“Non
v'è rivoluzione senza furore popolare.
Non
v'è furore di popolo scatenato senza disordine e vittime.”
EPILOGO
RIVOLUZIONE
Quando un popolo si solleva,
solitamente chi non vuole avere niente a che fare con la questione prende le proprie
cose e scappa senza neanche guardarsi indietro.
Se
poi a ribellarsi sono quegli stessi individui che fino al giorno prima hai
trattato come bestie da soma, l’ultima cosa che vuoi è rischiare di capitargli
tra le mani solo per rimanere a difendere un pezzo di campo o una bottega.
Per
questo non mi sorprese più di tanto quando, lungo il tragitto verso Dundee,
trovammo la maggior parte delle case e delle fattorie abbandonate.
Razziatori
e banditi si erano già messi al lavoro, ma fu mia cura fare arrestare chiunque
sorprendemmo a saccheggiare le case o assalire le carovane in fuga, promettendo
a tutti quelli che incontravamo e che si buttavano il più delle volte ai nostri
piedi implorando pietà che a nessuno sarebbe stato torto un capello.
L’eco
di questi comportamenti, oltre a quello su chi stava guidando la rivolta,
sembrò spargersi in fretta, e per quando arrivammo in vista delle mura di
Dundee molta gente aveva già smesso di scappare, preferendo piuttosto restare
alla finestra e vedere come la situazione si sarebbe evoluta.
Sapevo
che Rutte era un uomo di giudizio, che non avrebbe mai corso il rischio di
affidare le vite dei suoi concittadini alle risibili mura di Dundee o a quei
mezzi soldati della guardia cittadina.
Quello
di cui non ero ancora del tutto sicuro era come avrebbero reagito Septimus e i
suoi uomini. Li conoscevo quasi tutti, e fatte salve alcune eccezioni sapevo
che non si sarebbero fatti uccidere per difendere un Impero nel quale in fin
dei conti nessuno di loro credeva davvero; a condizione ovviamente di dare loro
qualcosa di migliore nel quale credere e a cui votare la propria lealtà.
Ignorando
inizialmente Dundee, di cui Rutte aveva come previsto già fatto aprire le porte
per dimostrare l’assenza di qualunque velleità di resistenza, ordinai di
dirigersi immediatamente verso il forte, che invece trovammo in pieno assetto
di guerra e pronto a difendersi.
Ovviamente
tutti quei soldati, a cominciare da Septimus, restarono ammutoliti quando mi
videro apparire dinnanzi a loro in mezzo a tutti quei mostri, ma sapevo che la
mia sola presenza o le semplici parole non sarebbero bastate a convincerli a
cedermi le loro armi.
Occorreva
un gesto plateale. E io per fortuna, in quanto a gesti plateali, ero un
professionista.
«Daemon,
che stai facendo?» esclamò Scalia vedendomi avanzare verso il forte con le
braccia conserte dietro la schiena, la schiena dritta e lo sguardo fisso
davanti a me «Ti ammazzeranno!»
Subito
ordinai ai miei pochi arcieri di posare le armi, fermandomi a metà strada tra
le mura e la mia prima linea e restando a lungo a fissare negli occhi i soldati
sui bastioni.
Mi
sembrava di essere tornato a Laffrey, di fronte al
quinto di linea schierato e pronto a spararmi.
«Mi
riconoscete vero? Non vogliamo farvi alcun male! Non siete voi i nostri
nemici!»
Non
vi fu risposta, anche se potevo scorgere l’esitazione negli occhi di ognuno di
loro.
«Se
volete uccidermi, fate pure!» dissi allargando le braccia «Fatelo adesso e
finirà tutto! Altrimenti, scendete da lì e parliamo! Avete la mia parola che
nessuno di noi alzerà un dito!»
Carel,
una giovane recluta poco più che quattordicenne, svenne letteralmente per lo
stress, e a quel punto Septimus si decise ad ordinare ai suoi di abbassare le
armi.
«Adesso
scendo e parliamo! Ma se uno solo di loro muove un passo…»
«Hai
la mia parola che non accadrà nulla!»
Di
lì a breve le porte della fortezza si aprirono leggermente e Septimus uscì
all’esterno accompagnato da un subalterno con la bandiera bianca.
«Che
sta succedendo, Daemon?»
«Non
poteva durare Septimus, e tu lo sapevi.»
«Perché
sei insieme a loro? Sono solo schiavi.»
«Eri
pronto anche tu a difenderli quando sono stati in pericolo. Avrò modo di
spiegarti ogni cosa. Ma non adesso. Non c’è tempo. Avrai già saputo cos’è
successo al ghetto. La spedizione punitiva sarà presto qui, e non possiamo
affrontarli con attrezzi da lavoro e grembiuli da forgia. Ci servono le armi
del forte.»
«E
pensi davvero che te le consegnerò? Sono un Decurione dell’esercito imperiale.
Tecnicamente dovrei dare l’ordine di uccidervi io stesso.»
«Otterresti
solo di morire inutilmente, e i tuoi uomini con te.»
«Non
ha alcuna importanza. Io ho fatto un giuramento.»
«Lo
stesso che ha fatto il tuo superiore che se l’è data a gambe lasciandovi qui a
farvi ammazzare? Non guardarmi così, so perfettamente che è già scappato.
Abbiamo fermato lui e la sua scorta a neanche un miglio di qui, mentre
cercavano di attraversare il ponte. Ora sei tu al comando. Le vite di quegli
uomini sono nelle tue mani.»
Septimus
stava scoprendo sulla sua pelle che decidere di gettare via la propria vita in
nome dell’onore è facile, ben diverso però è fare lo stesso con quella dei
soldati sotto il proprio comando.
Decisi
di spingere ulteriormente.
«L’hai
visto tu stesso il vero volto dell’Impero. Vuoi davvero morire per gli stessi
che hanno vessato questi poveretti fino al punto di spingerli a dire basta? O
che hanno incarcerato e ucciso i nostri amici durante quella stupida caccia
alle streghe? Siamo cresciuti insieme, lo sai che di me ti puoi fidare. Ti assicuro che non
vogliamo spargere sangue innocente.»
Era
evidente che il suo orgoglio di soldato gli impediva di fare ciò che
intimamente avrebbe voluto. Occorreva un’ultima spinta.
«Un
gruppo di miei compagni sono già entrati a Dundee. Non hanno fatto del male a
nessuno. Ora stiamo radunando tutti gli abitanti della regione che non sono
ancora scappati. Venite anche voi. E se dopo che avrete ascoltato quello che ho
da dire deciderete comunque di opporvi a noi vi lasceremo andare via incolumi,
con tutte le armi che riuscirete a portarvi dietro. Sarete anche liberi di
andare al nord e riunirvi con il resto della legione se lo vorrete. Lo giuro.»
Septimus
accettò quasi subito la mia proposta, ponendo come unica condizione la garanzia
che fatto salvo un piccolo gruppo di fedelissimi tutti gli altri ribelli
sarebbero rimasti al di fuori delle mura.
Mentre
si allontanava potevo sentirlo ordinare al proprio portabandiera di dare
indicazioni perché tutti iniziassero a mettersi in spalla quante più armi possibili
in vista del viaggio verso il Castello. Ma io sapevo benissimo che in realtà
quel viaggio non ci sarebbe mai stato.
Eirinn non aveva subito le stesse
devastazioni patite dall’Impero o da altre parti di Erthea durante le Guerre
Sacre, quindi era quasi naturale che in molti tra noi non condividessero il
fanatismo e la brutalità con cui l’Impero trattava i mostri.
Di
sicuro non li consideravamo nostri pari, ma allo stesso tempo non li vedevamo
neanche come oggetti da usare e gettare via a piacimento.
Certo,
molti tra di noi avevano schiavi, ma con poche eccezioni quasi tutti facevano
ciò che era in loro potere per trattarli nel modo più dignitoso possibile,
dandogli da mangiare, un giaciglio caldo su cui dormire, e pretendendo da loro
solo ciò che erano materialmente in grado di fare.
Per
quanto riguarda me, fin da quando ero bambina non mi ero mai preoccupata troppo
della sorte dei mostri, ritenendo di avere già abbastanza problemi nella mia
vita per dovermi fare carico anche di quelli degli altri.
Crescendo
però mi ero resa conto di quanto egoistico fosse stato il mio modo di pensare,
e che se io mi ritenevo sfortunata solo per via dell’avere un padre ubriacone e
violento quello era niente se paragonato alla miseria in cui erano costretti
gli schiavi che vivevano nei ghetti.
Era
stato l’ultimo, terribile inverno a cementare questa idea nel mio animo, nel
momento in cui Daemon e Septimus mi avevano confidato che se noi avevamo poco
da mangiare a causa dell’incendio al granaio, quei poveretti erano stati spesso
costretti a lavorare per giorni e giorni senza poter mettere nulla sotto i
denti.
Così,
appena prese in mano appieno le redini del negozio, avevo iniziato a fare
quello che potevo per aiutarli, ordinando cibo e vestiti caldi dai miei
fornitori pagandoli con spezie e altri beni pregiati, e cercando nel mentre di
compensare le perdite alzando i prezzi che praticavo abitualmente.
In
qualche modo ero riuscita ad evitare di andare in perdita, e quando Septimus mi
aveva detto che i mostri erano stati contenti di poter finalmente mangiare
qualcosa di decente e proteggersi meglio dal freddo ammetto che mi si era
scaldato il cuore.
Ma
evidentemente tutti i miei sforzi non erano bastati, o forse più semplicemente
quegli schiavi avevano deciso infine di dire basta.
Quello
che mai mi sarei potuta immaginare era di trovare Daemon a capo della rivolta.
Tutto quello che credevo di sapere sul suo conto si era sgretolato, ma ammetto
che vederlo così, nel pieno del suo proverbiale carisma, tenendo in pugno senza
difficoltà quella massa eterogenea di schiavi arrabbiatissimi prodigandosi nel
mentre a rassicurare tutti sul fatto che non avessero cattive intenzioni non
faceva altro che accrescere la mia stima nei suoi confronti.
Mentre
cercavo ancora di metabolizzare tutto quello che stava accadendo in quel giorno
pazzesco, un piccolo goblin armato di bastone fece irruzione nel negozio
sfondando la porta che avevo sprangato per sicurezza e mettendosi a ingurgitare
tutto quello che gli capitava a tiro.
Dimenticandomi
con chi avevo a che fare presi la scopa e cercai di mandarlo via neanche avessi
avuto a che fare con un topo molesto, con il risultato che quello per poco non
si avventò anche su di me.
Ancora
una volta fu Daemon a salvarmi, irrompendo sulla scena assieme ad una giovane
ragazza con coda e corna di drago quando già mi immaginavo il peggio.
«Ero
stato chiaro Pythus. Niente saccheggi o aggressioni.»
e senza aggiungere altro lo trafisse da parte a parte quando quello cercò di
assalire anche lui.
«Non
credo che mancherà a nessuno.» osservò cinicamente la ragazza-drago «Era solo
un viscido selvaggio.»
«Mary.
Tu stai bene?»
«Sì,
tranquillo. Non mi ha fatto niente.»
«Mi
dispiace. Lui aveva l’ordine di restare fuori dalle mura, ma deve essersi
intrufolato di nascosto. E mi dispiace anche per la frutta.»
«Ma
no… non preoccuparti…»
«Puoi
stare tranquilla, gli altri miei compagni non sono come lui. Ordinerò ad alcuni
di loro di presidiare il negozio, così non dovrai temere neanche gli
sciacalli.»
Se
Daemon sembrava ancora il gentiluomo rude ma pieno di premure che avevo sempre
conosciuto, la sua compagna al contrario mi fissava con occhi che sapevano di
rabbia, per non dire di odio.
E
in tutta onestà devo dire che anche a me fece una brutta impressione, più che
altro per il modo schietto e poco educato con cui si rivolgeva a Daemon: come
si permetteva di rivolgersi a lui come se fosse stato un suo parente?
Ovviamente
ancora non sapevo che quella era davvero sua sorella –sorella adottiva per lo
meno–, ma capii subito che non saremmo andate d’accordo.
Daemon
aveva appena fatto le presentazioni quando una minotaura
così alta da non passare attraverso la porta del negozio arrivò di corsa
avvisando tutti che c’era un problema serio alla taverna del sindaco, e che
Giselle era in pericolo.
Istintivamente,
essendo io stessa in pensiero per la mia amica, li seguii fino al Cervo Nero,
dove trovammo Giselle tenuta in ostaggio con un pugnale da uno dei pochi
miliziani a non essere ancora fuggiti.
Si
chiamava Vig, ed era uno dei peggiori aguzzini che
avessi mai conosciuto, oltre ad essere un lascivo pervertito sempre alla
ricerca di una ragazza da conquistare con i suoi modi da caprone. Tutti quelli
della sua risma se l’erano data a gambe appena arrivata notizia della rivolta
per non rischiare di finire nelle mani delle loro vittime, ma lui quel giorno
si era ubriacato a tal punto da crollare addormentato sotto il tavolo della
locanda, rendendosi conto di quanto stava accadendo solo una volta smaltita la
sbronza.
«Ora
smettila soldato!» disse il Capitano Oldrick, anche
lui presente assieme a Septimus, al sindaco Rutte e ad un paio di mostri che,
avendolo riconosciuto, avevano tentato di mettergli le mani addosso
provocandone la reazione «Non c’è ragione di proseguire oltre con questa follia!»
«Io
non voglio avere niente a che fare con queste bestie! Voglio cinquecento goldie
e un salvacondotto per passare il ponte!»
«Tu
non vai da nessuna parte maledetto!» strillò il vecchio coboldo indicandosi la
benda sull’occhio. «Devo ancora manifestarti la mia gratitudine per questo!»
«Fai
silenzio stupido animale, o giuro che ti cavo anche l’altro occhio!»
«Non
fare stupidaggini.» disse Rutte con sguardo cupo, per nulla preoccupato a prima
vista di quanto stava capitando a sua figlia. «Mantieni il sangue freddo e
andrà tutto bene.»
«Tu
taci vecchio! Non sono cose che ti riguardano!»
«Io
non stavo parlando con te.»
«Mi
dispiace padre. Ma ho avuto fin troppa pazienza con questo idiota.»
«Cos…»
Sì
udì una specie di sibilo, come di qualcosa che veniva estratto con violenza, e
un attimo dopo Vig stramazzò a terra come
paralizzato, con la bava alla bocca e gli occhi quasi fuori dalle orbite.
Ma
questo era in niente in confronto allo stupore che provammo quasi tutti nel
momento in cui notammo una specie di punta acuminata che spuntava da dietro la
gonna di Giselle.
«Giselle,
ma cosa…»
«D’accordo,
credo che questa recita sia durata anche troppo.»
A
quel punto tutto il corpo della mia migliore amica sembrò come lacerarsi, e da sotto
la sua pelle fece la propria comparsa in vari punti, soprattutto su braccia e
gambe, una sorta di armatura scura simile alla corazza di un insetto. Quattro
ali membranose le apparvero dietro la schiena lacerando la camicetta, e buona
parte della gonna venne letteralmente sventrata dall’emergere di un grosso
addome peloso giallo e nero terminante in un lungo pungiglione ricurvo. Infine,
un paio di antenne le spuntarono in cima alla testa.
«Finalmente!
Non ne potevo più di quell’involucro gommoso!»
A
Septimus sembrava dovesse cadere la mascella da un momento all’altro, e a
giudicare dal rigonfiamento sotto alla cintura era chiaro che la trasformazione
della nostra amica in una specie di conturbante ape regina dal balcone quasi
raddoppiato aveva destato in lui pensieri inopportuni.
«Giselle,
ma tu sei un…»
«Uno
schianto? Uno spettacolo? Una forza della natura?»
«Un
mostro!?»
«Preferirei
che non lo dicessi con quel tono.»
«Giselle
non è propriamente un mostro.» disse Daemon. «È una sanguemisto.»
«Non
dirmi che tu l’hai sempre saputo.» chiese lei, ghignando malevola come quando
eravamo bambini
«Sono
cresciuto in mezzo ai mostri. Ovvio che so riconoscerne uno, per quanto
mascherato.»
In
seguito scoprimmo che molti anni prima il signor Rutte si era imbattuto in una
schiava fuggitiva e mezza morta mentre tornava da un viaggio nell’Unione,
portandola a casa con sé e tenendola per molto tempo nascosta nella soffitta di
casa sua dopo averla curata.
Alla
fine si erano innamorati e dalla loro unione era nata Giselle, anche se lo
sforzo di partorire un sanguemisto era stato tale che sua madre era morta nel
darla alla luce.
Venne
fuori anche che la specie a cui apparteneva la madre di Giselle aveva
sviluppato la capacità di comprimere e celare il proprio vero aspetto dietro ad
un involucro che simulava in tutto e per tutto la pelle umana, che però una
volta distrutto non poteva più essere ricostruito.
«Allora?
Volete restare lì a fissarmi o muovere le mani? Toglietemi di torno questo
rifiuto ambulante prima che mi venga voglia di iniettargli un’altra dose di
veleno.»
«Rude,
selvaggia e testarda. Sei proprio tale e quale a tua madre.»
Mentre
Oldrick e Septimus portavano via Vig
un orco gigantesco ma dall’aspetto amichevole entrò nella locanda.
«Daemon.
È tutto pronto.»
A sentire Daemon, la popolazione di
Dundee era solita radunarsi in massa nella piazza centrale solo per assistere
alle esecuzioni pubbliche.
Una
volta smontate le forche e trasformato il patibolo in un palco avevamo radunato
non solo gli abitanti del villaggio, ma anche tutti quelli che eravamo riusciti
a trovare in giro per tutta la regione.
Era
chiaro che avevano paura di noi, e che se molti di loro ci avevano obbedito
seguendoci al villaggio era solo perché Daemon aveva preteso che i
rastrellamenti venissero condotti da gruppi misti composti da mostri, membri
della guardia e legionari.
A
conti fatti c’era molta più gente di quanto mi aspettassi; gli occhi di tutti
erano puntati ovviamente su Daemon, che si stagliava come un gigante tra i nani
al centro del palco con il sindaco, il Decurione Septimus, il Capitano Oldrick e alcuni altri rispettabili cittadini alle sue
spalle.
Molti
fissavano anche la ragazza-ape in piedi accanto a suo padre, e dai loro sguardi
si capiva che nessuno aveva mai avuto neppure un sospetto sulla sua vera
natura.
Ad
un cenno di Daemon scese il silenzio.
«Amici
miei. Abitanti di Dundee. Non c’è bisogno che io mi presenti, tanto mi
conoscete tutti. Ormai dovreste averlo capito. Vi ho mentito. Su molte cose. Ma
se l’ho fatto non è stato perché mi vergognavo di chi fossi o delle mie
origini. La verità è che io sono un orfano. Questi mostri, che molti voi hanno
sempre considerato niente altro che bestie selvagge e senz’anima, mi hanno
trovato abbandonato nella foresta quando ero solo un neonato in fasce.
Avrebbero potuto ignorarmi, o persino mangiarmi. Invece mi hanno adottato. E
hanno fatto enormi sacrifici per potermi crescere, affinché un giorno io
potessi avere tutto ciò in cui loro non avrebbero mai potuto sperare. Ho
vissuto in mezzo a loro, e ho visto quello a cui sono costretti. Ho asciugato
le loro lacrime e pianto insieme a loro ogni volta che un loro compagno alla
sera non rientrava nella sua baracca, solo perché qualcuno aveva ritenuto che
la sua vita valesse meno di una pepita d’oro, un secchio di pece o un pezzo di
carbone. Ma quali che siano i vostri pensieri, o qualunque cosa voi sappiate o
crediate di sapere, voglio dirvi che non siamo qui per vendicarci, o per
ripagare nel sangue chissà quali torti. Siamo qui perché crediamo che ogni
essere senziente che cammina su questa terra sia tanto degno di vivere quanto
chiunque altro. Ogni singolo individuo, umano, mostro o mezzosangue che sia ha
il diritto di disporre liberamente della propria vita, e di rispondere in prima
persona dell’abuso che potrebbe fare della propria libertà dinnanzi ad una
legge di fronte alla quale tutti devono essere uguali. Quella stessa libertà e
quella stessa legge che anche a voi sono stati strappati, calpestati da un
governo che pretende di decidere delle vostre vite nello stesso modo in cui
dispone a proprio piacimento di quelle degli schiavi. Un governo che dopo non
essere stato capace di impedire che la nostra terra fosse ridotta alla fame non
solo non ha fatto niente per aiutarci, ma si è perfino rivelato un nido di
serpi che non ci hanno pensato un attimo a speculare sulle nostre sventure.
Ebbene io dico, quando chi dovrebbe come prima cosa ad assicurare il benessere
di coloro che si rimettono a lui si dimostra indegno della fiducia concessagli
e del ruolo che ricopre, il popolo non ha soltanto il diritto, ma anche il
preciso dovere di alzare la testa e gridare a piena voce la propria rabbia!
Tutti quelli che non hanno fiducia nelle mie parole, non credono nella bontà di
ciò che vogliamo costruire, o semplicemente non riescono a liberarsi dei loro
pregiudizi possono andare via incolumi, con tutto ciò che saranno in grado di
portarsi dietro. Non uno di loro sarà toccato. Coloro che condividono la nostra
lotta ma hanno paura di rischiare la vita in prima persona non abbiano nulla da
temere, perché combatteremo anche per loro, e avranno comunque l’occasione di
rendere il loro servizio alla causa. Ma se anche voi credete che sia giusto
sperare in qualcosa di più, se anche voi pensate che può esserci un’altra via,
allora vi chiedo di schierarvi al nostro fianco e aiutarci a costruire un mondo
migliore. Un mondo in cui nessun individuo avrà potere di vita o di morte sui
propri simili. In cui ognuno di noi, dal più umile dei contadini al più
illustre dei proprietari terrieri, dal mostro un tempo schiavo al più grande
dei re, avrà diritto inalienabile alla libertà, alla proprietà, all’uguaglianza
di fronte alla legge e allo stato e ad un giusto processo da parte di una
giuria di suoi pari. Il sangue di coloro che daranno la vita per difendere
questo mondo nelle guerre che sicuramente saranno scatenate contro di noi nel
tentativo di spegnere il fuoco delle nostre coscienze risvegliate sarà l’acqua
della vita che farà germogliare i semi di una nuova era. Anche nella morte, i
martiri della nostra lotta avranno la consolazione che il loro sacrificio non
sarà stato vano, che coloro che lasceranno dietro diventeranno figli di tutti
noi, e che il loro ricordo vivrà per sempre. La decisione spetta a voi.»
Per
tutto il tempo in cui Daemon aveva parlato non si era levata una voce, e ci
eravamo ritrovati tutti ad ascoltarlo in silenzio come ipnotizzati. Era come
udire la voce di un dio, un essere ultraterreno le cui parole sarebbero state
capaci di convincerti che il bianco era nero e viceversa.
Conoscevamo
tutti la potenza del suo carisma, ma mai prima d’ora ci eravamo trovati di
fronte a qualcosa di così incredibile.
Il
primo a farsi avanti fu il suo amico Septimus, che mosse un passo dopo essersi strappato
dalla tunica blu da legionario lo stemma imperiale.
«Io
sono con te Daemon!»
«Anche
io!» disse dalla folla quell’antipatica quattrocchi col faccino da bambina
«Conta
su di me! – E anche su di me! – Morte al Governatore! – Viva la libertà!»
Un
attimo dopo la piazza esplose in un boato assordante, con migliaia di persone
che tutte insieme invocavano a piena voce il nome del mio fratellino.
«Non
ci posso credere.» disse Jack. «Ditemi che è tutto vero.»
«Non
stai sognando, stallone.» rise Giselle. «Chi l’avrebbe mai detto? Il piccolo e
gracile Daemon.»
Era
vero. L’impossibile era infine successo.
Probabilmente
la maggior parte di loro ancora non aveva compreso che da quel momento in poi
avrebbero vissuto e combattuto fianco a fianco con le stesse creature che fino
al giorno prima avevano guardato dall’alto in basso e trattato come dei servi,
ma in quel momento non mi importava.
Ad
un cenno di Daemon gli porsi l’asta sulla quale avevamo legato uno stendardo
fatto di stracci recuperati qua e là, realizzato da Bonbi
e dalle altre donne del ghetto seguendo il modello da lui suggerito.
Un
contorno blu come il cielo notturno e un cuore rosso come il sangue versato dai
nostri amici, divisi da un rettangolo bianco.
Infine,
al centro, tre rose candide, una per ogni specie, uguali e bellissime.
La
nostra bandiera.
Il
simbolo della nostra libertà.
«La Rivoluzione è cominciata!»
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
E così siamo giunti alla fine di questo
primo volume della mia prima light novel!
Spero che la storia vi sia piaciuta, e che
continuerete a seguirmi nel prosieguo di questa mia avventura.
Ho dedicato molto tempo e passione alla
creazione di ogni singolo aspetto della vicenda, dal susseguirsi degli eventi
alla creazione dei personaggi.
Da qui in poi gli eventi procederanno in
maniera molto più fluida, in un susseguirsi di situazioni che faranno evolvere
la trama generale in modo abbastanza veloce.
Il Volume 2, intitolato “Solo chi è disposto a morire conoscerà la vera forza” è già completato nella sua versione italiana, mentre
quella inglese sarà ultimata da qui ad un paio di mesi.
Quindi restate nei paraggi, perché tra due
settimane arriva già il primo capitolo!
A presto!^_^
Cj Spencer