò. «Lascia in pace i morti, Andrea. Non appari più interessante, solo più stupida», concluse, con voce stentorea.

«Ci sarà stato un motivo se ho telefonato a te e non a lui, no?!», urlai a Mario, che ancora fissava il vuoto oltre la macina. «Testa di mona che non sei altro!» Forse non aveva senso, ma volevo aggrapparmi a qualcos’altro; qualcosa di... reale e dimostrabile.

«Gli avevo detto di non dirti nulla e lui aveva promesso», mormorò Mario. «Però l’articolo l’ho visto anch’io, Andrea... ha senso...»

«Cosa ha senso? Che articolo?»

«Secondo te? Quello dove si parla della tua amica morta, ovviamente», precisò Federico. «Quando Mario mi ha detto che hai incontrato una ragazza, dalla Cascata, mi sono venuti dei dubbi, così sono andato a cercare l’articolo online in cui se ne parlava. Non ci ho messo molto a trovarlo: non sono molti gli stranieri che vengono a morire in un posto sperduto del Friuli. E siamo nell’era di Internet: tutto è pubblico.»

Il fatto che avesse, in parte, utilizzato la stessa frase di Nevrè, mandò il sangue al cervello del mostriciattolo.

«In realtà», proseguì Fede, «sapevi benissimo che Mario sarebbe venuto a dirmelo e che avremmo indagato. Volevi che pensassimo che puoi vedere e parlare con i fa-»

Non aveva avuto occasione di finire, perché lo avevo afferrato per la camicia e schiacciato sulla macina, bloccandolo col mio peso.

«Fìggia de ’na bagàscia! Mollami!», strillò.

Alzai il braccio destro e la mia mano si chiuse a pugno. 

Ero perfettamente lucida, quindi sapevo cosa stavo per fare, ma sapevo anche che dall’esterno sarebbe sembrata come una totale perdita di controllo, quindi la mia azione poteva essere giustificata. 

Ero lucida ma incazzata nera. 

Era la mia occasione per sferrare finalmente un cazzotto sul grugno di quel mona. Ma non ci stavo riuscendo. 

Non volevo farlo. 

Volevo farlo.

Lo faccio! Frega niente! Sono ancora minorenne!

«Prendi questo, stro-»

La mia esitazione aveva dato tempo a Mario di riscuotersi e di afferrami da dietro, esattamente come un wrestler che stesse per eseguire una Masterlock. Anzi, lui me la stavo proprio facendo.

Il collo, piegato in modo innaturale, mi faceva un male bestia e i polmoni non riuscivano a gonfiarsi come avrebbero voluto. Ma lo stesso riuscii ad avvertirlo:

«Mollami immediatamente, o ti arriva un calcio nelle balle!» 

Non ero certa di riuscire a mettere in atto la minaccia, perché è praticamente impossibile uscire da quella presa; ma l’alternativa era di usare la macina come punto di spinta a schiantarlo contro il muro. E forse quella che si sarebbe fatta davvero male, comunque, sarei stata soprattutto io...

Ma Mario non era né un sadico né un masochista, e mi mollò immediatamente.

«Scusa», mormorò. «Avevo paura che-»

«Andate in mona!», lo intruppi. «Voi avete chiuso con me! Chiuso! Se mi comparirete ancora davanti, vi ucciderò entrambi!» 

Un’esagerazione che sapevo non avrei mai messo in atto. Anche perché, solo una settimana più tardi, me li sarei ritrovati davanti per una media di cinque ore al giorno, per i successivi nove mesi...

Prima di andarmene, ebbi il cattivo gusto di recuperare la sigaretta che Federico aveva lasciato cadere durante il mio assalto e il pacchetto di sigarette. Un piccolo affronto, quasi a sfidarli a fare qualcosa. 

Nessuno fece nulla. 

Federico aveva le lacrime agli occhi, anche se cercava di nasconderlo; Mario si torturava le mani, senza avere il coraggio di guardarmi.

Sei un tiranno, ragazza mia”, mi disse il mostriciattolo, orgoglioso di me. “Non ti rispettano: hanno paura di te!

Credo sia stata la prima e unica volta che l’ho sentito usare un linguaggio umano. E, per la cronaca, non mi sentivo affatto fiera di me.

 

 

«Sono una persona violenta», mormorai, pedalando senza meta. «La Patrizia ha speso intere ore a spiegarmi quanto sia bello il dialogo, quanto sia troppo facile e vigliacco ricorrere alle mani. Gioco di mano, gioco di villano... già. Se ne avessi avuto il tempo, gliel’avrei davvero dato, un cazzotto? Credo di sì. L’avrei fatto. Tanto mi ero detta, e ne sono convinta, che sono ancora minorenne. Però così avrei messo nei guai il papà e la Patrizia... bella vigliaccata. In fondo-»

Mi bloccai, ricordando improvvisamente il perché lo stessi per menare. In qualche modo, riuscii a far scivolare il piede sul pedalino e la parte centrale tra le mie gambe prese una botta assurda sul telaio. Non avrò avuto le sfere, ma posso assicurare che fa un male del diavolo lo stesso. 

Finii a terra e riuscii anche a graffiarmi l’interno del polpaccio con la corona.

Una nebbia di acida ira bianca si espanse dentro il petto, il cranio divenne rosso e vidi nero. Dovevo sfogare il dolore e la rabbia, dovevo, o sarei impazzita o morta: era quella la sensazione.

Citai mezzo calendario e sbraitai cose senza senso compiuto. Infine sollevai la bicicletta e la scaraventai a terra. Mollai un calcio al sellino, cosa che non fu gradita dal mio ginocchio, che mi ricordò di essere ancora offeso.

 

La pioggia aveva cominciato a cadere una decina di minuti prima, credo, ma io rimasi seduta a terra a piangere e mugugnare.

Il mostriciattolo era in preda al panico e non sapeva più che consigli - sotto forma di sensazioni - darmi.

Non ce la facevo più, stavo impazzendo... o ero già pazza. Mia madre, i miei amici, il mostriciattolo, le mie emozioni, Nevrè. Nevrè. Nevrè.

Nevrè era un fantasma? 

NO! 

Io non l’ho mai visto, un fantasma! I fantasmi non esistono!

Pensaci, Andrea”, disse una vocina inedita, “è davvero impossibile che lo sia?”  

E si mise a snocciolarmi i fatti, uno dopo l’altro, in ordine cronologico:

-Tutta sola in un luogo sperduto. E che luogo, poi.

-E’ scesa dalla cima in tempi inumani.

-Ti ha chiesto se esiste.

-Sa esattamente cosa voleva fare la ragazza che è morta, perché era lei.

-Non ha accettato la sigaretta, perché non poteva prenderla.

-Ti è apparsa dietro dal nulla.

-Indossa sempre lo stesso vestito (forse).

-Ha come un registratore incorporato.

-Ha gli occhi più tristi che tu abbia mai visto e non vuole assolutamente dirti quale sia il suo dolore (neppure tu, ma siete due persone estremamente diverse). Il suo motivo è quasi sicuramente che non può dirti che è morta, perché la abbandoneresti, lasciandola da sola in eterno.

-Oh, e non dimentichiamoci la copertura di rete che, magicamente, quando c’è lei funziona.”

«Tutte illazioni», mugugnai. «Non dimostrano nulla. Nulla!»

Va bene”, proseguì la voce, “allora preferisci la versione che ti vede persino più pazza della zia Alberta e di tua madre messe insieme?

«Che vuoi dire?»

Per te lei è reale, giusto?

«Certo che sì!», sbottai. «L’ho vista, le ho parlato, ho sentito la sua voce! Ovvio che è reale!»

Allora permettimi di spiegarti questa versione, quella della follia, appunto.” Fece una pausa ad effetto; poi: “E’ controproducente dirci che tu non abbia una sorta di fascinazione per il macabro, no? Eccellente. Forse non riesci a ricordarlo, ma quando hai saputo della ragazza che vi aveva impedito di tornare alla Cascata, sei andata su Internet e hai letto l’articolo: questo ha permesso alla tua immaginazione di costruire ogni dettaglio, il colore della pelle, l’età, la provenienza, tutto. Potrebbe essere successo, no? A livello conscio sapevi solo che aveva più o meno la tua età e che era straniera, nient’altro, ma sono anche abbastanza sicur che pensavi fosse tedesca o svizzera, perché sono quelli i turisti che abbiamo di solito da queste parti. Sei così pazza, che sei riuscita a proiettarla davanti a te e vederla, addirittura a sostenerci una conversazione.

«La tua ricostruzione è fallace: ieri ho capito che non era frutto della mia immaginazione, perché io non conosco una sola parola di francese!», esultai. «Non avrei combinato neppure a tirare fuori mezza cosa, in quella lingua.»

Già già”, ridacchiò. “Ma tu conosci alcune parole di francese: ricordi lo scambio culturale, alle medie? In ogni caso, chi lo sa se quello che chiami francese lo sia davvero: magari ricordi solo come suona e, per tutto il tempo, hai inventato suoni simili, spacciandoli per frasi di senso compiuto.”

«No, non è così. Posso assicurarti che non è così...»

Non ci credi neppure tu, è manifesto! Allora, Andrea, scegli: è un fantasma o sei pazza?

«Nessuna delle due robe! C’è una terza spiegazione, e la troverò!»

Se vuoi la mia opinione...

«Non la voglio.»

... propendo per la follia. Non sei mai stata particolarmente bene: pensa alla tua sinestesia, come ti piace chiamarla. Pensa alle cose che ti fa vedere: sono davvero così diverse da Nevrè?

«Certo che sì! Tanto per cominciare, la mia è una forma di sinestesia: ce ne sono tantissime! Poi lei non è mostruosa, anzi, e sono capace di scindere le immagini nella mia testa da quelle esterne!»

Ma davvero? E cosa mi dici del cane marcio che ti seguiva ovunque?

«Avevo sei anni. Rin Tin Tin era appena morto... Non avrei dovuto guardare quel film di zombie...»

Ma tu lo vedevi davvero. Si sedeva accanto al letto, sul tappeto, e ti guardava tutte le notti.”

«Anche allora sapevo che non era reale!»

Non è quello che dicevi alla mamma e al papà.”

«Avevo sei cazzo di anni, porco Giuda! Quante volte lo devo ripetere?!»

Puoi arrabbiarti, Andrea, ma non puoi scappare da te stessa. Non puoi farlo. Ti auguro di scoprire che Nevrè è davvero un fantasma, perché in caso contrario dovrai vedere se c’è posto dove attualmente risiede la zia Alberta.”

«Sta’ zitta, o ti faccio stare zitta io, maledetta voce!»

Effettivamente, ora che ci penso, il dialogo che stai avendo è perfettamente normale, da persona completamente sana... già già.”

«Non ti sento davvero: sto facendo tutto da sola!»

Questo è certo...

Mi guardai attorno, per vedere se qualcuno avesse assistito. 

Per mia fortuna non c’era nessuno, quindi forse potevo rimandare - per un altro pochino - la visita al manicomio di zia.

Doveva esserci un’altra spiegazione, ne ero convinta, e l’avrei trovata a qualunque costo. Non potevo essere così pazza, e, forse ancora meno, potevo accettare l’esistenza del mondo invisibile.

Forse avrei potuto partire cercando l’articolo di cui parlavano quei due mona - che avevo la certezza di non aver mai cercato né tanto meno letto, perché non mi interessava più che tanto - e vedere se effettivamente trovavo qualcosa. Cosa speravo di ottenere, così facendo? Non lo sapevo. Forse avrei scoperto che Federico, convincendo sotto minaccia Mario a collaborare, si era inventato la storia... anche se era un po’ inquietante, il fatto che sapesse così tante cose su Nevrè. 

Coincidenze! 

Sicuramente, la ragazza annegata era o tedesca o svizzera. Per forza. E poi una sola roba sapeva, pensandoci: che era nera. Il resto l’avevo detto io a Mario e Mario a lui.

Doveva essere solo un brutto scherzo, aiutato da coincidenze completamente fortuite o dal fatto che, in realtà, senza rendermene conto, avevo descritto Nevrè a Mario... anche se ero convinta di no, ma non si sa mai. In fondo ero davvero sconvolta e stanca: magari l’avevo fatto senza pensarci.

Mi venne voglia di farlo subito, ma mi ricordai abbastanza presto che il mio cellulare non aveva la possibilità di connettersi ad Internet fuori da casa - devo ancora capire che differenza gli facesse, se usavo il Wi-fi o la connessione dati. Quella mancanza non mi era mai pesata, e lo fece ancora meno in quel momento: avevo bisogno di tempo e non volevo sminchiarlo con la pioggia.

Tornata a casa, avrei confermato si fosse trattato del peggior scherzo di sempre. Lo scherzo di due ragazzini, piccati perché la loro amica aveva trovato qualcun altro con cui passare gli ultimi giorni d’estate. Aveva assolutamente senso: quanto siamo dannati e mona a quell’età? Di brutto.

 

Tirai su la bici, che non potevo utilizzare, perché la mia ferocia aveva completamente storto la ruota davanti, e me la trascinai fino a casa. 

Non valutai neppure per un momento di tornare da Nevrè e provare a toccarla o robe del genere: se avessi fallito, probabilmente mi sarei gettata io stessa dalla cima.

 

Era ormai quasi il tramonto, quando varcai la porta d’ingresso.

Peppa Pig aveva finito, per quel giorno, ed era il turno del Trenino Thomas.

«Andrea.»

La voce di mio padre mi bloccò sul terzo scalino. 

Mi voltai a guardarlo, senza badare troppo allo sguardo torvo o ai pugni chiusi che aveva sui fianchi.

«C’è qualcosa che mi vuoi dire?»

Per farti chiamare qualche clinica? Anche no...

«No.»

«Mi ha telefonato la mamma di Federico: gli hai messo le mani addosso? E’ vero?»

Feci di sì con la testa.

«Ma santo Dio, Andrea!», sbottò. «Perché lo hai fatto?»

«Perché mi ha fatto veramente incavolare. Volevo tirargli un pugno, pensando pure che se lo meritasse, ma l’ho solo preso per la camicia e tenuto giù. Non gli ho fatto del male. L’avrò umiliato, ma non l’ho picchiato.»

Mio padre aprì la bocca, ma si trovò incapace di parlare. Probabilmente, il mio atteggiamento insolitamente calmo e remissivo lo aveva spiazzato. 

Non avevo proprio la forza di lottare. Tutto quello che volevo era una risposta, e mi servivano le poche energie che ancora sentivo in corpo.

«Scusa se ti ho deluso, papà.» 

Non aggiunsi altro e neppure lui, così salii le scale e mi chiusi in camera.

 

Mi misi alla scrivania e presi a fissare lo schermo del PC. Non trovavo il coraggio di cliccare sull’icona di Edge; non lo trovavo da nessuna parte.

Cominciai a convincermi di averla già, la soluzione, di aver trovato un’altra strada, la migliore di tutte: far finta di niente. Non avevo una pistola puntata alla testa e nessun diavolo cercava di minare al mio libero arbitrio.

Ero libera di scegliere di fare come se nulla fosse.

Non era vero.

«Smettila di tergiversare, Andrea», mi dissi. «Ora trovi l’articolo e vedi che avevi ragione: non si tratta di Nevrè, perché è assolutamente impossibile. Sei tanto stanca e provata da questi giorni assurdi. E’ normale essere un po’ fuori fase, assolutamente normale. E’ come quando dormi poco e la stanchezza ti fa avere pensieri lugubri e strazianti.»

Annuii, per darmi ragione da sola... 

... da brava pazza. 

«No, io non sono pazza!»

«Avanti!», esclamai poi, e cliccai. 

Provai con qualche parola chiave e, per i primi due minuti, non trovai assolutamente niente, nessun riferimento a morti recenti in Friuli, non inerenti ai miei criteri di ricerca. Anche se doveva per forza esserci.

Infatti...
 

 

IL PICIUL 

 

Tragedia in Friuli Venezia Giulia. 
Ennesima ragazzina perde la vita nei nostri fiumi.

 

Si spengono le speranze. E’ di N. Morell il corpo senza vita recuperato questa mattina dal torrente (censura) dai sommozzatori della Protezione Civile di (censura). La diciassettenne, secondo le prime ricostruzioni

 

 

Smisi di leggere, perché, scorrendo, cominciavo a intravedere il bordo superiore di una fotografia.

Il cursore rimase fermo sulla colonnina di destra e miei occhi sull’iniziale e il cognome. 

Non significava ancora nulla: di nomi con la N ce ne sono a bizzeffe, sia italiani che stranieri. Così come il mondo è pieno di diciassettenni, e poi sapevo già che la ragazza annegata aveva grosso modo la mia età. 

Il punto era la foto: quella avrebbe chiarito tutto.

«Adesso vai giù e vedrai una ragazza pallida, con trecce bionde, con grandi occhi blu e il naso spruzzato di efelidi; come ogni buon tedesco stereotipato, avrà anche un bel boccale di birra stretto in pugno.»

Mi scoprii a sorridere e mi diedi immediatamente del mona insensibile: si stava parlando comunque di una ragazza morta.

Il volto che mi fissava sorridente era tutto fuorché pallido. I capelli erano neri, ricci e voluminosi. Gli occhi grandi, sì, ma scuri come la notte. Nessuna efelide.

Quello era il volto di Nevrè.

  
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