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Autore: WillofD_04    15/08/2023    5 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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AVVERTIMENTO: Questo capitolo contiene scene crude e tematiche delicate che potrebbero urtare la sensibilità del lettore. Vi invito, pertanto, a procedere con cautela e leggere a vostra discrezione.

Mi sembrava di nuotare nell’oscurità. Nuotavo e nuotavo, per cercare di emergere da quel buio infinito, ma non riuscivo a trovare nemmeno una piccola luce che potesse guidarmi verso una via d’uscita. Annaspavo. I miei polmoni bramavano l’aria più di qualsiasi altra cosa. Era come sguazzare nel petrolio, potevo sentire la sua consistenza densa andare a depositarsi nella mia cavità toracica e togliermi il respiro. Una pozza infinita, nera come la pece e fredda come il ghiaccio. Se quello era il Paradiso, non era molto bello. Poi, all’improvviso, il mio corpo venne risucchiato in un vortice e io fui strappata da quella gelida oscurità. Fu come il giorno in cui ero piombata sulla Thousand Sunny.
Che mi era successo? Che ne era stato di me? Ero morta? La Stella mi aveva riportata a casa? Ero bloccata in un terzo universo buio, vuoto e inospitale? Il panico si impossessò del mio corpo.
Aprii gli occhi di scatto, rantolando ed ansimando. La prima cosa che vidi fu il cielo. O meglio, la fitta coltre di nuvole che lo ricopriva, dalla quale si propagavano fulmini neri e minacciosi. La luna era stata coperta e non si riusciva più a vedere niente. Non sapevo se fosse un bene o un male. Decisi che fosse un bene. Si trattava sicuramente di Rufy e Kaido, riuscivo a percepire le loro Ambizioni da lì, erano tanto potenti da farmi venire i brividi. Quello era lo scontro finale, e qualsiasi cosa stesse succedendo doveva essere spaventosa, perciò meno vedevo meglio era. Ero sicura che Cappello di Paglia se la sarebbe cavata, in qualche modo. Io dovevo pensare a me stessa, non potevo concentrarmi su di loro. Sapevo che oltre le nuvole il cielo si era rischiarato, segno che l’alba stava per arrivare. Era quasi finita. Dovevo essere rimasta priva di sensi per parecchio tempo. Ancora una volta, non sapevo se fosse un male o un bene. Un fastidioso ronzio rimbombava nelle mie orecchie, destabilizzandomi e rendendo ogni suono ovattato. La superficie sotto di me era dura e fredda. Non era legno, era... roccia? Mi guardai intorno e mi resi conto che ero stata sbalzata fuori dal teschio gigante del mostro, che ora aveva un cratere sulla nuca. Avevo attraversato strati di legno, cemento e ossa. Cosa poteva aver scatenato una deflagrazione di quella portata? E, soprattutto, come diavolo avevo fatto a sopravvivere a un’esplosione tanto potente?
Cercai di orientarmi. Ero certa di essere dalla parte dell’emisfero destro del teschio del mostro. Davanti ai miei occhi si ergeva il corno della creatura, io mi trovavo più indietro, il che significava che mi ero allontanata ancora di più dal mio obiettivo. Fissai la sporgenza del cranio perfettamente mutilata. Solo due persone sarebbero state in grado di farlo: Law o Zoro. Mi chiesi se stessero bene e dove si trovassero. E mi chiesi come avrei fatto a raggiungerli all’ingresso di Onigashima ora che la strada “principale” non era più un’opzione percorribile.
Gli ultimi fiocchi di cenere nell’aria si depositavano in terra, a poca distanza da me. Se prima, immersa nel buio, non riuscivo a sentire o percepire niente, adesso rimpiangevo quello stato catatonico e intorpidito in cui ero precipitata. Ogni singolo muscolo, osso e tessuto del mio corpo mi faceva male. Feci un rapido controllo danni: il trauma cranico mi rendeva intontita, la frattura alle costole era peggiorata e lo stomaco sembrava uscito da un incontro di boxe, ma a parte questo non mancava niente e tutto era al proprio posto, tranne la spalla destra, che stava andando a fuoco. Mi voltai verso di essa e mi lasciai scappare un’imprecazione. La testa dell’omero era uscita dalla cavità della scapola. Sembrava una lussazione anteriore. Non prometteva bene, la slogatura andava ridotta. Non potevo farlo da sola.
Mi feci forza e cercai di alzarmi. Fallii miseramente. Mi girava la testa e non sapevo come posizionarmi per evitare di morire dal dolore. La priorità era salvaguardare la spalla, per tutto il resto non avrei potuto fare niente in ogni caso. Mi voltai di nuovo alla mia destra e stavolta notai che non ero sola. A qualche metro da me c’era una ragazza stesa in terra. Aveva un grosso pezzo di legno conficcato nella giugulare, sotto di lei c’era un lago di sangue, gli occhi vitrei e spalancati erano puntati nella mia direzione. Trasalii. Non mi impressionava la vista del cadavere, quanto il fatto che avrei potuto essere io. Quella ragazza aveva la mia stessa corporatura e probabilmente età, un taglio di capelli simile ed era atterrata a pochi passi da me. Eravamo rimaste coinvolte nell’esplosione insieme, eppure lei era morta e io me l’ero cavata con qualche danno collaterale. Perché? Smisi di guardarla. Potevo essere io. Non volevo fare la sua stessa fine, e rimanere lì mi rendeva un bersaglio facile, per cui approfittai della scarica di adrenalina per rimettermi in piedi, trattenendo gemiti di dolore e imprecazioni. In posizione eretta la situazione era perfino peggiore, ma almeno potevo regolarmi e posizionare il corpo in modo da alleviare il dolore. Gli antidolorifici erano provvidenziali. Feci per togliermi lo zaino dalla spalla e mi accorsi che non ce l’avevo. Un’altra cosa che era andata persa nell’esplosione. Sospirai rassegnata. In questo modo non avrei potuto prestare i soccorsi adeguati a chi ne aveva bisogno. Di nuovo. Se non altro avevo un flacone di pasticche in tasca. Ne mandai giù tre e sperai che facessero effetto in fretta. Era una fortuna che avessi deciso di intascarmi gli antidolorifici, almeno così potevo avere un po’ di sollievo. Le tasche di quella divisa erano portentose, trattenevano di tutto. Law era sempre un passo avanti.
Il mio naso registrò l’odore di carne abbrustolita. Era un odore piacevole per le mie narici, mi ricordava i barbecue estivi con gli amici, ma sapevo che si trattava di carne umana. Quello era in realtà l’odore della morte. Una morte a cui non avevo intenzione di darla vinta, non ora che era quasi l’alba, non dopo tutto quello che avevo vissuto.
«Aiuto!» chiamò qualcuno. Navigai quel mare di detriti con gli occhi alla ricerca della voce. Era uno spettacolo terrificante. C’erano pezzi di legno, di cemento, di vetro sparsi al suolo, incastrati tra loro, distrutti. E tra la polvere e la confusione c’erano anche alcuni corpi umani, non avrei saputo dire quanti ancora funzionanti. Muoversi in quelle condizioni sarebbe stato come tentare di attraversare un percorso ad ostacoli.
«Aiuto!» gridò di nuovo la voce, e quando la individuai capii perché sentivo odore di carne bruciata. L’uomo aveva diverse ustioni sul corpo. Braccia, gambe, addome e viso. Tentava di alzarsi, ma non ce la faceva. Probabilmente aveva i nervi danneggiati. «Non riesco a muovermi e non vedo più niente! Aiutatemi...»
Mi avvicinai a lui, lentamente e con cautela, facendo smorfie di dolore ad ogni movimento brusco che facevo. A giudicare dagli abiti era un sottoposto di Kaido. Ma nemico o amico, se aveva bisogno del mio aiuto non potevo negarglielo.
«Ciao,» esordii titubante.
L’uomo si girò in direzione della mia voce. «Chi sei?»
Fu solo allora che vidi meglio le ustioni che aveva sul viso. Mi portai la mano sana sulla bocca. Non vedeva niente perché non poteva vedere niente. Non aveva più gli occhi. Al loro posto c’era un misto di carne maciullata e sangue. A quel punto mi piegai in avanti e vomitai. Non sapevo se per il disgusto, per le mie lesioni o per la situazione, ma espulsi fino all’ultimo succo gastrico. Mi parve di sentire lo stomaco lacerarsi e aprirsi in due. Barcollai e la vista si fece sfocata per qualche secondo. Premetti una mano sull’addome per assicurarmi che i miei organi non uscissero dal corpo.
«Stai bene? Sei ancora lì?» mi chiese il pirata.
«Sì, sono ancora qui,» risposi, ansimando. Mi raddrizzai e pulii la bocca con la manica della divisa. «Mi chiamo Camilla, comunque.»
«Io sono Zelf. Allora, puoi aiutarmi? Perché non riesco a vedere niente?»
Deglutii e presi un respiro profondo. Non era facile dare una notizia del genere. «Perché i tuoi occhi non ci sono più.»
Zelf si agitò. «Che cosa vuol dire che non ci sono più!?»
«Che...» Mi schiarii la voce, nel tentativo di non farla tremare. «Che sono stati letteralmente bruciati.»
Se avesse ancora avuto dei condotti lacrimali ero certa che avrebbe pianto. Non potevo biasimarlo.
«Non è possibile...» sussurrò incredulo. Si portò le mani al viso – l’unico movimento che riusciva a fare – e iniziò a tastarlo con i polpastrelli. Quando realizzò che gli avevo detto la verità, urlò con tutte le forze che aveva in corpo. Fu un grido acuto, che non ci si aspetterebbe da un pirata appartenente alla ciurma di un Imperatore. Ma in quel momento non era un sottoposto della Creatura più temuta di tutti i Mari, era un semplice essere umano che aveva perso qualcosa di incommensurabile. E quella era pura disperazione.
Presi un respiro profondo e cercai di non farmi coinvolgere dal suo dolore. Dovevo rimanere lucida.
«Io sono un medico. Posso aiutarti.» Non sapevo come, visto che non avevo niente con me se non gli antidolorifici, ma in qualche modo avrei fatto.
«No! No, non mi toccare. Lasciami qui, lasciami morire.» La sua voce era piena di tormento.
«Ora lo pensi e lo dici perché sei sotto shock. Con il tempo andrà meglio. Imparerai a...»
«Smettila!» mi interruppe, rabbioso. «Tu non mi conosci. Non sai niente di me, non tentare di convincermi. Fare il pirata è divertente, ma sono anche un pittore. Dipingo quadri per vivere. Non per guadagnarmi da vivere, per quello c’è la pirateria, per vivere
Mi si spezzò il cuore per l’ennesima volta. Conoscevo quel dolore. Il mio sguardo scivolò sul mio polso sinistro. Quanto avevo sofferto quando ero convinta che non sarei più tornata ad essere un chirurgo. Anche Zelf, come me, si era trovato a scontrarsi con le due realtà della sua vita: la pirateria e l’arte. Una aveva preso il sopravvento sull’altra.
«Io...»
«Per favore. Non voglio vivere una vita senza colori. Non voglio vivere se non posso essere un pittore.» Appoggiò la nuca al suolo e smise di muoversi, come se stesse aspettando che la morte venisse a prenderlo.
Boccheggiai. Non sapevo che dire. Non sapevo che fare.
«Non è la fine. Puoi ancora fare il pirata. E ci sono tante altre cose che...»
«Stronzate.» Il suo tono era duro e affilato.
Presi un respiro profondo. Zelf aveva deciso che non voleva più combattere. Non avevo bisogno di attivare l’Haki per sapere che non c’era modo di fargli cambiare idea.
«Permettimi almeno di lenire la tua sofferenza. Ho degli antidolorifici nella tasca.» Feci un passo in avanti.
«Non ti avvicinare.» Si portò una mano alla cintura e ne tirò fuori una pistola. «Se tenti di fermarmi ti sparo.»
Alzai la mano sana in segno di resa anche se non poteva vedermi, non stava nemmeno mirando nella direzione giusta. Mi dispiaceva per lui. Lo guardai puntarsi la pistola alla tempia senza muovermi. Avrei voluto fare qualcosa. Avrei dovuto fare qualcosa. Nelle condizioni in cui era sarebbe stato facile togliergli l’arma dalle mani. Ma arrivati a quel punto, che senso aveva tentare di dissuaderlo o fermarlo? Era una decisione impulsiva, certo, però era la sua decisione. Il mio dovere era curare le persone, non obbligarle a vivere una vita che non volevano vivere. Se quello era ciò che desiderava, non lo avrei ostacolato. A volte scegliere di essere compassionevoli era la cosa migliore che si potesse fare.
«Addio, Zelf.» Gli diedi le spalle per non vedere la scena. Lo sentii prendere un ultimo respiro e poi l’inconfondibile rumore di un colpo che esplodeva mi fece sussultare. Era un bene che Kenji non fosse lì a guardare, non avrebbe mai permesso a Zelf di compiere un tale gesto e non mi avrebbe mai perdonato per averglielo lasciato fare. E all’improvviso, come se un fulmine mi avesse attraversato il cervello, mi ricordai del mio compagno.
«Kenji!» esclamai, iniziando a cercarlo nei dintorni.
 
Non lo trovavo. Il suo corpo non c’era. Non poteva essersi volatilizzato. O forse sì? Forse la bomba lo aveva polverizzato. No, non era possibile: era vicino a me quando era scoppiata, era improbabile che io ne fossi uscita intera e lui no. E se invece l’onda d’urto lo avesse buttato giù da Onigashima? Era un’ipotesi stupida perfino per una persona che aveva un trauma cranico. Maledissi me stessa per non essermi ricordata prima di Kenji, per non essere lucida, per non avere un corpo più resistente al dolore e alla stanchezza. I miei movimenti erano lenti e maldestri, mi reggevo a malapena in piedi e avevo la vista sfocata. Come potevo ritrovare il mio amico in queste condizioni? Per non parlare della feroce battaglia contornata dalle fiamme che si stava consumando nel castello. Era un vero e proprio inferno.
Mi sembrò di vedere una manica bianca con la coda dell’occhio. Mi voltai.
«Kenji...» Non sapevo dove trovai la forza, ma mi misi a correre verso di lui e mi buttai in ginocchio. Era sepolto sotto una montagna di detriti, spuntava solo il braccio sinistro, ma era lui.
Mi feci forza, ignorai il dolore e cominciai a togliere i pezzi di legno e cemento da sopra di lui. Mi sembrava che non finissero mai, e quando terminai la spalla destra formicolava, le dita stavano diventando insensibili. Ansimavo e mi sentivo debole, non svenni solo perché il panico dilagò in me. Kenji non dava cenni di vita. Era incosciente e non aveva battito.
«No. Kenji, no...» Non poteva finire così. Non dopo tutto quello che avevamo passato. Non dopo tutte le promesse e le confidenze e quello che avevamo condiviso. Non potevo permetterlo. Però non avevo idea di cosa stesse succedendo. Scandagliai con gli occhi ogni centimetro del suo corpo in cerca di un indizio, di un appiglio, di un problema da risolvere. Ma non c’era. La mia mente si stava annebbiando sempre di più, e il panico non faceva che peggiorare la mia confusione, tramutatasi in incapacità di agire. Più passavano i secondi più la speranza di rivederlo cosciente affievoliva. Non ero in grado di aiutarlo. Se solo ci fosse stato il Capitano con noi... Lui era un medico migliore di me, avrebbe saputo come agire.
C’era soltanto una cosa logica da fare. Mi misi a cavalcioni sul mio compagno. L’adrenalina guidava i miei movimenti, non sentivo più dolore. Congiunsi le mani e gliele premetti sul torace con tutta la forza che avevo. Continuai a praticargli la rianimazione cardiaca con movimenti ritmici e quando fu il momento gli sollevai il mento, gli tappai il naso e gli feci la respirazione bocca a bocca. Gli controllai di nuovo il battito: niente. Ripetei tutto finché non ebbi più energie.
«Per favore, Kenji...» sussurrai disperata. Mi chinai in avanti e appoggiai la fronte sulla sua. «Ho bisogno che tu stia bene. Ho bisogno di te.»
Qualcosa si posò sulla mia mano, facendomi perdere vari anni di vita. Mi tirai su alla svelta e realizzai che erano le dita del mio compagno. Alzai lo sguardo sul suo viso. Aveva gli occhi aperti e mi stava sorridendo. Si era ripreso.
«Oh, Kenji!» Sospirai sollevata. La tensione svanì e il mio corpo divenne molle.
«Ciao,» mi salutò, quasi con aria sognante, come se non fosse appena tornato dal mondo dei morti ma si fosse svegliato accanto alla sua fidanzata su un morbido letto con lenzuola di seta.
Tornai seria e gli feci cenno di non muoversi. Prima dovevo fargli un check up generale. Le pupille erano reattive, per cui si potevano escludere danni cerebrali. Il respiro era un po’ corto e il battito era debole.
«Come ti senti? Ti fa male qualcosa?»
«Mi fa male la schiena. Devo avere delle vertebre rotte. Almeno tre.»
«Che tipo di vertebre?»
«Toraciche, direi.»
Annuii. Finché erano quelle andava – relativamente – bene. Gli tastai il collo per essere sicura che non avesse una lesione cervicale. Senza raggi X era difficile capirlo, ma Law mi aveva insegnato un trucchetto. Sembrava a posto.
«Riesci a sentire braccia e gambe?»
«Sì, e credo che la ferita sulla coscia si sia riaperta.»
Nella confusione non me ne ero resa conto, come non mi ero resa conto della posizione equivoca in cui mi trovavo. A giudicare dal rossore sulle sue guance lui invece se ne era accorto, ed era imbarazzato. Mi schiarii la voce e mi scostai.
Gli controllai la gamba. Aveva ragione, parte della ferita si era riaperta. Non sanguinava molto, ma sanguinava, e l’emorragia andava fermata. Nemmeno lui aveva più lo zaino con sé. Per fortuna Zelf poteva ancora rendersi utile con le sue cinghie di cuoio.
«Aspettami qui, torno subito.»
Mi alzai e andai dal sottoposto di Kaido. Quella che mi si presentò davanti non era un scena che avrei voluto vedere, per questo mi ero girata quando si era sparato, ma stavolta non avevo scelta. Dovevo ignorare la materia cerebrale e il sangue del pittore sparsi per le rocce circostanti e fare il mio dovere. Era crudele che fosse quella l’ultima tela che aveva dipinto, tragico. Qualcosa mi diceva che non sarei mai riuscita a scacciare dalla mente i traumi e i fantasmi di quella guerra. Cercai di non pensarci, gli tagliai le bretelle con il coltello e tornai dal mio amico, che nel frattempo si era tirato su. Si reggeva il torace con una mano e si guardava intorno in cerca di qualcosa.
«Hai visto il mio cappello?»
«Il tuo cappello? Sì, certo, è la prima cosa a cui ho pensato quando mi sono svegliata dopo essere saltata in aria,» affermai con sarcasmo. Forse troppo, perché Kenji si grattò la nuca con imbarazzo. Non volevo metterlo in difficoltà, solo che non ero tranquilla. Ed ero stanca. E provavo dolore.
«Devo dire che queste bretelle mi sono mancate,» disse, probabilmente per smorzare la tensione. Poi sbuffò una risata.
«Ti ci vedo a indossarle,» scherzai mentre tentavo di annodargliele attorno alla coscia. Mi aiutò, non era facile con una mano sola, e per di più la sinistra. «Quando saremo al sicuro, tutti si saranno ripresi e potremo finalmente festeggiare in grande stile, promettimi che te le metterai.»
Kenji rise, tuttavia la sua risata fu smorzata da un gemito di dolore.
«È il torace, vero? Fammi controllare.»
Fece un cenno d’assenso e io gli tirai giù la cerniera della divisa. Non lo avevo mai visto “senza veli”. Non aveva i muscoli scolpiti nell’acciaio come Rufy, o Law, o Sabo, ma si manteneva bene. Ispezionai il tronco con cautela: aveva un grande livido sul torace, proprio sullo sterno. Lo sfiorai con le dita e sospirai. Non potevo fare niente senza kit medico. Avrebbe dovuto sopportare il dolore. C’era da augurarsi che fosse solo una contusione.
«È solo un livido,» mi rassicurò.
«Sei sicuro di stare bene?» gli chiesi, una punta di preoccupazione ancora nascosta nella voce.
Mi accarezzò una guancia e mi sorrise. Lo presi per un sì.
«Pensavo di averti perso.» Sospirai di nuovo, la mia espressione si fece cupa. «Se fossi morto non me lo sarei mai perdonato.»
«Non sarebbe stata colpa tua. C’è stata un’esplosione enorme, è un miracolo che riusciamo ancora a muoverci. E senza equipaggiamento medico si può fare poco.»
Aveva ragione, ma questo non mi faceva sentire meglio, né avrebbe cancellato i miei sensi di colpa. Kenji capì come mi sentivo, perché mi abbracciò. Percepire il suo calore corporeo mi tranquillizzò.
«Sono qui e sono vivo. Grazie a te.» Mi strinse a sé ancora di più e io mi lasciai inebriare le narici dal suo profumo di lavanda. Era un odore che mi piaceva e che volevo continuare a sentire ancora per molto tempo.
Quel momento speciale fu rovinato da un mio lamento di dolore. Il rosso si staccò da me e mi guardò con apprensione.
«La spalla destra...»
La osservò attentamente. «Sì, è lussata. La slogatura va ridotta.»
Annuii, consapevole di quello che significava. Altra sofferenza.
«Farà male,» mi avvertì il mio compagno.
Annuii di nuovo. «Fallo.»
Si guardò intorno, sospettoso. «Potrebbero esserci dei nemici nelle vicinanze, per cui non puoi...»
«Gridare. Sì, lo so,» lo interruppi sospirando. Ero rassegnata al mio destino infausto. Mi misi seduta e lui si inginocchiò accanto a me. «Fallo e basta.»
«D’accordo.» Mise una mano sulla mia spalla e con l’altra mi prese il polso. «Conterò fino a tre. Uno... due... tre.»
Fu molto, molto difficile non gridare. Ogni fibra del mio corpo si ribellò a quell’intrusione violenta. Fu solo qualche istante, ma il dolore fu acuto. Per non parlare del rumore tremendo che fecero le ossa mentre Kenji le rimetteva a posto.
Quando ebbe finito, il mio corpo tremava. Mi sfuggì quello che successe dopo. Non persi contatto con la realtà soltanto perché mi ritrovai due mani premute sulle guance.
«Cami?» Il rosso mi stava pregando con lo sguardo di dargli qualche segno di vita.
Annuii. «Sto bene.»
«No, non è vero. Dobbiamo portarti via di qui, hai bisogno di cure.» Aveva un’espressione così angosciata che quasi mi sentii in colpa. Si alzò e, con mia grande sorpresa, si strappò una manica della divisa. Mi tirò su per un gomito – quello sano – e sistemò la stoffa in modo che facesse da supporto per la mia spalla, legandomela stretta al collo. Gli rivolsi uno sguardo grato, poi gli passai il flacone degli antidolorifici. Io non ero messa bene, ma lui si reggeva a malapena in piedi. Aveva le gambe molli e non riusciva a trovare una posizione comoda tra il dolore alla schiena e quello al torace. Prese un paio di pasticche e me lo restituì. Ne presi un’altra anche io. Le costole mi stavano uccidendo.
Un rumore forte seguito da diversi tremori mi distrasse e mi fece osservare il cielo. Sembrava essersi rischiarato ancora. Non sapevo per quanto tempo fossi stata incosciente e non sapevo neanche a che punto fossero i vari scontri. L’alba era vicina, per cui supposi che fossero quasi tutti terminati. Non avere un riferimento non aiutava. In ogni caso, meno rimanevamo lì e meglio era.
«Credo che dovremmo dirigerci all’entrata di Onigashima come ha detto il Capitano,» dissi, guardandomi intorno per fare un calcolo approssimativo del tempo che ci avremmo messo. Non avrei saputo dire nemmeno quello. Brancolavo nel buio, per questo non vedevo l’ora di andarmene da quell’isola maledetta.
«Sono assolutamente d’accordo. Anche se non sono tranquillo a passare dall’esterno, qui siamo esposti.» Alzò lo sguardo con circospezione. L’aria era pesante, quasi irrespirabile. Rufy e Kaido erano alle battute finali. Potevamo solo sperare di non venire coinvolti nel loro scontro.
«Non abbiamo molta scelta. Nel castello è un inferno, ammesso che esista ancora.» Gli indicai l’enorme cratere provocato dall’esplosione.
«Wow...» si meravigliò. Fino a quel momento, con la preoccupazione per le nostre condizioni di salute, non aveva avuto modo di notarlo.
«Già. Non so come abbiamo fatto a sopravvivere.» Sbuffai una risata per sdrammatizzare.
«Io penso di saperlo...» confessò, continuando a fissare il buco. Lo incitai a proseguire con un cenno del capo. «Prima di perdere conoscenza ho visto che siamo andati a sbattere contro un gigante.»
Aggrottai la fronte. «Siamo andati a sbattere contro un gigante!?»
«Sì, uno di quelli che chiamano “Numbers”. Quando c’è stata l’onda d’urto, chi era sulle scale come noi si è scontrato con uno di loro. Credo che l’impatto ci abbia scagliati lontani, ed è per questo che ci siamo salvati.»
Mi ci volle un po’ per processare quell’informazione. Il fatto che non fossi finita spappolata o carbonizzata dipendeva dalla fortuita collisione con un gigante. Quante erano le possibilità che ciò accadesse?
«È terribile...» disse Kenji, la voce tremante. Tornai alla realtà e mi voltai verso di lui. Si stava guardando intorno. Mi resi conto che eravamo circondati dalle vittime dell’esplosione. Non erano molte, ma non era uno spettacolo piacevole.
«Possiamo salvarne qualcuno?» domandò con gli occhi lucidi. Se avesse potuto sarebbe tornato nel castello e avrebbe aiutato tutti i feriti che erano stati coinvolti nella deflagrazione. Ma sapeva che non glielo avrei permesso. Era un suicidio.
Presi un respiro profondo. «No, sono tutti morti, me ne sono accertata mentre ti cercavo. Mi dispiace.»
Gli appoggiai la mano sulla spalla e feci un’ulteriore panoramica. C’era poco da salvare, gli unici due interi erano Zelf e la ragazza con un pezzo di legno conficcato nel collo. Me li ritrovai davanti agli occhi e pensai che fossi stata doppiamente fortunata.
«Io alla festa metterò un vestito viola. È corto, ha lo scollo a cuore e la gonna pomposa. L’ho comprato sull’isola dove si sono sposati Omen e Maya. L’ho visto e ho pensato che fosse perfetto per festeggiare la vittoria di una guerra epocale. L’ho già tirato fuori dall’armadio.» Le parole mi uscirono dalla bocca senza che me ne accorgessi, tanto che io stessa me ne stupii.
«Cosa?» Kenji si voltò a guardarmi con un’espressione in parte confusa in parte preoccupata. Poteva stare tranquillo: non ero in stato confusionale, sapevo ciò che dicevo.
Non risposi. Mi limitai a sorridere con espressione distante, pensando al momento in cui avrei fatto la mia entrata trionfale con quello indosso. La verità era che lo avevo tirato fuori dall’armadio in previsione della fine della guerra, non in previsione della vittoria. Speravo che i miei amici avrebbero capito che, nel caso fossi morta, avrei voluto essere seppellita con quel vestito. Arrivati a quel punto era difficile figurarmi in una bara. Era quasi l’alba, la battaglia stava per terminare e per sopravvivere, salvo imprevisti, dovevo solo continuare a camminare. Non avevo intenzione di arrendermi ora.
«Oh, la festa. Quella a cui dovrei partecipare con le bretelle di cuoio.» Il rosso capì da solo e ridacchiò.
«Mi immagino che la festa si tenga sulla Thousand Sunny. Non metterò le scarpe, perché voglio che l’erba solletichi le piante dei miei piedi e anche perché senza tacchi sarò più libera di scatenarmi. Mi immagino di non avere lividi, fratture, fasciature e di non sentire il dolore. Mi immagino il mal di testa che avrò il giorno dopo a causa di tutto l’alcol che avrò ingurgitato. E mi immagino che tu non sarai tanto contento della mia sbornia, ma a me, per quanto suoni egoistico, non importerà. Voglio ubriacarmi, e voglio ridere, e voglio ballare fino a che non mi fanno male i piedi. Perché abbiamo vinto. Contro ogni probabilità. E siamo sopravvissuti. Siamo sopravvissuti, cazzo.»
Kenji non mi ascoltava neanche, non gli importava della mia futura sbronza, aveva un sorriso da ebete stampato sulla faccia. «Non vedo l’ora di vederti con quel vestito addosso. Sarai bellissima.»
Mi lasciai scappare una risata e scossi la testa. Ora capivo perché non mi stava prestando attenzione.
«Sarò felice. È questo l’importante.»
«Giusto.» Il mio compagno tornò a sorridere con la purezza che lo caratterizzava.
«Tu sarai lì, ad aspettarmi, con le bretelle di cuoio?» gli chiesi, sogghignando appena.
«Certo. Sarò in fondo alle scale, pronto a consegnarti il tuo bicchiere di vino.» Il suo sorriso si fece più ampio.
Rimasi a bocca aperta. Lui, l’uomo che disprezzava l’alcol in tutte le sue forme, voleva che avessi il mio bicchiere di vino. Il mio corpo fu invaso da una sensazione sconosciuta e tiepida. Mi vennero le lacrime agli occhi per la commozione. Le sue parole e la sua espressione traboccavano d’amore. Lo percepivo. Mi chiesi se era così che ci si sentisse quando si aveva a che fare con il sentimento che tutti desideravano provare. Io lo stavo ricevendo. Lo avevo respinto per tanto tempo, ma era così accogliente... era come una coperta che avvolgeva il mio corpo infreddolito.
«Stai bene?» Kenji mi strinse appena il braccio e mi fece tornare alla realtà. Aveva l’espressione preoccupata.
Annuii. Mi sentivo in colpa per tutte le volte in cui quella notte la mia mente aveva preso a vagare e lui si era preoccupato perché pensava che non stessi bene.
«Da qui all’entrata di Onigashima è lunga. Faremmo meglio a muoverci,» lo incitai, iniziando a camminare. E fu così che ci avviammo verso la salvezza, nella speranza che i piani non fossero cambiati.
 
Procedevamo lentamente, ma a passo stabile. A fare da sottofondo alla nostra camminata c’erano tremori e rumori forti e inquietanti. A volte sentivamo anche qualche urlo. Da una parte mi sentivo in colpa per non essere all’interno del castello ad aiutare i feriti, dall’altra sentivo che avevo dato alla guerra tutto ciò che potevo dare ed ero felice di non essere più in trincea. Il castello a quest’ora doveva essere stato divorato dalle fiamme. Potevo soltanto sperare che Law, i miei compagni e i Mugiwara stessero bene.
Di tanto in tanto io e Kenji ci guardavamo intorno per accertarci che non ci fossero nemici nei paraggi. Non c’erano. Supponevo che fossero tutti impegnati a tentare di fuggire o a sferrare gli ultimi colpi. Il cielo era diventato ceruleo. Non era detto che la guerra si concludesse con il sorgere del sole, ma era quello che indicavano i segnali. Eravamo alle battute finali. Non vedevo l’ora di andare via da quell’isola maledetta, farmi curare e riprendere le mie normali attività. Avevo bisogno di farmi una doccia calda, mangiare qualcosa di sostanzioso e soprattutto di dormire per un paio di giorni di seguito.
Il rosso si fermò e si appoggiò a una roccia, il busto piegato in avanti e una mano sul torace. Aveva un’espressione sofferente. Gli accarezzai la schiena per confortarlo e sospirai angosciata. Lì non potevo fare niente per lui, se non offrirgli l’ennesimo antidolorifico. Lo mandò giù e provò a rimettersi dritto.
«Cerca di resistere. Sono sicura che manchi poco,» tentai di rassicurarlo. Erano parole che lasciavano il tempo che trovavano, ma cos’altro potevo dirgli?
Annuì e provò a fare un sorriso, stavolta per rassicurare me. Lo aiutai a tornare eretto e insieme, sorreggendoci a vicenda, ci incamminammo per il sentiero di roccia.
Ci furono dei potenti tuoni e tutta l’isola tremò, così tanto che per poco non cademmo entrambi.
Quando tutto tornò tranquillo, il mio compagno sbuffò.
«Non ne posso più di questa guerra, dei tremori, delle stranezze, del senso di impotenza che ho provato stanotte, delle morti a cui ho assistito.»
Alla fine anche Kenji aveva capitolato. Lui, che non si perdeva mai d’animo e riusciva a trovare il lato positivo anche nelle situazioni più buie. Come dargli torto? Quella guerra ci aveva distrutti. Eravamo fisicamente, mentalmente e psicologicamente provati. Ci sarebbe voluto tempo per riprenderci da ciò che avevamo visto e vissuto quella notte. Almeno, però, noi potevamo raccontarlo. Altri non avevano avuto la nostra stessa fortuna.
«Per un momento, stanotte, ho pensato che sarei morto,» disse Kenji all’improvviso, serio in volto. «La gamba stava sanguinando molto, stavo perdendo conoscenza e tu eri impegnata a combattere. Potevo sentire la vita scivolare fuori dal mio corpo, e ho pensato: “ecco, ci siamo, è arrivata la mia ora.” Ma poi ho capito che non potevo morire.»
«Certo che no. Non lo avrei permesso,» dichiarai solenne, fermandomi solo un attimo per osservarlo.
«Non potevo morire,» ripeté. Sembrava perso nei suoi pensieri. Forse nemmeno mi stava ascoltando. «Non dopo che mi hai baciato. Voglio dire... aspettavo questo bacio da tutta la vita.»
Rimasi di sasso. Avvampai e boccheggiai per vari secondi. Non me l’aspettavo. Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, non mi aspettavo che avrebbe tirato fuori dal cilindro proprio quella. Era una cosa che la mia mente aveva rimosso completamente. Eppure era successo. Lo avevo baciato. E poi lui aveva baciato me. E non lo avevo respinto.
«Ora non esagerare.» Fu tutto ciò che riuscii a dire. Speravo che quello potesse togliermi dall’imbarazzo.
«D’accordo. Allora diciamo che lo aspettavo da un paio di anni.» Mi sorrise e scrollò le spalle.
«Così va meglio.» Gli sorrisi di rimando.
«Comunque, so che non è questo il momento adatto per parlarne, ma voglio che tu sappia che sono consapevole che ciò che è successo stanotte non significa niente,» affermò, le iridi già rassegnate. «Non per te, almeno.»
Rimasi di nuovo senza parole. Non mi aspettavo neanche che dicesse questo. Ero disorientata, non solo per le circostanze e per il fatto che avevo un trauma cranico, ma anche perché sapevo che avremmo dovuto discutere di quello che era successo quella notte, e non avevo idea di cosa gli avrei detto, dato che non avevo idea di quello che aveva significato per me. Era tutto molto confuso. L’ultima cosa che volevo era ferirlo un’altra volta.
«Kenji...» Presi un respiro profondo e distolsi lo sguardo. Poi tornai ad osservarlo, cercando di assumere un’espressione dolce e rassicurante. «Sai che c’è? Hai ragione, questo non è il momento adatto per parlarne. Ne discuteremo non appena saremo al sicuro, sul sottomarino.»
Lui si limitò ad annuire, del resto per il momento era meglio concentrarsi sugli obiettivi che avevamo: riunirci con il resto dei Pirati Heart e fuggire da Onigashima.
Continuammo a camminare in assoluto silenzio.
 
I rumori si stavano facendo sempre più forti, ci stavamo avvicinando all’entrata dell’isola. Avevo deciso di non dire niente per il resto della camminata per non peggiorare la situazione, ma il silenzio in cui eravamo immersi era pesante, soprattutto se l’alternativa alle nostre voci erano tuoni ed esplosioni.
«Devo capire ciò che voglio. Pensavo di saperlo, ma questa nottata ha sconvolto tutto. Kenji, l’ultima cosa che voglio è ferirti, credimi...»
Kenji interruppe la mia tempesta di parole poggiandomi una mano sulla spalla. Mi voltai a guardarlo. Le sue iridi erano tornate limpide, sembrava in pace con se stesso. Aveva capito che non potevamo metterci a parlarne lì, ma che ne avremmo parlato, un giorno non lontano.
«Sai, è stata una notte così assurda che ho quasi voglia di bermi un bicchiere di vino.»
Risi. Con un’unica affermazione era stato in grado di sciogliere tutta la mia tensione. Gliene fui grata. «Per questo posso farti compagnia. Anche se con tutti gli antidolorifici che abbiamo preso forse è il caso di aspettare un paio di giorni.»
Fece un cenno d’assenso, poi qualcosa lo distrasse. «Senti anche tu questo profumo?»
«No... Dovrei?»
«Sì, è molto buono. C’è profumo... di crostata di mele.»
«Crostata di mele?»
«Sì...» Sorrise e si fermò. Io non lo feci. Ormai avevo un solo obiettivo: raggiungere l’ingresso dell’isola. Eravamo vicinissimi, lo sentivo. Avevamo superato il corno della creatura, dovevamo soltanto seguire la curva che ci avrebbe portati alla bocca ed era fatta.
«Sai che c’è? Mi hai dato un’ottima idea. Chiederemo a Ryu di prepararcela. Ci meritiamo qualcosa di dolce. Sarà perfetta con il vino.»
«Cami...» mi richiamò, facendomi voltare verso di lui, non senza un certo fastidio. Non capivo perché indugiava quando la salvezza era a pochi minuti da noi. «Credo di riuscire a vederla.»
«Cosa? L’entrata di Onigashima?» Tornai a guardare davanti a me, speranzosa.
«No... La tua isola...»
Corrugai le sopracciglia. Ero confusa. «La mia isola?»
Udii il suono prima che riuscissi a girarmi di nuovo verso di lui. Quando lo feci, i miei sospetti si rivelarono reali, e mi colpirono come uno schiaffo in faccia.
«No.» La mia voce era ridotta a un sussurro terrorizzato. «No, no, no, no, no.»
Kenji era steso a terra. Si teneva il torace con una mano e aveva l’espressione sofferente.
«Non puoi cedere proprio ora, per favore.»
Iniziò ad ansimare. Faceva fatica a respirare, era come se l’aria non riuscisse ad entrare nei polmoni. Mi inginocchiai.
«Ok. Ok. Ora cerco di risolvere il problema, va bene?» La mia voce tremava. Forse avevo capito qual era il problema. E non si poteva risolvere. Non lì.
Avvicinai l’orecchio al suo cuore. I toni cardiaci erano attenuati. Gli tirai giù la cerniera della divisa. Fissai il livido che aveva sullo sterno ed emisi un sospiro sofferto. Le mie paure, le paure che avevo accantonato in un angolino di cervello fino a quel momento, diventarono realtà. Si trattava di tamponamento cardiaco.
«Credo che sia un versamento pericardico,» gli spiegai, mentre lui tentava di far entrare aria nel suo apparato respiratorio. «Devi resistere, d’accordo?»
Aveva bisogno di una pericardiocentesi, una delicata procedura che prevedeva che gli rimuovessi con un ago il liquido in eccesso presente nel pericardio. Come diavolo facevo a praticargliela senza avere niente a disposizione?
Mi guardai intorno alla ricerca di qualsiasi cosa che potesse fungere da ago. Possibilmente anche di un disinfettante e di una spalla che funzionasse.
«Tieni duro, ok? Vado a cercare...»
Mi artigliò il polso sinistro con una mano e mi impedì qualsiasi movimento. Lo guardai. Aveva lo sguardo terrorizzato. Aveva capito. Voleva che rimanessi con lui, che non lo lasciassi solo nei suoi ultimi istanti. Mi stava implorando, e quello fece andare in frantumi il mio cuore.
 
Mama, take this badge off of me.
 
«Non fare scherzi. Manca poco. Cinque minuti e sarai al sicuro, sarai salvo. Qui non posso fare niente per te.»
 
I can’t use it anymore.
 
Le vene del collo erano gonfie e le vie aeree serrate. Era pallido e ad ogni secondo che passava lo sguardo diventava più assente. Ormai non riusciva più a respirare. Il rumore che emetteva nel tentare di inspirare era terrificante. Lo avevo già sentito, non era quello a spaventarmi, quanto il fatto che provenisse da una persona a cui tenevo molto. Uno dei miei compagni medici lo aveva soprannominato “il suono della morte”.
 
It’s getting dark, much too dark to see you.
 
Cercava di parlare, di dirmi qualcosa, ma non ce la faceva. E io non capivo. Sapevo solo che aveva paura. Se avessi avuto le forze sufficienti avrei attivato l’Haki e avrei saputo quali erano i suoi ultimi pensieri.
«Che cosa devo fare?» gli chiesi, sapendo che non avrei ricevuto risposta.
 
Feel I’m knocking on Heaven’s door.
 
«Non farmi questo, ti prego,» piagnucolai, ormai conscia di quello che sarebbe successo.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Aveva gli occhi spalancati, fissi su di me. Le sue dita, avvinghiate saldamente al mio polso, iniziarono a scorrere lungo il mio braccio.
«Cazzo.» Mi morsi un labbro, consumandolo fino a che non mi scivolò un rivolo di sangue sul mento. «Cazzo!»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Ti prego,» lo supplicai, una ruga di sofferenza sulla fronte. Forse neanche mi sentiva più.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Ti pre...» Mi mancava il respiro. E la voce. E la forza. «Ti prego.»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Non mi lasciare...» Ripresi la sua mano, che era ricaduta lungo il suo fianco, e gliela strinsi più forte che potei, per fargli capire che non era solo. Poi, ignorando il dolore, liberai il braccio destro dalla fasciatura e gli posai il palmo sulla guancia, accarezzandogli la pelle con il pollice.
Era lui che stava morendo, ma io sentivo il suo stesso dolore, la sua stessa paura. Una parte di me si stava spegnendo insieme a lui.
 
Mama, put my guns in the ground.
 
“Va bene così...” sembrava volermi comunicare con il suo ultimo sguardo. No. Non andava bene così. Kenji non doveva morire. Non lui. Non un’anima così pura e buona. Non potevo accettarlo. E non potevo farlo, non potevo stare inerte a guardare mentre moriva davanti a me. Come avrei fatto a convivere con me stessa? Non mi sarei più ripresa.
 
I can’t shoot them anymore.
 
No, non era il momento di essere egoista. Era lui che stava soffrendo. Aveva bisogno di me.
Chiusi gli occhi e girai il viso, per non farmi vedere mentre mi concedevo gli ultimi momenti di debolezza. Strizzai le palpebre per impedire alle lacrime di rigare le mie guance. Avrei tanto voluto avere un interruttore che mi permettesse di spegnere le emozioni negative nei momenti critici come quello. Sarebbe stato tutto più facile. Molto meno doloroso, se non altro. E invece non c’era nessun interruttore.
 
That long, black cloud is coming down.
 
«Kenji...» Appoggiai la mia fronte alla sua. Avrei voluto regalargli i miei respiri, dargli più tempo. Ma non era possibile.
 
I feel I’m knockin’ on Heaven’s door.
 
Quella era l’unica cosa che potevo fare per lui: fargli sentire che io ero lì e che non era solo nei suoi ultimi istanti.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Sperai che non avesse più paura.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Fu questione di un attimo prima che smettesse di respirare e che il suo cuore si arrestasse.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Quando me ne accorsi, espirai pesantemente e sollevai il busto per accertarmi che fosse morto. Gli occhi di Kenji erano spalancati, le iridi non erano più limpide, ma vitree. Aveva la bocca socchiusa e mi fissava con espressione vuota. Il torace era fermo, non si alzava né si abbassava più.
Qualche ora prima avevo pensato che il mio inferno personale fosse la battaglia di Onigashima, ma mi sbagliavo. Il mio inferno personale era quel momento, quel preciso momento. Il momento in cui vidi la vita spegnersi negli occhi del mio compagno. E la cosa peggiore era che io non avevo potuto fare niente per aiutarlo.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Ora ne avevo la certezza: era morto. Era morto, e io mi sentivo devastata. Ogni singolo muscolo del mio corpo faceva male, e non per le ferite. Era come se qualcuno mi avesse masticato gli organi interni e li avesse sputati nella mia cavità toracica, però rimettendoli al posto sbagliato. Tutto era sbagliato. Tutto.
 
Mama, wipe this blood from my face.
 
«Oddio...» Mi passai la mano sana tra i capelli mentre l’angoscia dilagava in me.
Mi ero concentrata così tanto su me stessa, sulla possibilità che io potessi non sopravvivere, che non avevo pensato a come sarebbe stato perdere uno dei miei compagni. Ora me ne rendevo conto: era atroce. E non c’era modo di curare quella ferita. Sarebbe stata lì per sempre. Il dolore non si sarebbe affievolito, potevo solo sperare che il senso di colpa non mi mangiasse viva.
 
I’m sick and tired of the war.
 
Mi resi conto che stavo tremando. Sentivo freddo. Qualcuno aveva aperto la porta della mia anima e si era dimenticato di richiuderla. Kenji. Kenji se ne era andato e non l’aveva richiusa.
Emisi un sospiro sofferto. Mi sarei voluta rannicchiare accanto a lui e singhiozzare fino a non avere più energie e lacrime. Ma poi realizzai che il rumore delle esplosioni e i tremori erano cessati da un po’. Non potevo cedere al tormento. Se mi fossi messa a piangere, sarebbe stata la fine. Dovevo mettermi in salvo. E mi sentii una persona orribile anche solo per averlo concepito, ma non potevo portare Kenji con me. Non ne avevo la forza e anche il tempo a mia disposizione scarseggiava. Potevo sentire pezzi di isola sgretolarsi sotto di me. Onigashima non avrebbe retto a lungo.
Presi un respiro profondo, le labbra tremolanti e un doloroso nodo in gola che mi rendeva difficile far entrare aria nei polmoni. Continuai a fissare il mio amico, e lui continuava a fissare me, con gli occhi spenti e privi di vita, il verde delle sue iridi ora sembrava scolorito.
«Scusa...» gli dissi, accarezzandogli la guancia. Il mio corpo era scosso dai singhiozzi, ma mi ero imposta di non piangere. Gli posai le dita sulle palpebre e gliele chiusi. Così la sua espressione era un po’ più serena. Se avesse potuto ancora parlare mi avrebbe detto di non preoccuparmi per lui, di lasciarlo lì e proseguire. E non era giusto. Perché non ero stata in grado di salvarlo e adesso lo stavo abbandonando. Che razza di medico ero? Che razza di amica ero? Che razza di persona ero?
 
Don’t know if it’s night or if this is sun, rising high.
 
«Ti prometto...» iniziai, la voce spezzata dal dolore. Mi schiarii la gola. «Ti prometto che ti faremo giustizia. Sì, te lo prometto.»
Feci di nuovo scivolare la mia mano nella sua e gliela strinsi. Era ancora calda. Avrei voluto restare con lui fino a che il calore del suo corpo non fosse svanito, come per accompagnarlo nel suo viaggio, quale che fosse la destinazione, ma non potevo.
 
Scared of knockin’ on Heaven’s door.
 
«Ora devo tornare dagli altri. Ti lascio qui solo per un po’, ok?» Accarezzai il suo braccio nudo con le mie dita gelate. Il mio cuore si attorcigliò su se stesso nel realizzare che era lui che stava scaldando me. Anche da morto era una persona più premurosa di quanto potessi mai essere io. Cercai di scacciare quel pensiero. «Scusa, ma non ce la faccio a portarti con me. Non ne ho la forza. Tornerò a prenderti il prima possibile, tu aspettami qui.»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Feci un risolino che si trasformò in un mezzo singhiozzo.
«Tanto dove potrai mai andare? Sei morto.» Le parole mi soffocarono in gola.
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
«Sei morto...» ripetei, con più convinzione e più lucidamente. Era arrivata l’ora di lasciarlo andare. Trattenni un’ondata di dolore. Feci così tanta fatica che per lo sforzo quasi vomitai. Rimisi il braccio destro nella fasciatura e presi l’ennesimo respiro profondo. «Spero che un giorno potrai perdonarmi.»
 
Knock, knock, knockin’ on Heaven’s door.
 
Gli diedi un’ultima occhiata, poi mi alzai, mi girai e iniziai a camminare, trascinando i piedi come se stessi portando cento chili sulle spalle.



Angolo autrice
Eccoci qui. Sicuramente è stato un capitolo pesante, carico di angst e di momenti difficili da digerire, ma spero che lo abbiate apprezzato e mi auguro di aver fatto un buon lavoro. Vi aspettavate questo finale tragico? Vi ho sconvolti? Sorpresi? Sono riuscita a farvi arrivare tutte le emozioni contenute nelle mie parole? Mi piacerebbe molto avere la vostra opinione in merito.😊
I versi della canzone che potete leggere tra le righe dell'ultimo paragrafo appartengono ovviamente a "Knockin' On Heaven's Door" di Bob Dylan, ma la versione che ho scelto di utilizzare è (se possibile) ancora più triste dell'originale: è una cover realizzata dal gruppo "Anohni and the Johnsons" (precedentemente conosciuto come "Antony and the Johnsons"). Vi lascio il link e vi consiglio di ascoltarla, magari mentre rileggete il paragrafo, così l'esperienza sarà più completa. Spero che abbiate apprezzato il nuovo approccio che ho tentato, con la canzone inserita all'interno del capitolo e non alla fine, come era sempre stato finora. Fatemi sapere che ne pensate.😊
https://www.youtube.com/watch?v=PFiSHiTyzlA
Spero che possiate perdonarmi per questo colpo basso, ma si sa, la guerra non risparmia nessuno. E nemmeno io.
A presto!❤

P.s. Buon Ferragosto! Spero che il vostro sia migliore di quello di Cami e Kenji!😂😅
   
 
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