“Metti
cento leoni al comando di un cane
e moriranno come cani.”
CAPITOLO 5
LA CADUTA DEL CASTELLO
Quella sera al villaggio si scatenò
una festa come non se n’erano mai viste.
Tutti
ballavano, cantavano, bevevano e mangiavano, mentre nel buio della valle ancora
si intravedevano i pinnacoli di fumo prodotti dalle pire ormai estinte su cui
solo qualche ora prima avevamo bruciato i caduti.
Sembrava
quasi che la gioia per la vittoria avesse fatto già dimenticare a tutti il
massacro al quale erano sopravvissuti.
Ma
non ero troppo sorpreso.
Se
c’era una cosa che accomunava gli schiavi e i soldati era il doversi sempre
confrontare con la morte, al punto che ormai accettare e metabolizzare il lutto
era una cosa che la loro mente riusciva a fare con una facilità sconvolgente.
Quanto
a me, tra la marcia e tutto il resto, ero talmente stanco da non riuscire a
reggermi in piedi, così decisi di andare subito a dormire in un fienile.
Speravo
di concedermi giusto qualche ora di sonno per poi tornare a pianificare le
nostre prossime mosse, ma la mia prima, vera battaglia dopo tanti anni doveva
aver ridestato in me pensieri funesti.
Mi
ritrovai a camminare in una pianura brulla e oscura, immersa in una nebbia
spettrale, circondato da tombe e croci.
Mentre
cercavo di uscirne, eccolo apparire da dietro uno dei tumuli e fermarsi a poca
distanza da me.
Quel
cane.
Quel
maledetto cane!
Mi
fissava con quei suoi occhi scuri, uggiolando e mugolando in modo così
fastidioso da farmi scoppiare le orecchie, e per quanto cercassi di mandarlo
via non c’era verso che obbedisse. Quell’immagine mi aveva perseguitato per
tutta la vita, e ora era tornata per tormentarmi anche in questa.
Smettila.
Non guardarmi così. Non è stata colpa mia. Non avevo scelta. Vattene… Lasciami
stare. Lasciami in pace!
Uno
strattone mi riportò violentemente indietro nel mondo reale, e mai interruzione
di un breve momento di riposo fu più gradita.
«Daemon.»
«Scalia.»
«Va
tutto bene? Sei pallido e stai tremando, e ti sentivo parlare nel sonno.»
«Tranquilla,
non è niente. Solo un brutto sogno. Cosa c’è?»
«Passe
vuole parlarti. Dice che è molto importante. Pare abbiano catturato un
prigioniero, qualcuno che conta.»
«Arrivo
subito.»
Non
dico che non mi aspettassi ciò che stava per succedere, tuttavia non fui
eccessivamente sorpreso quando dopo essere entrato nella capanna che avevamo
destinato a quartier generale trovai ad accogliermi l’enigmatico e decisamente
irritante sorrisetto di Adrian.
«Era
ora. Non lo sai che il comandante non dovrebbe mai sottrarsi ai festeggiamenti
dopo una battaglia? Si dice che porti sfortuna.»
«Daemon!»
strillò Scalia snudando gli artigli e sfoderando le zanne «Lasciami uccidere
questo bastardo!»
«Calma,
Scalia.»
In
realtà io stesso non avevo mai deciso realmente cosa fare nel caso in cui mi
fossi trovato in quella situazione; per esperienza sapevo che quelli della
stessa pasta di Adrian erano capaci nello stesso giorno di guidare il tuo
esercito alla vittoria e di scannarti nel sonno.
E
io non avevo alcuna intenzione di accompagnarmi di nuovo a simili opportunisti
voltagabbana.
«Mia
sorella mi ha raccontato quello che le hai fatto. Dammi un solo motivo per cui
non dovrei sventrarti qui e adesso.»
«Avanti,
non ho fatto niente di così grave. Non l’ho nemmeno toccata, se così si può
dire. E comunque l’avevo capito subito che c’entravi qualcosa con tutta quella
storia. Avrei potuto dirlo a mio padre e mettervi tutti nei guai, e invece sono
stato zitto. Almeno questo me lo devi.»
Onestamente
mi ero sempre chiesto come avesse fatto uno con il suo acume a non intuire
qualcosa di poco chiaro nel modo in cui avevo fatto sparire Scalia da sotto il
suo naso, ma avevo preferito non indagare oltre convincendomi di essere
semplicemente riuscito a ingannarlo.
Ora
sapevo che la prima impressione che avevo avuto di lui era corretta, e la cosa
mi mandava in bestia: perché anche se mi disgustava, allo stesso tempo non
potevo fare a meno di ammirarlo.
«Dove
l’avete preso?»
«È
venuto lui da noi. Si è arreso alla nostra pattuglia nella valle assieme a
tutti i suoi uomini.»
«Quei
pochi che sono rimasti. Ammetto che non avevano mai visto una battaglia degna
di questo nome, ma mai mi sarei aspettato che qualcuno potesse spazzare via la
mia unità in modo tanto semplice.»
Sembrava
che Scalia dovesse saltargli addosso da un momento all’altro, così per tenerla
calma estrassi la spada puntandola contro di lui.
«Hai
a disposizione dieci parole per convincermi a non lasciarti qui in mano a mia
sorella.»
«Me
ne bastano cinque. Posso guidarti dentro il Castello.»
Da
che mondo è mondo ogni trattativa è fondata su di un confronto dialettico in
cui due o più contendenti mettono sul piatto un’offerta destinata ad ottenere
dalla parte avversa il maggior guadagno possibile con il minor sacrificio.
In
qualche modo sapevo che malgrado potesse sembrare il contrario stavolta ero io
a sedere sul piatto sbagliato della bilancia, una situazione irritante in cui
chiunque odierebbe ritrovarsi.
Per
prima cosa occorreva eliminare i fattori di disturbo.
«Lasciateci
soli.»
«Daemon,
ma…»
«Tranquilla
Scalia, andrà tutto bene. Fidati di me.»
Dovetti
insistere un po’, ma alla fine riuscii a convincerla.
«Io
resto qua fuori. Al minimo sentore che qualcosa non va, verrò personalmente a
strapparti quel sorrisetto dalla faccia.»
«Lo
terrò a mente.»
Così
restammo soli, anche se per qualche istante tutto quello che riuscimmo a fare
fu fissarci vicendevolmente negli occhi alla ricerca del minimo cenno di
esitazione.
«Immagino
tu sappia che il nostro scopo è prendere la testa del governatore e reclamare
il controllo di questa regione. Perché dovresti agire contro tuo padre?»
«Ho
smesso di considerare quell’essere immondo mio padre molto tempo fa. Fin da
quando ne ho memoria non ho mai provato altro che disgusto nei suoi confronti.
Gli sono rimasto vicino nella speranza che migliorasse, ma ora basta. Non
getterò via la mia vita per seguire quell’incapace nella tomba.»
Un
pensiero condivisibile; anche se credevo con tutto me stesso nella sacralità
dei rapporti famigliari non li davo certo per assoluti.
Il
rispetto dovrebbe sempre essere guadagnato, e di motivi per portargli rispetto Longinus non ne aveva neanche uno.
«Fingiamo
che io decida di ascoltarti. Di preciso come penseresti di farci entrare lì
dentro?»
Al
che Adrian richiamò la mia attenzione sulla mappa del Castello aperta sul
tavolo.
«Con
il più classico dei trucchi. Un passaggio segreto.»
«Non
sapevo ne esistesse uno.»
«Perché
nessuno si è mai preoccupato di cercarlo. L’ingresso è qui, ai piedi della
torre di sud-est.»
«E
tu come l’hai scoperto?»
«Se
ne faceva menzione in alcune vecchie cronache. Immagino tu sappia che il
Castello è stato costruito sopra ad un palazzo più antico risalente a prima
delle Guerre Sacre. Il passaggio attraversa le vecchie rovine, scivola sotto la
piazza d’armi e sbuca fuori proprio qui, nelle cantine del palazzo.»
Mi
colse un dubbio.
«E
se il Governatore lo usasse per scappare?»
«Lo
farebbe se sapesse della sua esistenza. Non credo che quel porco abbia mai
letto un libro in vita sua, e lo stesso vale per i suoi uomini.»
Quasi
che si aspettasse ciò che stavo per dire, nel momento in cui alzai lo sguardo
dalla mappa lo trovai già intento a fissarmi.
«Interessante
suggerimento. Ora che me l’hai dato però, cosa mi impedisce di dire a Scalia di
rientrare in questa stanza e lasciare che si occupi di te?»
«Buona
fortuna. Quel posto è un labirinto. Io ci ho impiegato dei mesi per trovare il
percorso giusto. Senza di me ti perderesti in due secondi.»
«Potrei
sempre occuparmi di te dopo aver sistemato tuo padre.»
«Potresti.
Ma non lo farai.»
«Perché
ne sei così convinto?»
«Per
lo stesso motivo per il quale hai salvato quel drago. Perché ti serviamo.»
Ammetto
che il modo in cui mi guardò mi fece quasi gelare il sangue.
«Smettiamola
con questa commedia. Puoi ingannare quella manica di ingenui, ma non certo me.
Non c’è niente di nobile o di buono in ciò che stai facendo. Quello che vuoi è
una sola cosa, ed è il potere. Beh, lo voglio anch’io. Ma l’ambizione di
entrambi sarà destinata a sfracellarsi contro quelle mura, a meno che non
decidiamo di collaborare.»
Malgrado
quello che dicevano i preti non avevo mai considerato l’ambizione un vizio, ma
quella di Adrian era quasi pari alla mia; era come se stessi guardando allo
specchio il me stesso dei tempi di La Fere, un giovane spaccone spregiudicato
pronto a qualsiasi cosa pur di raggiungere gli scopi che si era prefissato.
«Io
sono stufo, Daemon. Stufo di quegli arroganti incapaci dell’Impero che non
sarebbero in grado di amministrare nemmeno un porcile. E io ne ho abbastanza di
combattere contro un sistema che si rifiuta di progredire. Mio padre è uno dei
peggiori, ma di certo non è l’unico. Comunque vada a finire, dopo quanto
successo qui la sua reputazione è destinata a sgretolarsi, ma io non ho nessuna
intenzione di andare a fondo insieme a lui.»
«Non
ho mai sentito di un impero con due sovrani. E temo che Eirinn sia troppo
piccola per tutti e due.»
«Non
sono così ambizioso. E anche se sono consapevole delle mie capacità non mi
considero certo al tuo livello.»
«E
allora si può sapere che cosa vuoi in cambio del tuo aiuto?»
«Non
è ovvio? La mia parte di gloria nel mondo che vuoi costruire. Che tu lo voglia
o meno ciò che stai facendo qui è destinato a sconvolgere non solo l’Impero, ma
più probabilmente l’intera Erthea. E io non intendo perdermi il cambiamento più
epocale che questo mondo abbia mai visto. Non solo, voglio esserne parte.»
Quando
ci si imbarca in imprese disperate raramente ci si può concedere il lusso di
scegliersi i propri alleati, e io lo sapevo bene.
Adrian
poteva diventare la risorsa più importante e decisiva a mia disposizione, ma
non ero sicuro di poter gestire… un altro me.
«Il
tempo sta scadendo amico mio.» mi disse ghignando, e sapendo di avermi messo
all’angolo. «Ron sarà pure leale a mio padre fino
alla morte, ma non è uno stupido. A quest’ora avrà già ordinato al suo miglior
esploratore di correre a Baxos a chiedere rinforzi. E
a Baxos in questo momento ci sono sia la Terza che la
Nona Legione. Ci vorrà tempo, ma presto o tardi arriveranno qui dal valico a
nord per portare soccorso. Sicuro di poter perdere tempo impelagandoti in un
assedio al Castello?»
Alla
fine, inevitabilmente, strinsi quella mano: che altro avrei potuto fare?
Ma
mentire sarebbe inutile: lo ammiravo. Perché chiunque riesca a trasformare una
sconfitta rovinosa in una mezza vittoria con ogni mezzo, anche i più subdoli,
dal mio punto di vista è degno della massima considerazione.
Naturalmente
Scalia non fu per niente contenta di vederlo lasciare la stanza sulle sue
gambe, e lo fu ancora meno quando le dissi che tipo di accordo avevamo siglato.
«Daemon
ti prego, dimmi che non hai davvero intenzione di farlo.»
«Non
abbiamo scelta Scalia. Se quello che ci ha detto è vero presto arriveranno
altri rinforzi.»
«E
noi li sconfiggeremo, come abbiamo già fatto.»
«Forse.
Ma quanti dovrebbero morire per poterci riuscire?»
Lei
abbassò gli occhi, digrignando i denti per la frustrazione.
«Però…»
«A
volte occorre mettere da parte l’orgoglio sorella. So che quello che ti ha
fatto è imperdonabile, però non puoi non ammettere che Adrian potrebbe essere
una risorsa molto preziosa.»
«Dovresti
averlo capito, quel tipo è l’ambizione personificata. Chi ci assicura che non
ci tradirà alla prima occasione se le cose dovessero mettersi male?»
«Non
lo farà.»
«Come
puoi esserne così sicuro?»
«Perché
combattendo per noi otterrà qualcosa che non potrebbe avere da nessun’altra
parte.»
«E
cioè?»
«Un’intera
nazione nelle sue mani, da plasmare a suo piacimento.»
E
credimi, io so meglio di chiunque altro quanto grande sia la soddisfazione che
viene dal possedere un tale potere.
Scalia
non sembrava per niente convinta, ma ormai si fidava a tal punto di me che non
si sarebbe mai permessa di mettersi di traverso nelle mie decisioni.
«Dopodomani
arriveranno altri rinforzi da Dundee. Per stanotte i soldati possono fare
baldoria, ma a partire da domani dovranno iniziare a raggruppare le proprie
cose. Questa Rivoluzione finirà prima della prossima luna.»
Il Governatore Longinus
non aveva mai chiesto di essere inviato ad amministrare una regione così
problematica e remota come l’Eirinn.
Tutto
quello che voleva nel momento in cui aveva accettato la nomina era concludere
quanto prima i dieci anni di incarico per poi tornare a Maligrad
e riceverne uno migliore, magari a ovest, lì dove abbondavano pascoli verdi,
spiagge incontaminate e fiorenti città commerciali.
Ma
per guadagnarsi una nuova assegnazione di maggior prestigio doveva meritarsela,
così aveva fatto di tutto per assicurarsi che la situazione rimanesse
tranquilla.
Sotto
la sua amministrazione le miniere avevano aumentato considerevolmente la
produzione di metalli preziosi ed il reunionismo era
stato quasi completamente stroncato; poco importava, almeno per lui, che ciò
fosse stato possibile attraverso turni di lavoro massacranti per gli schiavi e
una lista interminabile di esecuzioni.
E
ora che il bubbone era scoppiato, vedeva tutto ciò in cui aveva sperato per il
suo futuro sgretolarsi come un cristallo.
Quando
aveva visto la leggendaria Quindicesima Legione tornare dalla battaglia quasi
dimezzata aveva capito che ormai tutto era perduto, e che quella storia avrebbe
macchiato inevitabilmente la sua reputazione.
Tutto
quello che poteva fare era limitare i danni e tentare di risolvere la
situazione il più velocemente possibile; e dato che l’ultima cosa di cui aveva
bisogno era che una banda di bifolchi se ne andassero in giro a raccontare come
lui e i suoi uomini si stessero facendo massacrare da un pugno di schiavi
ribelli il suo ordine era stato di blindare il Castello e chiudere tutti i
valichi ancora sotto il loro controllo, impedendo a chiunque di lasciare la
provincia.
Sperava
ancora di poter risolvere la situazione internamente per non compromettere
ancora di più il suo prestigio e poter ancora sperare nella benevolenza
dell’Imperatore, per questo non fu per nulla contento di sapere che il Generale
Ron, subito dopo essere tornato, aveva immediatamente
ordinato di andare a chiedere rinforzi a nord senza prima consultarsi con lui.
All’inizio
aveva protestando minacciando fuoco e fiamme, ma alla fine si era convinto che
una reputazione rovinata era comunque preferibile al rimetterci la pelle.
Ma
in ogni caso sapeva che per lui non ci sarebbe più stato un futuro nell’Impero.
«Non
avete nulla di che temere, Mio Signore.» disse il Generale durante il consueto
incontro di metà mattina nella sala delle udienze. «Il Castello è una fortezza
impenetrabile, non importa quanto Haselworth possa impegnarsi, e abbiamo ancora
forze più che sufficienti per difenderlo senza fatica.»
«E
se cominciano a usare quei maledetti cannoni?»
«Questa
fortezza è stata pensata proprio per resiste ai cannoni, e oltretutto i loro
sono piuttosto piccoli. Anche usandoli tutti insieme impiegherebbero settimane
per aprire una breccia. Conosco personalmente i Generali Plinio e Agrippa che
comandano la Terza e la Nona Legione, saranno certamente qui al massimo entro
dieci giorni.»
«Ci
sono notizie di mio figlio?»
«Purtroppo
Mio Signore, il Nobile Adrian risulta ancora disperso. La sua unità non ha più
dato notizie dopo che si è offerto di coprire la nostra ritirata formando una
linea difensiva all’uscita della valle. Dobbiamo presumere che sia morto.»
«Quell’idiota.
Si dava tante arie, e alla fine sono bastati un pugno di straccioni per fare a
brandelli i suoi sedicenti campioni.»
Se
solo ripensava al fatto che la notizia di quanto stava accadendo nella sua
provincia era destinata a raggiungere la capitale probabilmente nell’arco di
una settimana, Longinus si sentiva ribollire il
sangue dalla rabbia.
«Già
me li immagino i senatori e i consiglieri che ridono di me. L’Imperatore non
vorrà neanche più vedermi. Forse quando questa storia sarà finita farei meglio
a mollare tutto e a cercare fortuna altrove. Dicono che le coste di Connelly
siano splendide in autunno.»
L’improvviso
rimbombare della campana della fortezza preannunciò l’arrivo degli invasori,
così il Governatore e Longinus si portarono
immediatamente –per quanto Longinus ne fosse capace,
data la sua scarsa affinità con gli sforzi fisici– in cima alla torre
panoramica.
Preceduta
da squilli di trombe e da un vessillo bianco, rosso e blu fatto di stracci,
migliaia di soldati armati e vestiti nei modi più diversi fecero la loro
comparsa da oltre la collina a sud, disponendosi in formazione allargata e
fermandosi ad alcune centinaia di metri dal centro abitato, al di là della
portata di arcieri, balliste e altre armi d’assedio.
Ron
non dovette neanche fare ricorso alla sua vista affinata per notare il cavallo
bianco di Daemon nel cuore dello schieramento nemico; se ne stava lì, come se
avesse voluto mettersi in mostra, mezzo nascosto dietro un pesante mantello e
circondato da orchi, minotauri e altri colossi a fargli da scudo.
Vedendo
arrivare i ribelli gli abitanti della città si lanciarono naturalmente tutti
verso la fortezza, trovando però le porte presidiate dalla guarnigione e in
procinto di essere chiuse.
Gli
ordini erano chiari: nessun civile era ammesso all’interno del Castello, dato
che il poco cibo che si era riusciti a stoccare nei granai affamando migliaia
di persone bastava a malapena per i soldati.
E
non ci fu pietà per nessuno; qualcuno addirittura ci rimise la pelle nel
tentativo di mettersi in salvo oltre le mura sfidando le lance dei legionari.
Nel
mentre i ribelli avevano portato avanti le proprie armi d’assedio; il
Governatore e il Generale si aspettavano di veder comparire quei maledetti
cannoni pronti a scatenare una pioggia di proiettili contro le mura e
l’abitato, perciò rimasero un attimo basiti da ciò che si palesò davanti ai
loro occhi.
«Catapulte!?»
disse Longinus
«E
fatte di rottami e scarti di lavorazione, per di più. Devono averle assemblate
in tutta fretta. Ma che cosa pensano di farci? È impossibile che possano
colpirci da così lontano.»
«Forse
vogliono spaventarci spianando la città. Che facciano pure. Meno bifolchi di
cui doversi preoccupare.»
E
in effetti i ribelli lanciarono qualcosa, ma non quello che tutti si sarebbero
aspettati.
Un
urlo si sollevò tra i cittadini per le strade.
«Pane!
Ci stanno lanciando del pane!»
Ma
il peggio doveva ancora venire.
«Generale!
Mio Signore!» strillò un legionario apparendo in cima alla torre. «Assieme al
pane i ribelli stanno lanciando anche questi!» e passò si due un bigliettino.
Abitanti
del Castello!
Non
siamo vostri nemici.
Il
governatore e i suoi cani rabbiosi vi stanno affamando e vi usano come scudi
umani per proteggersi.
A
loro non importa niente della vostra vita.
Lasciate
il villaggio e venite verso di noi.
Non
vi sarà fatto alcun male.
I
vostri fratelli di Dundee e Basterwick sono pronti ad
accogliervi.
I
nostri soldati hanno l’ordine di non saccheggiare o rubare niente. Le vostre
case e i vostri averi non saranno toccati.
Il
comandante delle forze rivoluzionarie.
Daemon
Haselworth
«Brutto bastardo!» sbottò Longinus facendo a brandelli il foglietto «Sparate su
chiunque tenti di abbandonare il villaggio!»
Nessuno
dei legionari ancora a disposizione di Ron proveniva
da Eirinn; molti però avevano degli amici tra gli abitanti del villaggio,
qualcuno persino dei famigliari.
Pertanto
nel momento in cui un gran numero di civili scelse di rispondere all’invito
mettendosi a correre verso l’esercito nemico la maggior parte dei soldati non
se la sentì di obbedire, malgrado l’addestramento. Il risultato fu che nel
momento in cui alcuni altri iniziarono a mirare sui cittadini in fuga si
scatenò sui bastioni una mezza rivolta.
«A
quanto pare ha funzionato, si stanno accapigliando tra di loro.» disse Septimus
guardando nel cannocchiale che Daemon gli aveva prestato. «Speriamo solo che
non si accorgano che io non sono Daemon.»
«E
che quel damerino inquietante non ci abbia imbrogliato.» disse Passe, in piedi
accanto a lui. «Per me Daemon sta correndo un rischio inutile.»
«Per me stai correndo un rischio
inutile Daemon.» disse Scalia per la centesima volta. «Che bisogno c’era che
venissi anche tu?»
«Dobbiamo
proprio parlarne di nuovo?» rispose il giovane con un sospiro. «Ormai dovresti
averlo capito. Non sono certo il tipo di comandante che se ne sta al sicuro
dietro le linee aspettando che gli altri facciano il lavoro al suo posto. E poi
non mi andava di lasciarti da solo in compagnia di questo damerino.»
«Trovo
la tua mancanza di fiducia nei miei confronti profondamente offensiva.» replicò
platealmente Adrian. «Credevo di averti ampiamente dimostrato la mia
affidabilità.»
«Ne
riparleremo quando questa storia sarà finita.»
Con
i legionari che si azzuffavano tra di loro e la confusione che regnava al
villaggio raggiungere la base delle mura del Castello era stato un gioco da
ragazzi.
Vista
da lì la fortezza sembrava ancora più imponente e minacciosa, e Scalia non poté
non provare un po’ di sollievo al pensiero che sarebbero riusciti ad espugnarla
senza bisogno di dover scalare quei bastioni sotto una pioggia di frecce.
«Allora?
Dov’è questo passaggio segreto?»
«Proprio
qui.» disse Adrian tirando leggermente la testa di un gargoyle.
Ci
fu un leggero tremore, quindi una parte delle pietre del muro si abbassarono
rivelando l’ingresso di un tunnel.
«Prima
le signore.»
«Signore
un corno. Io non mi fido di te, se ancora non l’hai capito. Tu vai avanti per
primo. E se vedo anche solo l’ombra di un soldato lungo la strada…»
«Sì,
lo so. Mi affondi i denti nella gola.»
«Vedo
che hai capito.»
«Finitela
e andiamo, prima che qualcuno si accorga di noi.»
Adrian
usò la sua magia per evocare un globo di luce, quindi i tre si avventurarono
all’interno un attimo prima che l’ingresso si richiudesse alle loro spalle.
Per
un po’ camminarono lungo un corridoio scavato prima nelle mura e poi
direttamente nella terra, destreggiandosi tra stretti pertugi, strapiombi e
persino un fiume sotterraneo, fino ad arrivare dopo quasi un’ora in quelle che
sembravano le rovine di un antico edificio, talmente grande e maestoso da fare
impallidire persino quello in superficie e formare un vero e proprio labirinto.
«Mi
raccomando, non perdetemi mai di vista. Qui dentro ci si perde con una facilità
sconcertante.»
Bastava
guardare i corpi e gli scheletri riversi a terra o appoggiati alle pareti per
capire che Adrian non stava esagerando.
«Quindi
sono queste le rovine dell’antico palazzo. È molto più grande di quanto mi
aspettassi.»
«Le
cronache antiche parlano di un grande centro culturale che sarebbe esistito qui
più di mille anni fa. Probabilmente si trattava di una città santa dedicata a
qualcuno degli Antichi Dei.»
Daemon
si sentiva strano; per qualche motivo aveva la sensazione di essere già stato
in quei luoghi, il che era ovviamente impossibile. Ma nonostante ciò non
riusciva a non percepire qualcosa di familiare in quelle volte diroccate, i
muri cadenti e i mosaici ormai quasi completamente scomparsi.
«Ecco,
ci siamo.» disse Adrian quando giunsero ai piedi di una scala ricavata
direttamente nella roccia. «L’uscita è proprio qui sopra.»
Salirono
lungo la scala per diversi minuti, mentre alla roccia naturale andavano sostituendosi
gradualmente le fondamenta del Castello, fino ad arrivare davanti all’uscita
del passaggio segreto celata dietro a un muro.
Prima
di tirare la torcia che faceva da interruttore però, Adrian si girò a guardare
severamente i suoi compagni.
«Vi
avviso. Quello che vedrete potrebbe non piacervi.»
La
porta si aprì all’interno di una specie di prigione costituita da sei piccole
celle chiuse da delle grate di legno; la puzza era indescrivibile, ed il
terreno era ricoperto di paglia e strane piume colorate, lunghe e ispide.
Raccolta
una torcia Scalia illuminò l’interno di uno dei loculi, ma ciò che vide la
sconvolse al punto da lasciarla pietrificata.
Rannicchiate
nell’angolo più lontano dalle sbarre, tre giovani arpie poco più che bambine
giacevano più morte che vive su di una misera stuoia di paglia intrecciata,
circondate dalle proprie piume e coperte di sporcizia.
«Per
tutti gli dei! Ma è orribile!» disse Scalia quasi sul punto di piangere
«Purtroppo
mio padre va matto per le uova di arpia. Per parecchio tempo si è limitato a
comprarle, fino a quando non ha capito che era molto più economico
fabbricarsele in casa.»
Anche
le altre celle erano occupate allo stesso modo, come Daemon scoprì dopo averle
esaminate tutte; ma la cosa peggiore i due fratelli la videro nella sesta
cella, dove una singola arpia, a prima vista un po’ più giovane delle altre,
sedeva da sola circondata dai corpi senza vita delle sue due compagne morte di
stenti.
Se
negli occhi delle sue compagne non vi era altro che rassegnazione, in quelli di
quella ragazza bruciava ancora una piccola scintilla di vita, alimentata dalla
brace inesauribile dell’odio.
Quando
si avvide della presenza di un umano si scagliò urlando contro di lui, ma era
talmente debole e malconcia che malgrado gli artigli su mani e zampe non riuscì
neanche a scalfire le sbarre della cella.
«Attento
con quella. Il mese scorso ha strappato gli occhi ad una guardia.»
«E
allora perché è ancora viva?»
«Perché
per mio padre un uovo di arpia maggiore vale molto di più di una guardia
accecata. Quello che hanno fatto è stato uccidere le sue compagne e lasciarle
nella cella insieme a lei. Dopotutto tutti sanno che le arpie non si ammalano
anche se lasciate in mezzo ai cadaveri.»
Quella
poveretta era così malridotta che Daemon non si era nemmeno accorto che si
trattava di un’arpia maggiore, anche se i suoi lunghi capelli arancioni, ancora
capaci di scintillare come il sole al tramonto nonostante lo sporco che li
ricopriva, gli avevano fatto venire più di un sospetto al riguardo.
Adrian
si ritrovò la spada di Scalia puntata addosso prima di potersene accorgere.
«Dovrei
ammazzarti subito!»
«Calmati.»
rispose calmo il giovane. «Io non ho niente a che fare con tutto questo.»
«Però
lo sapevi! Sapevi che queste arpie erano qui!»
«E
che cosa avrei potuto fare? Da secoli le arpie hanno perso la capacità di
volare. Anche se avessi provato a farle fuggire pensi davvero che sarebbero
potute andare lontano? Se non altro qui sono…»
«Sono
cosa? Sono vive? Voi umani siete disgustosi! Secondo il vostro punto di vista
dovremmo esservi grati solo perché ci tenete in vita! Per molti di noi perfino
la morte sarebbe preferibile a questo!»
«Mi
credi davvero così amorale? Non sono un filantropo, ma persino io penso che
questo sia troppo.»
Daemon
nel mentre non aveva smesso un attimo di fissare la giovane arpia maggiore,
sostenendo con lei un silenzioso duello di sguardi in cui nessuno dei due
voleva soccombere.
«Come
ti chiami?»
La
ragazza rispose con uno sputo, che Daemon si tolse dalla guancia senza battere
ciglio o smettere di fissarla. Appoggiato su di un tavolo lì vicino c’erano gli
avanzi del pasto del guardiano.
«Hai
fame?» disse ancora Daemon, che non senza una certa dose di preoccupazione da
parte dei suoi compagni infilò la mano oltre le sbarre porgendole un pezzo di
pane.
Ancora
una volta l’arpia lo fissò con rabbia, sibilando e agitando nervosamente le
piume irsute e diradate, ma di uno splendido colore dorato.
Di
fronte all’impassibilità dell’umano che le stava di fronte l’arpia parve convincersi,
e strappato il pane dalla mano di Daemon lo divorò in pochi bocconi.
«Adesso
me lo dici il tuo nome?»
«Perché
ti interessa tanto?» rispose lei tornando a fissarlo. «Non sei altro che uno
sporco umano.»
«Serve
un motivo per voler sapere il nome di qualcuno?»
«…
Xylla.»
«Sei
un’arpia maggiore e porti un nome importante. Appartieni ad una famiglia
reale?»
«Che
importanza ha? La mia famiglia e tutto il mio popolo sono stati tutti uccisi.
Noi siamo le uniche rimaste. Ci tengono in vita solo per le nostre uova.»
«Se
questo destino ti disgusta tanto, perché non ti sei ancora uccisa?»
Al
che lei si scagliò nuovamente contro le sbarre, riuscendo stavolta ad
incrinarle.
«Credi
che non ci abbia pensato? Ma loro hanno detto che se lo avessimo fatto
avrebbero ucciso le nostre amiche! Il drago ha ragione, gli umani sono esseri
orribili! Dovreste morire tutti!»
Daemon
non si scompose, ma raccolto tutto il cibo che rimaneva dal tavolo lo gettò
all’interno delle celle sotto lo sguardo incredulo delle altre arpie.
«Per
adesso aspettate qui. Appena la situazione si sarà calmata manderemo qualcuno a
tirarvi fuori.» quindi si girò verso i suoi compagni. «Muoviamoci. Questa
storia è durata anche troppo.»
«È inaudito.» sbottò il governatore
sprofondando sul suo scranno nelle sala delle udienze. «Adesso i legionari si
ribellano agli ordini dei loro superiori? È per questo che l’Impero sta andando
in malora!»
Un
servo venne a portargli le solite due uova sode profumate al pepe verde di Maharadi, ottime per quando aveva bisogno di distendere i
nervi.
«Mi
sono occupato del problema, Mio Signore.» disse Ron.
«Ho fatto impiccare un paio dei soldati ribelli e ripristinato la disciplina.
Ora gli arcieri sparano su chiunque tenti di lasciare il villaggio, e infatti
le fughe per adesso si sono arrestate.»
«Credevo
che tu avessi il pieno controllo dei tuoi soldati. Quando questa storia sarà
finita non potrò fare a meno di segnalare la cosa a Sua Maestà.»
Il
Generale era consapevole che il Governatore avrebbe fatto di tutto per scaricare
su di lui tutte le colpe pur di salvare almeno in parte la sua reputazione, ma
questo non gli avrebbe impedito di fare fino in fondo il proprio dovere; il che
purtroppo passava anche dall’obbedire e piegare la testa davanti a quel
grassone buono a nulla.
Un
baccano fortissimo e improvviso proveniente da fuori fu il preludio alla
catastrofe.
«Che
sta succedendo?»
I
legionari di guardia alla stanza vennero letteralmente scaraventati contro il
portone, aprendolo con le proprie schiene e rovinando mezzi morti sul tappeto
di seta.
«Buongiorno,
Mio Signore. Felice di rivedervi dopo così tanto tempo.» disse beffardo Daemon
entrando nella stanza assieme
a Scalia. «Generale Ron. Le ultime due
volte che ci siamo visti siete andato via così di fretta che non ho avuto il
tempo di salutarvi.»
«Maledetti!
Che ci fate voi qui? Guardie!»
«Non
sprecare il fiato, grassone!» disse Scalia «Nessuno verrà a salvarti!»
I
due legionari che accompagnavano Ron sfoderarono le
armi parandosi a difesa del Governatore e del loro comandante, ma Daemon non
ebbe pietà e li uccise entrambi con pochi colpi.
«Questo
è per tutti i miei amici che hai ucciso!» gridò quindi Scalia colpendo il
Generale con tale forza da tagliarlo quasi in due.
Rimase
solo un soldato semplice, che però vista la situazione non ci pensò due volte a
gettare la spada ed arrendersi.
Vedendo
crollare la sua ultima linea di difesa Longinus
rimase per un attimo attonito, salvo poi iniziare a tremare in modo
incontrollabile nel momento in cui vide Daemon camminare verso di lui con la
spada insanguinata.
«D’accordo,
avete vinto voi! La provincia è vostra! Tenetevela pure se volete, ma
lasciatemi andare!»
«Non
è così semplice, Governatore. Ci sono molte cose di cui dovete rispondere.»
«È
stato il Generale! Era lui che faceva tutto! Io ero solo un amministratore! E
comunque quello che facevo io qui lo fanno anche tutti gli altri!»
«Questo
non vi rende meno colpevole. Ma voi siete il Governatore, pertanto siete
responsabile di tutto quello che i servitori dell’Impero hanno fatto in vostro
nome per tutti questi anni.»
«Non
penserete mica di uccidermi? Sua Maestà non ve la farà passare liscia! Finirete
tutti scuoiati! Non osate toccarmi!»
I
due ormai erano faccia a faccia, e di fronte a quegli occhi di ghiaccio il
Governatore si sentì mancare completamente le gambe ritrovandosi da un momento
all’altro seduto per terra.
Quindi,
dalla porta ancora aperta entrò nella stanza qualcuno che Longinus
conosceva molto bene.
«Ben
ritrovato, Padre.»
«Adrian!
Sei vivo?»
«Vivo
e vegeto, e non certo per merito vostro.»
«Avanti.»
disse Daemon facendosi da parte. «Fai in fretta e chiudiamo questa storia.»
Adrian,
estratta la spada, si avvicinò al Governatore, che gattonò indietro fino a
ritrovarsi con la schiena appoggiata al muro.
«Che
stai facendo, figlio mio?»
«Le
mie scuse, padre. Vi ho dato molte occasioni per dimostrarmi che mi sbagliavo
sul vostro conto. Ma d'altronde lo sterco non potrà mai diventare un diamante,
per quanto ci si provi.»
«Adrian!
Non puoi farlo!»
«Il
valore di un uomo si misura dalla sua ambizione. Sono parole vostre. E
purtroppo per voi, la mia è troppo grande per perdere altro tempo dietro ad un
fallito quale voi siete. Perciò addio, padre. Il piacere è stato tutto vostro.»
Subito
dopo, un urlo straziante riecheggiò in tutto il Castello.
All’esterno del Castello si era nel
mentre venuta a creare una situazione surreale, con i ribelli da una parte, la
guarnigione dall’altra, e gli abitanti nel mezzo.
Sembrava
la calma che precede la tempesta, e nessuno nei tre gruppi osava fare una mossa
nel timore di far precipitare tutto e dare inizio ad un assalto che non avrebbe
risparmiato nessuno.
Poi,
una voce si alzò tra gli assediati.
«Non
ci posso credere! Guardate lassù!»
Da
un momento all’altro la bandiera del leone dorato in cima alla torre principale
era stata ammainata, e al suo posto sventolava ora un vessillo di stracci
rosso, bianco e blu che molti soldati già conoscevano.
Ovviamente
la cosa non passò inosservata neanche ai ribelli.
«Ce
l’hanno fatta!» esclamò Septimus. «Hanno preso il Castello!»
Di
lì a breve Daemon, Scalia e Adrian uscirono nel piazzale sotto gli sguardi
attoniti dei legionari, recando in mano due sacchi insanguinati.
«Il
Governatore e il Generale sono morti!» esclamò Daemon esibendo i loro macabri
trofei. «La provincia è nostra! Gettate le armi, arrendetevi, e sarete tutti
risparmiati!»
Quasi
che non aspettassero altro quasi tutti i legionari obbedirono subito
all’intimazione ricevuta, chi con evidente sollievo, chi semplicemente con
dolorosa rassegnazione di fronte alla consapevolezza di come fosse ormai futile
tentare di resistere ulteriormente.
Alla
vista dei vessilli della Quindicesima Legione che scomparivano dai bastioni un
singolo, rimbombante urlo di vittoria si alzò tra le fila dei ribelli.
«Ce
l’abbiamo fatta! – Abbiamo vinto! – Lunga vita a Daemon!»
«Allora
è vero.» disse Scalia come se non riuscisse a crederci. «Abbiamo vinto. È
davvero finita.»
«No,
Scalia.» disse severamente Daemon. «Tutt’altro. Questo è solamente l’inizio.»
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti!
E
alla fine ci siamo.
La
Rivoluzione è vittoriosa.
Ma
come ha detto Daemon questo è solo l’inizio, e la strada che porta all’unificazione
di Erthea e alla sconfitta del Re dei Demoni è ancora molto lunga.
Ho
voluto condensare tutti questi eventi in un solo capitolo per non spezzare la
narrazione, e vi preannuncio fin da ora che anche l’epilogo sarà piuttosto
lungo.
Poi,
a Dio piacendo, dovrei tornare a capitoli dalla lunghezza più umana.
A
presto!^_^
Cj Spencer