“Non
esiste l’immortalità della carne”
Solo
quella del ricordo che lasciamo di noi”
CAPITOLO 3
LA STREGA
Adrian aveva sempre creduto nella
superiorità del cervello rispetto ai muscoli, e fin da quando aveva imparato a
leggere si era impegnato anima e corpo ad ampliare il più possibile le sue
conoscenze nei più svariati ambiti del sapere umano.
Più
volte da bambino gli era capitato di ottenere il rispetto di ragazzi più grandi
e maneschi di lui usando unicamente l’arte della dialettica, e prima di
arrivare a compiere dodici anni il suo intelletto e le sue conoscenze già
surclassavano quelle dei suoi stessi insegnanti.
In
molti lo reputavano un ragazzino strano, a tratti persino inquietante, capace
di capire ogni cosa di una persona semplicemente guardandola, ma non se n’era
mai curato, sicuro com’era che con le parole fosse possibile vincere qualunque
sfida.
Poi
però, un brutto giorno, aveva incontrato un avversario con il quale la sua arma
si era rivelata del tutto inefficace, uscendo da quell’esperienza, oltre che
con parecchi lividi, anche con una nuova consapevolezza: quella che esistono
individui che concepiscono solo le ragioni del più forte, e con i quali l’uso
della violenza non è solo legittimo, ma anche indispensabile.
Forte
di questa rivelazione si era iscritto all’accademia militare imperiale
sorprendendo il suo stesso padre, che l’aveva sempre considerato un topo di
biblioteca senza nessun avvenire.
In
fin dei conti, si era detto, apprendere l’arte di uccidere e guidare gli uomini
in battaglia non era tanto diverso dal giocare a madara,
nel quale per inciso era imbattuto fin dall’età di nove anni: bastava
sopraffare l’avversario con il proprio talento e muovere con astuzia i pezzi a
propria disposizione, senza timore di sacrificarli se necessario, per ottenere
il miglior risultato possibile.
E
anche qui aveva brillato.
Dopo
un anno aveva i voti più alti di tutta la scuola. Dopo due aveva sconfitto in
duello tutti i settantaquattro compagni più grandi in procinto di diplomarsi.
Infine, a conclusione del terzo, aveva guidato gli studenti dell’accademia
nella tradizionale battaglia simulata alla presenza dell’Imperatore Ademar, riuscendo a sconfiggere con sconvolgente facilità
nientemeno che il comandante in seconda dell’esercito imperiale, il Generale
Lepido.
A
ragione di tutto ciò Sua Maestà non ci aveva pensato due volte a consacrare e
riconoscere ufficialmente la sua piccola unità di guerrieri scelti, – quasi
tutti suoi compagni di studi – trecento giovani soldati abilissimi e
assolutamente fedeli, che per lui avrebbero marciato anche attraverso le sale
dell’oltretomba.
Con
la sua abilità avrebbe potuto richiedere tranquillamente l’ammissione alla
scuola ufficiali, per la quale era stato ovviamente raccomandato; invece aveva
preferito seguire suo padre fino all’estrema periferia dell’Impero, conscio del
fatto che la vera esperienza andasse ricercata il più lontano possibile dai
fasti e dalle comodità della capitale.
La
sua pazienza era infine stata premiata, e ora aveva finalmente l’occasione di
mettersi alla prova con una sfida che reputava degna della sua attenzione. E
non se la sarebbe lasciata scappare.
Il
ritorno di Ron al Castello con meno della metà dei
soldati con cui era partito giocò a suo favore, e gli bastarono poche parole
per ottenere da suo padre il permesso di accompagnare il Generale nella
prossima spedizione.
E
per rendere il tutto ancora più stimolante, Adrian si stava rendendo conto una
volta di più come Daemon si stesse rivelando esattamente il tipo di persona che
si aspettava.
«La
notizia è confermata.» disse una mattina, dopo aver raggiunto Ron nella sala di guerra del Castello «Daemon ha preso Basterwick sei giorni fa. Le nostre linee di
approvvigionamento sono tagliate.»
«Maledizione!
Ora tutto il materiale e le armi che aspettavamo da Faria
finiranno nelle mani di quei pezzenti!»
«Date
le circostanze la nostra operazione non può essere posticipata ulteriormente.
Dobbiamo attaccarli con quello che abbiamo. E sono pronto a scommettere che lui
ne è consapevole.»
«Voi
come suggerireste di procedere?»
«Dato
che il nemico ha diviso le sue forze l’istinto ci suggerirebbe di fare
altrettanto e sconfiggerli separatamente, ma sarebbe un errore. La cosa
migliore da fare è riunire tutte le nostre forze e ingaggiare il grosso
dell’esercito nemico qui, a Chateroi, dove stando ai
rapporti si sono trincerati e si preparano allo scontro. Daemon ovviamente ne
sarà informato e cercherà di prenderci sul fianco. È probabile che lo faccia
nel bel mezzo della battaglia, quando il grosso delle nostre forze sarà già in
combattimento. E noi gli lasceremo credere di poterlo fare, non ostacolandolo
in alcun modo nella sua avanzata. Una volta arrivato però non troverà davanti a
sé un campo sguarnito, ma la mia unità scelta e una parte della legione,
schierati e pronti ad accoglierlo. Separati e impossibilitati a supportarsi a
vicenda, i due tronconi dell’armata si sfalderanno come una tela usurata.»
Il
Generale dovette riconoscere che nella sua semplicità si trattava di un buon
piano.
«Credo
di essermi fatto un’idea abbastanza precisa del nostro avversario.» proseguì
Adrian. «Daemon è il tipo di comandante che pensa di essere sempre due passi
avanti a tutti gli altri.»
«Cosa
ve lo fa pensare?»
«Il
cavallo bianco, i cannoni. Si è voluto mettere in mostra e fare sfoggio del suo
genio militare fin dalla prima battaglia. Ne ho conosciuti tanti come lui in
accademia, e per esperienza so che hanno tutti lo stesso difetto.»
«Ovvero?»
«Lo
scarso autocontrollo. Le situazioni impreviste sul campo di battaglia rendono
quelli come lui nervosi ed inclini a sbagliare. Quindi useremo il suo senso di
superiorità contro di lui. Nel momento in cui vedrà la sua tattica sgretolarsi,
così sarà anche per la sua sicurezza. A quel punto dovremo solo chiudere la
questione.»
Il
corno proveniente dal cortile annunciò che l’intera legione era in armi e
pronta a radunarsi nella piazza d’armi.
«Su
con la vita, Generale. Questa battaglia sarà tanto semplice quanto
spettacolare.»
Fin dai tempi in cui Eirinn era
ancora una nazione indipendente Basterwick era stata la
seconda città dell’antico Granducato, sia per importanza che per dimensioni.
Ma
era anche una città terribilmente insalubre, costruita a pochi passi da una
vasta palude e circondata da campi che durante la stagione delle piogge si
trasformavano in acquitrini, perfetto terreno di coltura per ogni sorta di
germe e malattia.
Nei
secoli si erano succedute molte epidemie, ma quella che stava colpendo ora gli
abitanti rischiava di essere una delle peggiori degli ultimi secoli.
Mettere
a disposizione degli abitanti ancora sani cibo e acqua provenienti da fuori
aveva rallentato sensibilmente il diffondersi del morbo, ma per chi era già
malato non c’era altro da fare se non alleviare i loro tormenti con magia e
decotti e sperare per il meglio.
Noi
ci eravamo stabiliti nella fattoria di Van Lobre, un
villino fortificato a due passi dalle mura da cui potevamo controllare la Via
Magna e bloccare tutti i carichi in arrivo da est.
Ma
nel mentre che passavano i giorni la situazione non accennava a migliorare.
Sapevo
di essermi preso un rischio andando a cacciarmi in una città nel bel mezzo di
un’epidemia, e il fatto di non poter fare altro che aspettare mi rendeva
nervoso ed irritabile.
Per
mia fortuna ero sempre stato allergico alle malattie, e da quando mi ero
reincarnato non avevo mai preso neanche un raffreddore.
Per
far passare il tempo mi tenevo occupato lavorando e pianificando le prossime
mosse.
Aver
diviso in due gruppi i legionari arresisi dopo la battaglia tenendo separati i
veterani dalle giovani reclute era stata una buona idea, ed ero certo che al
momento di mettersi in marcia verso il Castello avrei potuto contare almeno su
un paio di centinaia di soldati in più.
Di
contro non era stato facile convincere il Decurione Vero a prestarmi i suoi
servigi per mantenere l’ordine in città, e per vincerne la reticenza ero stato
costretto a calcare un po’ la mano, dicendogli che non potevo impegnarmi a
tenere i suoi compagni lontano dal contagio sacrificando provviste e spazi
senza avere qualcosa in cambio.
In
altri tempi non mi sarei preoccupato di tenermi buono un individuo così poco
affidabile, ma dopotutto mi dispiaceva ancora per quanto era accaduto a Jorn, e
almeno a lui volevo dare una possibilità. In qualche modo sapevo che non
sarebbe stato altrettanto ingenuo, e che al momento giusto avrebbe saputo
scegliere saggiamente tra il restare fedele alla memoria di un vecchio fossile
e impegnarsi in una causa per cui valeva la pena lottare.
Purtroppo
come spesso succede quando non si ha il controllo degli eventi, anche in questo
caso l’imprevisto venne a metterci lo zampino.
Allora
come nella mia vita precedente non avevo mai creduto all’esistenza di un
disegno divino predeterminato che gli esseri viventi si limitano a mettere in
pratica con le loro azioni. Di certo però non potevo assolutamente immaginare
la portata che avrebbero avuto gli eventi di quel giorno, che mi avrebbero
spinto a credere per la prima volta in vita mia all’esistenza del destino.
«Scalia
sta male!?»
Ad uno schiavo non era certo concesso
il lusso di potersi ammalare, quindi era naturale che un po’ tutti avessero
imparato con il tempo a sopportare le malattie ignorandone la sofferenza.
O
forse, più semplicemente, Scalia era troppo testarda ed orgogliosa per
ammettere di sentirsi poco bene.
Accadde
così che una mattina Drufo e Passe, non vedendola
arrivare, fossero andati a cercarla nella sua camera, trovandola pallida,
febbricitante e così debole da non riuscire nemmeno ad alzarsi dal letto.
Saggiamente,
i due avevano taciuto agli altri la presenza dei segni inequivocabili del
contagio per non provocare il panico, e con la scusa di tenerla isolata in via
precauzionale l’avevano affidata subito alle cure di Sylvie al sanatorio.
Per
una strana coincidenza, nella sua stessa stanzetta era ricoverata anche Isabela,
che nel corso della settimana non aveva mostrato alcun segno di miglioramento,
e le cui condizioni destavano più di qualche preoccupazione.
Erano
entrambe così deboli da faticare a restare sveglie, ma ciò nonostante
riuscivano comunque a trovare la forza per lanciarsi frecciatine velenose.
«Non
ti azzardare a morire, maledetta tettona. Sarò solo
io a prendermi la tua pellaccia.»
«Vale
lo stesso per te, piccola sputafuoco.»
«Se
riuscite a beccarvi in questo modo, forse non state poi così male dopotutto.»
Anche
se Daemon si sforzava di mostrarsi distaccato Sylvie non poteva dimenticare lo
sguardo che aveva un attimo prima di entrare nella stanza, né il suo evidente
sollievo alla vista della sorella che malgrado tutto non sembrava essere stata
colpita in maniera troppo severa dalla malattia.
«Non
capisco.» disse Drufo «Credevo che questa malattia
colpisse solo gli umani.»
«Una
volta ho sentito dire che i germi che causano le malattie possono diventare più
forti col passare del tempo.» disse Daemon. «Forse adesso questo germe può
colpire anche i mezzosangue più simili agli umani.»
«È
un bel problema.» disse Passe. «Ci sono tanti semiumani come lei nel nostro
esercito. Se la cosa si viene a sapere si scatenerà il panico.»
«Forse
dovremmo andarcene finché possiamo.»
«No
aspettate. Se lo fate rischierete di portare il contagio altrove.»
«Il
Decurione ha ragione, Drufo. Se adesso sembra brutto,
non avete idea di che cosa voglia dire avere a che fare con un'intera nazione
devastata da un'epidemia.»
«Ma
non possiamo neanche restare qui ad aspettare di ammalarci tutti.»
«Per
non parlare del fatto che a quest’ora i nostri nemici saranno ormai pronti a
muovere.»
Avendo
origliato il discorso, una vecchia signora che accudiva il nipotino nella
stanza accanto scostò leggermente la tenda divisoria rivolgendosi a Daemon.
«Forse
c’è qualcuno che può aiutarci.» disse con sguardo cupo e una voce quasi
spaventata. «La Strega delle Rocce.»
Nel
sentire quel nome Daemon sussultò.
«La
Strega delle Rocce? Davvero vive qui?»
«Signora,
non è certo questo il momento di tirare fuori favole per bambini.» sbottò Vero
con stizza
«Di
che state parlando?» domandò Drufo. «Chi sarebbe
questa Strega delle Rocce?»
«Una
lamia.» rispose Daemon. «Avevo sentito dire che vivesse qui a West Eirinn, ma
credevo fossero solo voci. Dicono che sia una maga fuori dal comune.»
«Il
che è ovviamente impossibile, dal momento che non si è mai sentito di un mostro
venuto alla luce con il Segno.» osservò il Decurione
«E
lei signora, saprebbe dirmi dove potremmo trovare la Strega delle Rocce?»
«Nella
palude.»
«Allora
è lì che andremo.»
«Daemon,
ma parli sul serio!?» disse Passe. «Dicono che quel posto brulichi di bestie
pericolose.»
«Appunto.
È un ottimo nascondiglio.»
«Però
mi spiace doverlo dire, ma il soldatino qui presente non ha tutti i torti.»
disse Drufo. «E poi, se questa strega è davvero così
potente, è il caso di andare a romperle le scatole nella sua tana?»
«Al
punto in cui siamo accetterei anche l’aiuto di un demone. La Strega delle Rocce
forse è davvero l’unica che possa tirarci fuori da questa situazione. Se è
nella palude che si trova è lì che andrò.»
Al
che i due mostri si guardarono tra di loro, annuendo.
«In
questo caso verremo anche noi due con te. Non possiamo certo lasciarti
avventurare in quel postaccio tutto da solo.»
«Grazie
Passe. Non rifiuterò di certo il vostro aiuto.»
«Non
c’è bisogno di ringraziare. Scalia sarà anche tua sorella, ma è anche nostra
amica.»
«E
lo stesso vale per i tutti gli altri nostri compagni. E poi la gente di questa
città non sembra così male. Mi dispiacerebbe che continuasse a soffrire per
questa maledetta malattia.»
«Verrò
anch’io.» intervenne Vero. «Conosco questa regione molto meglio di voi.»
«Pensavo
non credessi all’esistenza della Strega. Perché perdere il tuo tempo venendo a
caccia di fantasmi?»
«Ormai
siete voi a comandare la città. Se vi succedesse qualcosa ne pagheremmo tutti
le conseguenze. E visto che non sembrate intenzionati a darmi ascolto non ho
altra scelta che seguirvi. Così almeno se morirete sarà mia cura fare rapporto
sull’accaduto.»
«Fantastico,
ci mancava anche il menagramo.»
«Aspettate.»
irruppe Sylvie. «Voglio venire anch’io con voi.»
Al
che tutti si girarono verso di lei, fissandola sbigottiti.
«Lady
Valera, non è il caso che vi esponiate ad un simile pericolo.»
«Il
soldatino ha ragione, non stiamo andando a prendere un tè.»
«Proprio
per questo avete bisogno di un mago che vi supporti.»
«Non
sappiamo che cosa ci aspetta in quel pantano.» disse Drufo.
«E francamente non possiamo preoccuparci anche della vostra incolumità.»
«Non
ce ne sarà bisogno, so proteggermi benissimo da me.»
«Mia
signora, aspettate… non potete mettervi in pericolo in questo modo…»
«Non
sprecare il fiato, Isabela. Ormai dovresti conoscermi. E comunque nello stato
in cui sei non potresti mai riuscire a fermarmi.»
«Pensavo
voleste occuparvi dei malati.» disse Daemon.
«Ormai
io sono arrivata al mio limite. Non c’è più niente che possa fare per loro. E
se non troviamo al più presto una cura a questa malattia, tutto ciò che ho fatto
per tenere in vita questi poveretti sarà stato inutile.»
Visto
e considerato che era inutile insistere Daemon si arrese.
«D’accordo,
allora è deciso. Preparatevi, partiamo subito.»
La palude di Basterwick,
anche nota come Valle dei Serpenti, era la cosa più simile ai cancelli
dell’aldilà che si potesse immaginare.
Pozze
d’acqua stagnante a perdita d’occhio e distese interminabili di fango, canne
palustri e salici piangenti che con i loro rami protesi sull’acqua disegnavano
figure spettrali, appena distinguibili nella fitta nebbia che si alzava
incessantemente dal suolo.
«La
gente evitava questo posto già da prima che iniziassero a girare le voci sulla
Strega. Quando ho detto a mio padre di essere venuto qui a giocare da bambino
mi ha riempito di sculacciate.»
«Non
lo biasimo, questo posto mi fa arruffare la pelliccia per quanto mette i
brividi.»
«Il
vecchio Passe che trema come un cucciolo bagnato. Sei patetico.»
«Vuoi
litigare, razza di caprone?»
«Piantatela
voi due. Siamo qui per un motivo.»
«Messer
Daemon, c’è qualcosa che non va. Percepisco qualcosa di ostile in questo posto.
Come una presenza che ci ordina di non andare avanti oltre.»
«È
un buon segno. Significa che qui c’è qualcosa, o qualcuno, che non vuole farsi
trovare.»
«Allora
forza, andiamo a stanare questa maledetta strega e torniamocene a casa. Questo
odoraccio mi sta uccidendo il naso.»
Passe
fece per muoversi, ma Daemon subito lo fermò.
«Aspetta.»
Il
giovane spinse quindi nella pozza di fango davanti a loro un grosso tronco
caduto, che nonostante le dimensioni ed il terreno apparentemente solido
scomparve sotto la superficie nel giro di pochi secondi.
«Ma
che diavolo…» disse Drufo. «Cosa sono, sabbie
mobili?»
«La
combinazione tra acqua stagnante e terreno melmoso è letale. Un passo falso, e
in questa palude ci passiamo tutta l’eternità.»
«Ricevuto,
attenzione a dove si mettono i piedi.»
Si
misero quindi in marcia, stando bene attenti a prediligere solo terreni dove si
notassero pietre o sassi, e cercando nel contempo di mantenere sempre la stessa
direzione.
A
rigor di logica, si dissero, se la Strega viveva
davvero lì era probabile che si nascondesse nel punto più remoto e distante
della palude, perciò la cosa migliore da fare era cercare di raggiungerne il
centro, e nel mentre cercare qualche pista o traccia.
Ma
dopo ore passate a camminare in mezzo alla nebbia, senza alcun punto di
riferimento, non trovarono niente che potesse aiutarli; tutto attorno a loro
non c’era altro che un silenzio spettrale, e non vi era alcuna traccia nemmeno
di quelle bestie feroci di cui si vociferava tra la gente del luogo.
Drufo
provò a cercare qualche indizio arrampicandosi sugli alberi, ma la foschia era
così fitta che a stento si vedeva a venti passi di distanza, e anche a vederlo
dall’alto il terreno sembrava sempre tutto uguale.
«È
una mia impressione o stiamo girando in tondo?»
«Non
credo.» rispose Vero «Fino adesso abbiamo sempre cercato di andare dritti.
D’altronde però è anche vero che la palude non dovrebbe essere così estesa.»
«Dannazione
a questo posto angosciante!» sbottò Passe. «Più ci resto e più mi pento di
essere venuto!»
Sylvie
era la più inquieta di tutti, anche se cercava di nasconderlo. In quanto unica
dotata del Segno poteva avvertire chiaramente uno strano squilibrio
nell’energia tutto intorno a loro, così sottile e ben nascosto che un mago
normale non sarebbe mai stato in grado di notarlo.
«Qualcuno
sta cercando di farci perdere. Oppure siamo prigionieri all’interno di una
qualche illusione.»
«L’ho
sempre detto, la magia è una gran rottura di scatole!»
«Non
c’è niente che puoi fare?» domandò Daemon
«Ora
ci provo.»
Il
vescovo strinse entrambe le mani attorno al suo bastone, e sia la staffa che il
suo corpo vennero avvolti per alcuni secondi da una tenue luce bianca.
«Questa
nebbia non è naturale. È prodotta con la magia, e tiene in piedi una specie di
barriera.»
«Puoi
neutralizzarla?»
«Credo
di sì. Devo solo localizzare il punto d’origine.»
«Sarà
meglio che lavori in fretta.» disse in quella Drufo,
notando per primo delle ombre muoversi tra gli alberi. «Perché abbiamo
compagnia.»
A
quel punto tutti sguainarono le armi, mettendosi schiena contro schiena e
formando un quadrato difensivo attorno a Sylvie.
Seguirono
interminabili secondi di silenzio assoluto, quindi dalla nebbia iniziarono ad
uscire demonietti alati, goblin, lupi mannari, golem di fango e altre bestie
feroci di ogni genere.
«Dì
ragazzo, sei ancora convinto che la Strega non esista?» disse Passe
all’indirizzo di Vero
«Mi
serve un po’ di tempo per trovare la chiave di volta della barriera.»
«Ricevuto.
Avete sentito? Dobbiamo tenere queste bestie lontane da Lady Valera. Restiamo
vicini e supportiamoci l’un l’altro. Drufo, tu resta
vicino a lei e coprici con il tuo arco.»
«Agli
ordini.»
Un
demonietto alato attaccò per primo venendo subito tagliato in due dalla spada
di Daemon, e a quel punto si scatenò una furiosa battaglia.
Le
bestie avversarie in verità non erano molto forti, e molte di loro andavano giù
con pochi colpi opponendo una resistenza minima. Il problema era che per ognuno
di loro che veniva ucciso altri due sbucavano fuori dalla nebbia prendendone il
posto, cosicché in pochi minuti i cinque compagni si ritrovarono in gravissima
inferiorità numerica.
«Così
non va bene, tra poco avrò finito le frecce! Che facciamo, Daemon?»
«L’unica
cosa che possiamo fare! Resistere!»
«Giuro
che se ne usciamo vivi passerò un giorno intero a scolarmi tutto il rum che
riesco a trovare! E ovviamente pagherai tu ragazzo!»
«Ne
prendo nota, Passe! Ora fai lavorare quell’ascia!»
Nel
mentre Sylvie non aveva mai smesso di concentrarsi.
«L’ho
trovata! Resistete un altro po’!»
Un
cerchio magico comparve sotto i suoi piedi, liberando tutto attorno una potente
luce bianca.
«Dissolvi
le tenebre per aprire la strada verso il cielo. Celestial
Gate!»
Un
raggio abbagliante si sprigionò dalla punta del suo scettro, disintegrando in
un colpo solo tutte le bestie demoniache e diffondendosi in ogni direzione con
la forza di un’esplosione.
Daemon
e gli altri dovettero chiudere gli occhi per non rimanere accecati, e quando li
riaprirono la nebbia si era completamente dissolta, permettendo anche al sole
di fare capolino tra le fronde degli alberi.
A
prima vista la palude sembrava ancora la stessa di prima, con la sola
differenza che ora era possibile vedere ogni cosa anche a decine di metri di
distanza; qua e là si udiva persino il cinguettio degli uccelli e il verso
degli animali selvatici.
«Non
credo ai miei occhi.» disse Passe «Mi devo ricredere ragazzina. Non scherzavi
quando dicevi di saper badare a te stessa.»
«Grazie,
Lady Valera. Se non foste venuta con noi sarebbe stata la fine.»
«Felice
di essere stata d’aiuto.»
Ora
che la barriera illusoria era stata distrutta Sylvie non ebbe difficoltà
neanche a individuare con precisione dove si nascondesse il suo creatore.
Daemon e gli altri quindi non dovettero fare altro che seguire le sue
indicazioni, raggiungendo nel giro di poche ore l’ingresso di una grande
caverna.
«Ci
siamo. Lo squilibrio nella magia che aveva generato quella barriera proveniva
proprio da qui.»
«Sembra
proprio il tipico posto dove si nasconderebbe una strega.»
«Sono
d’accordo. E immagino sia superfluo dire che l’idea di entrarci non mi attira
per niente.»
«Tranquillo,
non ci entrerai. Andremo solo io e Lady Valera. Tu, Passe e Vero resterete qui
a sorvegliare l’entrata, nel caso ci fosse ancora qualcuna di quelle bestie
demoniache qui nei paraggi.»
Dopotutto
portarsi dietro una chierica esperta era la soluzione migliore se si aveva a
che fare con una strega, e i due mostri per quanto tenessero al loro amico
furono più che felici di non dover entrare in quell’antro decisamente
minaccioso.
Quanto
a Vero, provò a chiedere di poter entrare anche lui per poter proteggere
Sylvie, venendo però infine convinto da Daemon a restare indietro ed assistere Drufo e Passe nel fare la guardia all’ingresso.
«Questi
ci aiuteranno a non perdere la strada.» disse Sylvie facendo comparire un paio
di fuochi magici, quindi entrambi si avventurarono all’interno.
Se
da fuori la caverna poteva sembrare piccola, una volta dentro i due ragazzi
capirono subito che in realtà era gigantesca, e dovettero fare solo pochi passi
prima che la luce proveniente dall’ingresso scomparisse lasciandoli immersi in
un’oscurità quasi totale.
«Camminiamo
rasenti al bordo, tenendo sempre una mano appoggiata alla parete. In questo
modo eviteremo di perderci.»
«D’accordo.»
Restando
due passi indietro rispetto a Daemon, Sylvie cercava di mantenere sempre il
contatto visivo, ma la sua ingombrante veste da vescovo la intralciava nei
movimenti ancor più di quanto avesse fatto durante il tragitto attraverso la
palude.
«Credete
ci sia un’altra di quelle barriere?» chiese Daemon vedendo che per quanto
camminassero non arrivavano da nessuna parte.
«Non
credo. È vero però che non avevo mai percepito un potere così grande come
quello che percepisco qui dentro. Questa Strega deve essere davvero un essere
fuori dal comune.»
In
quel momento Sylvie inciampò su di una roccia scivolosa, e quando si rimise in
piedi Daemon sembrava scomparso.
«Messer
Daemon? Dove siete? Non vi vedo più.»
«Sono
proprio qui, davanti a te.» sentì dire nel buio. «La mia luce magica si è
spenta.»
«Restate
dove siete, ora vi raggiungo.»
La
ragazza si rimise in cammino, seguendo sempre la voce di Daemon che a distanza continuava
a parlarle, dicendole di aver trovato un’uscita dalla caverna che lo aveva
condotto in una specie di radura erbosa circondata da alte rupi.
«Messer
Daemon, vedo una luce.»
«Ci
sei quasi. Sono qui che ti aspetto. Continua a camminare.»
Nel
momento in cui guadagnò l’uscita però, invece di Daemon Sylvie si ritrovò
davanti le facce sbigottite di Drufo, Vero e Passe.
«Che
cosa ci fate voi qui?»
«Come
sarebbe a dire cosa ci facciamo qui?» disse il coboldo «Siete stati voi a dirci
di tenere d’occhio l’ingresso.»
«L’ingresso!?
Io stavo camminando verso l’uscita dall’altro lato, e sono sicura di essere
sempre andata dritta. Abbiamo camminato per quasi un’ora.»
«Un’ora!?
Lady Valera, voi siete entrata là dentro da neanche cinque minuti.»
«E
comunque.» disse Drufo «Dov’è finito Daemon!?»
Avevo capito che qualcosa non andava
ben prima di accorgermi che la voce di Sylvie che sentivo alle mie spalle fosse
solo un’illusione, e che in realtà per tutto quel tempo avevo probabilmente
parlato da solo.
Alla
fine ero andato a cacciarmi per l’ennesima volta in una situazione complicata
da cui adesso non sapevo come uscire.
In
realtà non ero preoccupato, né temevo per la mia vita. Ormai ero sicuro che
l’intento della Strega non fosse quello di uccidermi, cosa che avrebbe potuto
fare in qualsiasi momento se solo avesse voluto.
Decisi
così di prestarmi al suo gioco, aggrappandomi con le unghie e con i denti alla
mia volontà e portando tutti i miei sensi al massimo; a questo punto, immerso
in quell’oscurità che il globo magico non riusciva a rischiarare la coscienza
che avevo di me e del mio essere era l’unica cosa di cui potevo essere sicuro,
e volevo tenermela stretta.
Senza
mai staccare la mano dalla parete umida continuai ad avanzare, fino a che non
giunsi, con un certo stupore, dinnanzi ad una robusta porta chiusa di legno e
ferro.
«D’accordo,
Strega dei miei stivali. Vediamo cos’hai in serbo per me.»
Aperta
la porta mi ritrovai in una specie di aula di scuola, dalle cui finestre
entrava una luce irreale.
Un
bambino sedeva da solo nella prima fila di banchi dandomi la schiena, immerso
nello studio; indossava un’uniforme da cadetto e un mantello nero, e appuntato
al tricorno aveva il fiocco bianco del Re Luigi.
È
l’uniforme dell’Accademia Militare di Brienne.
Visto
che non potevo essere tornato tutto d'un tratto nel mio mondo conclusi di stare
assistendo alla materializzazione di un evento estrapolato dalla mia memoria;
perciò quel ragazzino dovevo essere io al tempo in cui studiavo all’accademia.
All’epoca
ero un ragazzino decisamente problematico, ancor meno incline al compromesso e
all’autocontrollo di quanto non sarei stato da grande, e capitava spesso che
venissi messo in punizione per aver risposto sfacciatamente ai maestri o aver
cambiato i connotati a qualcuno.
Ma
non potevo farci niente, dovevo essere così.
Ero
solo il figlio di un notaio proveniente da una regione che fino all’anno prima
della mia nascita non era nemmeno parte del Regno di Francia, lontano da casa e
gettato in una scuola dove il più umile dei miei compagni era il figlio di un
marchese.
Era
già una fortuna se mi chiamavano solo Piccolo Còrso, ma il più delle volte gli
appellativi con cui venivo etichettato erano ben peggiori.
Così
mi ero imposto di essere forte, e di non permettere mai a nessuno di reputarsi
superiore a me per qualcosa che non fosse il talento individuale, nel quale
avevo deciso di diventare il migliore di tutti.
Alla
fine del primo anno padroneggiavo le competenze e le conoscenze degli alunni
dell’ultimo, e soprattutto in matematica e in fisica potevo pormi
tranquillamente sullo stesso piano dei miei professori.
E
ovviamente la cosa non piaceva né a detti professori né ai nobili genitori
degli alunni che guardavo dall’alto in basso; così si erano messi d’accordo per
farmi assegnare arbitrariamente voti bassi solo per non dover ammettere che il
figlio di un notaio stava mettendo i piedi in testa alla migliore aristocrazia
francese.
Speravano
di spezzarmi, ma mi avevano solo reso più determinato; e quella determinazione
nata in collegio mi avrebbe accompagnato per tutta la vita, spronandomi a fare
sempre più di quello che i miei avversari si sarebbero aspettati.
La
porta alle mie spalle si aprì nuovamente, e un gruppetto di studenti più grandi
entrò nell’aula accerchiando il vecchio me; si comportavano come se non
potessero vedermi, ma visto che si trattava di un’illusione la cosa non mi
sorprendeva.
«Ehi,
Còrso.» disse il loro capo. «Dì un po’, chi ti credi di essere? Ti avevo
avvertito di non prendere un voto troppo alto all’ultimo compito. Ora per colpa
tua mio padre mi obbligherà a passare tutta l’estate sui libri.»
«Ti
sarebbe bastato studiare un po’ di più.»
All’improvviso,
ricordai.
Quello
era il giorno in cui mi ero preso una delle più grandi soddisfazioni della mia
vita. Il giorno in cui all’accademia era venuto in visita il Ministro delle
Finanze Necker per assistere all’ultima verifica di
matematica prima della fine della scuola.
E
ovviamente davanti al Ministro, uomo tutto d’un pezzo che aveva in odio i
privilegi degli aristocratici tanto quanto me, i professori non avevano potuto
fare i loro soliti magheggi, con il risultato che per
la prima volta avevo preso un voto degno dei miei sforzi.
«Tu
hai un grande avvenire ragazzo.» mi aveva detto stringendomi la mano. «Mi
ricorderò di te.»
Peccato
che sua figlia Anne-Louise avesse tutt’altra opinione di me, e ci fossimo
trovati antipatici fin dal nostro primo incontro proprio quel giorno.
Quanto
a quel gruppetto di bulli, erano i lacchè di quella primadonna di Gudin, il figlio del marchese La Sablonnière.
Vedendolo
in quel momento, così spaccone e arrogante, quasi faticavo a riconoscere lo
stesso ufficiale che un giorno si sarebbe distinto per numerosi atti di valore
nella mia Grande Armée.
Lo
avevo stretto tra le mie braccia nei suoi ultimi istanti di vita dopo che una
palla di cannone gli aveva portato via la gamba.
La
nostra amicizia era cominciata proprio quella sera, dopo esserci riempiti di
botte a tal punto da dover passare insieme una settimana in infermeria; da una
parte lui era stato costretto a riconoscere le mie doti, dall’altra io non
potevo non ammirare il suo carisma e le sue doti di comando, che per quanto
inferiori alle mie lo rendevano capace di ispirare i suoi subalterni con una
forza che andava oltre il suo status di aristocratico.
Una
strana folata di vento si portò via come sabbia quelle figure mentre la stanza mi
si trasformava letteralmente attorno, assumendo le fattezze del mio studio a
Fontainebleau.
Stavolta
non ebbi difficoltà a riconoscere i due individui impegnati in un’accesa
discussione attorno alla scrivania; uno ero io ai tempi del Consolato, l’altro
mio fratello Luciano.
E
purtroppo, a differenza del ricordo precedente, questo che ora mi apprestavo a
rivivere era inciso a fuoco nella mia anima.
Era
il giorno in cui gli avevo rivelato di aver dato mandato al capo della polizia Fouché e al ministro Talleyrand
di iniziare le procedure per indire il plebiscito che avrebbe sancito il mio
passaggio dal ruolo di Console a quello di Imperatore.
Per
poco in quell’occasione tra me e mio fratello finì quasi a schiaffi.
Luciano
era prudente e brillante, ma non capiva la necessità che avevo di potermi porre
a livello paritario con gli altri Re e Imperatori d’Europa.
Ora
sapevo che era stato un errore non dargli ascolto: uno dei tanti rimpianti
della mia vita.
Non
ritenevo sbagliata la scelta di farmi Imperatore, ma forse aveva ragione lui
quando diceva che era ancora prematuro, e che avrei dovuto gestire la cosa con
più accortezza.
Dal
mio punto di vista era il giusto compenso per i miei sforzi e il modo migliore
per portare avanti il mio scopo di dare un nuovo ordine al mondo. Ma il mondo
aveva visto solo un provincialotto ambizioso, e i
suoi governanti una minaccia da estirpare con ogni mezzo.
La
gloria di Austerlitz, la sottomissione della Prussia e lo Zar Alessandro che mi
baciava il sedere erano eventi ancora di là da venire, ma in realtà forse
quello era stato il momento esatto in cui tutto aveva iniziato ad andare a
rotoli.
«Sei
patetico.» dissi al vecchio me mentre questi osservava in silenzio Luciano che
mestamente lasciava la stanza.
Dopo
quel giorno il mio rapporto con lui non era più stato lo stesso e avevo
cominciato a dare retta alle persone sbagliate, allontanandomi progressivamente
da coloro che invece si preoccupavano sinceramente per me e volevano davvero
aiutarmi nel tramutare in realtà la mia grande visione.
Una
nuova folata di vento si portò via anche quella visione sostituendola con
un’altra, e per un attimo in mezzo a tutto quel fumo, alle grida e alle fiamme che
mi vidi comparire attorno ebbi come l’impressione di essere finito nel punto
più profondo e caldo dell’inferno.
Affacciato
dalla finestra del palazzo imperiale, il vecchio me osservava con gli occhi
spalancati e l’espressione incredula la città di Mosca tramutata in un immenso
oceano di fuoco.
Piuttosto
che lasciare che la conquistassi lo zar Alessandro aveva preferito farne il più
grande rogo a cielo aperto che il mondo avesse mai visto; e quello non era che
l’inizio del disastro che stava per piombarmi addosso.
«Guarda
bene, povero idiota. Ecco il risultato della tua megalomania.»
Se
in quel preciso momento mi ero reso conto che c’era gente disposta a
sacrificare qualsiasi cosa pur di riuscire a fermarmi, la disastrosa ritirata
attraverso la steppa che si sarebbe portata via la quasi totalità del mio
esercito mi aveva fatto capire nel modo peggiore che c’erano traguardi che
forse nemmeno io ero in grado di raggiungere.
Scacciai
subito quei pensieri indegni di me.
Io
posso fare qualunque cosa!
Infatti,
passato il momento dello sconforto, avevo compreso che se avevo sbagliato non
era certo stato nei propositi che avevano guidato le mie azioni, ma piuttosto
nei metodi con cui li avevo perseguiti.
La
mia aspirazione di riordinare il mondo e mettere fine ad ogni guerra in Europa
e nel mondo era la più nobile e giusta di tutte. Ma reso cieco e superbo dalle
troppe vittorie mi ero illuso di poterla portare a compimento con la forza e
l’inarrestabilità di un uragano. La verità era che io ero l’artefice del mio
stesso fallimento.
Dando
troppe cose per scontate e convincendomi di essere invincibile mi ero scavato
la fossa con le mie mani; e quando avevo capito che nessun cambiamento,
specialmente il più epocale, può essere fatto dal giorno alla notte, ormai era
tardi per tentare di rimediare.
E
quella lezione da sola era più importante di tutti i ricordi della mia precedente
vita messi assieme, perché su di essa ero determinato a costruire la mia nuova
visione.
Che
si trattasse di sradicare monarchie decadenti o fermare la venuta di un Re dei
Demoni, il fine ultimo restava sempre lo stesso: creare un mondo migliore e
pacifico, in cui non ci fossero né guerre né sofferenza.
Su
una cosa Robespierre aveva ragione. Un nuovo mondo non può essere generato che
su dei mucchi di cadaveri. E se è destino che sia io ad innalzare quel cumulo e
dannare la mia coscienza, ebbene così sia! Qualunque sia il prezzo sono pronto
a pagarlo!
Il
mio sguardo si volse in direzione di una delle porte della stanza, da cui
sembrava venire una voce che mi chiamava.
Senza
più esitazioni la aprii e la attraversai, ritrovandomi come per incanto a
passeggiare su di una passerella in pietra sospesa a centinaia di metri
d’altezza che collegava tra di loro due torri alte e strette edificate sulla
cima di un costone di roccia a strapiombo sul mare.
Non
riconoscevo né gli edifici né il panorama attorno a me, ma dal momento che
vedevo oceano ovunque girassi gli occhi conclusi di essere finito sicuramente
su di una qualche isola disabitata nel cuore del Mare del Nord.
Prima
che le fortissime raffiche provenienti dall’oceano riuscissero a buttarmi di
sotto avanzai fino ad entrare nella torre che avevo di fronte, arrivando in
quello che sembrava a tutti gli effetti il laboratorio di un alchimista.
Una
lamia dalle scaglie nere sedeva ad uno scranno dall’altro lato della stanza
fumando una strana pipa, simile a quelle che nella mia vecchia vita avevo
sentito dire essere molto popolari in estremo oriente.
«Benvenuto.»
disse scostando dal viso una ciocca dei suoi lunghissimi capelli color vino.
«Spero che la mia povera dimora non risulti troppo umile per una persona del tuo
calibro.»
«La
Strega delle Rocce, presumo.»
«Quel
soprannome non mi piace. Lo trovo di pessimo gusto. Chiamami semplicemente Kali.»
Come
una vera lamia sembrava quasi che stesse cercando di sedurmi, tenendo bene in
mostra il suo balcone generoso e le sue curve provocanti, a malapena coperte
dalla scarna veste semitrasparente che indossava.
«Ad
ogni modo, sei un tipo davvero interessante. Non ho mai visto nessuno passare
attraverso i ricordi più spiacevoli della propria vita ed uscirne con quello
sguardo sprezzante e sicuro di sé.»
«Esattamente
per quale motivo hai voluto farmi vedere quelle cose?»
«Considerala
una specie di test. Chi non ha un carattere abbastanza forte da sfidare i
propri demoni non è degno della mia attenzione.»
«Ho
fatto pace con quei demoni tempo fa. Ma se hai guardato nei miei ricordi saprai
perché sono qui. Ho bisogno del tuo aiuto per debellare l’epidemia di Basterwick.»
«E
per quale motivo vorresti farlo? Perché vuoi salvare gli abitanti della città?
Perché hai a cuore la sorte di quella ragazza? O forse semplicemente perché hai
bisogno di loro per realizzare i tuoi scopi?»
«Non
sono un santo. E in vita mia non ho mai fatto niente che non prevedesse un
tornaconto personale. D’altro canto se voglio salvare questo mondo dal Re dei
Demoni non posso concedermi il lusso di agire in maniera disinteressata.»
«Credi
sul serio di avere le capacità per poterci riuscire?»
«Io
posso fare tutto, se dispongo dei mezzi necessari per poterci riuscire. Tu e le
tue conoscenze ora siete uno di questi mezzi. Niente di più, niente di meno.»
«Di
solito, quando si chiede un favore si cerca di essere più diplomatici.»
«Non
mi sembri il tipo che apprezza l’ipocrisia. D’altronde non mi avresti dato una
possibilità per arrivare fin qui se non avessi voluto aiutarmi, o mi sbaglio?»
La
labbra rosso sangue della lamia si piegarono in un malizioso sorriso, e la sua
lunga lingua biforcuta sibilò per un attimo fuori dalla bocca.
«Quello
che cerchi è proprio lì.» disse indicando un’ampolla appoggiata su un tavolino.
«Un estratto di erbe e polvere minerale. Ne basterà una sola goccia diluita in
acqua calda, e tutti i malati si rimetteranno completamente.»
Raccolsi
la boccetta senza porre ulteriori indugi.
«C’è
una cosa che non capisco. Visto che hai guardato nei miei ricordi dovresti aver
capito chi sono e da dove vengo. Sarai anche una strega che si dice sia in vita
da più di mille anni, eppure non mi sembri per niente sorpresa.»
«Forse
sei meno speciale di quanto pensi.»
«Vuoi
dire che ce ne sono altri come me?»
«Questo
mondo si trova in un crocevia molto importante dello spazio e del tempo,
pertanto è abbastanza comune che anime provenienti da altri mondi si
reincarnino qui dopo la morte. Tuttavia tu sei l’unico che io conosca che abbia
conservato i ricordi della propria vita passata. Quindi sì, posso dire di
essere un po’ sorpresa.»
Ero
quasi sicuro che quella specie di maliarda incantatrice sapesse qualcosa sul
conto di Faucheur o su chi egli fosse realmente, ma
decisi di non sprecare fiato per tentare di convincerla a parlarmene.
«A
presto, Imperatore.»
«A
presto, Strega. Qualcosa mi dice che ci rincontreremo.»
«Chissà.
Magari accadrà prima di quanto immagini.»
Appena
varcata la porta della torre dall’altro dal ponte mi ritrovai nuovamente nella
caverna, a pochi metri dall’uscita, con il vecchio Passe e gli altri che
vedendomi avanzare verso di loro restarono a bocca aperta.
«Sia
lode agli dei, per fortuna sei sano e salvo. Che cos’è successo?»
«Proverò
a spiegarvelo, ma non so se mi crederete.»
«Hai
incontrato la Strega?» tagliò corto Drufo
«Ancora
meglio. Ho la cura per il morbo. Forza, torniamo indietro. Abbiamo una città da
salvare, e una rivoluzione da vincere.»
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti!
Dopo
due settimane come di consueto rieccomi qui con il terzo capitolo del Volume 2
di “Napoleon of Another
World!”
Mi
scuso per la notevole, e probabilmente spropositata lunghezza di questo
capitolo, ma ho preferito evitare di dividerlo in due parti trattandosi di un
unico evento che tra l’altro è destinato ad avere un’importanza considerevole
nel futuro degli eventi, anche se non nell’immediato.
Ringrazio
come sempre tutti quelli che leggono e recensiscono la storia.
A
presto!^_^
Carlos
Olivera