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Autore: Cj Spencer    16/09/2023    1 recensioni
Secondo volume de "Napoleon of Another World!"
Dopo un primo volume introduttivo la situazione inizia finalmente ad evolversi in modo rapido e decisivo.
La Rivoluzione che Daemon ha pazientemente pianificato volta a mettere nelle sue mani la provincia imperiale di Eirinn è finalmente scoppiata, ora lo scopo è portarla a termine affinché diventi il primo passo verso la costruzione del suo impero destinato a unificare Erthea sotto il suo comando e preparare il continente per affrontare l’esercito del Re dei Demoni quando farà la sua comparsa.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Non esiste l’immortalità della carne”

Solo quella del ricordo che lasciamo di noi”

CAPITOLO 3

LA STREGA

 

 

Adrian aveva sempre creduto nella superiorità del cervello rispetto ai muscoli, e fin da quando aveva imparato a leggere si era impegnato anima e corpo ad ampliare il più possibile le sue conoscenze nei più svariati ambiti del sapere umano.

Più volte da bambino gli era capitato di ottenere il rispetto di ragazzi più grandi e maneschi di lui usando unicamente l’arte della dialettica, e prima di arrivare a compiere dodici anni il suo intelletto e le sue conoscenze già surclassavano quelle dei suoi stessi insegnanti.

In molti lo reputavano un ragazzino strano, a tratti persino inquietante, capace di capire ogni cosa di una persona semplicemente guardandola, ma non se n’era mai curato, sicuro com’era che con le parole fosse possibile vincere qualunque sfida.

Poi però, un brutto giorno, aveva incontrato un avversario con il quale la sua arma si era rivelata del tutto inefficace, uscendo da quell’esperienza, oltre che con parecchi lividi, anche con una nuova consapevolezza: quella che esistono individui che concepiscono solo le ragioni del più forte, e con i quali l’uso della violenza non è solo legittimo, ma anche indispensabile.

Forte di questa rivelazione si era iscritto all’accademia militare imperiale sorprendendo il suo stesso padre, che l’aveva sempre considerato un topo di biblioteca senza nessun avvenire.

In fin dei conti, si era detto, apprendere l’arte di uccidere e guidare gli uomini in battaglia non era tanto diverso dal giocare a madara, nel quale per inciso era imbattuto fin dall’età di nove anni: bastava sopraffare l’avversario con il proprio talento e muovere con astuzia i pezzi a propria disposizione, senza timore di sacrificarli se necessario, per ottenere il miglior risultato possibile.

E anche qui aveva brillato.

Dopo un anno aveva i voti più alti di tutta la scuola. Dopo due aveva sconfitto in duello tutti i settantaquattro compagni più grandi in procinto di diplomarsi. Infine, a conclusione del terzo, aveva guidato gli studenti dell’accademia nella tradizionale battaglia simulata alla presenza dell’Imperatore Ademar, riuscendo a sconfiggere con sconvolgente facilità nientemeno che il comandante in seconda dell’esercito imperiale, il Generale Lepido.

A ragione di tutto ciò Sua Maestà non ci aveva pensato due volte a consacrare e riconoscere ufficialmente la sua piccola unità di guerrieri scelti, – quasi tutti suoi compagni di studi – trecento giovani soldati abilissimi e assolutamente fedeli, che per lui avrebbero marciato anche attraverso le sale dell’oltretomba.

Con la sua abilità avrebbe potuto richiedere tranquillamente l’ammissione alla scuola ufficiali, per la quale era stato ovviamente raccomandato; invece aveva preferito seguire suo padre fino all’estrema periferia dell’Impero, conscio del fatto che la vera esperienza andasse ricercata il più lontano possibile dai fasti e dalle comodità della capitale.

La sua pazienza era infine stata premiata, e ora aveva finalmente l’occasione di mettersi alla prova con una sfida che reputava degna della sua attenzione. E non se la sarebbe lasciata scappare.

Il ritorno di Ron al Castello con meno della metà dei soldati con cui era partito giocò a suo favore, e gli bastarono poche parole per ottenere da suo padre il permesso di accompagnare il Generale nella prossima spedizione.

E per rendere il tutto ancora più stimolante, Adrian si stava rendendo conto una volta di più come Daemon si stesse rivelando esattamente il tipo di persona che si aspettava.

«La notizia è confermata.» disse una mattina, dopo aver raggiunto Ron nella sala di guerra del Castello «Daemon ha preso Basterwick sei giorni fa. Le nostre linee di approvvigionamento sono tagliate.»

«Maledizione! Ora tutto il materiale e le armi che aspettavamo da Faria finiranno nelle mani di quei pezzenti!»

«Date le circostanze la nostra operazione non può essere posticipata ulteriormente. Dobbiamo attaccarli con quello che abbiamo. E sono pronto a scommettere che lui ne è consapevole.»

«Voi come suggerireste di procedere?»

«Dato che il nemico ha diviso le sue forze l’istinto ci suggerirebbe di fare altrettanto e sconfiggerli separatamente, ma sarebbe un errore. La cosa migliore da fare è riunire tutte le nostre forze e ingaggiare il grosso dell’esercito nemico qui, a Chateroi, dove stando ai rapporti si sono trincerati e si preparano allo scontro. Daemon ovviamente ne sarà informato e cercherà di prenderci sul fianco. È probabile che lo faccia nel bel mezzo della battaglia, quando il grosso delle nostre forze sarà già in combattimento. E noi gli lasceremo credere di poterlo fare, non ostacolandolo in alcun modo nella sua avanzata. Una volta arrivato però non troverà davanti a sé un campo sguarnito, ma la mia unità scelta e una parte della legione, schierati e pronti ad accoglierlo. Separati e impossibilitati a supportarsi a vicenda, i due tronconi dell’armata si sfalderanno come una tela usurata.»

Il Generale dovette riconoscere che nella sua semplicità si trattava di un buon piano.

«Credo di essermi fatto un’idea abbastanza precisa del nostro avversario.» proseguì Adrian. «Daemon è il tipo di comandante che pensa di essere sempre due passi avanti a tutti gli altri.»

«Cosa ve lo fa pensare?»

«Il cavallo bianco, i cannoni. Si è voluto mettere in mostra e fare sfoggio del suo genio militare fin dalla prima battaglia. Ne ho conosciuti tanti come lui in accademia, e per esperienza so che hanno tutti lo stesso difetto.»

«Ovvero?»

«Lo scarso autocontrollo. Le situazioni impreviste sul campo di battaglia rendono quelli come lui nervosi ed inclini a sbagliare. Quindi useremo il suo senso di superiorità contro di lui. Nel momento in cui vedrà la sua tattica sgretolarsi, così sarà anche per la sua sicurezza. A quel punto dovremo solo chiudere la questione.»

Il corno proveniente dal cortile annunciò che l’intera legione era in armi e pronta a radunarsi nella piazza d’armi.

«Su con la vita, Generale. Questa battaglia sarà tanto semplice quanto spettacolare.»

 

Fin dai tempi in cui Eirinn era ancora una nazione indipendente Basterwick era stata la seconda città dell’antico Granducato, sia per importanza che per dimensioni.

Ma era anche una città terribilmente insalubre, costruita a pochi passi da una vasta palude e circondata da campi che durante la stagione delle piogge si trasformavano in acquitrini, perfetto terreno di coltura per ogni sorta di germe e malattia.

Nei secoli si erano succedute molte epidemie, ma quella che stava colpendo ora gli abitanti rischiava di essere una delle peggiori degli ultimi secoli.

Mettere a disposizione degli abitanti ancora sani cibo e acqua provenienti da fuori aveva rallentato sensibilmente il diffondersi del morbo, ma per chi era già malato non c’era altro da fare se non alleviare i loro tormenti con magia e decotti e sperare per il meglio.

Noi ci eravamo stabiliti nella fattoria di Van Lobre, un villino fortificato a due passi dalle mura da cui potevamo controllare la Via Magna e bloccare tutti i carichi in arrivo da est.

Ma nel mentre che passavano i giorni la situazione non accennava a migliorare.

Sapevo di essermi preso un rischio andando a cacciarmi in una città nel bel mezzo di un’epidemia, e il fatto di non poter fare altro che aspettare mi rendeva nervoso ed irritabile.

Per mia fortuna ero sempre stato allergico alle malattie, e da quando mi ero reincarnato non avevo mai preso neanche un raffreddore.

Per far passare il tempo mi tenevo occupato lavorando e pianificando le prossime mosse.

Aver diviso in due gruppi i legionari arresisi dopo la battaglia tenendo separati i veterani dalle giovani reclute era stata una buona idea, ed ero certo che al momento di mettersi in marcia verso il Castello avrei potuto contare almeno su un paio di centinaia di soldati in più.

Di contro non era stato facile convincere il Decurione Vero a prestarmi i suoi servigi per mantenere l’ordine in città, e per vincerne la reticenza ero stato costretto a calcare un po’ la mano, dicendogli che non potevo impegnarmi a tenere i suoi compagni lontano dal contagio sacrificando provviste e spazi senza avere qualcosa in cambio.

In altri tempi non mi sarei preoccupato di tenermi buono un individuo così poco affidabile, ma dopotutto mi dispiaceva ancora per quanto era accaduto a Jorn, e almeno a lui volevo dare una possibilità. In qualche modo sapevo che non sarebbe stato altrettanto ingenuo, e che al momento giusto avrebbe saputo scegliere saggiamente tra il restare fedele alla memoria di un vecchio fossile e impegnarsi in una causa per cui valeva la pena lottare.

Purtroppo come spesso succede quando non si ha il controllo degli eventi, anche in questo caso l’imprevisto venne a metterci lo zampino.

Allora come nella mia vita precedente non avevo mai creduto all’esistenza di un disegno divino predeterminato che gli esseri viventi si limitano a mettere in pratica con le loro azioni. Di certo però non potevo assolutamente immaginare la portata che avrebbero avuto gli eventi di quel giorno, che mi avrebbero spinto a credere per la prima volta in vita mia all’esistenza del destino.

«Scalia sta male!?»

 

Ad uno schiavo non era certo concesso il lusso di potersi ammalare, quindi era naturale che un po’ tutti avessero imparato con il tempo a sopportare le malattie ignorandone la sofferenza.

O forse, più semplicemente, Scalia era troppo testarda ed orgogliosa per ammettere di sentirsi poco bene.

Accadde così che una mattina Drufo e Passe, non vedendola arrivare, fossero andati a cercarla nella sua camera, trovandola pallida, febbricitante e così debole da non riuscire nemmeno ad alzarsi dal letto.

Saggiamente, i due avevano taciuto agli altri la presenza dei segni inequivocabili del contagio per non provocare il panico, e con la scusa di tenerla isolata in via precauzionale l’avevano affidata subito alle cure di Sylvie al sanatorio.

Per una strana coincidenza, nella sua stessa stanzetta era ricoverata anche Isabela, che nel corso della settimana non aveva mostrato alcun segno di miglioramento, e le cui condizioni destavano più di qualche preoccupazione.

Erano entrambe così deboli da faticare a restare sveglie, ma ciò nonostante riuscivano comunque a trovare la forza per lanciarsi frecciatine velenose.

«Non ti azzardare a morire, maledetta tettona. Sarò solo io a prendermi la tua pellaccia.»

«Vale lo stesso per te, piccola sputafuoco.»

«Se riuscite a beccarvi in questo modo, forse non state poi così male dopotutto.»

Anche se Daemon si sforzava di mostrarsi distaccato Sylvie non poteva dimenticare lo sguardo che aveva un attimo prima di entrare nella stanza, né il suo evidente sollievo alla vista della sorella che malgrado tutto non sembrava essere stata colpita in maniera troppo severa dalla malattia.

«Non capisco.» disse Drufo «Credevo che questa malattia colpisse solo gli umani.»

«Una volta ho sentito dire che i germi che causano le malattie possono diventare più forti col passare del tempo.» disse Daemon. «Forse adesso questo germe può colpire anche i mezzosangue più simili agli umani.»

«È un bel problema.» disse Passe. «Ci sono tanti semiumani come lei nel nostro esercito. Se la cosa si viene a sapere si scatenerà il panico.»

«Forse dovremmo andarcene finché possiamo.»

«No aspettate. Se lo fate rischierete di portare il contagio altrove.»

«Il Decurione ha ragione, Drufo. Se adesso sembra brutto, non avete idea di che cosa voglia dire avere a che fare con un'intera nazione devastata da un'epidemia.»

«Ma non possiamo neanche restare qui ad aspettare di ammalarci tutti.»

«Per non parlare del fatto che a quest’ora i nostri nemici saranno ormai pronti a muovere.»

Avendo origliato il discorso, una vecchia signora che accudiva il nipotino nella stanza accanto scostò leggermente la tenda divisoria rivolgendosi a Daemon.

«Forse c’è qualcuno che può aiutarci.» disse con sguardo cupo e una voce quasi spaventata. «La Strega delle Rocce.»

Nel sentire quel nome Daemon sussultò.

«La Strega delle Rocce? Davvero vive qui?»

«Signora, non è certo questo il momento di tirare fuori favole per bambini.» sbottò Vero con stizza

«Di che state parlando?» domandò Drufo. «Chi sarebbe questa Strega delle Rocce?»

«Una lamia.» rispose Daemon. «Avevo sentito dire che vivesse qui a West Eirinn, ma credevo fossero solo voci. Dicono che sia una maga fuori dal comune.»

«Il che è ovviamente impossibile, dal momento che non si è mai sentito di un mostro venuto alla luce con il Segno.» osservò il Decurione

«E lei signora, saprebbe dirmi dove potremmo trovare la Strega delle Rocce?»

«Nella palude.»

«Allora è lì che andremo.»

«Daemon, ma parli sul serio!?» disse Passe. «Dicono che quel posto brulichi di bestie pericolose.»

«Appunto. È un ottimo nascondiglio.»

«Però mi spiace doverlo dire, ma il soldatino qui presente non ha tutti i torti.» disse Drufo. «E poi, se questa strega è davvero così potente, è il caso di andare a romperle le scatole nella sua tana?»

«Al punto in cui siamo accetterei anche l’aiuto di un demone. La Strega delle Rocce forse è davvero l’unica che possa tirarci fuori da questa situazione. Se è nella palude che si trova è lì che andrò.»

Al che i due mostri si guardarono tra di loro, annuendo.

«In questo caso verremo anche noi due con te. Non possiamo certo lasciarti avventurare in quel postaccio tutto da solo.»

«Grazie Passe. Non rifiuterò di certo il vostro aiuto.»

«Non c’è bisogno di ringraziare. Scalia sarà anche tua sorella, ma è anche nostra amica.»

«E lo stesso vale per i tutti gli altri nostri compagni. E poi la gente di questa città non sembra così male. Mi dispiacerebbe che continuasse a soffrire per questa maledetta malattia.»

«Verrò anch’io.» intervenne Vero. «Conosco questa regione molto meglio di voi.»

«Pensavo non credessi all’esistenza della Strega. Perché perdere il tuo tempo venendo a caccia di fantasmi?»

«Ormai siete voi a comandare la città. Se vi succedesse qualcosa ne pagheremmo tutti le conseguenze. E visto che non sembrate intenzionati a darmi ascolto non ho altra scelta che seguirvi. Così almeno se morirete sarà mia cura fare rapporto sull’accaduto.»

«Fantastico, ci mancava anche il menagramo.»

«Aspettate.» irruppe Sylvie. «Voglio venire anch’io con voi.»

Al che tutti si girarono verso di lei, fissandola sbigottiti.

«Lady Valera, non è il caso che vi esponiate ad un simile pericolo.»

«Il soldatino ha ragione, non stiamo andando a prendere un tè.»

«Proprio per questo avete bisogno di un mago che vi supporti.»

«Non sappiamo che cosa ci aspetta in quel pantano.» disse Drufo. «E francamente non possiamo preoccuparci anche della vostra incolumità.»

«Non ce ne sarà bisogno, so proteggermi benissimo da me.»

«Mia signora, aspettate… non potete mettervi in pericolo in questo modo…»

«Non sprecare il fiato, Isabela. Ormai dovresti conoscermi. E comunque nello stato in cui sei non potresti mai riuscire a fermarmi.»

«Pensavo voleste occuparvi dei malati.» disse Daemon.

«Ormai io sono arrivata al mio limite. Non c’è più niente che possa fare per loro. E se non troviamo al più presto una cura a questa malattia, tutto ciò che ho fatto per tenere in vita questi poveretti sarà stato inutile.»

Visto e considerato che era inutile insistere Daemon si arrese.

«D’accordo, allora è deciso. Preparatevi, partiamo subito.»

 

La palude di Basterwick, anche nota come Valle dei Serpenti, era la cosa più simile ai cancelli dell’aldilà che si potesse immaginare.

Pozze d’acqua stagnante a perdita d’occhio e distese interminabili di fango, canne palustri e salici piangenti che con i loro rami protesi sull’acqua disegnavano figure spettrali, appena distinguibili nella fitta nebbia che si alzava incessantemente dal suolo.

«La gente evitava questo posto già da prima che iniziassero a girare le voci sulla Strega. Quando ho detto a mio padre di essere venuto qui a giocare da bambino mi ha riempito di sculacciate.»

«Non lo biasimo, questo posto mi fa arruffare la pelliccia per quanto mette i brividi.»

«Il vecchio Passe che trema come un cucciolo bagnato. Sei patetico.»

«Vuoi litigare, razza di caprone?»

«Piantatela voi due. Siamo qui per un motivo.»

«Messer Daemon, c’è qualcosa che non va. Percepisco qualcosa di ostile in questo posto. Come una presenza che ci ordina di non andare avanti oltre.»

«È un buon segno. Significa che qui c’è qualcosa, o qualcuno, che non vuole farsi trovare.»

«Allora forza, andiamo a stanare questa maledetta strega e torniamocene a casa. Questo odoraccio mi sta uccidendo il naso.»

Passe fece per muoversi, ma Daemon subito lo fermò.

«Aspetta.»

Il giovane spinse quindi nella pozza di fango davanti a loro un grosso tronco caduto, che nonostante le dimensioni ed il terreno apparentemente solido scomparve sotto la superficie nel giro di pochi secondi.

«Ma che diavolo…» disse Drufo. «Cosa sono, sabbie mobili?»

«La combinazione tra acqua stagnante e terreno melmoso è letale. Un passo falso, e in questa palude ci passiamo tutta l’eternità.»

«Ricevuto, attenzione a dove si mettono i piedi.»

Si misero quindi in marcia, stando bene attenti a prediligere solo terreni dove si notassero pietre o sassi, e cercando nel contempo di mantenere sempre la stessa direzione.

A rigor di logica, si dissero, se la Strega viveva davvero lì era probabile che si nascondesse nel punto più remoto e distante della palude, perciò la cosa migliore da fare era cercare di raggiungerne il centro, e nel mentre cercare qualche pista o traccia.

Ma dopo ore passate a camminare in mezzo alla nebbia, senza alcun punto di riferimento, non trovarono niente che potesse aiutarli; tutto attorno a loro non c’era altro che un silenzio spettrale, e non vi era alcuna traccia nemmeno di quelle bestie feroci di cui si vociferava tra la gente del luogo.

Drufo provò a cercare qualche indizio arrampicandosi sugli alberi, ma la foschia era così fitta che a stento si vedeva a venti passi di distanza, e anche a vederlo dall’alto il terreno sembrava sempre tutto uguale.

«È una mia impressione o stiamo girando in tondo?»

«Non credo.» rispose Vero «Fino adesso abbiamo sempre cercato di andare dritti. D’altronde però è anche vero che la palude non dovrebbe essere così estesa.»

«Dannazione a questo posto angosciante!» sbottò Passe. «Più ci resto e più mi pento di essere venuto!»

Sylvie era la più inquieta di tutti, anche se cercava di nasconderlo. In quanto unica dotata del Segno poteva avvertire chiaramente uno strano squilibrio nell’energia tutto intorno a loro, così sottile e ben nascosto che un mago normale non sarebbe mai stato in grado di notarlo.

«Qualcuno sta cercando di farci perdere. Oppure siamo prigionieri all’interno di una qualche illusione.»

«L’ho sempre detto, la magia è una gran rottura di scatole!»

«Non c’è niente che puoi fare?» domandò Daemon

«Ora ci provo.»

Il vescovo strinse entrambe le mani attorno al suo bastone, e sia la staffa che il suo corpo vennero avvolti per alcuni secondi da una tenue luce bianca.

«Questa nebbia non è naturale. È prodotta con la magia, e tiene in piedi una specie di barriera.»

«Puoi neutralizzarla?»

«Credo di sì. Devo solo localizzare il punto d’origine.»

«Sarà meglio che lavori in fretta.» disse in quella Drufo, notando per primo delle ombre muoversi tra gli alberi. «Perché abbiamo compagnia.»

A quel punto tutti sguainarono le armi, mettendosi schiena contro schiena e formando un quadrato difensivo attorno a Sylvie.

Seguirono interminabili secondi di silenzio assoluto, quindi dalla nebbia iniziarono ad uscire demonietti alati, goblin, lupi mannari, golem di fango e altre bestie feroci di ogni genere.

«Dì ragazzo, sei ancora convinto che la Strega non esista?» disse Passe all’indirizzo di Vero

«Mi serve un po’ di tempo per trovare la chiave di volta della barriera.»

«Ricevuto. Avete sentito? Dobbiamo tenere queste bestie lontane da Lady Valera. Restiamo vicini e supportiamoci l’un l’altro. Drufo, tu resta vicino a lei e coprici con il tuo arco.»

«Agli ordini.»

Un demonietto alato attaccò per primo venendo subito tagliato in due dalla spada di Daemon, e a quel punto si scatenò una furiosa battaglia.

Le bestie avversarie in verità non erano molto forti, e molte di loro andavano giù con pochi colpi opponendo una resistenza minima. Il problema era che per ognuno di loro che veniva ucciso altri due sbucavano fuori dalla nebbia prendendone il posto, cosicché in pochi minuti i cinque compagni si ritrovarono in gravissima inferiorità numerica.

«Così non va bene, tra poco avrò finito le frecce! Che facciamo, Daemon?»

«L’unica cosa che possiamo fare! Resistere!»

«Giuro che se ne usciamo vivi passerò un giorno intero a scolarmi tutto il rum che riesco a trovare! E ovviamente pagherai tu ragazzo!»

«Ne prendo nota, Passe! Ora fai lavorare quell’ascia!»

Nel mentre Sylvie non aveva mai smesso di concentrarsi.

«L’ho trovata! Resistete un altro po’!»

Un cerchio magico comparve sotto i suoi piedi, liberando tutto attorno una potente luce bianca.

«Dissolvi le tenebre per aprire la strada verso il cielo. Celestial Gate!»

Un raggio abbagliante si sprigionò dalla punta del suo scettro, disintegrando in un colpo solo tutte le bestie demoniache e diffondendosi in ogni direzione con la forza di un’esplosione.

Daemon e gli altri dovettero chiudere gli occhi per non rimanere accecati, e quando li riaprirono la nebbia si era completamente dissolta, permettendo anche al sole di fare capolino tra le fronde degli alberi.

A prima vista la palude sembrava ancora la stessa di prima, con la sola differenza che ora era possibile vedere ogni cosa anche a decine di metri di distanza; qua e là si udiva persino il cinguettio degli uccelli e il verso degli animali selvatici.

«Non credo ai miei occhi.» disse Passe «Mi devo ricredere ragazzina. Non scherzavi quando dicevi di saper badare a te stessa.»

«Grazie, Lady Valera. Se non foste venuta con noi sarebbe stata la fine.»

«Felice di essere stata d’aiuto.»

Ora che la barriera illusoria era stata distrutta Sylvie non ebbe difficoltà neanche a individuare con precisione dove si nascondesse il suo creatore. Daemon e gli altri quindi non dovettero fare altro che seguire le sue indicazioni, raggiungendo nel giro di poche ore l’ingresso di una grande caverna.

«Ci siamo. Lo squilibrio nella magia che aveva generato quella barriera proveniva proprio da qui.»

«Sembra proprio il tipico posto dove si nasconderebbe una strega.»

«Sono d’accordo. E immagino sia superfluo dire che l’idea di entrarci non mi attira per niente.»

«Tranquillo, non ci entrerai. Andremo solo io e Lady Valera. Tu, Passe e Vero resterete qui a sorvegliare l’entrata, nel caso ci fosse ancora qualcuna di quelle bestie demoniache qui nei paraggi.»

Dopotutto portarsi dietro una chierica esperta era la soluzione migliore se si aveva a che fare con una strega, e i due mostri per quanto tenessero al loro amico furono più che felici di non dover entrare in quell’antro decisamente minaccioso.

Quanto a Vero, provò a chiedere di poter entrare anche lui per poter proteggere Sylvie, venendo però infine convinto da Daemon a restare indietro ed assistere Drufo e Passe nel fare la guardia all’ingresso.

«Questi ci aiuteranno a non perdere la strada.» disse Sylvie facendo comparire un paio di fuochi magici, quindi entrambi si avventurarono all’interno.

Se da fuori la caverna poteva sembrare piccola, una volta dentro i due ragazzi capirono subito che in realtà era gigantesca, e dovettero fare solo pochi passi prima che la luce proveniente dall’ingresso scomparisse lasciandoli immersi in un’oscurità quasi totale.

«Camminiamo rasenti al bordo, tenendo sempre una mano appoggiata alla parete. In questo modo eviteremo di perderci.»

«D’accordo.»

Restando due passi indietro rispetto a Daemon, Sylvie cercava di mantenere sempre il contatto visivo, ma la sua ingombrante veste da vescovo la intralciava nei movimenti ancor più di quanto avesse fatto durante il tragitto attraverso la palude.

«Credete ci sia un’altra di quelle barriere?» chiese Daemon vedendo che per quanto camminassero non arrivavano da nessuna parte.

«Non credo. È vero però che non avevo mai percepito un potere così grande come quello che percepisco qui dentro. Questa Strega deve essere davvero un essere fuori dal comune.»

In quel momento Sylvie inciampò su di una roccia scivolosa, e quando si rimise in piedi Daemon sembrava scomparso.

«Messer Daemon? Dove siete? Non vi vedo più.»

«Sono proprio qui, davanti a te.» sentì dire nel buio. «La mia luce magica si è spenta.»

«Restate dove siete, ora vi raggiungo.»

La ragazza si rimise in cammino, seguendo sempre la voce di Daemon che a distanza continuava a parlarle, dicendole di aver trovato un’uscita dalla caverna che lo aveva condotto in una specie di radura erbosa circondata da alte rupi.

«Messer Daemon, vedo una luce.»

«Ci sei quasi. Sono qui che ti aspetto. Continua a camminare.»

Nel momento in cui guadagnò l’uscita però, invece di Daemon Sylvie si ritrovò davanti le facce sbigottite di Drufo, Vero e Passe.

«Che cosa ci fate voi qui?»

«Come sarebbe a dire cosa ci facciamo qui?» disse il coboldo «Siete stati voi a dirci di tenere d’occhio l’ingresso.»

«L’ingresso!? Io stavo camminando verso l’uscita dall’altro lato, e sono sicura di essere sempre andata dritta. Abbiamo camminato per quasi un’ora.»

«Un’ora!? Lady Valera, voi siete entrata là dentro da neanche cinque minuti.»

«E comunque.» disse Drufo «Dov’è finito Daemon!?»

 

Avevo capito che qualcosa non andava ben prima di accorgermi che la voce di Sylvie che sentivo alle mie spalle fosse solo un’illusione, e che in realtà per tutto quel tempo avevo probabilmente parlato da solo.

Alla fine ero andato a cacciarmi per l’ennesima volta in una situazione complicata da cui adesso non sapevo come uscire.

In realtà non ero preoccupato, né temevo per la mia vita. Ormai ero sicuro che l’intento della Strega non fosse quello di uccidermi, cosa che avrebbe potuto fare in qualsiasi momento se solo avesse voluto.

Decisi così di prestarmi al suo gioco, aggrappandomi con le unghie e con i denti alla mia volontà e portando tutti i miei sensi al massimo; a questo punto, immerso in quell’oscurità che il globo magico non riusciva a rischiarare la coscienza che avevo di me e del mio essere era l’unica cosa di cui potevo essere sicuro, e volevo tenermela stretta.

Senza mai staccare la mano dalla parete umida continuai ad avanzare, fino a che non giunsi, con un certo stupore, dinnanzi ad una robusta porta chiusa di legno e ferro.

«D’accordo, Strega dei miei stivali. Vediamo cos’hai in serbo per me.»

Aperta la porta mi ritrovai in una specie di aula di scuola, dalle cui finestre entrava una luce irreale.

Un bambino sedeva da solo nella prima fila di banchi dandomi la schiena, immerso nello studio; indossava un’uniforme da cadetto e un mantello nero, e appuntato al tricorno aveva il fiocco bianco del Re Luigi.

È l’uniforme dell’Accademia Militare di Brienne.

Visto che non potevo essere tornato tutto d'un tratto nel mio mondo conclusi di stare assistendo alla materializzazione di un evento estrapolato dalla mia memoria; perciò quel ragazzino dovevo essere io al tempo in cui studiavo all’accademia.

All’epoca ero un ragazzino decisamente problematico, ancor meno incline al compromesso e all’autocontrollo di quanto non sarei stato da grande, e capitava spesso che venissi messo in punizione per aver risposto sfacciatamente ai maestri o aver cambiato i connotati a qualcuno.

Ma non potevo farci niente, dovevo essere così.

Ero solo il figlio di un notaio proveniente da una regione che fino all’anno prima della mia nascita non era nemmeno parte del Regno di Francia, lontano da casa e gettato in una scuola dove il più umile dei miei compagni era il figlio di un marchese.

Era già una fortuna se mi chiamavano solo Piccolo Còrso, ma il più delle volte gli appellativi con cui venivo etichettato erano ben peggiori.

Così mi ero imposto di essere forte, e di non permettere mai a nessuno di reputarsi superiore a me per qualcosa che non fosse il talento individuale, nel quale avevo deciso di diventare il migliore di tutti.

Alla fine del primo anno padroneggiavo le competenze e le conoscenze degli alunni dell’ultimo, e soprattutto in matematica e in fisica potevo pormi tranquillamente sullo stesso piano dei miei professori.

E ovviamente la cosa non piaceva né a detti professori né ai nobili genitori degli alunni che guardavo dall’alto in basso; così si erano messi d’accordo per farmi assegnare arbitrariamente voti bassi solo per non dover ammettere che il figlio di un notaio stava mettendo i piedi in testa alla migliore aristocrazia francese.

Speravano di spezzarmi, ma mi avevano solo reso più determinato; e quella determinazione nata in collegio mi avrebbe accompagnato per tutta la vita, spronandomi a fare sempre più di quello che i miei avversari si sarebbero aspettati.

La porta alle mie spalle si aprì nuovamente, e un gruppetto di studenti più grandi entrò nell’aula accerchiando il vecchio me; si comportavano come se non potessero vedermi, ma visto che si trattava di un’illusione la cosa non mi sorprendeva.

«Ehi, Còrso.» disse il loro capo. «Dì un po’, chi ti credi di essere? Ti avevo avvertito di non prendere un voto troppo alto all’ultimo compito. Ora per colpa tua mio padre mi obbligherà a passare tutta l’estate sui libri.»

«Ti sarebbe bastato studiare un po’ di più.»

All’improvviso, ricordai.

Quello era il giorno in cui mi ero preso una delle più grandi soddisfazioni della mia vita. Il giorno in cui all’accademia era venuto in visita il Ministro delle Finanze Necker per assistere all’ultima verifica di matematica prima della fine della scuola.

E ovviamente davanti al Ministro, uomo tutto d’un pezzo che aveva in odio i privilegi degli aristocratici tanto quanto me, i professori non avevano potuto fare i loro soliti magheggi, con il risultato che per la prima volta avevo preso un voto degno dei miei sforzi.

«Tu hai un grande avvenire ragazzo.» mi aveva detto stringendomi la mano. «Mi ricorderò di te.»

Peccato che sua figlia Anne-Louise avesse tutt’altra opinione di me, e ci fossimo trovati antipatici fin dal nostro primo incontro proprio quel giorno.

Quanto a quel gruppetto di bulli, erano i lacchè di quella primadonna di Gudin, il figlio del marchese La Sablonnière.

Vedendolo in quel momento, così spaccone e arrogante, quasi faticavo a riconoscere lo stesso ufficiale che un giorno si sarebbe distinto per numerosi atti di valore nella mia Grande Armée.

Lo avevo stretto tra le mie braccia nei suoi ultimi istanti di vita dopo che una palla di cannone gli aveva portato via la gamba.

La nostra amicizia era cominciata proprio quella sera, dopo esserci riempiti di botte a tal punto da dover passare insieme una settimana in infermeria; da una parte lui era stato costretto a riconoscere le mie doti, dall’altra io non potevo non ammirare il suo carisma e le sue doti di comando, che per quanto inferiori alle mie lo rendevano capace di ispirare i suoi subalterni con una forza che andava oltre il suo status di aristocratico.

Una strana folata di vento si portò via come sabbia quelle figure mentre la stanza mi si trasformava letteralmente attorno, assumendo le fattezze del mio studio a Fontainebleau.

Stavolta non ebbi difficoltà a riconoscere i due individui impegnati in un’accesa discussione attorno alla scrivania; uno ero io ai tempi del Consolato, l’altro mio fratello Luciano.

E purtroppo, a differenza del ricordo precedente, questo che ora mi apprestavo a rivivere era inciso a fuoco nella mia anima.

Era il giorno in cui gli avevo rivelato di aver dato mandato al capo della polizia Fouché e al ministro Talleyrand di iniziare le procedure per indire il plebiscito che avrebbe sancito il mio passaggio dal ruolo di Console a quello di Imperatore.

Per poco in quell’occasione tra me e mio fratello finì quasi a schiaffi.

Luciano era prudente e brillante, ma non capiva la necessità che avevo di potermi porre a livello paritario con gli altri Re e Imperatori d’Europa.

Ora sapevo che era stato un errore non dargli ascolto: uno dei tanti rimpianti della mia vita.

Non ritenevo sbagliata la scelta di farmi Imperatore, ma forse aveva ragione lui quando diceva che era ancora prematuro, e che avrei dovuto gestire la cosa con più accortezza.

Dal mio punto di vista era il giusto compenso per i miei sforzi e il modo migliore per portare avanti il mio scopo di dare un nuovo ordine al mondo. Ma il mondo aveva visto solo un provincialotto ambizioso, e i suoi governanti una minaccia da estirpare con ogni mezzo.

La gloria di Austerlitz, la sottomissione della Prussia e lo Zar Alessandro che mi baciava il sedere erano eventi ancora di là da venire, ma in realtà forse quello era stato il momento esatto in cui tutto aveva iniziato ad andare a rotoli.

«Sei patetico.» dissi al vecchio me mentre questi osservava in silenzio Luciano che mestamente lasciava la stanza.

Dopo quel giorno il mio rapporto con lui non era più stato lo stesso e avevo cominciato a dare retta alle persone sbagliate, allontanandomi progressivamente da coloro che invece si preoccupavano sinceramente per me e volevano davvero aiutarmi nel tramutare in realtà la mia grande visione.

Una nuova folata di vento si portò via anche quella visione sostituendola con un’altra, e per un attimo in mezzo a tutto quel fumo, alle grida e alle fiamme che mi vidi comparire attorno ebbi come l’impressione di essere finito nel punto più profondo e caldo dell’inferno.

Affacciato dalla finestra del palazzo imperiale, il vecchio me osservava con gli occhi spalancati e l’espressione incredula la città di Mosca tramutata in un immenso oceano di fuoco.

Piuttosto che lasciare che la conquistassi lo zar Alessandro aveva preferito farne il più grande rogo a cielo aperto che il mondo avesse mai visto; e quello non era che l’inizio del disastro che stava per piombarmi addosso.

«Guarda bene, povero idiota. Ecco il risultato della tua megalomania.»

Se in quel preciso momento mi ero reso conto che c’era gente disposta a sacrificare qualsiasi cosa pur di riuscire a fermarmi, la disastrosa ritirata attraverso la steppa che si sarebbe portata via la quasi totalità del mio esercito mi aveva fatto capire nel modo peggiore che c’erano traguardi che forse nemmeno io ero in grado di raggiungere.

Scacciai subito quei pensieri indegni di me.

Io posso fare qualunque cosa!

Infatti, passato il momento dello sconforto, avevo compreso che se avevo sbagliato non era certo stato nei propositi che avevano guidato le mie azioni, ma piuttosto nei metodi con cui li avevo perseguiti.

La mia aspirazione di riordinare il mondo e mettere fine ad ogni guerra in Europa e nel mondo era la più nobile e giusta di tutte. Ma reso cieco e superbo dalle troppe vittorie mi ero illuso di poterla portare a compimento con la forza e l’inarrestabilità di un uragano. La verità era che io ero l’artefice del mio stesso fallimento.

Dando troppe cose per scontate e convincendomi di essere invincibile mi ero scavato la fossa con le mie mani; e quando avevo capito che nessun cambiamento, specialmente il più epocale, può essere fatto dal giorno alla notte, ormai era tardi per tentare di rimediare.

E quella lezione da sola era più importante di tutti i ricordi della mia precedente vita messi assieme, perché su di essa ero determinato a costruire la mia nuova visione.

Che si trattasse di sradicare monarchie decadenti o fermare la venuta di un Re dei Demoni, il fine ultimo restava sempre lo stesso: creare un mondo migliore e pacifico, in cui non ci fossero né guerre né sofferenza.

Su una cosa Robespierre aveva ragione. Un nuovo mondo non può essere generato che su dei mucchi di cadaveri. E se è destino che sia io ad innalzare quel cumulo e dannare la mia coscienza, ebbene così sia! Qualunque sia il prezzo sono pronto a pagarlo!

Il mio sguardo si volse in direzione di una delle porte della stanza, da cui sembrava venire una voce che mi chiamava.

Senza più esitazioni la aprii e la attraversai, ritrovandomi come per incanto a passeggiare su di una passerella in pietra sospesa a centinaia di metri d’altezza che collegava tra di loro due torri alte e strette edificate sulla cima di un costone di roccia a strapiombo sul mare.

Non riconoscevo né gli edifici né il panorama attorno a me, ma dal momento che vedevo oceano ovunque girassi gli occhi conclusi di essere finito sicuramente su di una qualche isola disabitata nel cuore del Mare del Nord.

Prima che le fortissime raffiche provenienti dall’oceano riuscissero a buttarmi di sotto avanzai fino ad entrare nella torre che avevo di fronte, arrivando in quello che sembrava a tutti gli effetti il laboratorio di un alchimista.

Una lamia dalle scaglie nere sedeva ad uno scranno dall’altro lato della stanza fumando una strana pipa, simile a quelle che nella mia vecchia vita avevo sentito dire essere molto popolari in estremo oriente.

«Benvenuto.» disse scostando dal viso una ciocca dei suoi lunghissimi capelli color vino. «Spero che la mia povera dimora non risulti troppo umile per una persona del tuo calibro.»

«La Strega delle Rocce, presumo.»

«Quel soprannome non mi piace. Lo trovo di pessimo gusto. Chiamami semplicemente Kali

Come una vera lamia sembrava quasi che stesse cercando di sedurmi, tenendo bene in mostra il suo balcone generoso e le sue curve provocanti, a malapena coperte dalla scarna veste semitrasparente che indossava.

«Ad ogni modo, sei un tipo davvero interessante. Non ho mai visto nessuno passare attraverso i ricordi più spiacevoli della propria vita ed uscirne con quello sguardo sprezzante e sicuro di sé.»

«Esattamente per quale motivo hai voluto farmi vedere quelle cose?»

«Considerala una specie di test. Chi non ha un carattere abbastanza forte da sfidare i propri demoni non è degno della mia attenzione.»

«Ho fatto pace con quei demoni tempo fa. Ma se hai guardato nei miei ricordi saprai perché sono qui. Ho bisogno del tuo aiuto per debellare l’epidemia di Basterwick

«E per quale motivo vorresti farlo? Perché vuoi salvare gli abitanti della città? Perché hai a cuore la sorte di quella ragazza? O forse semplicemente perché hai bisogno di loro per realizzare i tuoi scopi?»

«Non sono un santo. E in vita mia non ho mai fatto niente che non prevedesse un tornaconto personale. D’altro canto se voglio salvare questo mondo dal Re dei Demoni non posso concedermi il lusso di agire in maniera disinteressata.»

«Credi sul serio di avere le capacità per poterci riuscire?»

«Io posso fare tutto, se dispongo dei mezzi necessari per poterci riuscire. Tu e le tue conoscenze ora siete uno di questi mezzi. Niente di più, niente di meno.»

«Di solito, quando si chiede un favore si cerca di essere più diplomatici.»

«Non mi sembri il tipo che apprezza l’ipocrisia. D’altronde non mi avresti dato una possibilità per arrivare fin qui se non avessi voluto aiutarmi, o mi sbaglio?»

La labbra rosso sangue della lamia si piegarono in un malizioso sorriso, e la sua lunga lingua biforcuta sibilò per un attimo fuori dalla bocca.

«Quello che cerchi è proprio lì.» disse indicando un’ampolla appoggiata su un tavolino. «Un estratto di erbe e polvere minerale. Ne basterà una sola goccia diluita in acqua calda, e tutti i malati si rimetteranno completamente.»

Raccolsi la boccetta senza porre ulteriori indugi.

«C’è una cosa che non capisco. Visto che hai guardato nei miei ricordi dovresti aver capito chi sono e da dove vengo. Sarai anche una strega che si dice sia in vita da più di mille anni, eppure non mi sembri per niente sorpresa.»

«Forse sei meno speciale di quanto pensi.»

«Vuoi dire che ce ne sono altri come me?»

«Questo mondo si trova in un crocevia molto importante dello spazio e del tempo, pertanto è abbastanza comune che anime provenienti da altri mondi si reincarnino qui dopo la morte. Tuttavia tu sei l’unico che io conosca che abbia conservato i ricordi della propria vita passata. Quindi sì, posso dire di essere un po’ sorpresa.»

Ero quasi sicuro che quella specie di maliarda incantatrice sapesse qualcosa sul conto di Faucheur o su chi egli fosse realmente, ma decisi di non sprecare fiato per tentare di convincerla a parlarmene.

«A presto, Imperatore.»

«A presto, Strega. Qualcosa mi dice che ci rincontreremo.»

«Chissà. Magari accadrà prima di quanto immagini.»

Appena varcata la porta della torre dall’altro dal ponte mi ritrovai nuovamente nella caverna, a pochi metri dall’uscita, con il vecchio Passe e gli altri che vedendomi avanzare verso di loro restarono a bocca aperta.

«Sia lode agli dei, per fortuna sei sano e salvo. Che cos’è successo?»

«Proverò a spiegarvelo, ma non so se mi crederete.»

«Hai incontrato la Strega?» tagliò corto Drufo

«Ancora meglio. Ho la cura per il morbo. Forza, torniamo indietro. Abbiamo una città da salvare, e una rivoluzione da vincere.»

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!

Dopo due settimane come di consueto rieccomi qui con il terzo capitolo del Volume 2 di “Napoleon of Another World!”

Mi scuso per la notevole, e probabilmente spropositata lunghezza di questo capitolo, ma ho preferito evitare di dividerlo in due parti trattandosi di un unico evento che tra l’altro è destinato ad avere un’importanza considerevole nel futuro degli eventi, anche se non nell’immediato.

Ringrazio come sempre tutti quelli che leggono e recensiscono la storia.

A presto!^_^

Carlos Olivera

   
 
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