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Autore: ChiiCat92    01/10/2023    0 recensioni
Anche quest'anno, come sempre, provo a portare a termine la challege del writober. Non so ancora se ci saranno solo cose originali, ogni storia verrà flaggata singolarmente all'inizio nell'introduzione.
Here we are again!
Questa storia partecipa al writober indetto da fanwriter.it, mi trovate anche su wattpad al link: https://www.wattpad.com/user/KiiKat92
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Yaoi, Yuri
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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#horror #sovrannaturale #raitinggiallo #fruscio #pumpNIGHT 
 

- Il turno di notte di Ann -



Ann cambiò posizione sulla sedia. A furia di tenere la gamba piegata sotto di sé mentre stava seduta, una cattiva abitudine che aveva sin da ragazza, aveva cominciato a farle male il ginocchio. Cominciava a farle male una gran quantità di cose, non che prima non succedesse, certo, ma adesso ci faceva più attenzione. La consapevolezza di esistere in un tempo e in uno spazio ben definito cominciava a farsi sempre più precisa e sottile man mano che invecchiava. Ammesso che a trent’anni potesse definirsi “vecchia”. A dirla tutta erano più gli Altri a farla sentire così; non aveva mai pensato al suo anno di nascita, sempre più lontano nel menù a tendina dei siti online, come a un numero “vecchio”, e non le aveva mai causato problemi. Gli Altri, gli Altri invece sì che le causavano problemi. La guardavano piegando di lato la testa in quel modo un po’ trasognante, a metà tra invidia e pietà, che le faceva pensare che, forse, aveva detto o fatto qualcosa di sbagliato. Otteneva quello sguardo quando le facevano determinate domande - matrimonio, figli, casa, mutuo - e lei dava determinate risposte - single, mai, appartamento, affitto -. Alla maggior parte delle persone con cui lavorava quelle risposte non piacevano, così si ritrovava addosso Lo Sguardo, e lei si sentiva tornare a quando, quindici o vent’anni prima, sua madre la guardava seduta sullo sgabello della cucina con la sigaretta tra le dita e la piega arricciata delle labbra che da sola voleva dire: “Tu nella vita non concluderai niente”. 

Anno cambiò di nuovo posizione sulla sedia. A parte lo sfrigolio degli schermi, il rumorosissimo fruscio statico del microfono e l’occasionale schiocco delle giunture del ginocchio non si sentiva altro. La benedizione del turno di notte. In momenti come quello l’unica persona che poteva biasimare e accusare era se stessa e col tempo era diventata piuttosto brava a farlo. Era piuttosto brava anche a perdonarsi e rispondere se per questo, per cui di solito le discussioni con se stessa finivano meglio di quelle con i suoi colleghi. A se stessa poteva rivolgere un pacato, ma giusto, “sei una testa di cazzo”, perché lei sapeva di meritarselo e inghiottiva con piacere, ma con i suoi colleghi… con i suoi colleghi bisognava che usasse un po’ più di tatto, e che il filtro tra mente e bocca fosse solido e funzionante. 

Sui sei schermi che aveva davanti passavano pigre, alternandosi ogni due minuti, inquadrature di diversi corridoi e diversi piani della struttura. Ora uno scorcio del lab. 3, al secondo piano, poi il corridoio che portava alla mensa al primo piano, una carrellata di immagini degli uffici dei dirigenti al quarto piano, l’ingresso, il parcheggio: un carosello dai colori scadenti quanto scadenti erano le telecamere di sicurezza. Già che si prendessero la briga di pagare qualcuno perché sorvegliasse lo stabile di notte era un miracolo, considerando che a farlo erano gli stessi dipendenti che si alternavano durante il giorno pagati una miseria di straordinario non c’era da sorprendersi per la qualità delle immagini. 

Di tanto in tanto Ann alzava gli occhi dal suo libro per controllare le immagini sugli schermi. In quattro anni che lavorava lì non era mai successo nulla che meritasse la sua attenzione. Una sola volta l’adrenalina l’aveva spinta a lasciare la guardiola perché aveva colto un movimento in uno dei corridoi, per poi trovarsi davanti un pipistrello spaventato e confuso che era entrato da una finestra lasciata aperta. A parte quella volta, i suoi turni di notte erano stati di una noia mortale, ma almeno le avevano permesso di tornare al suo hobby da adolescente: la lettura. Ora, aveva già consumato i primi due volumi di Dune, ed era serio l’impegno che aveva preso con Greg dell’amministrazione di finire di leggere la serie in modo da poterne discutere insieme dopo la visione del secondo film in uscita al cinema, per cui era ben contenta di avere il turno di notte, l’unico vero momento in cui i gattini di TikTok non la distraevano e poteva concentrare tutte le sue energie in qualcosa che adesso le sembrava difficilissimo, rispetto a quando aveva quindici o sedici anni e nessun pensiero al mondo a parte procurarsi il prossimo volume della saga che stava leggendo in maniera illecita su internet. 

Quella notte non le riusciva di andare oltre pagina ventitré, qualcosa continuava a farla tornare al punto precedente, a seguire il filo dei suoi pensieri con una tale violenza che più che “volo pindarico” avrebbe dovuto chiamarlo “precipizio pindarico”. In più c’era il ginocchio che continuava a farle male a prescindere dalla posizione in cui lo metteva, che fosse con la gamba accavallata o ripiegata sulla seduta della sedia. Insomma, non c’era verso. Mise da parte il libro, spingendolo in avanti lungo la scrivania, come se mettere distanza tra sé e lui potesse in qualche modo allontanare anche i pensieri che la tormentavano. Quella notte, quella notte in particolare, era stanca di essere adulta. Stanca di dover pensare da sola alla casa, alla biancheria, alla benzina, alle bollette, all’affitto, stanca di essere ed esistere in quel preciso momento in quel preciso tempo. 

“Ah sì, esistere da qualche altra parte sarebbe meglio, in effetti.” si disse, lo sguardo che accarezzava ancora il profilo del grosso volume di Dune. “Non sarebbe meglio stare su Arrakis a morire nel deserto…” 

Per un attimo il fruscio del microfono si interruppe e le immagini sugli schermi sobbalzarono. Credendo di aver visto male, complice la lettura, la stanchezza, l’irrimediabile angoscia di essere, Ann batté le palpebre, aspettando che il fenomeno smentisse se stesso non ripresentandosi. Invece accadde di nuovo. Lo statico borbottio del microfono, che come rumore bianco aveva accompagnato tutto il turno, si interruppe, come se gli avessero staccato la spina. Gli schermi sfarfallarono ancora una volta, un lento singhiozzo visivo, poi si spensero del tutto. Ann scattò in piedi, la sedia a rotelle su cui era seduta scivolò dietro di lei, il libro ricadde sulla scrivania. "Un blackout." si disse. Alzò gli occhi sulla lampadina della guardiola: accesa. Poi guardò la luce di emergenza sulla porta, appena di fianco alla scritta "uscita": spenta. "Non è un blackout." Sbuffò dal naso, arricciando le labbra in una smorfietta. Adesso doveva capire cos'era successo alla sua postazione, dover andare a controllare il salvavita magari, o il contatore, e tutte le spine, sì, che qualcuna non avesse fatto un contatto e avesse fatto saltare l'impianto. Era la prima cosa che succedeva in giorni ed era cosa più noiosa e fastidiosa che poteva succederle. Staccò la radio dalla cintura e provò a farla scattare per contattare Frank, l'altro agente di turno quella notte con lei. Ma la radio non emetteva un suono. Le sopracciglia strette in un'unica virgola di perplessità, Ann provo a darle un colpetto contro il palmo della mano; visto che non sortì alcun effetto provo ad aprire il vano batterie e fare quello che, da figlia degli anni novanta, provava sempre: estrasse la batteria, la sfregò contro la divisa e la rimise al suo posto. Niente. < Ah che cazzo. > borbottò, e riagganciò la radio alla cintura. Diede un'occhiata all'orologio, chiedendosi se fosse il caso di fare finta di niente e finire il suo turno e poi negare l'esistenza di un problema alle telecamere l'indomani quando (e se) qualcuno glielo avesse fatto notare. Ma erano appena le due, aveva davanti altre quattro ore. Roteò gli occhi verso l'alto, scocciata. Per prima cosa Frank. Uscì dalla guardiola stentando per un attimo con un piede sull'uscio, la testa appena voltata indietro nella speranza di vedere gli schermi resuscitare con la loro luce azzurrognola. Niente. Tentò di ricordare su quale piano si trovasse Frank a quell'ora, ma si arrese quando realizzò di non ricordare neanche quale fosse il suo cognome figurarsi l'itinerario del suo turno. 

Un po' alla cieca, facendo più passi indietro verso la guardiola che avanti, Ann si avviò lungo il corridoio che portava all'ascensore per il primo piano. Le scarpe di gomma sul linoleum scricchiolavano in modo fastidioso, sembrava quasi che il suono arrivasse un attimo dopo aver appoggiato il piede, in ritardo. Sensazioni, sensazioni suscitate da anni e anni di film horror e racconti spaventosi dei suoi cugini più grandi durante i cenoni di Natale: solo quello. Eppure… eppure, sollevando lo sguardo verso le telecamere agli angoli, quelle che adesso vedeva essere del tutto spente, si sentiva osservata. Diede in una risatina nervosa, soffocata. Non solo nella guardiola non c'era nessuno, ma doveva essere lei la persona addetta a guardare attraverso quelle telecamere, e ora se ne andava a zonzo per o corridoi. Faceva davvero ridere! Oppure lei aveva un pessimo senso dell'umorismo, cosa più probabile. 

In ascensore si sentì al sicuro solo il tempo necessario per raggiungere il primo piano. Provò a far scattare la radio alla cintura, giusto per escludere ogni cosa, ma era morta e stramorta. < Frank? > chiamò, uscendo dall'ascensore e avviandosi lungo il corridoio. < Sei qui? Frank sono saltati tutti gli schermi delle telecamere. Ma perché cazzo non ho controllato dove fossi? Perché cazzo non li guardo mai quegli schermi di merda? > non parlava con Frank, non sperava neanche di trovarlo Frank, voleva solo scrollarsi di dosso il panico crescente che cominciava a trasformarsi in sudore caldo lungo la schiena. < Frank? > provò ancora, un suono strozzato adatto a una ragazzina di sedici anni.

Lo sentì ancora, quel suono, o assenza di suono, un formicolio lungo le braccia che diventava rumore bianco contro il timpano. Lo stesso suono che gli schermi, e il microfono, avevano emesso prima di spegnersi. Lo sentì ancora e subito dopo le luci del piano si spensero. In lontananza, lungo il corridoio, scorgeva le lampade di emergenza con la scritta rossa "EXIT" brillare debolmente. Subito prese la torcia dalla cintura e l'accesse. Almeno quella funzionava e intorno a lei si espanse un confortevole cono di luce. Non ebbe il tempo di provare sollievo perché lo avvertì ancora. Un fruscio statico intorno a lei, materializzarsi nell'aria come la trama di un tessuto di pizzo che si strappa, allungarsi verso di lei e la debole luce in sfrigolanti movimenti. Qualunque cosa fosse quella cosa era un tutt'uno con quel suono, non solo lo produceva, lo era, ne era l'incarnazione fisica come un onda sismica che si espande nell'acqua. Ann non ebbe paura, rimase più che altro… sorpresa. Si era ritrovata a pensare alla morte, in questa sua prima parte di vita adulta, ma pensava più a cose come essere investita da un'auto mentre andava a lavoro in bicicletta o al cancro, cose più comuni, cose più prevedibili. Questa non l'avrebbe mai potuta prevedere. 

Il fruscio balzò su di lei, un pizzico morbido come mettere in bocca una caramella frizzante. Le sue orecchie ne furono subito piene mentre ogni cellula del suo corpo scoppiettava. Pop pop pop come le bolle della carta da imballaggio, pop pop pop piccoli corti circuito che facevano saltare a uno a uno tutti i sistemi elettrici del suo corpo, proprio come era successo agli schermi, alle telecamere, al microfono, alla radio. Le gambe le cedettero ma non avvertì l'impatto con il pavimento, né lo vide perché il fruscio aveva fatto esplodere i bulbi oculari come lampadine. Però lo sentì, lo sentì fino all'ultimo. Era stato Instagram a insegnarle che l'udito è l'ultimo senso a spegnersi quando si muore. Così lo sentì: il fruscio dell'universo che la ripiegava e la appallottolava per gettarla, troppo presto, nella cosmica pattumiera del nulla.

   
 
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