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Autore: Parmandil    07/10/2023    1 recensioni
Le porte del Multiverso sono aperte! Per tre anni gli avventurieri della Destiny hanno vagato tra le realtà, cercando di ritrovare la propria. Ma tutto ciò non era che il preambolo del vero conflitto.
Catapultati in un sistema stellare costruito artificialmente, assemblando pianeti ghermiti dal Multiverso, i nostri eroi iniziano a comprendere il diabolico piano degli Undine. Divisi dopo una fallita infiltrazione, dovranno scegliere tra la filosofia federale – il bene dei molti conta più di quello di uno – e la propria – tutti per uno e uno per tutti. Riusciranno i naufraghi a sopravvivere sul pianeta Arena, dove i più formidabili guerrieri del Multiverso si affrontano in lotte all’ultimo sangue? Quali segreti si nascondono sulla stazione a forma d’icosaedro? Chi è realmente il Viaggiatore? E soprattutto, di chi ci si può fidare? Tra stargate e monoliti, tra gli Aracnidi di Klendathu e i Vermi di Dune, le differenti realtà si contaminano come non mai. La posta in gioco è più alta, i nemici più agguerriti e le lealtà personali saranno messe alla prova come non mai. Anche radunando i campioni del Multiverso, c’è una sola certezza: stavolta non tutti i nostri eroi si ritroveranno sani e salvi.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il Viaggiatore, Nuovo Personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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-Capitolo 1: L’anticamera della follia
Data Stellare 2613.116
Luogo: sistema di Ferasa (Universo dello Specchio)
 
   L’USS Destiny, ancora “mimetizzata” con la dicitura CSS usata nello Specchio, uscì dalla cavitazione quantica e procedette cautamente a mezzo impulso. L’Allarme Rosso era inserito: gli scudi alzati, le armi pronte all’uso. Dopo tre anni d’avversità nel Multiverso – l’ultimo trascorso in una guerra all’ultimo sangue – gli avventurieri erano pronti a tutto. I loro informatori li avevano avvertiti che in quel sistema si trovava un’interfase di spazio, cioè una rarissima anomalia in cui due Universi, due realtà parallele si sovrapponevano. Attraversare l’interfase poteva condurli in quell’altro cosmo. Nessuno sapeva cosa ci fosse. L’unica certezza era che la CSS Destiny aveva varcato quella soglia nel suo viaggio inaugurale e non era tornata, tanto che la Confederazione aveva posto l’intero sistema stellare sotto quarantena. Ma coi recenti subbugli dovuti al cambio di regime, il sistema era rimasto incustodito. Il che dava all’USS Destiny l’opportunità d’indagare.
   «La soffiata era giusta; non rilevo vascelli della Confederazione» disse Talyn. Il giovane El-Auriano era l’addetto ai sensori e alle comunicazioni. Svolgeva egregiamente il suo compito, anche perché talvolta alle letture dei sensori aggiungeva le sue percezioni extrasensoriali, pur non avendone il pieno controllo. «L’interfase è dritta davanti a noi. Vedete quello sfarfallio di stelle?».
   «Uh-uh» fece Shati, la timoniera. In effetti una porzione di stelle tremolava, come se fossero riflesse in uno specchio d’acqua increspato. Inoltre la loro luce era virata verso il rosso, segno che i fotoni stentavano a uscire dall’interfase, calando nelle frequenze più basse dello spettro elettromagnetico. «La vedo, scendo a un quarto d’impulso» disse la Caitiana.
   Tutti gli ufficiali di plancia osservarono lo strano fenomeno. In parte somigliava a un buco nero, con la differenza che non c’era un orizzonte degli eventi ben definito, solo una caotica distorsione luminosa.
   «Credi che dall’altra parte ci sia il nostro Universo?» chiese la Comandante Losira.
   «Sarebbe troppo bello» mormorò il Capitano Rivera, sfregandosi il mento ispido. «Comunque dobbiamo saperlo. Bisogna scoprire cos’è successo alla nostra nave gemella, se non altro per evitare che accada lo stesso a noi».
   «Seguire la sua rotta potrebbe condurci alla stessa fine» obiettò la Risiana.
   «Preferisci restare per sempre nello Specchio? O inserire coordinate a caso, sperando di prenderci per pura fortuna?» fece l’Umano. Ne avevano discusso tante volte. La Destiny era costruita per esplorare il Multiverso, ma da quando gli insidiosi Undine avevano cancellato le coordinate quantiche dal computer, gli avventurieri non potevano tornare a casa. Il Multiverso era enorme, forse infinito: se tentavano a casaccio, la Destiny si sarebbe guastata assai prima che trovassero la giusta combinazione. E allora sì che non sarebbero mai più tornati a casa.
   «Okay, non dico più niente» si arrese Losira.
   Rivera passò lo sguardo sugli altri compagni: l’Ufficiale Tattico Naskeel, l’Ingegnere Capo Irvik, e infine la sua dolce metà, la dottoressa Giely, che in quel momento occupava la poltroncina del Consigliere alla sua sinistra. La Vorta gli sorrise incoraggiante e annuì. Dopo aver trascorso un anno dispersa nello Specchio, non vedeva l’ora di lasciarselo alle spalle, anche se ciò significava affrontare l’ignoto.
   «Avanti così, a un quarto d’impulso» ordinò il Capitano, osservando l’interfase sempre più vicina. Ora le stelle arrossate e tremolanti riempivano lo schermo.
   «È proprio come ci avevano detto. L’intero pianeta è stato trascinato dall’altra parte» disse Talyn, constatata la sua assenza dal sistema.
   A quelle parole Shati emise un profondo brontolio di rabbia. Anche se quella era la versione Specchio di Ferasa, la Caitiana soffriva comunque a pensare che fosse finita chissà dove. Che ne era stato degli abitanti, miliardi di Caitiani? Potevano essere ancora vivi, dopo otto anni di lontananza dal calore della loro stella? O restavano solo città in rovina e corpi congelati?
   «Scopriremo cos’è successo alla tua gente» promise Rivera, sapendo quanto fosse importante per la timoniera.
   Shati annuì, correggendo la rotta per puntare al centro dell’anomalia. «Stiamo per entrare nell’interfase» avvertì. «Meno tre... due... uno... contatto».
   Gli avventurieri si guardarono attorno e si tastarono, quasi aspettandosi di scoprire qualche orribile effetto sull’astronave e sui loro stessi corpi. Ma non videro né avvertirono nulla di anomalo.
   «Siamo al centro, arresto totale» disse Shati. «E adesso?».
   «Adesso aspettiamo» rispose Irvik. «L’interfase deve, per così dire, assorbirci nel suo continuum. Se qualcuno ci osservasse da fuori, vedrebbe la Destiny sbiadire sempre più, fino a scomparire nel nulla. Dal nostro punto di vista, invece, saranno le stelle a sbiadire, venendo rimpiazzate da... qualunque cosa ci sia dall’altra parte. A quel punto potremo uscire dall’interfase».
   «Quanto ci vorrà?» chiese il Capitano.
   «Boh? Minuti, ore, forse giorni. Ogni interfase è diversa, e comunque sono così rare che finora ne sono state studiate pochissime» spiegò l’Ingegnere Capo. «Alcune hanno origine naturale, anche se non sappiamo di preciso cosa le innesca. Altre, invece, sono create artificialmente».
   «Questa potrebbe essere artificiale?» domandò Rivera, assalito da un improvviso timore.
   «Chissà. Certo che il modo in cui ha fagocitato Ferasa è sospetto. Voglio dire, è strano che abbia beccato l’unico pianeta abitato nel raggio di parecchi anni luce...» mormorò il Voth.
   «Già, è strano» convenne il Capitano, mentre le stelle cominciavano a sbiadire attorno a loro. «Occultiamoci. Se c’è qualcuno dall’altra parte, non voglio che ci veda arrivare. Saremo noi a decidere se e quando rivelarci».
 
   Servirono tre ore per completare il trasferimento. Gradualmente le stelle si affievolirono, fino a svanire del tutto. Al loro posto comparve una luminosità giallastra diffusa. Che fosse un cosmo primordiale, in cui l’idrogeno non si era ancora addensato in stelle? Era presto per dirlo; i sensori non funzionavano nell’interfase. Col passare del tempo, comunque, apparve una fonte di luce localizzata più intensa. Sembrava che ci fosse almeno una stella, non molto lontano. La tensione tra l’equipaggio era sempre più palpabile.
   Infine Irvik andò alla postazione sensori ed eseguì una complessa scansione. «Capitano, ci siamo. Ritengo che abbiamo completato il trasferimento» annunciò.
   «Allora rimettiamoci in moto» si riscosse Rivera. «Shati, avanti a un quarto d’impulso. Dirigi verso quella stella... se è una stella» ordinò, indicando il bagliore davanti a loro. «Talyn, appena usciremo dall’interfase voglio un’analisi completa. Dobbiamo capire dove siamo finiti, se c’è traccia di Ferasa o dell’altra Destiny».
   «Finalmente!» fece Shati, muovendo le orecchie feline. Avrebbe sventolato la coda per l’impazienza, se non l’avesse persa due anni prima, in uno scontro a fuoco.
   La Destiny mosse in avanti, restando occultata, finché uscì dall’interfase. Subito la visuale sullo schermo si fece più chiara e i sensori ripresero a funzionare. Allora gli avventurieri strabuzzarono gli occhi, osservando l’anticamera della follia.
 
   Al posto dello spazio trapunto di stelle c’era quella fioca luminosità giallastra, in alcuni punti quasi del tutto spenta. In quel luogo irreale si librava un intero sistema stellare. Al centro vi era una stella di tipo G, simile al Sole terrestre. Tutt’attorno era raccolto un vivaio di pianeti, assurdamente vicini gli uni agli altri, tanto che alcuni occupavano la stessa orbita. Erano tutti mondi rocciosi, anche se differivano enormemente per dimensioni, composizione e condizioni ambientali. Alcuni erano deserti di sabbia ocra, di roccia scura o di ghiaccio biancastro. Altri verdeggiavano di praterie o foreste o paludi. Altri ancora erano coperti da oceani azzurri, con poche isole a punteggiarli. Alcuni erano butterati di crateri, altri avevano stupendi anelli. Alcuni non avevano neanche un satellite, altri ne avevano quattro o cinque, tanto grandi da essere a loro volta abitabili.
   Ma il più spaventoso di tutti era un pianeta mezzo disintegrato. Una porzione dello sferoide era saltata via, dandogli l’aria di una mela morsicata. Attraverso lo squarcio nella crosta s’intravedeva il nucleo fuso, che si stava ancora riassestando. Roccia e lava, proiettate nello spazio, stavano formando un anello. Alcuni frammenti, finiti fuori orbita, precipitavano come meteore sui mondi circostanti. Il resto del pianeta era percorso da enormi crepe, che parevano allargarsi e ramificarsi, facendo trasparire il magma sottostante. Se avessero superato il punto critico, il pianeta si sarebbe definitivamente disgregato, mettendo a rischio gli altri.
   «Talyn, come spieghi tutto questo?» chiese Rivera.
   «É... inspiegabile, Capitano» mormorò il giovane. «Questo sistema non può essersi formato in modo naturale, è un’impossibilità fisica. Rilevo dodici pianeti, molti dei quali condividono l’orbita, e una quarantina di satelliti, quasi tutti con atmosfera. Sia i pianeti che i satelliti sono così vicini gli uni agli altri che il sistema non può essere stabile. Avrebbero dovuto scontrarsi già in fase di formazione. Alcuni sarebbero precipitati sulla stella, altri sarebbero stati espulsi dall’orbita. Invece eccoli qui riuniti, come...».
   «Come perle su una collana» notò Losira.
   «Già, proprio così!» convenne Talyn, sempre più sconcertato man mano che raccoglieva i dati. «E ci sono altre anomalie. Un mondo è ghiacciato, ma è così vicino alla stella che tutto quel ghiaccio si sta sciogliendo, inondando le terre emerse. Un altro è coperto da una giungla, come se avesse un clima caldo-umido, ma è così esterno che la vegetazione sta morendo per il freddo. È come se le loro orbite fossero state mischiate. E c’è una cosa ancor più incredibile!» disse, continuando i rilevamenti.
   «Allora?!» fece il Capitano, impaziente.
   «La datazione dei radio-isotopi dice che i pianeti hanno età diverse. Uno ha tre miliardi d’anni, un altro quattro, un altro ancora cinque. E un satellite...» disse, mostrando un globo grigiastro quasi privo d’atmosfera, «ha almeno venti miliardi d’anni, cioè sei in più del nostro Universo. Il bello è che questo satellite orbita attorno a un pianeta che ha appena un miliardo d’anni».
   «Sarebbe a dire che tutti questi mondi vengono da sistemi diversi? Impossibile!» insorse Irvik. «Un sistema stellare non si aggrega così a casaccio!».
   «Infatti non può essersi formato naturalmente» convenne Talyn. «Ecco la spiegazione: qualcuno l’ha... assemblato. Hanno raccolto pianeti diversissimi, anche per età, e li hanno messi in orbita attorno a questa stella. I mondi più piccoli sono diventati i satelliti di quelli più grossi. Non so come faccia il sistema a rimanere stabile... forse lo aggiustano in continuazione».
   «Wow, c’è chi colleziona le biglie e chi colleziona i pianeti!» commentò Shati.
   «Ma come hanno fatto a radunarne tanti... a meno che... l’interfase!» esclamò Irvik, dandosi una manata sulla fronte. «Devono aver creato l’interfase apposta per rubare un pianeta da ogni cosmo. Ogni volta che la aprono, accalappiano il mondo più vicino e lo aggregano al sistema. Suppongo che usino potenti raggi traenti per metterlo in posizione».
   «E lì cos’è successo? Gli è andata male?» chiese Rivera, indicando il pianeta mezzo disintegrato.
   «Uhm, può darsi. In fondo spostare i pianeti è un’impresa titanica. Se quel mondo aveva qualche instabilità geologica, e l’hanno sottovalutata, potrebbero averlo frantumato per errore» confermò l’Ingegnere Capo.
   «E i suoi abitanti?» sussurrò Shati. La domanda rimase senza risposta. In effetti era lecito presumere che, fra tanti mondi rapiti, alcuni fossero abitati. Di certo lo era Ferasa.
   «Dobbiamo capire chi ha fatto questo» disse infine il Capitano. «Perché se hanno già saccheggiato tanti Universi, compreso lo Specchio... la prossima volta potrebbe toccare al nostro» ragionò.
   «La mia Ferasa!» gemette Shati, temendo per il suo mondo natale.
   «Non c’è un secondo da perdere. Talyn, cerca segni di tecnologia... qualunque cosa possa indicarci i responsabili!» ordinò Rivera.  
   «Di tecnologia ce n’è fin troppa. Quasi tutti questi mondi sono abitati, con centri urbani, anche se... uhm... c’è un campo di dispersione che ostacola le trasmissioni a lungo raggio» notò l’El-Auriano. «Probabilmente ostacola anche il teletrasporto. Potrebbe essere un modo per isolare i pianeti, impedendo che si scambino informazioni e organizzino una resistenza comune».
   «Astronavi, ce ne sono?» incalzò il Capitano, sempre in cerca dei responsabili.
   «Le sto cercando... sì, ce ne sono alcune presso il pianeta frantumato» disse Talyn, zoomando l’inquadratura sul mondo in questione. Apparvero dei vascelli giallognoli, irti di spuntoni. Erano indaffarati presso lo squarcio nella crosta: attingevano il magma dal nucleo messo a nudo, forse per estrarre minerali utili. Talyn portò al massimo l’ingrandimento, inquadrando uno dei vascelli. Allora gli avventurieri si sentirono accapponare la pelle. Avevano già visto astronavi come quelle, tre anni prima, all’inizio della loro odissea. Erano le bionavi degli Undine, anche noti come Specie 8472. Dopo anni di peripezie, la Destiny era tornata nello Spazio Fluido, il luogo d’origine di quegli esseri mostruosi.
 
   Il primo a riaversi dallo shock fu Irvik. «Presto, torniamo indietro!» gridò, ricordando gli orrori dello Spazio Fluido.
   «Non me ne vado senza sapere cos’è successo a Ferasa!» ringhiò Shati in risposta.
   «Calmi, tutti e due!» ordinò il Capitano, alzandosi dalla poltroncina. «Per prima cosa dobbiamo avere conferma della nostra posizione. Talyn, come possiamo essere tornati nello Spazio Fluido? Non era tutto invaso da quel citoplasma?».
   «Beh, la porzione che visitammo l’altra volta lo era» rispose il giovane. «Ma non c’è ragione di credere che sia tutto così. In questo momento siamo lontani anni luce dalla biosfera. Anche lo spazio può essere diverso».
   «Uhm, analizza quella roba gialla che ci circonda» ordinò Rivera, osservando con apprensione il bagliore diffuso sullo sfondo.
   «È confermato» disse l’El-Auriano di lì a poco. «Si tratta di fluido organico come quello dell’altra volta. Noi ci troviamo in una bolla vuota del diametro di tre anni luce, con la stella al centro. A questo punto direi che lo Spazio Fluido è fatto come una spugna. Tutto l’inverso del nostro, insomma. Nel nostro cosmo la maggior parte dello spazio è vuoto, e solo qua e là ci sono nebulose che formano stelle e pianeti. Qui è l’opposto: quasi tutto lo spazio è pieno di fluido, e solo occasionalmente s’incontrano bolle vuote come questa».
   «L’Universo del Gruviera» ironizzò il Capitano. «E non credo che saremo più graditi dell’altra volta. Non dopo quel che abbiamo combinato» commentò, ricordando la loro rocambolesca fuga, tradottasi nella distruzione della biosfera. «L’occultamento tiene?» si preoccupò.
   «Sì, Capitano» rispose Naskeel, con la sua voce tradotta elettronicamente. «E le navi Undine continuano a estrarre minerali dal nucleo. Non c’è segno che ci abbiano rilevati».
   «Quindi... potrebbero aver distrutto quel pianeta intenzionalmente?» rabbrividì Shati.
   «È possibile» rispose il Tholiano. «Sappiamo che alcuni vascelli Undine hanno una potenza di fuoco sufficiente a disintegrare interi mondi. Forse gli abitanti di quel pianeta si erano ribellati e gli Undine li hanno distrutti... anche come monito per gli altri».
   «Dov’è Ferasa?!» proruppe Shati, temendo che si trattasse proprio del mondo frantumato.
   «Tranquilla, eccolo lì» la rassicurò Talyn, inquadrando un altro pianeta. Era uno splendido mondo tropicale, con estesi oceani su cui spiccavano i continenti verdeggianti. C’erano un paio di cicloni, per nulla insoliti su Ferasa; visti dallo spazio sembravano girandole di nubi. «È alla distanza giusta dalla stella per non stravolgerne il clima» rilevò l’El-Auriano. «Uhm, vedo che non gli hanno appioppato nessun satellite. Potrebbe significare che è stato l’ultima aggiunta a questa collezione di pianeti».
   «Le condizioni in superficie?» chiese Shati, ancora in ansia.
   «Sembra che le comunicazioni planetarie siano offline» rispose Talyn. «Ci sono segni di saccheggi in molte città, compresa la capitale. Immagino che quando i Caitiani sono finiti qui sia scoppiato il panico. Comunque non ci sono segni d’attacchi su vasta scala da parte degli Undine. Il pianeta non sarà in condizioni ottimali, ma... poteva andare molto peggio» concluse.
   Leggermente rassicurata, Shati tornò a concentrarsi sui comandi. Era ancora in pena per i suoi simili, ma almeno non sembravano correre pericoli immediati.
   Per un poco vi fu silenzio. Il Capitano passeggiava nervosamente, osservando l’incredibile coorte di pianeti e cercando di stabilire la prossima mossa. Concluse che prima gli servivano più informazioni sul nemico. «A parte quelle bionavi, ci sono altre forze Undine? M’interessano soprattutto le installazioni. Hanno costruito città, fortezze...?» chiese.
   «Per ora non rilevo insediamenti sulla superficie dei pianeti, anche se ci vorrà un pezzo per analizzarne così tanti» disse Talyn, assorto nel lavoro. «Però... ehi, guardate qui! Hanno una stazione spaziale, e anche bella grossa!».
   Così dicendo inquadrò l’oggetto in questione. Aveva la forma di un poliedro dalle numerose facce, tutte triangoli equilateri. Lo scafo era composto dalla stessa materia organica giallastra delle bionavi. Da ogni faccia protendevano degli aghi, più grossi e lunghi al centro, più sottili e corti tutt’intorno. Nel complesso era una struttura aliena e inquietante.
   «Si tratta di un icosaedro, cioè un poliedro a venti facce» rilevò Talyn. «Ha un diametro di dieci chilometri... ancor più della biosfera».
   «Cosa sono quegli aghi che spuntano da tutti i lati?» chiese Rivera, inquieto. Considerate le dimensioni della stazione, ogni ago doveva misurare chilometri.
   «Si direbbero antenne... forse trasmettitori» rispose Talyn. «Ma al momento sono disattivati. Non riesco a immaginare cosa debbano trasmettere, che richieda tanta potenza».
   «Forse non sono comuni trasmettitori» ragionò Irvik, affiancandolo alla consolle. «Gli Undine potrebbero averli usati per aprire l’interfase. Se ogni antenna emette gravitoni come il nostro deflettore, l’effetto cumulativo sarebbe così massiccio da aprire uno squarcio tra le realtà. L’interfase di spazio, appunto».
   «Ed è permanente?» chiese il Capitano.
   «Non lo so proprio» ammise il Voth. «Certo che, se ogni pianeta viene da un cosmo differente, dove sono le altre interfasi? Questo mi fa pensare che col tempo tendano a richiudersi, come una ferita che si rimargina. Forse più grossa è l’interfase e più tempo ci mette a sparire» ipotizzò.
   «Analizziamo il pianeta attorno a cui orbita l’icosaedro. Potrebbe essere rilevante» disse Naskeel. Il Tholiano era il più taciturno tra gli ufficiali di plancia, ma proprio per questo i suoi consigli erano raramente ignorati, quando li dava.
   «Vediamo... si tratta di un pianeta desertico di classe H» rilevò Talyn, inquadrandolo sullo schermo. Era un mondo rossastro, simile a Marte; l’emisfero settentrionale era spazzato da un’ampia tempesta di sabbia. «Diametro 13.000 km, gravità 0.95 g, crosta di silicati. Temperatura media 45º C al sole, sottozero nell’emisfero notturno. Niente acqua in superficie, anche se ci sono sacche sotterranee... vegetazione da deserto molto stentata... però l’atmosfera è respirabile» notò il giovane. «Ehi, questo sì che è interessante! Ci sono un sacco di relitti sulla superficie. Rilevo resti d’astronavi e di... macchine da guerra, credo. Alcune sembrano lì da molto tempo» disse, inquadrando uno scafo arrugginito e mezzo sepolto dalla sabbia. Poco lontano giaceva un bizzarro tripode, rovesciato su un lato e anch’esso semisepolto.
   «Ci sono riscontri nel nostro database?» s’incuriosì il Capitano.
   «Niente, nemmeno tra i dati che abbiamo raccolto esplorando il Multiverso» disse Talyn. «E non rilevo scafi simili sui mondi circostanti. Non mi stupirei se questi relitti venissero da altri Universi ancora».
   «Ci sono superstiti? Gente che potremmo aiutare?» si preoccupò Giely.
   «In effetti sì, rilevo dei segni vitali. Sono migliaia, sparpagliati su tutto il pianeta. Anche se...». L’El-Auriano corrugò la fronte, sforzandosi d’interpretare i dati. «Alcuni sono umanoidi, anche se con piccole differenze. Altri sono del tutto alieni. E ci sono degli scontri a fuoco. Si direbbe una lotta di tutti contro tutti».
   «Staranno lottando per le risorse: acqua, cibo, riparo» ipotizzò la dottoressa, afflitta. Migliaia di persone erano più di quelle che loro potevano aiutare. Specialmente se erano tutte armate e coi nervi a fior di pelle.
   «O forse sono gladiatori» borbottò Rivera, cupo.
   «Cosa?» chiese la Vorta.
   «Antichi guerrieri terrestri» spiegò il Capitano. «All’epoca dell’Antica Roma, i combattimenti erano visti come sport. I campioni più abili si affrontavano nelle arene, sfoggiando la loro abilità per lo spasso del pubblico. A volte il perdente veniva risparmiato, ma... c’erano anche combattimenti all’ultimo sangue. Certe culture aliene hanno tutt’ora questo genere di passatempi».
   «Nel Quadrante Delta c’è lo Tsunkatse» ricordò Irvik. «È fatto proprio così: negli scontri blu il perdente viene stordito, ma in quelli rossi viene ucciso. Io l’ho sempre trovato una barbarie».
   «Ma in questo caso il pubblico dov’è?» chiese Losira, accennando al pianeta desertico.
   «Potrebbe essere lì dentro» disse Talyn, inquadrando di nuovo la stazione spaziale. «Quella struttura è abbastanza grande da accogliere migliaia di Undine. Purtroppo i sensori non riescono a penetrare lo scafo. Comunque è un luogo perfetto per osservare quelli che si affrontano sul pianeta, mantenendosi fuori portata».
   «Quindi tutto il pianeta è un’immensa arena?!» fece Shati, impressionata.
   «Probabile» annuì il Capitano, corrucciato. «Per adesso lo chiameremo così, Arena. E quella stazione sarà l’Harvester, visto che la usano per mietere interi pianeti» stabilì.
   «Scusate, ma... credete davvero che gli Undine abbiamo fatto tutto questo» disse Losira, accennando alla collezione di mondi, «solo per osservare gli scontri e fare il tifo?».
   «Ritengo che le loro motivazioni siano assai più complesse di così» disse Naskeel. «Sommando queste nuove informazioni a quelle già in nostro possesso, si può dedurre il loro obiettivo». Il Tholiano si fece avanti sulle zampe da ragno, che ticchettavano sul pavimento. Fisicamente era il più alieno dell’equipaggio. Aveva un corpo cristallino, color arancione e mantenuto a centinaia di gradi: doveva proteggersi con un aderente campo di forza per non raffreddarsi tanto da andare in pezzi. Le sei zampe sorreggevano un busto vagamente umanoide, con due arti dalle mani prensili. La testa aveva un becco da rapace e occhi sulfurei, che brillavano di luce propria.
   «Ci illumini» lo invitò Rivera. Il Tholiano non gli era mai stato simpatico, e non si era mai fidato completamente di lui; ma doveva ammettere che aveva una mente razionale. Quella di Naskeel era una logica ferrea e spietata, non temperata dalla filosofia come quella vulcaniana. Ma era comunque logica, e in quel momento ne avevano un gran bisogno.
   «Duecentoquaranta anni fa, gli Undine furono attaccati dai Borg e reagirono con estrema aggressività, lanciando un’invasione su larga scala della Via Lattea» ricordò Naskeel. «Ma così facendo dovettero disperdere le loro forze. E quando i Borg, aiutati dalla Voyager, trovarono un’arma efficace, gli Undine furono costretti a battere in ritirata. Per una specie così bellicosa dev’essersi trattato di un’umiliazione terribile. In seguito tentarono d’infiltrarsi nella vostra Accademia di Flotta, ma furono scoperti e rinunciarono al piano; un altro disonore. Considerando che gli Undine sono altamente intelligenti e adattabili, è lecito supporre che abbiano cambiato strategia. Invece di mandare le proprie truppe o spie a invadere altri Universi, ora fanno l’opposto: carpiscono dei frammenti di quei cosmi. Quindi aprono le interfasi per strappare interi mondi alle loro realtà e portarli nella propria. Così incamerano un pianeta alla volta, in circostanze più controllabili, impedendo agli abitanti di fuggire».
   «Il ragionamento fila» ammise Rivera. «Però finora non se la sono presa né coi Borg, né con la Federazione» osservò.
   «Ritengo che le loro motivazioni oltrepassino la mera vendetta» ribatté il Tholiano. «Alla base di tutto potrebbe esserci la volontà di proseguire la lotta darwiniana che li ha resi forti. Quindi hanno costruito questo sistema, radunando i pianeti raccolti in modo che fossero relativamente stabili. Poi non li hanno invasi, perché non è questo il loro obiettivo. Piuttosto hanno prelevato i migliori guerrieri e li hanno concentrati su Arena, dove li osservano attentamente. Così possono confrontare le loro abilità e strategie di sopravvivenza, imparando dagli esempi. È anche probabile che ogni tanto gli Undine mandino i propri guerrieri su Arena, per partecipare agli scontri. Adesso anche la funzione della biosfera diventa più comprensibile».
   «Intendi che la biosfera era un’antesignana di tutto questo?» chiese Rivera.
   «No, ritengo che fosse un campo di prova ancor più specializzato» corresse Naskeel. «Gli Undine hanno già collezionato decine di pianeti e sembra che Ferasa-Specchio sia l’ultimo in ordine di tempo. Il prossimo potrebbe essere Ferasa del nostro Universo. Infatti la biosfera conteneva i tre ambienti più tipici di quel mondo tropicale: una città, una foresta pluviale e un’area desertica. Gli Undine l’avevano attrezzata per prepararsi a catturare il pianeta, e forse altri mondi federali».
   «Quindi stanno per prendere il nostro Ferasa?!» esclamò Shati, di nuovo angosciata. «E quando lo faranno?!».
   «Non ho elementi per stabilirlo con precisione» rispose Naskeel. «Tuttavia sono passati ben otto anni da quando presero Ferasa-Specchio. Il numero di mondi già rapiti fa pensare che mediamente tra una cattura e l’altra passi meno tempo. Forse stanno aspettando che l’ultima interfase si richiuda. O forse devono prima smaltire l’ultimo gruppo di guerrieri che hanno portato su Arena. Comunque sia, è logico presumere che non manchi molto».
   «Beh, allora che stiamo aspettando?! Attacchiamo l’Harvester, distruggiamolo! Così non potranno aprire altre interfasi!» ringhiò la Caitiana, indicandolo con l’artiglio ricurvo.
   «Ehi, piano!» la frenò il Capitano. «Non attaccherò quella cosa, senza sapere qual è la sua potenza di fuoco. Ricorda quanto sono pericolose le bionavi. Hanno mezzo disintegrato un pianeta, per Giove!» esclamò, indicando il mondo frantumato. «Se l’Harvester è così importante, non credi che sia ben armato e protetto? E ci sono un sacco di bionavi pronte a dargli manforte in caso di necessità. No, attaccarlo sarebbe un suicidio».
   «Beh, allora ci occorre più potenza di fuoco!» ribatté Shati. «Torniamo nello Specchio e chiediamo aiuto ai nostri amici ribelli! Dopotutto ci devono un grosso favore!».
   «La loro flotta è appena stata dimezzata. Non rischieranno le ultime navi in un attacco che, comunque, non può riportare indietro il loro Ferasa» ragionò il Capitano.
   «Quindi ci arrendiamo?!» fece la timoniera, esasperata.
   «Non ho detto questo. Dobbiamo continuare a raccogliere dati, cercare le debolezze del nemico e farci un’idea di quando potrebbe colpire» spiegò pazientemente Rivera.
   «Suggerisco anche di cercare la CSS Destiny, se esiste ancora» intervenne Naskeel. «Dopotutto è il motivo che ci ha spinti a varcare l’interfase. Se riuscissimo a trovarla e a ottenerne l’appoggio, avremo già raddoppiato la nostra potenza di fuoco».
   «Sì, ma... con quello che ho visto, dubito che l’altra Destiny ci sia ancora» commentò il Capitano. «Gli Undine l’avranno senz’altro distrutta».
   «Lei crede? Eppure catturarono questa Destiny anziché distruggerla. La rimandarono indietro, usandola come esca per catturarci. Potrebbero aver fatto lo stesso con l’altra» obiettò il Tholiano.
   «Anche questo è vero» ammise Rivera. Osservò il pianeta Arena, su cui c’era una gran quantità di relitti semisepolti dalla sabbia. «Talyn, cerca la Destiny. Se non si trova su questo mondo, estendi la ricerca a tutto il sistema stellare» ordinò.
   Per alcuni minuti l’El-Auriano si concentrò sulle scansioni. «Niente da fare, non è su Arena» concluse. «Provo a estendere la ricerca».
   Stavolta passò un tempo molto più lungo. Per facilitare le analisi, la Destiny prese a circumnavigare il sistema, tenendosi all’esterno. Dopo un paio d’ore, gli avventurieri avevano quasi perso la speranza. Fu allora che una spia si attivò e Talyn alzò la testa dalla consolle. «Forse ci siamo. Rilevo una nave simile alla nostra, alla deriva su un’orbita ellittica. Invio le coordinate al timone».
   «Ce le ho» disse Shati, che attendeva con impazienza ogni progresso. «Vediamo che c’è là fuori» disse, accelerando a massimo impulso verso la zona indicata.
 
   La CSS Destiny campeggiava sullo schermo, inclinata su un lato, così da mostrare sia lo scafo centrale squadrato, sia la sezione ad anello che la circondava. Era illuminata fiocamente sia dalla stella lontana, sia dal tenue bagliore dello Spazio Fluido. Nel vederla, il Capitano provò uno strano senso di déjà vu. Così gli era apparsa l’USS Destiny, tre anni prima, quando l’avevano trovata alla deriva nella Nebulosa del Toro. All’epoca non sospettava minimamente quanto gli sarebbe costato abbordarla. Tuttavia non lo rimpiangeva, perché senza di quello non avrebbe mai conosciuto Giely.
   «Tutto bene?» chiese la Vorta, notando la sua espressione assorta.
   «Sì, è solo che mi ricorda quando trovammo questa nave. Quando trovai te» ammise Rivera. Sembrava passato un secolo dalla prima volta che l’aveva vista, sconvolta e senza memoria, nella sala macchine oscurata della Destiny. Ne avevano fatta di strada, da allora...
   Giely annuì, pensando la stessa cosa. All’epoca era sull’orlo della follia, ma adesso si sentiva più sicura e padrona di sé. «Cerchiamo dei superstiti» disse. Lasciò la poltroncina del Consigliere e affiancò Talyn ai sensori. I due esaminarono scrupolosamente la nave alla deriva, in cerca di segni vitali.
   «Niente da fare. O non ci sono superstiti, o sono schermati alla perfezione» concluse la Vorta.
   «Però la nave in sé ha qualcosa di strano» fece l’El-Auriano, proseguendo le analisi.
   «Strano in che senso?» chiese il Capitano.
   «Beh, sembra che abbia subito gravi danni... e che sia stata riparata» chiarì il giovane, inquadrando una sezione di scafo. Alcune piastre erano state sostituite, presumibilmente per riparare una falla. Tuttavia non erano state verniciate, così che il restauro saltava all’occhio. Talyn individuò altre anomalie del genere. Uno dei collettori Bussard integrati nell’anello sembrava ricostruito di sana pianta, con una forma leggermente diversa dall’altro. E il deflettore di navigazione era riparato in modo estroso, con dei componenti aggiuntivi che lo rendevano più sporgente.
   «Vorrei sapere chi ha fatto quegli interventi» commentò Irvik. «In mancanza di un cantiere spaziale, devono aver richiesto anni di lavoro. Siete proprio certi che non ci sia nessuno a bordo?».
   «Nessuno di organico, ma... forse ho la risposta» disse Talyn. «Rilevo attività elettrica compatibile con la presenza di Exocomp. Credo abbiano riparato loro la nave, un poco alla volta, in questi otto anni». Anche l’USS Destiny aveva un’ampia fornitura di quei robottini riparatutto, simili ad angurie fluttuanti, che fornivano un indispensabile aiuto agli ingegneri.
   «Sono stati capaci di farlo?» fece Rivera, colpito. In genere gli Exocomp non prendevano iniziative, limitandosi a eseguire gli ordini degli ingegneri. Di certo non aveva mai sentito che riparassero da soli un’intera astronave malridotta.
   «Perché no? Alcuni Exocomp sono più intraprendenti, come il nostro Ottoperotto» disse Talyn, riferendosi all’Exocomp numero 64, che aveva spesso dimostrato carattere e spirito d’iniziativa.
   «Uhm, sì...» fece Irvik, che lavorava ogni giorno coi robottini. «Se sono rimasti lì per tutti questi anni, possono aver preso a comunicare tra loro ed essersi organizzati per riparare la nave. In assenza di supervisione, sembra che si siano presi qualche... licenza creativa. Forse gli mancavano i pezzi di ricambio. O forse hanno persino cercato di migliorare l’astronave» ipotizzò.
   «Quindi possiamo assumerne il controllo, per unirla alla nostra forza?» chiese Naskeel.
   «Frena! Prima dobbiamo ispezionarla» raccomandò l’Ingegnere Capo, recatosi alla postazione sensori. «In questo momento l’energia è al minimo. Saliamo a bordo e proviamo a ripristinarla, accertandoci che la nave non esploda. Assicuriamoci che gli Undine non abbiano lasciato bombe o trappole. Solo a quel punto si potrà parlare di assumere il controllo della nave. E ricordiamo che, non appena la metteremo in movimento, gli Undine se ne accorgeranno e ci manderanno contro le bionavi. Dobbiamo decidere bene come usarla, prima d’attirare la loro attenzione» raccomandò.
   «Già, e non sarebbe male accedere ai diari dei sensori, per sapere cos’è successo all’equipaggio» ragionò il Capitano. «Bene, allora è deciso. Naskeel, Irvik, radunate le vostre squadre. Abbordiamo quella nave».
 
   Come avevano fatto tre anni prima con l’USS Destiny, anche stavolta gli avventurieri si teletrasportarono dapprima in plancia, per verificare le condizioni dell’astronave. Indossavano le tute spaziali, perché il supporto vitale era al minimo: le superfici erano coperte di brina e i livelli d’ossigeno erano bassi. Appena arrivati attivarono i faretti delle tute, in quanto anche le luci erano spente, e si guardarono attorno con le armi in pugno. Ciò che videro gli gelò il sangue nelle vene.
   Al centro della plancia, davanti alla poltroncina del Capitano, c’era una pila di cadaveri più o meno smembrati, preservati dal freddo. Erano gli ufficiali della CSS Destiny. Rivera riconobbe il Capitano Dualla, ovvero il suo alter-ego dello Specchio, con l’uniforme bianca dei Pacificatori. Lei e gli altri erano stati uccisi in modi spaventosi. Alcuni erano letteralmente fatti a pezzi. Altri recavano graffi da cui si originavano disgustosi filamenti organici, che li avevano avvolti e consumati. Il Capitano ricordò che agli Undine bastava un’unghiata per iniettare le loro cellule, che poi si moltiplicavano, divorando le vittime.
   «Mi ricorda l’altra volta» disse Shati, l’unica a non aver acceso i faretti. I suoi occhi felini scintillavano nella penombra, permettendole di vedere agevolmente. Passò la mano sulla consolle del timone, rimuovendo la brina per leggere i dati.
   «L’altra volta non c’erano questi» commentò Rivera, accennando ai corpi. «Beh, almeno ora sappiamo cos’è successo all’equipaggio». Guardò di sottecchi Talyn, che all’epoca aveva percepito un’eco dell’accaduto, come un’impronta emotiva.
   «Sì, è andata così» mormorò l’El-Auriano, accostandosi alla pila di corpi, pur senza toccarla. «Questo equipaggio ha opposto più resistenza dell’altro, perciò invece di catturarli gli Undine li hanno massacrati. Non solo qui, ma in tutta la nave. È come se le paratie fossero impregnate del loro terrore... delle loro sofferenze...» mormorò, chiudendo gli occhi.
   «Questo non ha senso» disse Naskeel. Era l’unico del gruppo a non indossare la tuta spaziale, data la conformazione aliena, accontentandosi del suo solito campo di forza.
   «Ssshhh!» lo zittì il Capitano. «Questa è psicometria, la capacità di percepire le emozioni che hanno impregnato un oggetto o un luogo. Talyn è l’unico individuo che io abbia mai incontrato a possederla».
   «Mi pare una pseudo-scienza, Capitano» obiettò il Tholiano.
   «Un tempo lo credevo anch’io. Ma gli El-Auriani hanno una sensibilità sconosciuta alle altre specie» insisté Rivera. Dopo di che si accostò al giovane, posandogli una mano sulla spalla. «Già, gli Undine sono dei gran bastardi. Vuoi tornare sulla nostra nave?» chiese, temendo che fosse troppo scosso per rimanere.
   «No, è tutto a posto, Capitano» si riscosse Talyn. Si recò alla postazione sensori e comunicazioni, ripulendola dalla brina prima di mettersi al lavoro.
   Intanto Irvik stava armeggiando coi controlli del supporto vitale. Ripristinò l’illuminazione, ma per il momento non alzò la temperatura né i livelli d’ossigeno, per evitare che i cadaveri – fino ad allora congelati – prendessero a marcire. Fatto questo, raggiunse Talyn alla sua postazione, trovandolo indaffarato.
   «M’è venuta un’idea» disse il giovane. «Noi siamo dispersi perché gli Undine ci hanno cancellato le coordinate quantiche dal computer, ma... lo avranno fatto anche qui?».
   Queste parole riaccesero la speranza tra i presenti. Tutti osservarono l’El-Auriano e il Voth che ricercavano le preziose informazioni nel database. «Ci siamo! È... è...» fece Talyn, ma le sue braccia ricaddero.
   «Allora?!» fece Shati, impaziente.
   «Qui ci sono solo le coordinate quantiche dello Specchio» mormorò il giovane, deluso.
   «Se questa nave era costruita per esplorare l’interfase, può darsi che non ne abbia mai avute altre in memoria» borbottò Irvik.
   «Frell, un altro buco nell’acqua!» ringhiò Shati. Era così stizzita che agguantò la sedia del timoniere e la scaraventò lontano, provocando uno sferragliamento metallico.
   «Datti una calmata!» l’ammonì il Capitano. «Siamo tutti delusi e arrabbiati per la situazione. Ma questa nave è comunque una risorsa da sfruttare. Cerchiamo di non sprecarla».
   Nell’ora successiva, Irvik e Talyn richiamarono i diari dei sensori, trovando conferma a quello che ormai era evidente. La CSS Destiny era stata attaccata in forze dagli Undine non appena era sbucata nello Spazio Fluido. Decine di bionavi l’avevano circondata, bersagliandola fino ad abbattere gli scudi. A quel punto gli alieni l’avevano invasa, massacrando l’equipaggio con una ferocia bestiale. Le registrazioni mostrarono gli Undine che attraversavano i campi di forza, avendo adattato il loro campo bio-elettrico, e laceravano le porte a mani nude. Parecchi per la verità erano stati abbattuti dai difensori, ma altri erano sopraggiunti, fino a prendere il sopravvento. Alcuni Pacificatori erano fuggiti con navette e capsule, cercando di riattraversare l’interfase, ma erano stati tutti distrutti, certo per impedire che riferissero l’accaduto. Nel giro di poche ore, gli ultimi Pacificatori nascosti a bordo erano stati stanati e uccisi. Gli Exocomp, invece, erano stati ignorati. Al termine della caccia, gli Undine avevano scaricato i dati dal computer e saccheggiato le stive. Avevano anche trafficato in sala macchine, installando qualcosa, ma l’inquadratura non mostrava di che si trattasse. Infine avevano abbandonato la nave alla deriva.
   «Si direbbe che da allora gli Undine non siano più tornati a bordo» concluse Talyn, scorrendo rapidamente i diari dei sensori.
   «Ma gli Exocomp non si sono fermati un istante. E in otto anni hanno rimesso in sesto la nave» notò Irvik, scorrendo un’interminabile lista di riparazioni. I robottini avevano diligentemente trasmesso i loro rapporti al computer, anche se non c’era più nessuno a leggerli. «Credo proprio che con poco sforzo potremo riattivare la nave. Dobbiamo solo andare in sala macchine, per esaminare il nucleo e prendere il controllo degli Exocomp».
   «E per verificare cos’è quel congegno installato dagli Undine» aggiunse Naskeel. «Potrebbe essere un’arma, o un sensore in grado di avvertirli della nostra intrusione».
   «Allora andiamo, e stiamo all’erta» ordinò il Capitano.
 
   L’attraversamento della nave fu inquietante, dato che i cadaveri dell’equipaggio erano disseminati ovunque. Gli Exocomp, pur riparando i danni al vascello, avevano lasciato i corpi dov’erano, non essendo programmati per disporre le esequie. Almeno le luci erano riattivate, il che dava alla nave un’aria meno spettrale.
   Gli avventurieri giunsero infine in sala macchine, dove alcuni Exocomp erano tuttora all’opera. Pareva che facessero controlli e revisioni, avendo ormai terminato le riparazioni vere e proprie. Il nucleo quantico pulsava lentamente, al minimo della potenza, e sembrava in ordine. Ma l’attenzione della squadra fu calamitata dal congegno sconosciuto che si trovava addossato a una parete.
   Era un grande anello di metallo scuro, del diametro di 6,7 metri, infisso nel pavimento in modo da formare un arco che era possibile attraversare. La sua superficie era istoriata da strani simboli. In particolare sulla parte più interna dell’anello vi erano dei geroglifici, mentre sull’orlo esterno si trovavano sette chevron – simboli a V – equidistanti.
   «E questo che diavolo è?!» fece il Capitano, avvicinandosi cautamente. Gli sembrava un arco trionfale, ma perché portarlo sull’astronave? E perché lasciarlo addossato alla parete, così che non si poteva neanche varcarlo?
   «Per il Mondo Perduto! Somiglia a un antico portale iconiano» commentò Irvik, osservandolo affascinato. «L’Impero Iconiano fiorì oltre 200.000 anni fa. Il suo punto di forza erano i portali con cui si poteva passare da un pianeta all’altro, in tutta la Via Lattea, senza bisogno d’astronavi. Erano come... porte per le stelle».
   «E pensi che sia uno di quei portali?» s’interessò Rivera.
   «Non ne sono certo... in realtà erano un po’ diversi. Ma la funzione sembra quella. Guardate, l’hanno collegato al nucleo quantico per fornirgli l’energia!» notò, indicando dei cavi di collegamento.
   «E per attivarlo?» chiese il Capitano, ancora dubbioso.
   «Forse da qui» disse il Voth, accostandosi a una strana consolle collegata all’anello. Sembrava una meridiana, in quanto su una colonnina era posto un quadrante fitto di geroglifici, gli stessi incisi sull’arco. Erano disposti in doppio cerchio attorno a un castone centrale rosso.
   «Uhm, questi caratteri non sono iconiani» disse Talyn, esaminandoli col tricorder. «Anzi, non si trovano affatto nel nostro database linguistico».
   «Beh, se non è un portale iconiano, può essere un suo equivalente!» insisté l’Ingegnere Capo, tutto emozionato. Anche lui impugnò il tricorder e prese a esaminarlo. «L’anello è composto da una lega sconosciuta, ma incredibilmente resistente. Direi che è un grande superconduttore. Quei simboli... credo che si debba selezionarli tramite il pannello comandi per fissare la destinazione. Ci sono sette chevron, quindi forse occorrono sette simboli» dedusse. «Capitano, questo congegno è una scoperta eccezionale. Merita un esame approfondito. Dobbiamo portarlo sulla nostra Destiny, per studiarlo con calma».
   «Per adesso lo esaminerà qui, finché sarà certo che non è pericoloso» decise Rivera. «Ma prima faremo ciò per cui siamo venuti. Dobbiamo prendere il controllo degli Exocomp e ripristinare la piena energia» gli ricordò.
   «Uhm, sì, sì...» borbottò Irvik, allontanandosi a malincuore da quella meraviglia tecnologica. Confabulò con i suoi ingegneri, poi prese contatto con gli Exocomp. Cercò di convincerli che loro erano i rinforzi inviati dai Pacificatori per rioccupare la nave e proseguire la missione. Dopo qualche tentennamento, i robottini parvero credergli. Allora Irvik teletrasportò a bordo Ottoperotto e lo mise a capo degli Exocomp, per accertarsi che si attenessero agli ordini. Il robottino pigolò tutto eccitato e prese a conversare elettronicamente coi suoi simili, scambiando grandi quantità di dati sulle riparazioni. Nel frattempo gli altri ingegneri ripristinarono il pieno supporto vitale in sala macchine e spostarono i resti dei Pacificatori. Così finalmente tutti poterono togliersi le tute spaziali, lavorando più agevolmente.
 
   Vedendo che le cose volgevano al meglio, Rivera lasciò gli ingegneri e si accostò a Talyn, che dopo essersi tolto la tuta era tornato a esaminare il portale. «Tutto bene?» gli chiese, vedendolo assorto.
   «Questo oggetto... è impregnato di storia, di ricordi» mormorò l’El-Auriano, passando la mano nuda sulla sua superficie. «Credo che sia molto antico».
   «Quando dici antico, intendi...».
   «Intendo milioni di anni» fu la sorprendente risposta. «Sento che fu creato con buoni propositi, per unire la Galassia, ma... credo che in seguito sia stato usato per il male». D’un tratto i suoi occhi si arrovesciarono. Ebbe la fugace visione di un essere serpentino che si contorceva, di guardie dagli elmi di foggia animalesca e di un faraone con gli occhi che brillavano.
   «Usato per il male? Anche di recente?» si preoccupò Rivera.
   «Io... non sono certo...» mormorò il giovane. Staccò la mano dall’arco e subito le visioni cessarono; i suoi occhi tornarono alla normalità. «C’è troppa storia, non riesco a mettere in ordine gli eventi. Forse col tempo...» spiegò, ma s’interruppe quando un fischio risuonò nella sala macchine.
   Sbigottiti, gli avventurieri videro che l’arco aveva preso a ruotare. Non girava l’intero anello, ma solo la porzione più interna, quella coi geroglifici. A un tratto il movimento si arrestò e uno chevron s’illuminò di rosso. Poi l’anello riprese a girare, fino a un secondo arresto e un secondo chevron attivato, e così via.
   «Sta fissando le coordinate!» gridò Irvik, più indietro. «Vedete? C’è una serie di simboli che sta attivando i chevron. Quando la sequenza sarà completa, il portale si aprirà!».
   «Io non ho toccato niente!» fece Shati, aspettandosi d’essere incolpata.
   «Nessuno di noi ha attivato il portale. Dunque l’hanno fatto dall’altra parte» disse Naskeel, imbracciando la sua arma. In previsione di uno scontro con gli Undine aveva scelto un fucile TR-116, simile alle antiche armi da fuoco a propellente chimico. Al posto dei proiettili, tuttavia, sparava dardi che iniettavano le nanosonde letali per gli Undine. Nello scontro di tre anni prima, quelle armi si erano dimostrate più efficaci dei phaser.
   «Prepariamoci alla visita!» disse il Capitano. Impugnò il phaser e arretrò di qualche passo, imitato da Talyn. Considerate le decine di mondi radunati in quel sistema, quasi tutti abitati, non era certo che stessero arrivando gli Undine; né voleva cedere facilmente la CSS Destiny. Quindi avrebbe atteso i visitatori e solo nel peggiore dei casi avrebbe ordinato la ritirata. Intanto sei chevron si erano già attivati; mancava solo quello in cima all’arco. L’anello interno continuò a girare, finché l’ultimo simbolo andò in posizione. Lo chevron apicale brillò di rosso e scattò verso il basso, bloccando l’anello. Un bagliore azzurro comparve al centro del portale, segno che si stava attivando.
   «GIÚ!» gridò Talyn. Balzò addosso a Rivera e lo placcò come un giocatore di football, schiacciandolo sul pavimento. Il Capitano fu così sorpreso che non reagì; del resto non poteva certo sparare al giovane amico.
   L’attimo dopo un vortice d’energia azzurra scaturì dal portale, balenando sopra di loro. Sulle prime parve un’esplosione, destinata ad allargarsi a tutta la sala, ma non fu così. Dopo essersi proiettato in avanti di pochi metri, il vortice si arrestò e invertì il suo moto, venendo riassorbito dal portale. Rivera sentì il calore intenso e comprese che si trattava di un picco energetico, scaricatosi al momento dell’apertura. Se Talyn non lo avesse placcato con perfetto tempismo, quel vortice lo avrebbe vaporizzato dalle ginocchia in su.
   «Tu lo sapevi?!» ansimò il Capitano.
   «Ho avuto un presentimento» rispose l’El-Auriano. Si rialzò agilmente e gli porse la mano, aiutandolo a tirarsi su.
   «Mi hai salvato la vita» riconobbe l’Umano. «Ora vediamo chi arriva!».
   I due arretrarono precipitosamente, coi phaser in pugno, osservando il portale. L’arco metallico adesso incorniciava una superficie fluida bianco-azzurra, lievemente increspata. Era così luminosa che il Capitano poteva guardarla a stento. Comprese che era l’orizzonte degli eventi di un wormhole artificiale, come aveva previsto Irvik.
   Per un attimo tutti rimasero in silente attesa, schermandosi gli occhi dal bagliore. Poi la creatura emerse dal portale e scattò in avanti.
 
   Era indubbiamente un Undine, col corpo violaceo sorretto da tre zampe, i lunghi artigli e gli occhi gialli dalle pupille cruciformi. Rivera aveva scordato quanto fossero grandi: la testa dell’alieno lo fissava da tre metri d’altezza. Aveva anche sottovalutato la loro rapidità: in un istante la creatura gli fu addosso.
   «Fuego!» gridò il Capitano, sparandogli in faccia col phaser a massima potenza. Gli centrò un occhio giallastro, spappolandolo. L’Undine emise un ringhio bestiale e cercò d’artigliare l’avversario, ma il dolore e la vista offuscata andarono a detrimento della sua mira. Rivera balzò di lato e rotolò a terra, sfuggendo all’unghiata. Si rialzò e sparò di nuovo, colpendo l’alieno in pieno petto. Nel frattempo anche Naskeel e la sua squadra avevano aperto il fuoco, colpendo l’Undine coi dardi avvelenati. Anche Talyn sparò col phaser, centrandogli l’altro occhio e lasciandolo cieco.
   L’alieno si contorse, ferito e dolorante. Cercò d’attaccare ancora il Capitano, guidato da qualche percezione extrasensoriale, ma incespicò e dovette fermarsi. Allora gli avventurieri si disposero a semicerchio, crivellandolo con un fuoco intenso e continuato.
   «Così, non dategli respiro!» gridò Rivera, sovrastando il frastuono della gragnola.
   «CADI! CADI!» strepitò Shati, eccitata dalla battaglia.
   «Guardate avanti!» disse però Irvik, indicando il portale.
   Dall’orizzonte degli eventi stavano uscendo altri Undine. Gli avventurieri dovettero cessare l’attacco al primo, ormai inerte al suolo, e colpire anche loro.
   «Rivera a Destiny, teletrasporto per tutta la squadra!» ordinò il Capitano, accorgendosi che non li avrebbero trattenuti a lungo. Passarono i secondi, che gli parvero lunghi come ore. Gli alieni continuavano a sbucare dal portale, guadagnando terreno. Che aspettava la Destiny a trarli in salvo?!
   «Qui Destiny, non riusciamo ad agganciarvi. C’è un pozzo gravitazionale in sala macchine, che interferisce. Uscite da lì!» rispose infine Losira.
   «Il portale!» comprese Rivera, maledicendosi per non averlo capito subito. Come tutti i wormhole, anche quello ostacolava il teletrasporto. «Avete sentito? Via!» ordinò.
   Gli avventurieri indietreggiarono verso l’uscita, continuando a sparare. Altri Undine caddero, sopraffatti dai raggi phaser o dai dardi avvelenati. Ma uno dei nuovi arrivati, ancora illeso, spiccò un balzo spettacolare, atterrando proprio davanti a Talyn. Con una manata lo disarmò, facendogli volare via il phaser. L’attimo dopo lo afferrò per la gola, sollevandolo da terra. Il giovane cercò convulsamente di liberarsi, ma non poteva allentare una stretta capace di lacerare il metallo. Allora tentò di chiedere aiuto, ma era mezzo strangolato; dalle sue labbra uscì appena un rantolo. Non che avesse bisogno di gridare: tutti i compagni lo avevano visto e avrebbero voluto aiutarlo. Ma temevano di colpirlo accidentalmente, nel tentativo di centrare l’Undine. Rivera e Shati esitarono, correggendo più volte la mira. Infine desistettero, consapevoli che il minimo errore avrebbe ucciso Talyn.
   Naskeel invece aprì il fuoco, mirando alla testa dell’alieno. Ma con un gesto fulmineo della mano libera, questi afferrò a mezz’aria il dardo avvelenato, per poi lasciarlo cadere. Il Tholiano avrebbe voluto sparare di nuovo, ma aveva contato i colpi e si accorse di aver esaurito i proiettili. Ecco l’inconveniente di usare un’arma così primitiva! Dovette aprire il fucile e ricaricarlo in tutta fretta, mentre il resto della squadra sparava alcuni colpi di phaser. Colpito un paio di volte, l’Undine vacillò e arretrò verso il portale, sempre facendosi scudo con l’ostaggio. Anche gli altri alieni si stavano tutti ritirando.
   «Fermi, così colpirete Talyn!» gridò Rivera. Coi phaser regolati al massimo, il primo errore di tiro avrebbe disintegrato il giovane.
   «Allora che facciamo?!» chiese Shati, combattuta fra il desiderio di salvare l’amico e il timore di colpirlo.
   Il Capitano non aveva una risposta. Osservò impotente gli Undine che si ritiravano nel portale, uno dopo l’altro. Infine anche il sequestratore vi svanì, trascinandosi dietro Talyn.
   «NO!» gridò Rivera, scattando in avanti. Se il portale si richiudeva, non conosceva le coordinate giuste per riaprirlo. E non poteva abbandonare il giovane amico; non dopo che lui l’aveva salvato dal vortice d’energia. Giunto davanti al tremulo orizzonte degli eventi, l’Umano lo varcò in un impeto di disperazione.
 
   Rivera non aveva mai provato nulla del genere. Fu come se ogni atomo del suo corpo fosse afferrato e spinto in avanti attraverso gli spazi siderali. Per un attimo ebbe la visione di un tunnel spaziale serpentino, attraverso cui era sparato a velocità assai superiore alla luce. Poi si ritrovò a incespicare all’aperto, in un vasto salone. Era giunto dall’altra parte del wormhole.
   Si trovò in una sala dalle sinuose linee organiche. Pareti, pavimento e soffitto sfumavano gli uni negli altri senza angoli retti, ma con morbide curve. Tutte le superfici erano arancioni e gialle, il colore dei vascelli Undine. Davanti a lui c’erano una ventina di alieni, tra cui quello che aveva afferrato Talyn. Alle loro spalle vi era un ampio finestrone, attraverso cui Rivera vide il mondo rossastro che aveva battezzato Arena. Ma certo, si trovava sull’Harvester, in orbita attorno al pianeta.
   L’ingresso del Capitano creò forte agitazione tra gli Undine. Apparentemente non si aspettavano che osasse seguirli. Alcuni fecero per balzargli contro, con gli artigli protesi per squartarlo; ma d’un tratto si fermarono, obbedendo a un ordine telepatico.
   Uno degli Undine si fece avanti. Era assai più massiccio di corporatura rispetto agli altri. Aveva quattro occhi e una mascella conformata come quella umana, che gli permetteva di articolare parole. Doveva appartenere a una casta superiore, mai vista prima.
   «Io sono il Supervisore» si presentò la creatura con voce cavernosa. «È da quando distrusse la biosfera che aspettavo d’incontrarla, Capitano Rivera. Devo ammettere che sono colpito. Non mi aspettavo che voi avventurieri sopravviveste così a lungo. E di certo non mi aspettavo di trovarvi qui, nel mio dominio».
   «Magari la sorprenderemo ancora» ribatté il Capitano. «Liberi il ragazzo e potremo trovare un accordo».
   «Andatevene per sempre, non osate mai più infastidirmi, e vi lascerò in vita. Questo è l’unico accordo in cui può sperare, Capitano, e non immagina quanto sia generoso» disse il Supervisore.
   «Se lei e i suoi tirapiedi poteste rilevarci, ci avreste già distrutti. Deduco quindi che non ne avete la capacità» obiettò Rivera. «Vi abbiamo infastiditi? È solo l’inizio. Questo non è il vostro dominio, sono mondi che avete rubato. Se non accettate di trattare, diremo a tutte le potenze interstellari chi siete, cosa avete fatto e come raggiungervi. Così l’intero Multiverso sarà contro di voi!» avvertì.
   «Per ogni intruso che chiamerete qui, io manderò una flotta a distruggere un mondo federale» minacciò il Supervisore. «Ci pensi, prima di condannare interi popoli per ripicca. Questi mondi che vede, ora appartengono al nostro spazio, e io li sbriciolerò piuttosto che cederli» disse stringendo il pugno.
   A queste parole Rivera esitò. Una mossa falsa da parte sua poteva davvero condannare la Federazione. In quella notò che Talyn, ancora trattenuto dall’altro Undine, indicava freneticamente qualcosa dietro di lui. Il giovane non aveva fiato per parlare, ma le sue labbra si mossero a sillabare le parole: «Portale... chiude...».
   Il Capitano comprese che il wormhole artificiale stava per chiudersi alle sue spalle, intrappolandolo lì con gli Undine. E dopo che aveva osato sfidare il Supervisore, non dubitava che lo avrebbero fatto a pezzi. L’Umano reagì istintivamente, balzando all’indietro. Si sentì di nuovo proiettare in quel budello attraverso lo spazio. L’esperienza fu ancor più disorientante dell’andata, perché ora veniva trascinato all’indietro. Infine sbucò nella sala macchine della CSS Destiny. Trascinato dall’impeto cadde all’indietro, atterrando di schiena.
   «Capitano, sei tornato!» gioì Shati, balzandogli a fianco.
   Sconvolto, Rivera alzò gli occhi al portale, appena in tempo per vederlo chiudersi. Stavolta non ci furono vortici distruttivi. L’orizzonte degli eventi svanì semplicemente, lasciando l’arco metallico dall’apparenza così innocua. Anche gli chevron si disattivarono, tornando in posizione di riposo. L’Umano stentò a credere a ciò che era appena successo. Ma i resti di cinque Undine morti sul pavimento attorno a lui erano una prova fin troppo convincente dell’accaduto.
   Con l’aiuto di Shati, il Capitano si rialzò, ignorando la schiena dolorante. I suoi ufficiali si raccolsero attorno a lui, in attesa di ordini o almeno di un resoconto, ma la voce sembrava averlo abbandonato. In quella il suo comunicatore si attivò. «Destiny a Rivera, il pozzo gravitazionale è sparito, ora possiamo imbarcarvi» giunse la voce ansiosa di Losira. «Ma non troviamo i segni vitali di Talyn, che ne è di lui? Ripeto, che è successo a Talyn?!» domandò. E rimase in attesa della risposta. 
 
   
 
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