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Autore: CedroContento    02/08/2023    2 recensioni
[Thilbo Bagginshield]
"Ricominceremo da capo, chiaro; siamo masochisti, quasi speriamo che la volta dopo le cose saranno diverse.
Potrebbero, perché no?
Allora, se siete pronti, riavvolgiamo tutto ancora una volta."
Sulla scia degli eventi del film "Lo Hobbit", questa fic racconta la storia d'amore che vorrei.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bilbo, Gandalf, Thorin Scudodiquercia
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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 Da quattordici anni l’occhio della Montagna Solitaria vigilava su Alis, e da molto più tempo ancora vigilava su Esgaroth. 
 
Le voci degli abitanti più anziani della città raccontavano di un drago che dimorava nel ventre di Erebor, un drago con scaglie scarlatte e ali d’oro zecchino, capace di farsi nero come le tenebre stesse, secondo necessità, come quando si insinuava nelle stanze dei fanciulli per rapirli nelle ore più buie della notte. 
 
Insomma, niente più che favole e leggende, se lo avessero chiesto ad Alis. (1)
 
Suo padre si lamentava sempre di quanto facilmente si facesse abbindolare la gente. Diceva che il modo in cui il Governatore si era fatto fregare da quel branco di nani, facendosi pure estorcere un mucchio di soldi, ne era la prova lampante, e lei non poteva che concordare con lui.
 
Come se non bastasse, ora anche il padre di Sigrid e Bain, che era sempre stato un membro stimato dalla comunità, sembrava essere completamente impazzito e se ne andava in giro a vaneggiare di fiamme, morte e distruzione. 
 
Proprio non si capiva dove sarebbero andati a finire andando avanti di quel passo. Pontelagolungo sarebbe diventata una gabbia di matti, poco ma sicuro. Nessuno straniero avrebbe mai più voluto metterci piede. 
 
Alis odiava vivere lì, odiava vivere così, con il puzzo di pesce e di muffa cuciti addosso. Da reietta, senza alcuna speranza in un domani migliore. Quando sarebbe stata abbastanza grande se ne sarebbe andata a vivere in una grande città, senza mai voltarsi indietro, era solita dirlo sempre. 
 
Intanto aspettava, e sognava ciò che sarebbe diventata quando sarebbe arrivato il suo momento. Quando avrebbe lasciato quella cittadina, sudicia e insulsa, di cui nessuno nel resto del mondo si curava, di cui i grandi Signori dell’Ovest stessi avevano perso memoria. 
 
Dall’alto, solo la Montagna, qualche volta, scostava le sue tende fatte di nebbia per guardarli. 
 
Ed era proprio dalla Montagna che la morte era piombata su di loro. 
 
C’era stato qualcosa a svegliare Alis quella notte. Non avrebbe saputo dire cosa fosse stato di preciso. Forse il silenzio, c’era troppo silenzio. Non si sentiva il bubolo dei gufi, non il grufolare dei maiali nelle stalle, non lo scalpiccio di qualche topolino solitario. Perfino la superficie del lago era immobile, piatta come una tavola. 
 
Poi aveva cominciato a soffiare quel forte vento da nord, che aveva fatto sbattere all’impazzata le imposte della finestra della sua stanza. Si era alzata per cercare di fermarle, e uno strano scricchiolio dei pini nella foresta l’aveva indotta ad alzare lo sguardo. 
 
Così lo aveva visto: l’Oscuro Signore in persona scendere da Erebor, mentre attorno a lui il cielo si riempiva di fumo denso e cenere. 
 
Alis non aveva avuto il tempo di infilarsi le scarpe e ora, a piedi nudi, correva tra la calca attraverso i pontili della sua città. Aveva smarrito la sua famiglia, attorno a lei sentiva solo gente urlare, qualcuno pregare, vedeva i volti di chi già sa che la sua ora è arrivata. 
 
Dove o alla ricerca di cosa stessero andando tutti loro, non avrebbe saputo dirlo.
 
Se le avessero chiesto di immaginare l’inferno, probabilmente lo avrebbe descritto così. C’erano persone e animali che correvano terrorizzati in ogni dove, spintonandosi, scavalcando, calpestando tutto e tutti, pur sapendo, nel profondo, che vie per la salvezza non ce n’erano. 
 
Fuoco. Il fuoco divorava ogni casa, inghiottiva ogni anima. Non c’era scampo. 
 
Dal cielo nero, il drago colpiva secondo il proprio capriccio, non c’era un posto dove mettersi al sicuro; nemmeno l’acqua, che con il suo ghiaccio poteva essere letale quanto le fiamme.  
 
Alis corse, corse fin quando il fuoco non arrivò a prendere anche lei. Sì fermò solo quando ne avvertì il calore, insopportabile, sulla pelle.
 
Mentre la notte bruciava, si coprì gli occhi con i palmi delle mani. Non emise un fiato. 
 
Il suo ultimo pensiero fu che almeno ora forse della Città del Lago qualcuno avrebbe parlato. Qualcuno, finalmente, si sarebbe ricordato di loro. 
 
Seppe anche, con disarmante amarezza, che di lei nessuno si sarebbe ricordato. Della sua esistenza, di quella dei suoi cari, non sarebbe importato poi tanto a nessuno. 
 
Perché mai avrebbe dovuto? Alis era una dei tanti, della sua vita sarebbe rimasta solo la cenere, e nel giro di pochi decenni non sarebbe stata altro che una miseria comparsa in uno di quei racconti sulle labbra di un anziano, uno di quelli a cui nessuno dava più retta. 
 
 
“La cosa più orribile è stato il silenzio. Vedevamo Smaug volare sulla città, vedemmo il fuoco, vedemmo tutto bruciare, troppo lontani per poter sentire qualcosa. Ce ne stavamo lì, a guardare e chiederci cosa avevamo combinato. Il silenzio rendeva tutto così irreale. Ma noi lo sapevamo. Lo sapevamo che c’era della gente lì…”
 
Bombur
 

 Al di là di ogni previsione e di ogni più rosea aspettativa, alla fine i nani della Compagnia di Thorin Scudodiquercia erano veramente riusciti nella loro missione: la Montagna Solitaria era stata riconquistata, Smaug era stato sconfitto e il suo corpo esanime giaceva in fondo alle acque di Lago Lungo. 
 
“La voce si spargerà e presto tutte le anime della Terra di Mezzo sapranno che il drago di Erebor è morto!” esclamavano i nani brindando alla loro, fingendo un’allegria che nessuno provava, mentre se ne stavano riuniti attorno a tavole spoglie e grigie, impolverate e piene di ragnatele. 
 
Era troppo amaro però il sapore del trionfo. Scomodo e macchiato di sangue innocente il mare d’oro sul quale sedevano. Ed era forse valsa la pena abbandonare al proprio destino i loro stessi compagni, quelli che erano rimasti indietro? Fili, Kili, Bofur, Oin. Ognuno in cuor proprio si chiedeva che ne era stato di loro, pregando Durin che fossero riusciti a scampare al fuoco del drago. 
 
Non avevano forse giurato l’uno all’altro di rimanere uniti? Non avevano forse tradito il loro stesso onore, non mantenendo la più antica delle promesse?
 
Quelle cose, tuttavia, nessuno osava dirle ad alta voce, perché farlo avrebbe voluto dire fare i conti con la propria condotta e con il proprio senso di colpa. 
 
Il senso di colpa, era quello a logorare lo hobbit, in particolare, mentre se ne stava da solo, sui bastioni che si affacciavano sulla Porta Principale - che, ad eccezione del passaggio segreto, era l’unica via d’uscita a non essere stata distrutta o costruita da Smaug nel corso degli anni. 
 
Da quel punto poteva vedere Dale, la Desolazione di Smaug, Collecorvo, uno scorcio di foresta e infine tutto il Lago Lungo. 
 
L’autunno stava lasciando il passo all’inverno e l’aria del primo mattino era fredda e fumosa. Il fiato di Bilbo si addensava davanti al suo viso, mentre guardava l’orizzonte. Il cielo era tinto di una strana luce rosa e l’aria era intrisa di un pungente odore di affumicato, e una leggera foschia non dava cenno di volersi dissolvere - anche se Bilbo non era così sciocco da illudersi del fatto che quella fosse semplice foschia. 
 
Sbuffi di fumo grigio ancora si alzavano dal centro del lago, proprio nel punto in cui solo il giorno prima c’era stata una città piena di vita. 
 
Bilbo si diceva che forse, se fosse stato uno scassinatore più abile, le cose sarebbero potute andare diversamente. Se fosse stato uno scassinatore più abile, forse Esgaroth non avrebbe dovuto pagare il prezzo più alto.
 
“Mi eviti,” una voce ruvida alle sue spalle lo fece trasalire, ma la sorpresa durò meno di un istante, fece sì di ricomporsi subito. 
 
Quella di Thorin non era stata una domanda, così non si sentì tenuto a rispondergli. E, infondo, Thorin sapeva già benissimo perché non volesse vederlo. 
 
C’era una questione sulla quale stava accuratamente evitando di interrogarsi, e questo perché era certo che la risposta a cui sarebbe arrivato non gli sarebbe piaciuta. 
 
Perché? Voleva sapere perché la stessa persona che gli aveva sussurrato che non avrebbe mai più permesso a nessuno di fargli del male gli aveva puntato la propria spada al petto, poche ore prima? Ed era sicuro che Thorin sarebbe andato fino in fondo, che lo avrebbe trafitto senza esitazione, glielo aveva visto negli occhi. 
 
Bilbo - lo stesso hobbit che aveva sempre diffidato di chiunque, che potendo scegliere aveva sempre preferito starsene solo, e ora capiva di aver fatto bene - sentiva di aver sbagliato tutto. 
 
Aveva aperto il proprio cuore a qualcuno che in realtà non conosceva affatto, a qualcuno che sarebbe stato disposto a passare sul suo cadavere per ottenere ciò che voleva, Thorin lo aveva ingannato per settimane - mesi! - e lui era stato tanto idiota da credere che fossero qualcosa, che Thorin provasse qualcosa. 
 
Invece non era così, e Bilbo lo aveva scoperto nel peggiore dei modi. Il Re dei Nani sarebbe stato pronto a passarlo a fil di spada, ad ucciderlo, tutto a causa di una stupida gemma, uno stupido sasso sbrilluccicante. Che hobbit sciocco e credulone era stato. 
 
“Smettila di torturati per quel drago, Bilbo. Hai cercato di fermarlo. Non hai nessuna colpa, niente da rimpiangere. Per portare a termine la nostra impresa avrei comunque dovuto svegliarlo, e sarebbe successo esattamente ciò che è successo”.
 
“Non è per il drago, Thorin. Non solo, almeno”. 
 
Non riuscì a voltarsi a guardarlo, non perché lo temesse dopo che aveva cercato di ucciderlo, ma perché la rabbia e delusione erano troppo forti. Dietro di sé, comunque, avvertiva Thorin muoversi verso di lui, finché non sentì la sua mano che lo cercava. 
 
La scacciò con un gesto brusco. “Non voglio che mi tocchi,” sibilò.
 
Thorin sospirò. “Non è stata colpa tua, va bene? È Smaug quello da biasimare, ed ora è morto. Non potrà mai più fare del male a nessuno”.
 
“Non è per il drago!” urlò Bilbo, frustrato, sperando che Thorin si decidesse ad ascoltare qualcuno, una volta tanto nella sua vita. “Dimmi perché,” si decise poi a chiedergli, prendendo un respiro profondo. “Perché lo hai fatto?” 
   
“Io… non lo so. Non lo so” rispose alla fine Thorin, insistendo nell’avvicinarglisi troppo, più di quanto Bilbo potesse tollerare. 
 
“Voglio che tu mi stia lontano,” ribadì. “Non avrei mai dovuto lasciare casa mia. Tutta questa faccenda non ha portato che morte e sofferenza, e io sono stanco. Non ce la faccio più”. 
 
“Perdonami,” mormorò Thorin a quel punto, e la sua voce sembrò così piena di dolore che Bilbo fece l’errore di alzare la testa, e i loro occhi si incontrarono. 
 
“Perdonami,” ripetè Thorin. Di nuovo, gli fece male. 
 
Bilbo pensò che era sorprendentemente, davvero, quanto quel nano fosse abile a manipolare le persone; come fosse in grado di tirare fuori due occhi da cerbiatto, quando ne aveva più bisogno. Ed era stupido, ed era del tutto irrazionale, ma una parte di lui avrebbe voluto tornare indietro e continuare a vivere nell’illusione che Thorin lo amasse, che lo amasse quanto lo amava lui. 
 
Perché, nonostante tutto quello che era successo, l’amore per Thorin era ancora lì, Bilbo lo sentiva pulsare dentro il petto in maniera dolorosa. 
 
Scosse la testa, cercando di scacciare le lacrime che sentiva pungere per uscire. “Vorrei solo dimenticare tutto, e vorrei essere a Casa Baggins ora…” 
 
Quando Thorin allungò di nuovo le braccia per stringerlo, Bilbo non riuscì a negarsi. Perché solo le braccia di Thorin erano in grado di tenere insieme i cocci che erano rimasti della persona che era stato; solo le braccia di Thorin erano solide abbastanza in un mondo che stava andando in frantumi. 
 
Bilbo aveva bisogno del conforto di quelle braccia, aveva bisogno di Thorin, non poteva più farne a meno. Opporsi era come tentare di smettere di respirare, semplicemente non poteva, anche se i sentimenti che sperava ci fossero, si erano rivelati una menzogna. 
 
“Lasciami andare,” lo pregò, senza alcuna convinzione. 
 
“Non posso,” sussurrò piano Thorin. “Ho come la sensazione che se ti lasciassi andare ora ti perderei per sempre, e questo non posso permetterlo”. 
 
Si sporse verso di lui, e nemmeno allora Bilbo trovò la forza di ritrarsi. 
 
Non credeva che qualcuno avrebbe mai potuto fargli sentire tante emozioni, tutte contrastanti, tutte insieme. 
 
Thorin non avrebbe esitato a fargli del male alla prima occasione, e Bilbo lo odiava dal profondo per questo. Aveva maledetto il suo nome e giurato a sé stesso che non avrebbe mai più permesso a nessuno di ferirlo tanto. 
 
Ma ora lo stava baciando e Bilbo sentiva di amarlo così tanto da essere disposto a sacrificare tutto per lui, perfino il suo amor proprio. Era un amore autodistruttivo quello, gli era chiaro come il sole. Del tutto folle e sconsiderato. 
 
Permise alle mani di Thorin di infilarsi tra i suoi capelli, alla sua lingua di farsi strada tra le sue labbra, di riempirlo di baci che sapevano di disperazione. Gli permise di attirare a sé i suoi fianchi, di spingerlo contro il muro fino a slacciargli i pantaloni. Gli permise di toccarlo, e non gli negò la soddisfazione di sentire i suoi gemiti di piacere, tentando di soffocarli. 
 
Non seppe se le stava immaginando o meno, le sue labbra velenose piegarsi in un sorriso sulle sue, quando raggiunse il piacere. 
 
Sapeva che Thorin era perfettamente consapevole di averlo in pugno, e quando tutto finì, quella certezza gli lasciò dentro un enorme senso di vuoto. 
 
 
Bilbo visse i giorni successivi nella costante tentazione di prendere la porta e fuggire lontano; in direzione dell’estremo occidente, preferibilmente. Ma presto si rese conto che tutti loro avrebbero fatto meglio a lasciare Erebor. Quel luogo era maledetto, ne era sempre più convinto. 
 
La meraviglia iniziale davanti all’operato dei nani era stata sostituita da una sensazione costante di inquietudine. Quella non era una meravigliosa fortezza nel cuore della Montagna, Erebor era una tomba maledetta; avrebbero fatto meglio a lasciarla a Smaug per sempre. 
 
Ovviamente, di Gandalf non c’era ancora traccia, proprio ora che la presenza di uno stregone avrebbe fatto proprio comodo. 
 
La persona che sopra ogni altra stava sorbendo l’effetto mefitico di quel dannato posto era Thorin. 
 
Thorin non stava affatto bene, più passavano i giorni e più era evidente a tutti. 
 
Non mangiava e non dormiva. Non faceva altro che vagare incessantemente per la stanza del tesoro, facendo frusciare il suo nuovo mantello di pelliccia sulle monete sotto i suoi piedi, ammirando ogni diamante, accarezzando ogni coppa come fosse un’amante, ogni anello, ogni collana. Qualsiasi tentativo di parlargli era inutile.
 
Nemmeno il ritorno di Fili e Kili - sangue del suo sangue, i figli di sua sorella - miracolosamente incolumi, poté nulla. Il suo chiodo fisso rimaneva l’Arkengemma.
 
“Cercatela, tutti voi. Nessuno riposi finché non si trova,” ripeteva in continuazione, costringendo tutti loro a frugare in mezzo all’oro fino allo sfinimento. Bilbo avrebbe potuto vomitare alla vista di un altro singolo centesimo. 
 
Thorin non era più Thorin, giorno dopo giorno Bilbo lo vedeva sparire. La malattia, infine, stava prendendo il sopravvento. Quanto ci sarebbe voluto perché avesse la meglio sulla sua forza di volontà? Ammesso che volontà di combattere ne avesse realmente. 
 
“Hai un aspetto pessimo, Bilbo. Dovresti mangiare qualcosa anche tu,” gli disse Balin, una mattina. 
 
Bilbo sorrise debolmente, continuando a giocherellare con il pezzetto di pane raffermo e il formaggio - dal quale aveva dovuto grattar via un bello strato di muffa - al posto di mangiarli. 
 
Era buffo, era stato quasi costantemente affamato nelle ultime settimane - anzi, durante tutto il viaggio fino a lì - ma ora sembrava aver oltrepassato una soglia oltre la quale non aveva nemmeno più appetito. 
 
Pensava tanto, fino ad avere mal di testa, in compenso. Pensava a ciò che aveva detto Elrond, in quella che gli sembrava una vita prima, a Gran Burrone; a ciò da cui aveva cercato di metterlo in guardia Beorn. A ciò che aveva predetto Smaug. 
 
Lì per lì, non era riuscito a dare un senso alle parole che tutti loro gli avevano rivolto, ma ne avevano ora. 
 
Alzò la testa per assicurarsi che lui e il vecchio nano fossero soli come gli era parso. “Balin, una volta hai parlato della malattia del drago. Mi chiedevo…” gli chiese, premurandosi comunque di parlare molto piano. 
 
Balin si guardò attorno a sua volta con aria circospetta. Per la prima volta, Bilbo notò la profonda preoccupazione sul viso del vecchio nano. L’espressione tesa, le rughe che si erano fatte più profonde. 
 
“L’amore di Thror, il nonno di Thorin, per il suo tesoro era divenuto spietato. Geloso, Bilbo. Una malattia si era sviluppata dentro di lui, era una malattia della mente e dove prospera la malattia seguono brutte cose. La chiamano malattia del drago, perché i draghi bramano l’oro come scuro e feroce desiderio”. 
 
Balin sorrise tristemente. “Tutti dicono che Thorin è la copia sputata del nonno, più che somigliare a suo padre. E quello sguardo che ha ultimamente negli occhi…” scosse la testa. “Io ho già visto quello sguardo”. 
 
E Bilbo capì. “È questo posto,” bisbigliò. 
 
“Parlagli, a te darà ascolto,” lo pregò Balin. 
 
“Non posso, non ci riesco. Non riesco nemmeno a guardarlo”. 
 
Il nano sospirò pesantemente. “Se non puoi farlo tu, non può farlo nessuno.” 
 
Si strofinò gli occhi stanchi e cerchiati di grigio e fece per alzarsi, ma poi Bilbo aggiunse: “Credi che avere l’Arkengemma potrebbe aiutarlo? Che una volta trovata troverà la pace?” 
 
Balin si rimise a sedere, lentamente. 
 
“Ragazzo, quella pietra, il Cuore della Montagna, corona tutto. È la sommità di questa grande ricchezza. Conferisce potere a colui che la possiede. Arresterebbe la sua pazzia? No, io temo che la peggiorerebbe.” 
 
Bilbo si sentì trafitto dai suoi occhi chiari, acuti e tanto bravi, fin troppo bravi, a leggere nell’animo e negli intenti delle persone. 
 
“Forse è meglio che rimanga smarrita”. 
 
Bilbo annuì. L’Arkengemma nella sua tasca non gli era mai sembrata pesante quanto lo era in quel momento.
 
Smaug aveva lasciato che la prendesse, e in quel momento lo hobbit aveva pensato di aver avuto un colpo di fortuna. Non ne era più tanto certo. Smaug era stato molto più lungimirante di così, e sapeva già che quel gioiello avrebbe condotto alla rovina tutti loro. 
 
Sono quasi tentato di fartela prendere. Fosse solo per vedere Scudodiquercia che soffre, osservare come lo distrugge. Osservare come corrompe il suo cuore e lo porta alla pazzia.”
 
Era vero, Erebor era maledetta. Era stato Smaug in persona ad assicurarsi che fosse così. Con le sue parole il drago li aveva condannati alla disfatta. 

 

1. La prima parte del capitolo si ispira ai versi della canzone di Ed Sheeran, “I see fire”.
 
2. Elrond accenna al fatto che Smaug dorma da 60 anni, per me è quindi plausibile che le nuove generazioni possano credere che quella del drago sia una favola per spaventare i bambini. (su)
   
 
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