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Autore: aurora giacomini    20/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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      Sei
 

 

La porta si spalancò e la Patrizia e la Lilla si precipitarono dentro - data la rapidità dell'azione, probabilmente stavano per bussare. La fetta di pizza al tonno e cipolla, che la piccola stava trasportando su un piattino di plastica, finì a faccia in giù - ovviamente - sul pavimento della mia camera.

«Andrea!», esclamò la Patrizia. Era la prima volta che il suo tono assumeva la consistenza della ruggine. «Che succede? Perché hai urlato così?»

Avevo urlato? Probabile, ma non ne conservavo ricordo.

Guardai prima la Lilla, che stava per scoppiare a piangere, come testimoniavano il visino rosso, gli occhi semichiusi e le labbra serrate; poi la Patrizia. 

Non mi uscì mezzo suono.

Mi concentrai sugli occhi marron-verde della Patrizia e mi ritrovai a pensare che fossero bellissimi, soprattutto con quella sfumatura inedita di feroce angoscia e spavento. Stentai a riconoscerli come suoi.

«Ti sei fatta tanto male?»

In un primo momento, la domanda non ebbe alcun senso. Allora seguii lo sguardo della Patrizia: sotto la sedia, accanto alla scarpa sinistra, si era formata una piccolissima pozza di sangue, annacquata dalla pioggia che mi aveva inzuppato i vestiti. Giusto: mi ero ferita con la corona della bici.

«Vieni da me, ti prego», fu tutto quello che mi uscì.

Non avevo dei pensieri molto razionali, al momento, ma sapevo di avere il bisogno di un contatto fisico con qualcosa che sapevo - che doveva - essere reale.

Mi si avvicinò e mi circondò la testa con le braccia. Non disse nulla, ma la sentii voltarsi verso la Lilla, che ora singhiozzava senza ritegno e chiamava il papà, alternando con ‘‘mamma’’ e ‘‘Andrea’’.

«Stringi più forte», la supplicai, schiacciando il viso sul suo petto forgiato da anni e anni di yoga. «Stringi con tutta la forza...»

Lo fece e, per un momentino, me ne pentii, perché era davvero forte e non sapevo se sarei riuscita a respirare. 

Ci riuscivo. Perfetto. Assolutamente perfetto.

L’ultima cosa che ricordo con sufficiente chiarezza è la voce del papà, che si era precipitato in stanza.

Poi è tutto confuso. Solo frammenti. Robe tipo ‘‘sotto shock’’, ‘‘Pronto Soccorso’’ e così via.

 

So che riuscii a non farmi portare al Pronto Soccorso, perché mi ritrovai nel mio letto.

La Patrizia si era seduta accanto a me, sul bordo, con la Lilla sulle gambe. Papà mi stava fasciando il polpaccio. Mi dispiacque vederlo piegato a quel modo, considerando le condizioni della sua schiena, ma fu anche bello sentire le sue forti mani, così delicate quando aveva a che fare con uno di noi.

 

«Te la senti di dirmi cos’è successo?», mi chiese la Patrizia quando il papà uscì con la Lilla, promettendole un gelato. Se le cose in quella casa non si fossero calmate, a quella povera creatura sarebbe venuto il diabete, a suon di gelati.

Mi limitai a muovere piano la testa, cercando di farlo apparire come un no, e continuai a fissare il soffitto di perlinato. 

«Vuoi che rimanga qui con te?»

Feci di sì con la testa e riuscii a dire: «Toccami, ti prego.» 

Avvampai, rendendomi conto di quanto ambiguo potesse suonare. Se una cosa del genere l’avessi detta a mia mamma, non ci sarebbe stato il minimo pericolo che la mia testa prendesse in considerazione altro. Ma la Patrizia non era la mia mamma. La Patrizia era una donna adulta con cui non condividevo neppure una goccia di sangue, e che poteva dunque pensare che intendessi chissà cosa. Maledii il mio cervello sghembo e incapace di capire quando non è il momento per certi stupidi, demenziali, imbarazzanti pensieri. Non che li potessi controllare, ci tengo a precisare. Ma non ho mai pensato alla Patrizia in quel modo, sia chiaro.

La Patrizia non era idiota e certo prese quelle parole nel modo giusto: come quelle di una figlia - o figliastra - che vuole solo delle coccole.

Comunque, per sicurezza, aggiunsi: «Tipo un abbraccio o una carezza sui capelli...»

Mi si stese accanto e io le diedi la schiena, così che mi potesse stringere.

 

«Pensi che io sia matta?»

La sentii sollevare appena la testa dal cuscino, forse per guardarmi il profilo del viso.

«Certo che no, Andrea», mi assicurò. «Perché me lo chiedi?»

Non le risposi, mi limitai a stringerle l’avambraccio che mi aveva posato sulle costole.

Una parte di me voleva parlarle della ragazza morta che forse era un fantasma o che forse era una proiezione del mio cervello ormai degradato, intaccato da una malattia che non sapevo di avere, di cui ignoravo il nome ma che, per comodità, potevo semplicemente definire follia.

In ogni caso, seppure di mente aperta, apertissima, non mi avrebbe mai creduta se avessi scelto l’opzione fantasma. Nessuno l’avrebbe fatto e io non riuscivo a biasimarli, perché neppure io ci avrei creduto. E avevo il terrore che, invece, mi avrebbe creduta fin troppo bene sull’opzione follia, visti i miei parenti.

Considerai fosse per quello che non avevo mai voluto partecipare a qualche stupida sfida di coraggio in qualche casa abbandonata o a robe davanti allo specchio: non avrei mai tollerato di vedere davvero qualcosa che non avrei dovuto vedere, di cui rifiutavo l’esistenza, perché poi il mio mondo sarebbe stato una bugia priva di logica; un luogo dove davvero tutto era possibile e che, dunque, non aveva regole che potessi applicare per proteggermi da esso. E avevo ragione: non potevo accettarlo.

Comunque, l’opzione fantasma mi piaceva di più, ma solo perché quella della follia mi faceva avere pensieri violenti contro me stessa: non avrei passato il resto dei miei giorni in manicomio!

«Non ce la faccio più», pigolai prima di abbandonarmi a un pianto stremato. «Non... ce la... faccio più... Non ce la... faccio...» singhiozzai.

La Patrizia mi strinse più forte, e quasi sperai che lo facesse al punto di impedirmi di respirare abbastanza bene; non al punto di uccidermi, solo da farmi perdere i sensi. Ma lei era perfettamente padrona del suo corpo e usò la giusta forza: quanto bastò a farmi sentire un po’ più protetta.

«Lo so che... lo so che non è così... ma dimmi che sto sognando...»

Esitò molto a lungo: non andava d’accordo con le menzogne, quando toccava a lei dirle. 

Sospirò e non disse nulla.

«Dimmi che tra un po’ mi sveglio!», insistetti, quasi preda dell’ira.

«Sai cosa diceva Aristotele?» Non attese risposta, perché sapeva che non sarebbe arrivata. «‘‘Se c’è una soluzione, perché ti preoccupi? Se non c’è una soluzione, perché ti preoccupi?’’. Dimmi, Andrea, il tuo problema ha una soluzione?»

In qualche modo doveva aver capito che quella mia nuova crisi non era stata dettata da qualcosa che aveva a che fare con la mamma. Come ci fosse riuscita, comunque, è tutt’ora un mistero. Io lo ripeto: secondo me è una creatura magica.

«Non lo so. Forse non lo voglio sapere.»

Ancora una volta la Patrizia era riuscita a farmi calmare, dandomi qualcosa che non sapevo di volere: raziocinio. 

«Quando ti senti meglio, va’ e scoprilo. Non puoi permettere che il dolore e la paura siano già la tua culla di cemento fresco: sei troppo giovane.»

«Mi vuoi bene?» Una domanda che poteva apparire quasi come un’accusa, ma era solo una cosa che volevo sentirmi dire, contando sul fatto che non sapesse mentire. Proprio per questo, una domanda estremamente pericolosa.

«Come fossi mia, Andrea.»

Il pianto che mi sorprese era di un bel arancione, soffice soffice, come un nuvola.

Più avanti, cinicamente, pensai però che, in fondo in fondo, fosse capace di mentire: non potevo essere come la Lilla, per lei. 

Ora sono madre di un bimbo che non ho sentito crescermi dentro e posso dire che no, quasi sicuramente quella volta non tradì la sua natura, non la inquinò di menzogna. Di questo parlerò poi, alla fine, ora è troppo presto.

 

Mi ero addormenta, in qualche modo.

Mi svegliai che mancava poco alle undici. 

Il primo pensiero riguardò l’assorbente, che non avevo cambiato da quel pomeriggio.

Il fatto di non aver macchiato né pantaloni né letto rappresentò una vittoria, un motivo di gioia e soddisfazione.

Mi resi conto fossi disposta ad aggrapparmi a qualsiasi piccolezza. 

Che poi, dai, non son robe così insulse: sono le piccole gioie di tutti i giorni, per noi... persone normali.

«Non ora», mi imposi, dirigendomi verso il bagno.

La gamba, tra botta e taglio, mi faceva un po’ male; ma trovai una roba per cui sorridere: Se alla fine di quest’avventura avrò ancora una gamba, sarà stata la più grande delle vittorie!

Un’avventura, eh? Ma taci, mona.

Non ho detto nulla di male...

Hai ragione. Scusa.

«Così non va...» mormorai. «Devo trovarmi un hobby, perché a suon di parlare da sola, fuori e dentro di me, non finirà bene.»

Sono d’accordo.

«Appunto...»

 

Aprii il getto d’acqua, regolandolo verso il freddo; le mie cose non avrebbero gradito, ma avevo troppo caldo.

«Non sono pazza e Nevrè non è un fantasma, non importa quel che c’è scritto in quell’articolo, non importa se quello è, senz’ombra di dubbio, proprio il volto della ragazza che mi piace.» 

Non avevo smesso di parlare da sola - non son mica robe che puoi fare così, di botto - ma dormire un po’ mi aveva aiutato e mi sentivo immensamente più calma.

«E se neppure l’articolo fosse reale? Se avessi visto proprio quello che temevo di vedere? Dopo ricontrollo, ma posso dire fin da ora che ne dubito fortemente. Anzi, ho un’idea migliore, ma avrò bisogno di ogni briciola di autocontrollo...»

 

Uscii dalla doccia e, prima di attuare il mio piccolo piano, ebbi la decenza di mettere a lavare i vestiti che avevo usato quel giorno. Mi accorsi e recuperai il sacchetto col cellulare e le sigarette, dalla tasca. 

Portai tutto in camera e mi vestii; poi mi diressi verso la stanza che la Patrizia usava come studio. Da qualche mese, infatti, aveva cominciato a lavorare a un romanzo; si era rifiutata di dirmi qualunque cosa: se volevo sapere, avrei dovuto attendere che fosse finito.

Bussai piano, perché a quell’ora non si metteva gli auricolari, nel caso la Lilla avesse chiamato, quindi non c’era bisogno di fare casino.

La risposta mi giunse un po’ ovattata, ma compresi che potevo entrare.

Lo studio della Patrizia rispecchiava perfettamente la sua personalità: c’era un disordine solo apparente, in realtà ogni soprammobile, ogni confezione di incenso e ogni raccoglitore aveva il suo perché esattamente dove li aveva posizionati.

«Stai meglio?», mi chiese.

Aveva girato la sedia girevole verso di me e abbassato lo schermo del PC; l’unico modo che avevo per intuire i suoi lineamenti, era la piccola lampadina da comodino che la illuminava d’arancio, un po’ dietro di lei, sulla sinistra.

«Sto cercando di capire come risolvere il mio problema, credo. Voglio cominciare da qualche parte, più che altro.»

Non sentì il bisogno di dire nulla. Attese semplicemente che continuassi.

«Sono venuta da te, perché so che non mi riempirai di domande, ma ti limiterai a semplificarmi la vita, come hai sempre fatto, col tuo fare pratico e preciso.»

«Dimmi pure.»

«Devo chiederti un piacere. Una roba assurda.»

«Non importa. Se posso, ti aiuterò.»

«Per quanto assurdo sarà quello che ti chiederò?»

«Certo», mi sorrise.

«Ho bisogno che tu sia i miei occhi. Puoi farlo?»

Sollevò un solo angolo della bocca, piegò leggermente la testa di lato e socchiuse gli occhi. Più che turbata, mi parve incredibilmente divertita. O forse, molto più semplicemente, si stava dicendo: ‘‘Tale madre, tale figlia’’.

«Sarò sincera: non so esattamente come risponderti. Ma sono sicura che tu abbia una buona ragione.»

«Ho bisogno che digiti queste precise parole nella barra di ricerca», dissi, avvicinandomi. «Quando l’avrai fatto, potresti leggere il testo e guardare la foto che c’è sotto, senza dirmi nulla?»

«Dimmi», disse, voltandosi e alzando lo schermo, avendo premura di ridurre a icona il documento che stava usando per scrivere.

Qualsiasi altra persona mi avrebbe fatto una miriade di domande o si sarebbe rifiutata o mi avrebbe mandata in mona... tutto insieme, probabilmente. Ma non la Patrizia.

Le voltai le spalle e dissi: «Il Piciul. Ragazza muore o perde la vita nel torrente (censura).»

La sentii esitare, ma poi sentii anche i tasti, premuti rapidamente e precisamente.

«Ho fatto», disse, un minuto o poco più dopo.

«Qual era il nome della ragazza?»

«Non so dirtelo: c’è solo una N e poi il cognome. Immagino perché fosse minorenne.»

Il cuore mi scalpitava nel petto e mi ero già pentita di tutto. Ma non avevo intenzione di lasciar perdere. Non avrei lasciato perdere. Dovevo arrivare in fondo a quella storia, a cominciare dai miei dubbi.

«Quanti anni aveva?»

«Solo diciassette.»

Eh già... Ora la parte più difficile...

«Mi puoi descrivere quello che vedi nella foto?»

«Andrea...» Era la prima volta che nel suo tono coglievo qualcosa di storto. «C’entri con l’incidente di questa ragazza? Me lo puoi dire, lo sai.»

Deglutii e temetti di perdere il controllo. 

Mi controllai.

«Ti giuro di no.»

A meno che io non sia un’assassina senza saperlo, certo... 

No! Ora non ci faremo venire anche questa turba!

Non dubitò della mia parola.

«E’ una ragazza che, sì, può avere diciassette anni. Sta sorridendo alla camera; sullo sfondo ci sono delle anatre. Ha capelli e occhi neri, un viso tond-»

«Di che colore è la sua pelle?»

«Di un mogano che tende al nero.»

Mi resi conto di star piangendo perché mi arrivò il salato in bocca.

Mi voltai, per incontrare ancora una volta il viso di Nevrè. 

Non avevo ancora capito se fosse un fantasma o se fossi pazza, ma almeno potevo mettermi via il fatto di non essermi immaginata l’articolo. Era qualcosa, e a quel qualcosa mi aggrappai con tutta me stessa.

«La conoscevi?», mi chiese dolcemente la Patrizia, che stava anch’ella osservando l’adorabile Nevrè. 

Mi fece un po’ strano che, ora, anche lei sapesse come era fatta, che stesse guardando qualcosa di indefinibile, di molto grazioso e dolce. Stava guardando la ragazza di cui le avevo parlato il giorno prima; ma non poteva saperlo, perché io avevo fatto riferimento a una persona viva... cosa che Nevrè, inutile negarlo, non era più da giugno.

«Non so rispondere alla tua domanda...» Come avrei potuto? C’era una risposta giusta? «Dimmi un’ultima cosa: che tu sappia, ho mai parlato di quest’articolo o della sua morte quando ci avete proibito di tornare dalla Cascata? O nei giorni successivi, comunque.»

«Non mi sembra. No, tesoro.»

Annuii. 

Non dimostrava che io non avessi mai visto quell’articolo prima di quel pomeriggio, ma era qualcosa che mi spinse a pensare sempre di più al fatto che forse non ero pazza. O, comunque, così la volli vedere. Perché quanto sana è una persona che accetta i fantasmi, dopo averli rifiutati per tutta la vita? Poco. Niente.

Non avevo niente contro coloro che ci credevano, che sostenevano fermante la loro esistenza. Assolutamente nulla. Ma io non ero fra quelli. Punto.

Non sono fra quelli.

Lo saremo presto...

Staremo a vedere.

L’alternativa è il manicomio, lo sappiamo, no?

Fin troppo bene...

«Vorrei che tu ti sentissi libera di parlare con me, Andrea.»

Non me n’ero accorta, ma ora la Patrizia mi stava davanti.

Alzai lo sguardo sui suoi occhi, che non potevo davvero vedere ma solo indovinare, a causa della luce troppo fioca.

«Mi sento libera di farlo. L’ho appena fatto... Ho scelto te. Non i miei presunti amici. Non Pietro. Non papà. Te...»

«Hai ragione», disse, e mi fece una carezza sulla testa. «Quando avrai sconfitto i tuoi demoni, mi fornirai i pezzi che mi mancano, se vorrai. Per ora, lascia che ti dica che sono fiera di te, Andrea, perché qualunque cosa tu stia facendo, quella non è scappare.»

Mi portai una mano agli occhi e li torturai con le dita mentre cominciavo a singhiozzare, ancora una volta avvolta dall’arancione.

La Patrizia stava sostituendo la figura più importante della mia vita, ma lo faceva senza egoismo, senza malizia e senza pretendere nulla. Lo stava facendo perché io glielo permettevo, glielo chiedevo, e non c’era rabbia in tutto questo.

Non nei suoi confronti.

«Posso... abbracciarti?»

«Non me lo devi chiedere, tesoro. Puoi farlo ogni volta che vuoi», disse, avvolgendomi. «Sei orgogliosa, Andrea, lo so, ma se scoprirai che è qualcosa di troppo grande, qui ci sono delle persone pronte a sostenerti. Non aver mai paura di chiedere aiuto, perché è quello il vero coraggio.»

Il coraggio di fare un’ultima cosa, quello mi serviva, ma prima...

«Tu credi che quella ragazza sia da qualche parte, ora?»

«Oh...» sospirò, e il soffio caldo del suo alito mi solleticò lo scalpo. «Mi stai chiedendo se credo al Paradiso?» Era piuttosto raro che prendesse tempo; perché sentivo che era esattamente ciò che stava facendo.

«Non esattamente...»

«Essendo qui, mi è precluso sapere cosa ci sia poi. Ma se la tua domanda è questa, allora sì: credo all’esistenza dell’anima e rifiuto di credere che tutto questo sia stato inutile. E tu cosa credi?»

Che le cose sono due: o sono pazza o ho interagito con un fantasma... per ben due volte. Un fantasma per cui ho una cotta, fra le altre cose.

«Non lo so...» mormorai, staccandomi da lei. «Vado a dormire. Va bene?»

«Ma certo. Buonanotte. Se hai bisogno, mi trovi qui o in camera, va bene, tesoro?»

Sapevo già che non le avrei più dato fastidio, per quella sera, ma dissi di sì e la ringraziai.

 

Mi misi alla scrivania e alzai lo schermo - evidentemente l’avevo abbassato prima, senza ricordarmene, quando avevo strillato.

Nevrè mi guardava e io guardavo lei.

«Sei sei davvero un fantasma... No, scherzavo! Non hai sentito nulla, perché non ho detto nulla!»

Ci mancava soltanto che si muovesse, che uscisse dallo schermo o che mi comparisse in camera. Solo quello, davvero, mancava.

Richiusi tutto e mi gettai sul letto.

«Ma perché non mi sono fatta gli affari miei? Perché sono andata a cercare quei due mona dalla Cascata, quando sapevo benissimo che non potevano essere là? No, ancora meglio: perché non ho risposto alla Patrizia, lì della Collina dei Salti? Se l’avessi fatto, ora potrei limitarmi a penare per mia madre, a chiedermi soltanto...» soltanto? Cristo... «... se è viva...»

 Le lacrime ricominciarono a scorrere e mi si insinuarono nelle orecchie, facendomi il solletico e alterando il frinire delle cicale, il battito del mio cuore e i miei mugugni. 

«Questa te la potevi proprio risparmiare, Lucrezia... mamma...» 

Soffocai un urlo nell’incavo del braccio. 

«Se tutto quello che mi rimarrà di te sarà una follia ereditaria, io... Non è giusto!»

 

Attesi di sentire la Patrizia chiudere la porta della camera padronale e mi misi le scarpe.

Avevo preso la decisione di andare dalla Cascata e affrontare Nevrè: se fosse stata un fantasma, sarebbe stata sicuramente lì, perché quello era il luogo in cui era morta. O così dicevano le fonti con cui mi ero informata e inquietata.

Non volevo pensare a cosa avrei fatto se non l’avessi trovata, perché probabilmente mi sarei dovuta sforzare e proiettarla, dandomi certezza di essere pazza.

In ogni caso, io con quel dubbio non potevo più vivere.

Misi in tasca cellulare e sigarette e uscii dalla stanza.

 

Nonostante il fatto che manco le cannonate - e in TV c’era un film di guerra - scesi piano le scale e ancor più piano aprii la porta d’ingresso, spingendo indietro Leonardo, attratto dal volo inquieto di un pipistrello.

La mia volontà vacillò nel momento stesso in cui misi i piedi in cortile e alzai gli occhi al cielo: era una notte di novilunio... ed era pure nuvolo.

Anche utilizzando la torcia del cellulare - che comunque non avrebbe retto fin là e mi avrebbe fatta sgammare dal ‘‘buon cittadino’’, perché figurati se dorme, quello - non sarei riuscita a percorrere tutta quella strada a piedi e, ancora meno, probabilmente, a uscirne viva. Mi sarei probabilmente ammazzata, lì dalla Cascata, e a quel punto i fantasmi sarebbero stati due...

Che femminucce!

No, per una volta che valuto saggiamente, non te lo permetto.

Bon, ci sta. Ci andiamo domani, dunque?

Sì, ma sempre verso la solita ora: quella in cui, sicuramente, è morta: avrò più probabilità di vederla.

Sempre che sia un fantasma e non frutto della nostra immaginazione.

Sempre quello, sì...

Mi guardai un momento attorno e decisi di provare a raggiungere il biroc arrugginito, dietro casa: avevo fallito ogni proposito, ma almeno potevo fumarmi una sigaretta.

 

Mi misi seduta sulla conchiglietta metallica e mi accesi la cicca.

Il frinire di grilli e cicale era quasi assordante e, per un paio di volte, mi sembrò di sentire la voce di mamma, che mi chiamava e si scusava.

«In mona. E’ solo la mia immaginazione, suggestionata dalle cose sui fantasmi che ho appena cercato.» Rabbrividii. «E se anche lei, ora, fosse un fantasma?»

Schiacciai la bronza contro il cofano e saltai giù. Volevo solo tornarmene nella sicurezza della mia stanza. Solo quello.

 

«Andrea.»

Per poco non cacciai un urlo.

«Dove sei stata?»

Mi voltai verso il salotto. Mio padre mi apparve più stanco e sconfitto che mai; la luce del televisore non aiutava a smorzare il cereo pallore del suo volto, anzi.

«Solo a prendere una boccata d’aria.»

Alzò un braccio: «Vieni qui. Ho da parlarti.»

Sa qualcosa sulla mamma? No, me l’avrebbe detto immediatamente.

Esitai molto: volevo andarmene in camera e, soprattutto, avevo appena fumato.

Sii donna, Andrea.

E questa da dove spunta?

Qualcosa fece spallucce e io mi rassegnai a raggiungere il divano.

Il calore e l’odore di dormito di papà mi avvolsero; fu rassicurante. Mi piaceva il suo odore, anche quando alterato, perché era arancione scuro.

«Che cosa è successo? Pomeriggio, dico.»

Ah, è dunque questo il motivo per cui sei così... Scusami. Non bastava la mamma, ora mi ci metto pure io...

Valutai di essere stata brava a rinunciare alla mia scampagnata notturna: papà si sarebbe preoccupato, se avesse pensato che fossi scappata. O sarebbe morto, se fossi morta.

«Sono in fiore e do fuori di matto, come ogni volta. Questa volta, più del solito.» Strinsi i denti e mi obbligai a guardarlo negli occhi: «La mamma ha sempre dato fuori di matto? Se sì, come hai fatto a innamorarti di lei? Perché tu eri innamorato di lei, giusto?»

«Certo che ero innamorato di mamma, Andrea. Certo. E le voglio ancora molto bene, perché lei è ancora la mia migliore amica.»

«La tua migliore amica? La tua ex moglie?» Eh, non mi sconfinferava.

«Prima di capire che ci piacevamo anche in quel senso e di voler provare a costruire la nostra vita insieme, la mamma e io eravamo compagni di scuola. Sempre i due che venivano messi in fondo, col cappello da asino, perché rompevamo l’anima alla classe. Non te l’ho mai raccontato?»

«No, me lo ricorderei...»

«Ogni giorno, tornando a casa, facevamo a gara per vedere chi avesse le dita più nere», sorrise.

«Non ho capito...»

«Eh, perché il maestro o la maestra, ai miei tempi, ti davano giù con la bacchetta. Oggi si prenderebbero una denuncia o qualche genitore andrebbe a mettere loro le mani addosso. Ma, un tempo, molti genitori - compreso mio padre - davano le botte, se venivano a sapere che eri stato irrispettoso con l’insegnante.»

«Non riesco a provare invidia. Anche perché se qualcuno dei miei professori mi mettesse le mani addosso, gli tornerei tutto con gli interessi.»

Mio padre ridacchiò.

«Lo so.»

«Senti, ma io pensavo che una volta maschi e femmine fossero separati. Com’è che tu e la mamma eravate insieme? Non è che devo sapere qualcosa? Perché io non ho pregiudizi di quel tipo, ma se uno dei miei ge-»

«Andrea!», esclamò, tra il divertito e l’imbarazzato. «No, no! La mamma è sempre stata Lucrezia e io sono sempre stato Antonio.»

«Vabbè, però siamo d’accordo sul fatto che non ci sarebbe stato nulla di male? Tranne per il fatto che avreste dovuto avere la decenza di dirmelo prima, certo.»

«Sei una sagoma...» Si schiarì la gola e mi spiegò la storia: «Sai quant’è piccolo il paesino in cui sono nato e cresciuto, no? Ecco. In classe eravamo in totale sei. E pensa che solo quattro di noi venivano da lì direttamente, gli altri due - come mamma - arrivavano dal paese vicino e si facevano sei chilometri all’andata e sei al ritorno.»

«Ma hai detto che andavate a casa insieme... Vuol dire che pure tu ti facevi i chilometri?»

«Sarà stato per quello che, al tempo, ero persino più magro di te.»

«Non sono così magra», affermai. «Sono una finta magra. Non ti faccio vedere, perché sei mio padre, ma fidati.»

«Comunque lo facevo volentieri, di accompagnare la Lucrezia a casa. Alcune volte, d’estate, l’andavo persino a prendere. Pensa.»

Spesi qualche momento a immaginarli, giovani e felici.

«Cosa è successo a quel grande amore?» 

Sospirò e per un po’ non disse nulla, guardando senza vedere i soldati che saltavano per aria.

«L’amore, se è vero, non finisce mai, Andrea. Quello che ho per mamma si è solo trasformato.» 

«Anche quello che hai per Pietro, Lilla e me cambierà?»

«No, quello mai, perché è una cosa diversa.»

Abbassai la testa e cercai il coraggio.

«Neppure se tu dovessi scoprire che non sto bene di testa...?» 

«Non è quello il motivo per cui è finita, tra mamma e me. Voglio che tu lo sappia.»

«Non mi hai risposto...»

«Cosa succede? Mi fai preoccupare, Andrea.»

«Mi puoi semplicemente dire se mi vorrai bene per sempre, per favore?»

Mi posò la mano sul ginocchio - quello sano, fortunatamente - e strinse.

«Per tutta l’eternità, amore mio.»

Gli picchiettai la mano con la mia, improvvisamente imbarazzata da morire.

«Pure io», dissi, alzandomi. «Bon. Ora vado a dormire. Buonanotte, papà. E non preoccuparti per me, perché io starò bene.»

«Andrea», disse quando misi il piede sul primo gradino, «non fumare.»

  
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