Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: MaikoxMilo    15/10/2023    2 recensioni
Vi fu un tempo, anche se privo dello stesso concetto di tempo, in cui, si narra, Cielo e Terra, Mondi e Dimensioni, Caldo e Freddo, Umido e Secco, coesistessero in una sola sostanza che racchiudeva tutto; tutto ciò che avrebbe poi assunto un nome, ma che, allora, nome non possedeva. Non c'era quindi un inizio, né una fine, non esisteva Destino, né legge, tutto era miscelato, un tutt'uno indistinto, estroflesso, inscindibile, nonché eterno. Tale concentrato di materia venne chiamato posteriormente "Principio Primo di Tiamat", prima di scomparire completamente nella Notte dei Tempi, svanendo per milioni e milioni di anni.
Tutti gli universi possiedono quindi un'origine comune? Che ne fu di quell'epoca, CHI ordinò il Creato, dandogli una forma propria, dividendo le dimensioni, espandendole all'infinito di propria mano? Chi ebbe la forza per farlo? Perché lo fece, imprimendo così la propria imperitura effige?!
Marduk, Sommo dio Marduk, fosti tu a volerlo, stracciando il gigantesco corpo della dea Madre Tiamat, scindendo così, per la prima volta, il Cielo dalla Terra; gli Universi dalla Matrice?!
Storia ambientata tra i capitoli 10 e 12 della Melodia della Neve, di cui è quindi indispensabile la lettura insieme alle fanfiction precedenti.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Cygnus Hyoga, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 9: Ricordi intrecciati (seconda parte)

 

 

 

C’era un progetto? Un palpito indicibile,

una scintilla, un istante assoluto.

Non una forma, una coscienza, un nome.

Puro slancio e mistero gaudioso.


Potrò io, viva, mai violarlo il fitto

segreto del formarsi dei miei occhi?

 

(Maria Luisa Spaziani)

 

 

 

 

Settembre 2003

 

 

Marta osservava le orbite svuotate davanti a lei, le labbra assottigliate in un unico segmento che tratteneva il pianto e il biasimo per sé stessa.

Non c’era riuscita.

Non c’era riuscita, nonostante nei giorni precedenti avesse percepito distintamente il bosco pulsare. Vi era stato nell’aria il fermento di una vita in procinto di spezzarsi. Aveva giurato a sé stessa di impedirlo, ora che era diventata capace di discernere, catalogare e capire la provenienza di ogni singolo respiro dal particolare suono che produceva.

Ma non c’era riuscita.

Né lei né Stevin ci erano riusciti, pur con la promessa reciproca di tentare tutto il possibile.

Niente da fare.

Lo avevano localizzato troppo tardi.

Era morto prima del loro arrivo.

Marta sospirò, accucciandosi davanti a lui. Le orbite vuote la fissavano cave, parevano risucchiarla quasi che la volessero inglobare e condurre con loro.

Vi era una leggenda sugli occhi, gliela aveva raccontata sua nonna per indorarle la pillola. Secondo tale favoleggiamento, gli occhi erano i primi a ‘sparire’ dopo la morte perché la luce che essi emanavano serviva al defunto per trovare la strada corretta nell’aldilà. E così, secondo quella storia, il giovane capriolo morto da pochi giorni stava già danzando, come era solito fare anche in vita, nei campi verdi del Paradiso, lontano dal dolore e dalla paura.

Tutte frottole!

Marta sapeva che aveva sofferto prima di passare oltre. Lo aveva sentito. Dentro. Intensamente. E non era comunque riuscita ad impedirlo.

Il giovane ‘folletto dei boschi’, come veniva simpaticamente chiamato dai valligiani, era capitombolato giù da una scarpata nel tentativo di sfuggire da un predatore che non lo aveva avuto. La caduta, però, gli aveva rotto una zampa, la posteriore destra, e lui non era più riuscito ad alzarsi. Nel tempo impiegato per rintracciarlo aveva sperato, implorato, pregato e, infine, era spirato per sfinimento. Marta e Stevin erano riusciti a raggiunsero solo poco dopo.

Non c’era più niente da fare, lo avevano capito entrambi ma, mentre il ragazzino se ne era fatto una ragione, la piccola si era presa l’impegno di recarsi lì ogni giorno ad assisterlo.

E recarsi lì ogni giorno ad assisterlo equivaleva a vederselo decomporre piano piano.

Il processo era cominciato dagli occhi, che già poche ore dopo il decesso erano stati svuotati sapientemente da alcuni insetti -la natura non sprecava mai niente!- poi era toccato ad alcuni ciuffi di pelo, probabilmente qualche uccello li aveva arraffati per costruirsi qualche riparo per l’autunno incombente, poi ancora erano arrivati i predatori che avevano cominciato a nutrirsi della carcassa partendo dai visceri i cui brandelli stavano ancora sparpagliati al suolo. Nel frattempo il corpo, quel che ne rimaneva, aveva cominciato a gonfiarsi.

Quale sarebbe stato il passaggio dopo?

Marta arricciò il naso, l’odore era nauseabondo, lo spettacolo terribile. Poteva stare ore a fissare immobile le orbite vuote dell’animale o a osservare l’addome divelto che sembrava quasi muoversi da solo, a rammentare, molto alla lontana, il respiro che lo aveva riempito.

Marta… non dovresti essere qui, ti fa male tutto questo!

Le disse Camus nell’aria, ben sapendo che, pur controllando a fatica i ricordi cui assistere, la piccola non riusciva più a udirlo, come invece era stato dopo lo scontro contro i bulli. Ci aveva già provato più volte in quei giorni di morte, senza successo. Eppure il bisogno di parlarle era più forte di ogni cosa, intenso come i battiti nuovamente frenetici del suo cuore.

Le accarezzò istintivamente la testolina, dita di piuma che si muovevano tra i ciuffi, in mezzo a quelle codine che la rendevano ancor più graziosa ai suoi occhi.

Sentiva e viveva ciò che era in lei, ed era doloroso.

Perché sei ancora qui? Lo hai già accompagnato oltre, piccola, perché persisti? Perché non vai a giocare con Stevin, o Michela o Francesca? Ti distrugge rimanere qui.

“Quale è il senso?” si chiese ad un certo punto Marta, gli occhi nuovamente gonfi di pianto, sollevando un poco il volto in direzione degli alberi più distanti, ormai completamente ingialliti dal seccume.

Il senso… deve per forza esserci?

“Non… non lo so. - in quei giorni di veglia capitava tuttavia che Marta, ogni tanto, sembrasse rispondere alla sua voce, ma erano stati episodi fortuiti che Camus aveva relegato ben presto alla sua buffa abitudine di parlare da sola – Siamo qui, veniamo in questo mondo caldo e accogliente per morire senza nemmeno sceglierlo.”

“Non ci trovo… il senso!” ripeté ancora lei, gli occhi spenti, il muso lungo.

Camus avrebbe voluto abbracciarla, dirle che non era così, che lei era speciale, perché aveva scelto di rinascere, sacrificando il suo bene più prezioso, ma anche se fosse nata per caso, tra le miliardi di possibilità di NON venire al mondo, ciò non escludeva di certo il meraviglioso dono dell’esistenza. Più importante ancora, sarebbe stata proprio lei, in un futuro prossimo, a raccontarlo a lui, in stato comatoso per le ferite riportate al torace, e a spingerlo a reagire proprio in virtù di quella grande forza che era la vita. Perché anche Camus l’aveva sempre amata, dentro di sé, la vita, solo che era stata la sorellina a ricordarglielo, a rammentargli che sotto la neve più fredda si cela il più bel bocciolo in attesa di nascere.

“Non sarei dovuta nascere.”

No, non puoi dire una cosa simile!

“Non ha senso, non ha alcun… sigh!” singhiozzò, nascondendosi la testa tra le manine.

Marta, ascoltata! Ascolta la vita! Non è tutto così angosciante, non è tutto nero, vi è… è anche dell’altro!

“Se avessi saputo che nascere comportava anche il morire, forse… forse avrei preferito non venire neanche al mond...”

Marta!

“Marta...”

Una voce la riscosse, li riscosse. Entrambi si voltarono in quell’esatto momento.

Ma-mamma…

“Mami...” la chiamò semplicemente Marta, ancora accucciata a terra, asciugandosi velocemente gli occhi prima di nascondere il visino in modo che il genitore non lo vedesse così arrossato. Camus invece era rimasto semplicemente abbagliato, il cuore aveva dato una fitta, mentre gli occhi si erano fatti subito lucidi.

Era bella come la ricordava in gioventù, come quando, da bambino, al dolce richiamo del suo nome, apriva esaustivamente la boccuccia e la fissava emozionato, unica capace di prenderlo -rigorosamente da sotto le ascelle!- sollevarlo e tenerlo in braccio senza farlo dimenare al limite di una crisi convulsiva. Rispetto a quando l’aveva rivista insieme a Marta, a luglio di quello stesso anno, aveva meno rughe, le guance più rosate, e l’espressione un poco più distesa, forse non ancora del tutto oppressa dalle perdite della vita. Ma era sempre lei, delicata nei modi, il volto giovanile, il portamento elegante e, non in ultimo, quei capelli un poco ribelli, del tutto rassomiglianti ad un cespuglietto, che Camus aveva ereditato come carattere distintivo.

“Che succede, gabbianella?”

“Niente.” bofonchiò Marta, tirando su col naso.

“Ma stai piangendo...”

“NO! Si oppose la piccola, balzando in piedi per frullarsi maldestramente gli occhi e far vedere che non era così – Io NON piango!”

La mamma non disse niente, si limitò a osservare attraverso Camus, invisibile ai suoi occhi umani, la carcassa scomposta a terra. Trasse un profondo respiro, prima di avvicinarsi alla piccolina.

“E’ per il daino che piang...”

“E’ un capriolo. - la corresse Marta, prima di dare ancora un’occhiata all’animale e tornare su di lei, gli occhi nuovamente ricolmi di pianto – Era.”

“Oh, pulce...” si avvicinò ancora di più alla figlia, ma non la toccò, Sapeva che non era il momento.

Marta ingoiò a vuoto. Non era contenta di essere stata colta in flagrante mentre piagnucolava, ma ormai era tardi. Si morse le labbra per smettere.

“Mami, come sapevi che..?”

“Stevin, tesoro, è molto preoccupato per te.”

“S-Ste? D-dove?”

In quel momento lo sguardo della bambina fu attirato da un movimento furtivo dietro un tronco d’albero. Focalizzando quel gesto, gli occhi di Marta si incrociarono con quelli estremamente imbarazzati dell’amico. Lo guardò. Si guardarono. E Stefano, vinto dall’occhiata severa dell’amica, ghermito su tutti i fronti, si nascose ancora di più.

“Ho capito. Ti ha portato lui qui.” disse freddamente Marta, sbuffando.

“Sì.”

“Non doveva farlo, era un segreto mio e suo.” soffiò ancora lei, sentendosi un po’ tradita.

“L’ha fatto perché è un ottimo amico. Si è preoccupato per te e ha agito di conseguenza, dovresti essergli grata, Marta!” la rimproverò la madre, senza mezzi termini, in tono garbato, ma sufficientemente secco.

“E cosa ti ha detto?”

“Che in questi giorni vieni sempre qui, che da quest’estate sei irriconoscibile e me l’hanno confermato anche i nonni.” spiegò lei, rispettando la distanza personale che voleva mantenere la figlia.

“...”

E tuttavia sapeva di doverla raggiungere in qualche modo, perché era turbata e molto scossa.

“Tesoro… - la chiamò, fievole, in tono calmo ma presente, voltandosi interamente verso la figlia, pur senza toccarla – Che cosa è successo?”

“Il capriolo… non siamo riusciti a salvarlo.”

“Come potevi riuscirci?”

“L’ho sentito.”

“Lo hai..?”

“Ho sentito la sua voce, il suo richiamo, la sua richiesta di aiuto. Non abbastanza però per salvarlo.”

La mamma si prese un momento per calibrare quanto sostenuto dalla piccola. Si portò la mano destra alla tempia, negli occhi un barbaglio di paura che Camus, che riusciva bene a guardarla in volto, tradusse, con sconforto, nella paura, improvvisamente accesa, di perdere anche la seconda figlia così come era stato per il maggiore.

“D-d’accordo, l-lo sentivi, ma comunque non avresti potuto...” tentò ancora lei, un poco tremante, cercando comunque di farsi forza.

“A che serve sentirlo, se non posso aiutarlo?” chiese di riflesso la piccola, gli occhi lucidi di pianto.

“Oh, tesoro, non sempre la nostra intuizione, il nostro capire gli altri può… può portare ad una risoluzione favorevole.”

“Ma è successo anche quest’estate, e adesso di nuovo. I-io… io...”

“Aspetta, cosa è successo quest’estate?”

Marta tacque per una serie di secondi, serrò le labbra, prima di farsi forza e raccontare della sventurata germana, dei bulli e dei piccoli finiti nel becco dell’airone.

“Dunque per questo che sei così. Il nonno dice che non fai che parlare di morte, sei diventata cupa, scontrosa, a volte apatica e… tu non sei così, piccola, sei il mio fiorellino, ricordi? La mia precoce primavera.”

“Quel fiore… è ormai appassito sotto il ghiaccio.” disse solo Marta, sofferente, stringendosi barbaramente le manine – Mami, prima non capivo, ora… vorrei non aver mai capito!” biascicò ancora, prima di tirare nuovamente su col naso e passarsi velocemente la manina sotto di esso.

“Cosa hai capito, mia gabbianella?”

“L-la morte, l’ho… l’ho vista. - sussurrò lei, facendo poi un cenno in direzione dei poveri resti del capriolo – Non posso più tornare indietro.”

Antoinette non sapeva cosa dire, fissava la piccolina con compatimento, gli occhi lucidi a sua volta nel vederla così disperata. Prese un respiro profondo, sforzandosi di mantenere il controllo.

“Vieni con me, allontaniamoci di un poco.”

“Però...”

“Non puoi fare nulla, ormai, è in pace adesso, non soffre più.”

Marta abbassò lo sguardo, le diede la mano e si lasciò guidare da lei, gli occhioni lucidi e i singhiozzi arpionati al suo petto che vibrava dal dolore. A Camus gli si strinse il cuore.

Mamma, aiutala tu che puoi! -la supplicò lui, pur sapendo di non poter essere udito- Non farle credere questo, non farle pensare che tutto si riduca alla morte! Non è così!

Le due si sedettero vicino ad un albero, prima di riprendere il discorso. Stevin, non volendo intromettersi più di quanto avesse già fatto, dopo aver avuto conferma che l’amica fosse in mani sicure, si permise di allontanarsi un po’ da quella zona di morte che lo prosciugava.

“Bimba mia...”

“Mamma… - la interruppe Marta, gli occhioni grandi di chi ancora voleva appigliarsi alla più fievole delle speranze – Quale è il senso della vita? Per cosa nasciamo, se poi dobbiamo morire?”

Domande vecchie di millenni, da quando l’uomo aveva memoria; ancora difficile, se non impossibile, trovare risposta.

“Marta… - la chiamò Antoinette, prima di avvicinarsi a lei e, dolcemente, portarla contro di sé, sul suo grembo – Tu sai chi ti ha portata qui?” le domandò teneramente, e Camus giurò, per un solo meraviglioso secondo, di vedere sé stesso al posto della piccola, con la loro madre che, non dissimile da come stava facendo con lei, lo portava a posare l’orecchio sulla sua pancia più sporgente del solito, chiedendogli, con quegli occhi luminosi e gli zigomi alzati, se riuscisse già a sentire la sorellina.

“I-io…” Marta sembrava titubante nel rispondere, trattenne un ansito, mentre le circondava a sua volta i fianchi con le braccine e respirava profondamente il suo odore per acquietarsi.

“Sì?”

“Pensavo alla cicogna, ma non ci credo più. Ora ho capito che quando due esseri si uniscono e… si amano tanto… - la bimba, dopo i fatti della germana, non era più tanto sicura che bastasse quello, l’amore, per creare una nuova vita, ma l’alternativa era troppo dolorosa per lei, soprattutto dopo quell’esperienza – La loro forza è tale che nasce qualcosa di nuovo.”

Antoinette ridacchiò tra sé e sé, permettendosi di stringerla più intensamente in grembo per poi darle un bacio dietro la nuca.

“Ci chiediamo sempre, perché è nella nostra natura, dove andiamo, ma mai, o raramente, da dove veniamo.”

Il visetto di Marta si illuminò un poco, effettivamente non ci aveva ancora pensato a quello. Il suo cuoricino si sentì un poco sollevato, a Camus capitò lo stesso, mentre il calore della madre si irraggiava anche in lui, riportandolo finalmente a casa.

“Quindi io… da dove vengo e dove sono diretta?” corresse la domanda la piccola, allungando il collo verso di lei per richiedere carezze che le vennero concesse subito.

“Pensa, eri su una stellina, prima, ti siamo venuti a prendere e...”

“Ti… siamo?!” ripeté stralunata la bimba, cogliendo la sfumatura.

Antoinette ebbe un solo secondo di esitazione, le sue labbra si piegarono in maniera incomprensibile per la piccina, prima di distendersi in un sorriso: “Io e i nonni, sì.”

“Oh.” Marta sembrava corrucciata e un poco delusa, quindi neanche in quella circostanza il papà si era scomodato per lei. Finse di non esserci rimasta male.

“Ti siamo venuti a prendere su questa stellina. Per portarti meglio sulla Terra ti ho messa in pancia, ecco, proprio qui.” le disse, spostandole di un poco la testolina per indicarle il punto esatto.

“Da-davvero?!” esclamò Marta, esterrefatta, cercando conferma.

“Sì, e hai cominciato a crescere, crescere… ti sei fatta grossa, di giorno in giorno, finché… hai voluto vedere la luce del sole con i tuoi occhi e sei uscita.”

“Da dove?!” la bimba sembrava aver riacquistato il buonumore, si era messa a guardarla in lungo e in largo.

“Ehm, questo è un po’ complicato da dire… - si vergognò un poco Antoinette, arrossendo – Però, quel che conta, la sola, è che tu sappia che sei partita da un niente e sei diventata… tutto!”

“E… come ho fatto?”

“Perché sei un miracolo, piccola mia.”

“Un miracolo.” ripeté lei, un poco scettica, inarcando un sopracciglio.

“Sì, il mio miracolo. - confermò la mamma, addolcendo ulteriormente l’espressione – Non importa cosa mi riserverà il futuro, una parte di me rimane in te e, a sua volta, quella parte, si perpetuerà nelle generazioni che verranno.”

“Oh...”

Inaspettatamente, dopo una parziale ripresa, il volto della piccola si inscurì, forse più di prima. Di nuovo quella fitta al petto. Di nuovo la consapevolezza che la vita si limitava a quello, cioè a moltiplicarsi e riprodurre altra vita. Era annichilente.

Il viso rosato della bambina si diresse nuovamente verso il capriolo straziato. Allontanandosi da lì, avevano permesso a due cornacchie, una visibilmente più piccola dell’altra, di atterrare nelle vicinanze. Ogni tanto dirigevano i loro becchi scuri e la loro testa quasi calva verso di loro. All’aumentare della consapevolezza che non sarebbero intervenute, corrispondeva un saltello e un gracchiare, mentre le penne fulgide brillavano alla luce del sole. Marta fu sicura di trattarsi di un adulto e un giovane, perché una delle due era ancora spiumata in alcuni punti. Probabilmente -realizzò con una punta di rassegnazione- come sua madre le aveva insegnato a maneggiare il cucchiaio per nutrirsi, anche quel genitore stava facendo lo stesso con la propria prole. Sospirò.

Una mano sinuosa le si posò sulla testa, carezzandola lieve. Era sempre stata salvifica, ma in quel momento il malessere era troppo atroce, così come le sue domande prive di una risposta che la soddisfacesse.

“Me l’ha detto anche Francesca una cosa simile.” borbottò la bambina, mettendo sul broncio.

“Che cosa, piccola mia?”

“Che la vita della germanotta morta quest’estate aveva avuto un senso, perché in qualche modo sarebbe rivissuta nei figli.”

“E’ vero, perché lo dici con quell’espressione sul viso e una lacrima sulla ciglia?” le chiese la mamma, asciugandole, lieve, lo zigomo.

Marta si passò con stizza le mani su entrambi gli occhi, schiacciandoli con forza quasi se li volesse cavare. Odiava piangere! Odiava dimostrarsi debole!

Testolina, fermati! Così ti fai male!

Ebbe l’impulso di esclamare Camus, allarmato nel vedere quanta forza ci mettesse nel scacciare via il pianto. Fortunatamente ci pensò la madre a trattenerla.

“Oh, non così Marta! Così ti fai male tu!” la abbracciò di riflesso, capendo che stava per avere una crisi forte, di quelle che sarebbero potute sfociate in una eruzione.

Non le era più accaduto da anni, precisamente da quando aveva conosciuto Stevin, ma probabilmente i fatti legati alla morte della germana l’avevano minata in profondità. Strinse con foga la mascella, sentendosi in colpa per non esserci stata e aver permesso che accadesse tutto quello.

La devozione autentica che aveva per il suo lavoro, e che sentiva profondamente nel cuore, faceva comunque sì di dover lasciare molto spesso Marta da sola. Il fatto che la piccolina non glielo facesse pesare in alcun modo, non voleva dire che ciò non provocava in lei sofferenza.

Finalmente la bambina si calmò, quasi arpionandosi a lei.

“Mamma, è davvero tutto qui?”

“Che cosa, scricciola?”

“Il significato della vita è generare altra vita e basta?”

“N-no, non solo, ma vedi...”

Che cosa?

Antoinette non sapeva come rispondere, deglutì a vuoto, tenendo a sé la piccola. La domanda, ancora una volta rimase aperta.

Quale era il significato autentico dell’esistenza?

“E’ produrre altra vita a scapito del singolo?” continuò la bambina, ormai partita per la sua strada. Singhiozzò controvoglia.

Allora niente aveva semplicemente senso!

“Marta...”

“A-abbracciami, ti prego! - la supplicò, disperata, tirando su col naso – Dimmi che non accadrà a me, a noi, che non moriremo, che qualcosa di oltre c’è, che non si riduce tutto al solo moltiplicarsi…”

Questo non te lo può dire, Marta…

“Questo non te lo posso dire, piccola...” languì Antoinette, sinceramente mortificata.

Marta vibrò più forte, fino ad assestarsi. Una pallida calma la invase, mentre gli occhi le si fecero nuovamente vuoti. Buttò un altro occhio sulle due cornacchie appena arrivate, madre e figlio, sul banchetto che forniva loro il capriolo.

Dunque era davvero così…

“Fa’ lo stesso, basta… basta che mi prometti che rimarrai con me, il più a lungo possibile, per tanto, tantissimo tempo!”

“Oh, Marta, io vorrei tanto promettertelo, ma...”

La guardò negli occhi sin troppo liquidi, lucidi come il riverbero della luna in un laghetto.

“Te lo prometto, Marta, staremo insieme ancora per tantissimo tempo, ti vedrò crescere, assisterò ai tuoi successi e ai fallimenti; quando avrai paura di non farcela e quando invece ti sentirai pronta per spaccare il mondo. Lo giuro!”

Marta sorrise, un poco rassicurata, chiuse gli occhietti e si abbandonò al suo petto: “Gra-grazie, Mami, ti voglio tanto bene!” disse, prima di cedere alla stanchezza e respirare con più calma. Il sonno riusciva a regolare maggiormente il suo battito.

Antoinette rimase lì, la trattenne contro di sé, spostandole dolcemente alcuni ciuffi dalla fronte su cui poi posò un leggerissimo bacio nel continuare a cullarla.

Anche Camus aveva gli occhi lucidi di pianto. Era stanco già da prima, ma vedere concretamente la sorellina soffrire così, sentire emozionalmente l’universo di dolore che si portava dietro senza lasciarlo interamente trapelare fuori, perché le sue manifestazioni non erano altro che spifferi che poco mostravano del suo reale dolore e della angoscia che stava provando per il futuro, lo straziava ancora di più. Si mise istintivamente a gattoni vicino a loro, alla ricerca di un tocco che non poteva ricevere. Il respiro un poco dispnoico gli gonfiava a e sgonfiava il petto sempre più irrequieto. Si adagiò su un fianco e chiuse gli occhi, così vicino alla madre e alla sorellina ancora tenuta in braccio.

Si sentì tornare piccolo piccolo. Nuovamente cinquenne. Nuovamente sé stesso. Non più Aquarius ma solo Camus; Camus figlio di Antoinette e fratello maggiore di Marta.

Perdonatemi… avrei dovuto esserci, con voi, per voi, aiutarvi, non farvi provare questa colossale tristezza che vi attanaglia… mi dispiace tanto!

Biascicò tra sé e sé, sempre più provato, rannicchiandosi ulteriormente nell’istinto di diminuire le distanze. Il respiro, a quell’ultimo movimento, gli si mozzò in petto. Stava sopraggiungendo un’altra crisi? Camus avvertiva l’addome scalpitare nuovamente con forza, contraendosi senza che la volontà ne prendesse parte. Tentò di alzare un braccio ma non ne era più in grado, le forze gli mancavano. Ansimò con forza, strizzando le palpebre nell’imporsi di reagire e non soccombere. Tutto inutile! Percepiva la maglia un poco sollevata sul ventre che si contraeva di sua spontanea volontà senza poterlo minimamente controllare. Il vento gli carezzava comunque la pelle… non era più piacevole come all’inizio, però, non dopo che il Mago era apparso per rivendicare per l’ennesima volta il possesso sul suo corpo, non dopo che le sue dita gli avevano ghermito i fianchi. Camus, a quella consapevolezza, spalancò gli occhi dalla paura; nello stesso momento Marta, nel sonno, produsse una sorta di vagito strozzato, pregno di sofferenza. Della sua sofferenza.

No, doveva calmarsi in qualche modo, DOVEVA, per lei, altrimenti...

Alla paura, al vento che gli lambiva la parte più vulnerabile del suo essere, si sostituì un tocco, una carezza delicata tra l’ombelico e l’osso del fianco. Il cuore gli batté più forte. Era… incredibilmente caldo e confortevole!

“Sigh...”

Camus, a seguito di quel singhiozzo, ebbe abbastanza forze per girare almeno la testa in modo da tornare a vedere la madre e la piccola, ora nuovamente serena; contrariamente alla loro mere che lasciava scorrere le lacrime sul viso ancora giovane.

Non devi... pian-gere, mamma, anf!

Le disse a fatica, mentre lei continuava inconsciamente a carezzargli l’addome all’altezza del fianco credendo di star lambendo probabilmente i fili d’erba che, strenui, nonostante il calore dell’estate, resistevano indomiti. Non poteva sapere che lui era davvero lì con loro, non poteva sapere che il figlio maggiore poteva ascoltare le loro voci, sentire le loro emozioni e provarle sulla stessa pelle, e, forse, era meglio così.

Camus sorrise quasi commosso. Non poteva ancora muoversi ma era come essere coccolato quando era piccolo e, per via di qualche incubo, non riusciva a dormire. Si ricordò di come lei fosse l’unica, oltre che a poterlo prendere in braccio a quel modo, anche di stuzzicargli e solleticargli il pancino in modo confidente senza che lui si sentisse male e avesse la sensazione di essere violato. Istintivamente sorrise a quel pensiero.

Vi voglio bene… non potete immaginare quanto!

“Figlio mio...”

Camus sussultò a quelle parole, sbattendo più volte le palpebre. No, doveva essersi sbagliato, la loro mamma doveva aver detto il femminile, anziché il maschile, ma le sue orecchie, per qualche ragione, dovevano aver frainteso, dovevano…

“Non immagini quanto sia difficile farla crescere senza di te. Marta si sta sviluppando sana e forte, ogni tanto traballa, cade, ma si rialza… si è sempre rialzata fino ad adesso. Solo che… avrebbe avuto tanto bisogno di averti al suo fianco!” sospirò ancora, stringendo ulteriormente la piccola a sé per posarle il mento tra i capelli che, al sole del tramonto, risplendevano di bagliori quasi cremisi.

Mi riesci… a percepire?!

Ma non ottenne risposta, le carezze sul suo addome terminarono. La mano portatrice di quel benessere si era mossa a sorreggere meglio la piccola, ormai profondamente addormentata. Antoinette chiuse di riflesso gli occhi, mentre le lacrime si esaurivano sulle sue gote.

“Mi manchi così tanto, tesoro mio...”

Mamma...

Antoinette sgranò improvvisamente gli occhi. Aveva udito qualcosa; qualcuno aveva sussurrato vicino a lei. Si guardò intorno ma non c’era nessuno, oltre a lei e la piccina, doveva quindi essersi trattato di una impressione. Buttò fuori aria nel sentirsi più sola che mai.

“Che sciocca che sono stata! Non può… non può essere qui!”

Sì che lo sono, sono qui! SONO QUI, vicino a te e Marta!

Si sforzava di dare forma alla sua voce, che tuttavia non usciva più. Provò anche ad alzarsi ma gli scappò un gemito, uno strappo alla regione ombelicale gli spezzò il respiro. Chiuse gli occhi, furioso, tastandosi la zona con la mano, costringendo le dita a delineare maggiormente la fossetta ora più bollente che mai, ustionante, quasi.

Era così frustrante riuscire a comunicare solo a sprazzi, vederle ma non essere in grado di farsi sentire, provare su di sé le carezze, senza che quel gesto fosse realmente voluto. Perché loro non sapevano che era DAVVERO lì con loro, e avrebbero dovuto continuare a non saperlo.

Trattenne uno spasmo, mentre si copriva il ventre scalpitante con le mani senza riuscire a porlo sotto il suo completo controllo.

Era tutto così intollerabile!

Siete mancate anche a me… tan-to!

Pensò intensamente, mentre quello che era un abbozzo di lacrime gli lambiva le palpebre per poi trapelare fuori dalle ciglia.

 

 

* * *

 

 

Luglio 2004

 

 

La faccenda della sfortunatissima germana sembrava essere stata dolorosamente accantonata, come piaga cauterizzata che, sì, ogni tanto spurgava ancora un po’, pizzicando dal dolore, ma era nettamente più gestibile.

La piccola, passata attraverso i 9 anni per buttarsi nei primi a due cifre, pareva essere tornata quella di sempre, forse un poco più barcollante e claudicante, ma con quella voglia di vivere ardente che le illuminava gli occhietti sempre più vispi e vivaci.

L’estate in corso sembrava essere nettamente più indulgente rispetto a quella dell’anno passato, il 2003, in cui, pure nella fresca Vabrevenna sempre gremita di rii e ruscelli vari, si era arrivati al razionamento idrico coatto già in luglio, rendendo così ulteriormente difficoltose le esplorazioni di Marta e Stevin. Quell’annata fortunatamente no, il meteo aveva regalato ampi episodi di refrigerio, con precipitazioni moderate ma costanti e clima tiepido. La vita pareva quindi scorrere placida senza intoppi, tra nuovi giochi, avventure e scoperte sensazionali.

Quell’anno, poi, vi era stata una novità importante nell’andirivieni generale tra i paesi di Cerviasca e Carsi, almeno dal punto di vista dei due bambini che vivevano la valle con tutti loro stessi: ad un nutrito gruppo di cinciallegre che avevano predominato le nidificazioni fino a quel momento, era susseguito un aumento quasi esponenziale di codirossi che, un poco più schivi dei lontanissimi cugini, avevano preso a loro volta a costruire il nido non lontano dalla casa dei nonni di Marta, magari anche loro dentro una qualche cassetta della posta ormai in disuso.

Alla piccola piacevano tanto le cinciallegre, così rotondette e dal buffo petto giallo, ma aveva letto su un libro che, dietro il loro aspetto, sapevano essere aggressive e brutali soprattutto per questioni territoriali. Per quel motivo, fino a quel momento, avevano spadroneggiato nei dintorni, accaparrandosi le risorse perché assai più sveglie e adattabili di altri passeriformi. Tuttavia qualcosa doveva essere successo anche loro, forse un ciclo, forse un improvviso decremento di numero… quell’anno erano diminuite di parecchio, permettendo così la piena riproduzione anche di altre specie.

I codirossi erano tra questi. Marta e Stevin non li avevano mai visti prima di allora, ne erano rimasti sinceramente stupiti quando, un giorno di giugno, avevano intravisto uno di questi uccellini svolazzare di palo in palo sulla staccionata che dava sugli orti di Carsi. La prima cosa a saltare ai loro occhi era stato il colore aranciato del loro petto, tanto da farli scambiare, in un primo momento, per dei pettirossi ritardatari, visto che la maggioranza di loro nidificava ben altrove; solo in un secondo tempo si erano accorti che doveva trattarsi di altro.

Si erano quindi messi di buzzo buono a fare ricerche e li avevano trovati quasi subito, scoprendo altresì un’altra particolarità: il dimorfismo sessuale. A quanto pareva, infatti, la femmina era più grigetta e meno rossa, il maschio invece spiccava. Da lì allora avevano preso a dargli ‘la caccia’, ovvero osservarli, non visti, nel loro habitat naturale, contando gli esemplari presenti in loco. Ne erano usciti una decina, comprensivi di coppie già formate che, senza indugio, già da maggio, avevano preso a costruire nidi e sfornare uova per un totale di sei o cinque a nidiata per famiglia. A quella cova, poi, a luglio, se ne era aggiunta un’altra, un poco meno numerosa ma ugualmente nutrita. Solo che… qualcosa era andato storto!

Carsi, rispetto a Cerviasca, era di gran lunga più popolata, perfino in inverno, e infatti era stata la prima località capoluogo dalla formazione del Comune di Valbrevenna. Per quanto avesse sofferto a sua volta l’abbandono della seconda metà del Novecento, non era mai stata lasciata al suo destino infausto. Alcuni vecchi ostinati, profondamente legati alle loro radici, avevano mantenuto il paese, riparando le strade e i sentieri, mantenendo gli orti, dragando i fossi, finché… qualcuno, tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 era infine tornato, recuperando un po’ di quel sapere della vecchia generazioni per continuare a far rivivere la cultura del luogo. Purtroppo ciò si era tradotto anche in un aumento del numero degli esemplari di gatti domestici, ma liberi, in circolazione.

E i gatti, per quanto teneri, meravigliosi e affascinanti, spesso e volentieri cacciavano per puro divertimento, predando proprio gli uccellini più deboli.

Se ne era nitidamente resa conto Marta un giorno che, passeggiando insieme con l’amico Stefano nei pressi dei campi coltivati intorno al paese, aveva avvertito un’improvvisa irrequietezza nell’aria. Subito si era messa in allarme, prendendo a correre per poi svoltare a fianco dell’orto del Signor Garbarino, amico dei suoi nonni, e individuare così un gatto rosso del tutto preso a tirare le zampate ad un piccolo codirosso parzialmente implume. Il piccino stava urlando disperato, il becco aperto, gli occhi ancora semi-chiusi, a sbattere forsennatamente le alette per provare a difendersi. Ma era del tutto impossibile.

La bambina amava i gatti allo stesso modo degli uccellini, ma a vedere quella scena, qualcosa si era istantaneamente incrinato in lei, spingendola ad agire. Non era sua intenzione, però, fare male al micetto, pertanto, limitandosi a corrergli quasi addosso, lo aveva così semplicemente spinto a sfuggire via come una lippa.

“E’ uno di quei codirossi, vero?” aveva chiesto Stevin, appena sopraggiunto, per inginocchiarsi poi al suo fianco e guardarla raccoglierlo teneramente tra le mani.

“Sì, deve essere caduto dal nido e il gatto, annoiato, lo ha predato.”

“E’ ferito, che si fa?”

Marta, dopo un breve girovagare intorno nel tentare di capire da dove fosse caduto, non riuscendo a comprendere bene la postazione del nido e sentendolo respirare male tra le sue mani, prese la decisione di portarlo con sé a casa per poterlo curare meglio.

Nonostante le abbastanza scontate lamentele del nonno -figurarsi se gli andava mai bene qualcosa!- l’uccellino venne così ben presto accolto e posto sotto le cure della bambina e della nonna, del tutto intenzionate a crescerlo fintanto che non sarebbe stato in grado di volare da solo.

Bibo fu chiamato e, malgrado lo spavento iniziale, la ferita sotto l’aletta destra, grazie alle loro attenzioni, sembrava in concreta ripresa. Marta era entusiasta di aver finalmente salvato una vita.

Quel giorno, una domenica di metà estate, ad allietare la casetta di Carsi erano giunte anche Francesca e Michela che, pur non passando l’intera estate in valle, sovente venivano lasciate lì nei fine settimana per godere dell’aria buona, della compagnia degli amici e… del buon cibo di Nonna Inés che, in quanto cuoca, non era seconda a nessuno.

La tavolata, apparecchiata in pompa magna, offriva ai commensali le più svariate pietanze, dai salumi, all’insalata russa, agli spiedini di mozzarella e pomodoro e via dicendo. Era un’occasione di festa, un’occasione per stare insieme, ed era sempre una gioia per l’anziana signora avere come ospiti le amichette della nipotina, che considerava a sua volta come parte integrante della famiglia.

Più in là, sulla vecchia poltrona, vi era Nonno Dante intento a leggere il giornale; sotto, per terra sedute sul tappeto, Marta, Stevin, Michela e Francesca che, in un momento di calma dalle esplorazioni, stavano facendo il gioco dell’oca. Neanche starlo a dire, la più grande e riflessiva, complice l’esperienza, stava vincendo, secondo posto Stefano, mentre le altre due, più piccole, si contendevano il terzo e il quarto.

Nonna Inés buttò un occhio intenerito sul gruppetto e sorrise, prima di recarsi in cucina per controllare l’acqua sul fuoco. Anche quel giorno avrebbe vinto Francesca, troppo ampio il suo vantaggio rispetto agli altri, ma probabilmente la pasta sarebbe stata pronta prima del grande esito.

In quel preciso momento, Camus si trovava sull’ala opposta del grande salotto, in un angolo appoggiato al muro, gli occhi lucidi nell’abbracciarli tutti con lo sguardo. Sebbene fosse rimbalzato di ricordi in ricordo, di visione in visione, e li avesse già incontrati, non era affatto abituato a rivedere i suoi nonni… vivi…

Era qualcosa di tremendamente straziante che gli dilaniava il cuore, già pesantemente percosso dalle emozioni che lo avevano guidato fino a lì. Qualcosa gli punzecchiava le palpebre, ne riconobbe la spiacevole sensazione, prima di ricacciarla a forza dentro di sé.

In un altro universo, ci sarebbe stato anche lui in quel gruppetto. Forse avrebbe aiutato Marta e Michela a diventare più abili in quel gioco con qualche trucchetto -erano discretamente sfortunate, andava detto, ma a tutto, con l’esperienza, c’era rimedio!- o forse no, non si sarebbe unito a loro perché già troppo grande, ma sarebbe comunque rimasto nello stesso salotto, a leggere, probabilmente, buttando ogni tanto la stessa occhiata di dolcezza e mostrando lo stesso mezzo sorriso della nonna nell’intenerirsi ad osservarli.

Era solo che… quel futuro… gli era stato strappato!

“Ultimo turno. Ultimo giro di dadi.” decretò ad un certo punto Stefano, concentrato.

“E intanto ormai è tutto deciso.” sbuffò Marta, acida. Non amava perdere.

“Quindi non giochi più?” chiese Francesca, inarcando un sopracciglio.

“No, non gioco.”

“Però, se provi un tiro, forse arrivi terza. Tu e Michela ve la state contendendo!” gli fece notare il migliore amico, dandole una pacca.

“Non m’importa, che vinca pure lei. Terza o quarta non fa differenza, ho comunque perso!”

Era terribile quando ci si metteva, Camus si ritrovò a ridacchiare tra sé e sé, un poco sollevato nell’animo. Era bello quanto doloroso starli a guardare, ma era felice di aver avuto quella possibilità e aver così potuto conoscerli un po’ di più.

“D’aaaaaccordo. - cantilenò Francesca, prendendo in mano i dadi – Allora, se questa è la tua scelta...”

“La pasta è a metà cottura, tra poco è pronto in tavola! Andate a lavarvi tutte le mani, su!” arrivò la voce salvifica della nonna che, tornando dalla cucina, si mostrò nuovamente a loro con il suo largo, quanto gentile, sorriso.

“Inés, sempre sul più bello arrivi. Ancora una volta hai interrotto la vittoria di Francesca.” la rimproverò bonariamente Nonno Dante, alzando lo sguardo dalle pagine in bianco e nero per posarli su quella della consorte.

“Oh, perdonami, cara, se vuoi comunque tirare...”

“Fa lo stesso. - intervenne Stevin, alzandosi in piedi per osservare dall’alto il tavoliere e le pedine colorate a forma di anatra – Intanto è lampante chi abbia vinto per l’ennesima volta. Complimenti, Fra!” le sorrise poi, con garbo.

“Solo fortuna.”

“Eeeeeeh, ma la fortuna sempre e solo a te, mai che giri!” si lamentò Michela, facendo le boccacce all’amica più grande.

Tutti i presenti, eccetto Nonno Dante che non sorrideva quasi mai tutt’al più grugniva qualcosa, si misero a ridere.

“Beh… spero di rifarmi con il pranzo. - fece spallucce Marta, la sconfitta ancora bruciante, prima di girarsi verso il tavolo – Cosa c’è da mangiare, oggi, nonna?”

“Sarai contenta di sapere che ho preparato il tuo piatto preferito: trenette al pesto!”

Gli occhioni di Marta si spalancarono dall’entusiasmo, la boccuccia le si dischiuse in un largo, ampio, sorriso, mentre, da dietro, Michela le balzò quasi in braccio per stringerla.

“Yeeeeeeee, la pasta al pesto è anche il mio piatto preferito!” inneggiò la più piccola, al settimo cielo, iniziando a ciondolare con l’amica, preda di un’euforia sempre più crescente.

Non c’era niente da fare, andare a mangiare dai nonni di Marta era sempre una garanzia! Tutti e quattro i bambini venivano sempre trattati come dei principini, mai una volta che ne rimanessero delusi, MAI!

Il pranzo iniziò quindi sereno e giocoso, pregno di quella leggerezza che si poteva provare solo in tenera età. Se Marta si era classificata ultima nel gioco dell’oca, abbandonato sparso sul pavimento, non si poteva dire lo stesso per la questione cibo, perché, fin da piccolissima, a dispetto della sua costituzione gracile, era sempre stata una ghiottona pastasciuttaia che tuttavia non disdiceva affatto assaggiare altre portate.

Proprio come adesso che hai 17 anni e mangi di tutto. In questo non sei affatto cambiata, piccola mia! Devo ancora capire dove metti tutta quella roba, sei… incredibile!

Pensò Camus, con un sorriso, spostando poi la sua attenzione sugli altri.

Stevin la seguiva a ruota a livello di alimentazione, perché anche lui amava mangiare praticamente ogni cosa che si trovasse nel piatto, quasi come se avesse sperimentato in prima persona la carestia e dovesse recuperare calorie in tutto e per tutto. Al contrario, Michela e Francesca erano molto più contenute, ma per due motivazioni ben diverse: la prima perché tendeva ad abbuffarsi con il primo piatto che le capitava a tiro; la seconda invece, pur assaggiando di buon grado tutto, tendeva ad assumere porzioni più piccole e a non riempirsi mai totalmente.

In ogni caso, tra un piatto e l’altro, il pranzo passò lieto e vivace, almeno fino al dolce, una torta crema chantilly e panna che si lasciava mangiare con gli occhi e che, proprio in quel momento, veniva tagliata dalla nonna per essere equamente suddivisa tra i convitati. Fu proprio in quel momento che a Michela venne fuori la domanda fatidica.

“Marta, come sta Bibo? Ti ricordi che ci hai promesso di farcelo conoscere oggi, vero?”

Prima ancora del termine completo della seconda domanda, Camus si accorse dell’irrigidimento delle spalle della nonna, seguito a ruota dallo sbuffare del nonno che, ultimato l’ennesimo bicchiere di vino rosso, ne caricava subito un altro, svuotando così la bottiglia. Marta, per ovvie ragioni, del tutto concentrata sulla torta e, in un secondo tempo, sull’amica, non si rese conto del cambio di atmosfera.

“Sta bene, l’ho visto stamattina prima di andare a giocare. Mi ha cinguettato il suo buongiorno e gli ho dato subito la pappa. Sta crescendo a vista d’occhio!” spiegò lei, inorgoglita, perché effettivamente le cose stavano procedendo bene nella cura del nidiaceo, ed era davvero contenta.

“Vero che anche noi diventeremo sue amiche?” continuò ancora Michela, sbattendo vivacemente le braccine all’aria come a simulare il volo di un uccello.

“Certo che sì, è su in camera, vero nonna? - la piccola chiese il sostegno visivo della sua grand-mère, ma non trovandolo nell’immediato, anzi vedendo che ella rifuggiva il suo sguardo, inclinò interrogativamente la testa di lato – Nonna?” la chiamò ancora, non capendo perché non l’appoggiasse.

Silenzio. Il brivido della consapevolezza investì Camus come probabilmente Francesca, mentre la vecchia signora, con espressione un po’ obliqua e tremante, raschiandosi la gola, trovò la forza di risponderle.

“Oh, cuore mio, non… non penso di potervi mostrare Bibo, sai?”

“Perché no? - Marta non capiva, forse semplicemente, pur essendo una bambina molto intelligente, rifiutava di capire – E’ su di sopra in cameretta, no? Il mio Bibo!”

“N-no, tesoro, vedi… - la nonna esitò ancora, osservando con occhi spenti il bicchiere pieno d’acqua più vicino – E’ volato via!” disse infine, in un soffio.

“Oh? - il visetto di Marta si illuminò, la bimba, che si era sporta sul tavolo, tornò comodamente a sedersi nel prendere il manico del cucchiaio e tagliarsi un bel pezzo di torta che subito portò alla bocca – Capisco, è già volato, che bravo!” asserì tra sé e sé, tutta felice, ammiccando appena.

“G-già.” sussurrò appena l’anziana signora, tornando giù a sedersi pur mantenendosi rigida.

Ma qualcosa non tornava, o meglio, era troppo prematuro. Nella testolina di Marta, pezzo per pezzo, stava prendendo sempre più forma l’impossibilità di quanto le aveva riferito la nonna e, più la consapevolezza aumentava, più i bocconi si facevano sempre più piccoli, malgrado la torta fosse buonissima e dolcissima. Le stava passando la fame…

Ad un certo punto si fermò, il cucchiaio ancora in mano, la mano un poco tremante. Un tarlo le rodeva la mente, uno solo, ma incommensurabilmente grande. Avrebbe voluto scacciarlo. Abbassò un poco la posata sul piattino, di contro alzò lo sguardo in cerca di spiegazioni.

“Nonna, però… come ha potuto volare, se le penne delle ali non erano ancora del tutto formate?”

“B-beh...”

“Gli uccelli non hanno forse bisogno di ali forti per librarsi in cielo? Bibo le ha ancora piccoline, sono due alette striminzite e non ancora mature, come è riuscito a...”

“...”

“Nonna..?”

“Marta...” si raschiò la gola Francesca, sforzandosi di prendere parola, ma lo sbattere delle mani sul tavolo ad opera del nonno della sua amica la fece brutalmente sussultare.

“BASTA COSI’!”

Di nuovo silenzio. Nonno Dante si era alzato e, con sguardo alticcio, ma ugualmente presente, scolò l’ultimo sorso di vino rosso, ultimando così il litro di bottiglia.

“Dante, non vorrai..?” provò a fermarlo la nonna, temendo le sue azioni, prima di essere messa a tacere dalla voce burbera del marito.

“Silenzio, Inés, la storiella è durata anche abbastanza!”

Non vorrai..? NONNO!

“La stiamo facendo crescere troppo nella bambagia, è grande abbastanza per capire ormai!” stabilì lui, senza mezzi termini, mentre la nipotina, spersa, lo guardava con timore misto ad incredulità.

Passò lo sguardo tra i due, nel silenzio, prima del verdetto definitivo.

Nonno, fermati, non puoi… non puoi dirlo cos…

“Bibo è morto questa mattina, Marta. L’intervento tuo e di Stevin per tentare di salvarlo è stato controproducente, oltre che inutile!”

“E-eh?”

Vuoto. Dentro. E freddo negli occhi della piccina.

A Camus montò immediatamente la rabbia. D’istinto, tirò un pugno contro la porta, la quale sbatté a sua volta contro il muro, facendo sussultare ulteriormente sia la nonna, che Stefano che Michela, rimasti impietriti da quella rivelazione così spietata prima ancora che dal rumore improvviso, e imprevedibile, che sembrava opera di un colpo di vento.

Come puoi… come puoi dirglielo in questa maniera?!

“B-Bibo è morto? - ripeté frastornata Marta, sull’orlo della lacrime, prima di riprendersi parzialmente – No, non è po-possibile, stamattina l’ho visto e stava bene!”

“E’ morto quando tu eri fuori a giocare con Stevin e le tue amiche.”

“N-no, non è vero… s-stai mentendo!” tirò su col naso la piccola, mentre gli occhi le bruciavano spietati e la vista si faceva appannata.

“Questo succede quando vuoi sostituirti a Madre Natura. Quel pullo di codirosso non era avvezzo a sopravvivere, il suo destino era già stato decretato, ma tu ci hai dovuto sbattere con il naso, Marta, prolungando solo le sue sofferenze.”

“N-no… NO! Io l’ho salvato, lo ABBIAMO salvato!!!” si oppose ancora lei, tenace.

“Così non è, non sempre le cose vanno come desideriamo noi.” disse ancora il nonno, implacabile, pur con una scintilla di dispiacere negli occhi. Ma era troppo tardi per salvarsi dall’ira della nipote.

“NO, stai mentendo! BUGIA! Tu lo hai ucciso!!! Bibo stava bene… STAVA BENE!!!” ululò oltraggiata la piccola, balzando in un impeto giù dalla sedia per compiere il giro del tavolo e avventarsi contro di lui per prenderlo a schiaffetti sulle braccia, sulle gambe, ovunque arrivava in tutta la sua foga di bimba sotto peso e di altezza inferiore alla sua età.

Camus si prese male a vedere la sua reazione. Si accorse che anche lui sentiva la rabbia dentro crescere, quell’enorme impulso bollente incanalarsi dall’addome al petto nell’arco di appena un secondo. Rabboccò disperatamente aria nel rendersi conto che, in qualche modo, il suo potere stava influendo negativamente su lei, come già era accaduto con i bulletti del fiume. Ne ebbe una paura viscerale; la paura di perderne il controllo e, conseguentemente, farlo perdere a lei.

No, non devi, piccola, non di nuovo! F-fermati, DEVI fermarti, altrimenti…

SCHIAFF!

Non ci fu bisogno di nient’altro, solo lo schiaffo ben assestato del nonno che fece capitombolare a terra la piccina ormai preda dei singhiozzi.

“DANTE!”

Perfino la nonna alzò notevolmente il tono nel vedere il trattamento riservato alla nipote. Gli altri bambini stavano immobili, chi con gli occhi lucidi, chi con il dispiacere impresso nello sguardo.

“Perchè?! Perché è morto? Sigh, sigh! Non capisco. - riuscì infine a chiedergli Marta, a terra, in piena crisi di pianto, desiderando una risposta – S-stamattina sembrava stare bene!”

“Non ci si può sostituire alla natura: i forti sopravvivono e i deboli periscono. E’ sempre stato così e così sarà per sempre… purtroppo. - stabilì il nonno, insindacabile, con un sospiro – E ora dimmi, ti sei un minimo calmata dopo lo sfogo?”

Calmata?! Le chiedi se si è calmata?!? La stai disintegrando, nonno!

La piccola non lo guardava più negli occhi, cercava di nascondere il suo visetto rigato dalle lacrime ben sapendo che non erano apprezzate da lui. A stento, si sforzò di annuire.

“Se vuoi capire perché è successo, vieni con me.” decretò ancora, facendosi strada verso la cameretta della bambina.

“Dante! - lo fermò però la nonna, lo sguardo supplichevole – Non vorrai far vedere alla bambina il corpicino di Bibo?! E’ troppo per lei!”

“Come ho detto prima, fino ad ora è stata cresciuta fin troppo nella bambagia. - risposte il consorte, apparentemente irreprensibile, scansando il braccio della moglie con gesto burbero – E’ giunto il momento che si svegli e comprenda.”

“Ma io pensavo che avessimo tenuto il corpicino per dargli degna sepoltura, non per farlo vedere a lei!” si oppose ancora la nonna, apprensiva.

“No, Inés. La bambina deve rendersi conto dei danni che ha procurato il suo intervento. Voleva aiutarlo, d’accordo, proprio per questo deve vedere con i propri occhi che cosa ha portato la sua scelta.”

“Ma!”

“Che cosa vuoi fare allora, Marta? Vieni con me a vedere quel che resta di Bibo, oppure..?”

La piccola, ancora in lacrime, tirò su con il naso, prima di rimettersi in piedi e seguire il nonno, pur con passo incerto e malfermo. Stefano provò l’impulso di seguirla e accompagnarla, ma Francesca lo fermò con un gesto del braccio.

“E’ una cosa tra nonno e nipote, anche se lui è stato sin troppo brusco.” gli disse solo, velatamente dispiaciuta.

“Me ne sono preso cura anche io, è una mia responsabilità, oltre che sua!”

“Lo so, ma credo che Nonno Dante voglia impartirle una lezione, la più importante.”

“Sbaglia i metodi, però, è tanto! Non otterrà nulla a trattarla così!” disse ancora il ragazzino, aspro, e Camus si sentì di dargli pienamente ragione, prima di seguire la sorellina con il cuore gonfio di dispiacere.

La cameretta di Marta era ancora piena di luce, nonostante le tendine fossero tirate in modo da schermare i raggi del sole. Nonno Dante la attendeva vicino alla scrivania, dove era appoggiata la gabbietta che, fino a quel momento, aveva fatto da casetta a Bibo.

Marta esitò sullo stipite, tirò su con il naso e tremò, desiderando per un lungo istante tornare indietro senza vedere il cadaverino dell’uccellino. Camus, pur non percepito, si permise di sfiorarle i capelli come a volerla rassicurare.

Coraggio, sono con te, sempre, anche se non mi puoi vedere!

I primi passi vennero mossi all’interno della stanza, traballanti, come il suo respiro ora accelerato ora rallentato. Il nonno la fissava senza proferir parola, attendendo che si avvicinasse abbastanza per togliere il velo da sopra la gabbietta e mostrare così il suo contenuto. Era implacabile nella sua severità ma… comprensibile.

“E’ qui.” disse solo, e spostò la leggera stoffa con rapido gesto del braccio.

La piccola non lo distinse, non subito. Ci mise un po’ ad arguire che quel concentrato di piume sparso sul fondo era in realtà ciò che restava del suo uccellino. Allineò le labbra nel trattenere un mormorio di dolore, il cuore le picchiò violentemente contro la minuta cassa toracica che, per un attimo, sembrò quasi accartocciarsi su sé stessa. Il petto le fece male.

Bibo, ormai quasi interamente piumato, giaceva immobile prono, le alette alzate a croce come se avesse appena provato a spiccare il volo. Aveva gli occhi chiusi, il becco dischiuso, come se stesse dormendo. Ma immobile era e privo di vita.

Marta singhiozzò, un’unica volta, prima di mordersi furiosamente le labbra nel trattenere il pianto feroce che già le sconquassava il corpicino.

“Per-perché?” riuscì solo a chiedere, svuotata, gli occhi gonfi.

“Perché era il suo destino.”

“Non credo al destino!” esclamò subito lei, guardandolo torvo, al punto che il nonno, radunando tutta la sua pazienza, si ritrovò a sospirare.

“D’accordo, ma a conti fatti l’uccellino che hai creduto di poter salvare è morto.”

Marta tornò giù a guardarlo nella speranza che così non fosse. Desiderò intensamente che si riprendesse, che avesse avuto solo un mancamento, o che magari stesse dormendo davvero in una posizione un po’ buffa.

Aveva però imparato che quel mondo disperato in cui si era ritrovata a vivere, non esaudiva i desideri.

“Posso prenderlo?” gli chiese allora, implorante.

“E’ morto, Marta, non cambierà la sua condizione. Anche se lo tieni a te, non percepirà più niente!” “Io voglio toccarlo!” ribadì la piccola, insistente, indurendo la sua espressione.

Nonno Dante si massaggiò la testa. Con quella bambina non c’era verso di incanalare un discorso sensato, soprattutto quando si intestardiva su determinate cose. Niente. Nulla. Le dicevi che così non era ma lei non ascoltava nessuno, andava avanti per la sua strada, chiara solo a lei.

Non era affatto una nipote semplice da gestire! La mancanza di una figura genitoriale maschile, probabilmente, aveva affilato quel suo lato caratteriale un po’ indomabile.

Ciò nonostante, senza dire niente, aprì la porticina della gabbietta, permettendole così di prendere l’uccellino. Subito le mani della piccola si mossero a coglierlo, trepidanti. Camus vedeva tutto da distanza, eppure era anche come se le sensazioni tattili della sorellina, i suoi stessi sentimenti ed emozioni, giungessero anche al suo corpo. Si massaggiò dolorosamente il petto, percependone tristezza e un’intensa voglia di piangere.

Era ancora caldo. Il corpo del codirosso era ancora caldo; le piume, che stava solleticando dolcemente con i due pollici, ancora morbide. Eppure il palpito della vita non c’era più in lui, lo aveva definitivamente lasciato. Marta incassò la testa tra le spalle, mentre, portandosi Bibo vicino al volto, ricominciò silenziosamente a piangere.

Anche gli occhi di Camus si annacquarono nel vedere la scena, mentre due gocce, come rugiada, gli scesero fino agli zigomi, sostando poi lì. Una debolezza che non si sarebbe mai permesso, se non fosse dipeso interamente dalla sorellina. Le sue emozioni giungevano a lui con sempre maggior intensità, soprattutto da quando aveva cominciato a girare nei suoi sogni. Era… difficile sopportarne il peso, a maggior ragione per lui che, le emozioni, le aveva sempre rifuggite fin dalla più tenera età.

Ma la piccola stava piangendo per la sventurata fine di un uccellino che era venuto alla vita senza avere occasione di conoscerla veramente. Era impossibile non rimanerne colpiti, ricercarne il senso senza trovarlo veramente, nonché…

“Hai finito di frignare?”

La voce del nonno irruppe nei suoi pensieri. Era spietata e metallica, o almeno così giunse a lui, lasciandolo intontito a rabboccare aria. Alzò, incredulo, lo sguardo nello stesso momento in cui lo faceva Marta, incontrandovi l’espressione disgustata e dura di chi, arrivato ad una certa età, aveva già visto tutto dalla vita e, proprio per questo, non si aspettava nient’altro di buono.

Camus avanzò di un passo, nuovamente arrabbiato con quella figura austera che avrebbe dovuto aiutare la piccina, non certo dilaniarla ancora di più come stava invece facendo.

Nonno! Dalle un momento, uno SOLO, le è morto l’uccellino, sta male per questo e…

“Piangere non servirà, non ti riporterà indietro Bibo!”

Fulminato. Quella frase aveva appena fulminato Camus in tutta la sua asprezza, lasciandolo basito e paralizzato. Sbatté più volte le palpebre, lo guardò ancora, guardò lui, la piccola che, sempre con l’uccellino tra le mani, lo fissava tremante, come se avesse ricevuto un colpo fortissimo e di spalle.

Li guardò, e al posto della loro corporeità rivide sé stesso nel nonno e Hyoga nella piccina. L’intensità della visione fu tale che quasi si sentì mancare, dovette appoggiarsi alla parete dietro per non cadere.

“E cosa… sniff, cosa me lo riporterà indie-tro?” chiese comunque Marta, tirando su con il naso.

“Nulla. Ormai è andato, dovrai fartene una ragione. - stabilì Dante, chiudendo gli occhi in una espressione di finta sufficienza che in realtà nascondeva ben altro, Camus lo sapeva bene – Ma puoi non fare gli stessi errori per una seconda volta.” aggiunse, riaprendo le iridi castane che si stagliarono su lei.

“E-e come dovrò fare?” insistette la piccina, ormai spersa, ma volenterosa più che mai di non compiere gli stessi sbagli.

“Non sostituirti alla natura, tanto per cominciare!”

“!”

La bambina non capiva, era lampante, occorreva parlare in maniera più concreta.

“Marta, sai perché il tuo Bibo è morto?” le chiese quindi, in tono un poco più addolcito.

“N-no, sniff, sembrava stare bene, mangiava e...”

“Sembrare è la parola corretta. - annuì il nonno, con un cenno del capo – Ciò non significa che effettivamente stesse bene. Vedi, i pulli appena nati hanno bisogno di costanti cure e attenzioni, di determinati cibi, di pasti regolari e frequenti. I genitori, questo, lo sanno bene.”

“M-ma noi glieli a-abbiamo dato, mangiava e...” provò ad opporsi la piccina, continuando a non capire.

“Forse non abbastanza, forse non nella maniera giusta. Vedi il dorso implume del pullo? Vedi che molte piume non si sono nemmeno sviluppate correttamente? Accade esattamente questo in caso di malnutrizione! - gli fece notare lui, schietto, indicandogliene una ad una e lasciando sfuggire un altro singhiozzo a Marta - In ogni caso, probabilmente era già uno dei più deboli della nidiata, non ce l’avrebbe comunque fatta, e ciò è dimostrato dal fatto che è caduto dal nido e sarebbe stato spacciato fin da subito, se non fossi intervenuta tu.”

“Non… dovevo intervenire, quindi?” arrivò alla dolorosa conclusione la bambina, trattenendo un altro singulto per impedirgli di venire fuori.

“No, non avresti dovuto intervenire, la Natura ci aveva già visto lungo, più di noi esseri umani.”

“Dovevo… lasciarlo morire?! Lasciare che lo predassero?!” ripeté Marta, incredula.

“Lo hai ben visto da te: a cosa è servito il tuo intervento? Lo hai salvato? No. Hai solo prolungato la durata della sua vita, sottraendo nutrimento ad altre creature.”

Marta accusò il colpo, abbassò lo sguardo, sentendosi male a quella frase che, proprio per la sua veridicità, penetrava in lei in maniera molto sofferta. Strizzò le palpebre, si morse il labbro inferiore, stringendo a sé il corpicino dell’uccellino.

“I-io volevo solo aiutarlo, n-non volevo che morisse, n-non volevo danneggiare altri, n-non volevo!”

“So per certo che non volevi, come so per certo che non volevi danneggiare nessuno, ma è necessario che tu capisca, Marta, che ad ogni scelta equivale una responsabilità; ad ogni decisione una conseguenza.”

Tacque per una serie di secondi, la piccola lo fissava in silenzio, il petto scosso da fremiti e sobbalzi che ottusamente non lasciava trapelare. Era tutto così ingiusto! Lei si era mossa in prima persona per salvare il pullo, credeva di esserci riuscita, di averlo messo in sicurezza, nutrito e preso cura con l’aiuto dei nonni e di Stevin. Se per ogni causa vi era sempre un effetto, perché il piccolo era comunque morto?!

“E’… ingiusto, sigh, io ho SCELTO di salvarlo, a-avrei dovuto riuscirci, e-e invece...”

“Non sempre le cose in questo mondo vanno come vorremmo. - ripeté burbero il nonno, chiudendo nuovamente gli occhi – Non basta voler desiderare di salvare qualcuno per riuscirci, se si è manchevoli di forza e conoscenza.”

“Di forza… e conoscenza?” ripeté lei, un balugino di consapevolezza negli occhi.

“E, molto spesso, neanche con quelle si riesce a salvare chi vogliamo.” sospirò ancora Dante, scrollando appena il capo in modo arrendevole.

“...”

Marta tornò a guardare il cadaverino di Bibo. Iniziava finalmente a comprendere ma il dolore non scemava. Si acuiva.

Dunque… fintanto che sarebbe rimasta così debole e ignava non sarebbe riuscita a proteggere nessuno, neanche un uccellino?

“La legge del più forte regola questo mondo, è sempre stato così fin dall’alba della creazione e così sarà per sempre.”

La voce di suo nonno parve rispondere ai suoi quesiti inespressi. Strinse a sé Bibo, chiedendogli tacitamente perdono per essere stata un’inetta. Non parlò, non ne aveva le forze, ma si sforzò di seguire il dialogo che suo nonno voleva tracciare per lei, così come la via che avrebbe dovuto percorrere.

“Tu stessa devi diventare forte e coriacea, se vuoi sopravvivere all’esistere. Resistere, rafforzarti, guardare in faccia la vita per quello che è.”

“E cos’è la vita, nonno? - le chiese a bruciapelo lei, la stessa espressione di Hyoga quando voleva difendere qualcosa di suo – Quale è allora il senso del nostro venire al mondo?”

Nonno Dante esitò prima di rispondere. Per i primi istanti parve a sua volta dubbioso, incerto, la sicurezza di sé venne meno.

“Una lotta. - disse infine, rispondendo alla prima domanda e non alla seconda – La vita è un’eterna lotta per accaparrarsi le risorse migliori e far perpetuare i propri geni a scapito di quelli degli altri.”

Gli occhietti di Marta si spensero del tutto, mentre una delle due mani che sorreggeva Bibo le cadde lungo il fianco. Per dei secondi interminabili, ebbe l’istinto di accasciarsi al suolo e piangere. Chiuse semplicemente gli occhi, lasciando riaffiorare lacrime amare senza gemiti.

Camus intanto si indignò, strinse le mani a pugno, furente, mordendosi quasi a sangue le labbra. Era decisamente troppo!

Nonno, si può sapere che intenzioni hai?! Marta è una bambina… UNA BAMBINA!!! E tu le dici queste cose, in questo modo! Come puoi..?!?

Ma la consapevolezza di non poter parlare, di non poter neanche esprimersi sull’argomento, lo investì nuovamente, ancora più selvaggiamente. Il suo corpo sussultò, la sensazione di ricevere un pugno in pieno petto, dritto e preciso, lo fece piegare su sé stesso. Si nascose il viso con una mano. Annaspò, tremando con maggior forza.

Come posso io anche solo indignarmi, andare in escandescenza, quando… quando con Hyoga io… NO! Con Hyoga dovevo farlo, non c’era altra scelta, doveva diventare Cavaliere, doveva crescere. Sì, doveva crescere, non è la stessa cosa che con Marta. Non è… la stessa cosa!

“E allora perché io sono nata in un mondo così?”

Silenzio. Camus rialzò dolorosamente lo sguardo sulla scena avanti a sé, sentendosi un miserabile sconfitto che si raccontava di aver fatto bene, mentendo perfino a sé stesso. Per certi versi, anche Nonno Dante, non aspettandosi una piega simile nel dialogo, condivideva con lui il medesimo stato, nonché la consapevolezza di aver violato qualcosa di incredibilmente puro.

“Marta...”

“E’ perché sono nata debole che sono stata abbandonata da papà? - chiese ancora la piccina, ormai preda di tutti i demoni che si era portata dietro fino a quel momento – Non ce l’avrei fatta, da sola, e quindi lui se ne è andato per non perdere altro tempo con me?”

“No, certo che n...”

“Eppure così avrebbe tutto più senso, spiegherebbe perché la maggior parte degli altri bambini ha una mamma e un papà, mentre io… mentre io...” continuava con le elucubrazioni la bimba, sempre più preda di una lucida consapevolezza che andava raschiando sempre di più la sua stessa anima.

E Camus seppe, con distinzione, che, a quel livello, non sarebbero più bastate le sole parole per calmarla, occorreva raggiungerla con un tocco, ma pretendere una reazione diversa da colui che, per larga parte, aveva tracciato anche il suo carattere così chiuso e restio ad ogni contatto fisico, era pura utopia. Tentò comunque.

Nonno, puoi riscuoterla solo tu, agisci! Non vedi che sta male?! Non vedi che le hai disintegrato ogni singola, labile, certezza che faticosamente era riuscita a costruire? Toccala! Ti prego, toccala… per me!

“Marta...”

Toccala, nonno, non servono le parole ora, NON SERVONO!

“E’ tutto così ingiusto… perché allora mi hanno fatto trovare Bibo, se non potevo salvarlo? Perché sono venuta al mondo, se non posso salvare nessuno delle persone che amo?! C’è un senso?!”

“Il senso non c’è, nasciamo per caso, moriamo altrettanto per...”

“Nnnnnngh, n-non può essere!!! Mi rifiuto… mi rifiuto di crederlo!!!”

Nonno, per favore, BASTA! Non lo regge, non può reggere una cosa così, possibile che tu non lo veda?!

Ma lui, per Hyoga, non lo aveva altrettanto visto, o forse, chissà, aveva fatto finta di non vederlo con la scusa di doverlo rendere più forte. Con il solo risultato che per quel sacro compito auto-imposto, aveva inferto una ferita mortale all’anima candida del suo amato allievo.

Di nuovo Camus accusò quella consapevolezza. Indietreggiò ancora di un passo, incuneandosi su sé stesso nel trattenersi la pancia che faceva di nuovo male.

Anche la pancia di Marta faceva male. La bambina si tratteneva a sua volta il ventre, fremeva, preda dei singhiozzi e di respiri sempre più rapidi.

“Non c’è una vera e propria ragione. Semplicemente siamo nulla e, silenziosamente, nel nulla torneremo.”

“N-no… NO!”

“Per questo devi rinforzarti nel più breve tempo possibile e accettare la realtà delle cose.”

“Non voglio!”

“Devi.”

“N-non voglio, nonno…anf, anf! Mi… rifiuto!”

“Purtroppo non c’è scelta, fiorellino.”

Anf, anf...

Camus faticava sempre di più a sbollire le emozioni sempre più prepotenti e prive di controllo della sorellina. Non c’era verso di ricondurle sotto ragione, esse sembravano incanalarsi nei vasi sanguigni e diffondersi a tutto il corpo, provocando violenti spasmi e dolori in tutto e per tutto affini alle coliche.

E’ insopportabile tutto questo, urgh -pensò freneticamente tra sé e sé, serrando le palpebre alla ricerca disperata di una soluzione- come riesce lei ad accettare e gestire questo grandissimo marasma che sono le nostre emozioni che si sommano?!

“Marta...”

Il nonno finalmente, nel rendersi conto della violenta crisi in atto della nipotina, la prese per mano, tirandola un poco a sé come a volerla ravvivare. Marta lo lasciò momentaneamente fare, gli occhioni gonfi di lacrime puntati verso il pavimento, lo sguardo sbarrato a vuoto. Persa.

“Non devi però pensare a questo con disperazione, anzi, è proprio la casualità dell’esistere che da significato alla vita.”

“...”

“Tra le miliardi di possibilità, sei nata proprio tu e in questo attimo di tempo che corrisponde ad una vita tu respiri, giochi, hai conosciuto Stevin, ti sei incrociata con tantissime altre esistenze che, come te, hanno avuto il privilegio di venire al mondo. Le possibilità erano ridottissime, sai?”

“...Per soffrire e poi morire? - chiese Marta a bruciapelo, respingendo il contatto, gli occhi già non più suoi che saettarono verso il nonno, stordendolo sul colpo – Avrei preferito essere abortita, allora!”

Nella stanza cadde il gelo. Marta non conosceva ancora la parola aborto, né tanto meno il suo significato. Eppure, con occhi taglienti come il rasoio e sfumature quasi scarlatte, aveva sentenziato senza remore alcuna che avrebbe limpidamente preferito non nascere, piuttosto che farlo ed essere così condannata a morte. Per la prima volta nella sua vita, Nonno Dante si sentì mancare aria davanti alla nipotina che lo guardava con sguardo irriconoscibile.

Non sembrava quasi più lei, da quanto fosse snaturata, faceva paura al solo vederla. Pareva di essere schiacciati da un’entità primordiale che non aveva altro desiderio se non distruggere chi gli si parava davanti e gli metteva i bastoni tra le ruote.

Camus ebbe la percezione nefasta, in quel respiro di tempo in cui la manina libera di Marta si stringeva a pugno, che sarebbe potuta arrivare perfino a colpire il parente, tanta era la rabbia. Il suo respiro accelerò di colpo, insieme ai suoi battiti.

No… non di nuovo, maledizione!

“Questa consapevolezza, la straordinarietà dell’essere stata concepita, dovrebbe farmi sentire meglio?! - esclamò quindi la piccola, con una voce non del tutto sua che riecheggiava nel suo timbro vocale – Sono nata per morire senza che io lo abbia chiesto?! Sono venuta alla luce e al calore per poi, un giorno, non percepirli più sulla mia pelle?!”

Il nonno sembrava immobilizzato. Non parlava, non reagiva. Una statua. L’espressione cristallizzata dallo sbigottimento.

Marta -o chi per lei- scrollò la testa, disgustata, mentre, alzando ancora di più il braccio, roteò il pugno per…

Non vorrà colpire il nonno come ha fatto con quell’altro ragazzo?! No, fermati! Non sei tu questa!

“I tuoi sono pensieri vani di un vecchio che ha ormai perso la speranza e deve dare un patetico senso alla sua insulsa vita fino a questo momento. IO RIPUDIO TUTTO QUESTO! Questa speranza, del tutto fallacemente umana, che la vita abbia un senso solo perché ha una fine, io NON LA ACCETTO! - stabilì ancora lei, mentre il timbro maschile che risuonava già nella sua voce si impresse ancora di più – Fate pietà! Questo non è l’ordine che IO ho creato! Non vi ho formati per confidare in un pensiero così commiserante, né per asservire ad altri fedi, eppure, pur essendo la mia progenie, vi siete allontanati a tal punto da me e dai miei insegnamenti!”

Pausa, tutto era immobile. Solo il cuore di Camus e l’interno del suo ventre vorticavano follemente, procurandogli un malessere sempre più difficile da tenere a bada. Doveva agire, ma agire avrebbe significato assecondare il principio medesimo contenuto nel suo grembo.

Fermati! Non ti permetto… di usare mia sorella!

Marta chiuse gli occhi e sbuffò, infastidita come se una zanzara un po’ troppo insistente le ronzasse intorno. Non gli diede comunque attenzione, concentrata sul volto cereo del nonno, ancora immobile con espressione sgomenta. Il palmo libero della bambina si aprì, rivelando cristalli gelidi di morte che subito abbassarono ulteriormente la temperatura nella stanza. La sola scintilla di calore rimasta, in quel momento cristallizzato nel tempo, era data dal corpicino dell’uccellino ancora premurosamente tenuto appoggiato al petto con l’altra mano.

“Soprattutto in questi ultimi secoli, vi siete distanziati ancora di più dalla verità. Vi siete distanziati ancora di più da me... - disse delusa Marta, ormai con voce più maschile che femminile, sempre meno sé stessa – Cosa dovrei fare io con voi, adesso? Siete una delusione! Vi siete rivoltati contro il vostro stesso creatore che vi ha donato il Libero Arbitrio; parlate di caso senza sapere realmente cosa sia e venerate sciocchi dei che sono più sporchi di voi nelle pulsazioni che provano. Che… ribrezzo!”

Ci fu un’altra pausa carica di tensione. Marta riaprì gli occhi ormai quasi interamente scarlatti ad eccezione dell’iride intorno alla pupilla, ancora profondamente blu.

“Forse dovrei semplicemente sterminarvi e ricondurre tutto a prima dell’Enuma Elish… evidentemente, il mio, è stato un errore!”

A quel punto Camus, lottando contro il bisogno impellente di avventarcisi contro, stringendo i denti, decise di tentare il tutto e per tutto a parole.

E tu che farnetichi di libertà, di doveri, di riconoscenza, e poi non rispetti quella degli altri, cosa, CHI, pensi di essere?! Un dio? O un tiranno? O entrambi?!

Si tratteneva la pancia nell’esprimerlo, imprimendosi le unghie nella carne, così come aveva fatto dopo la questione con i bulli. Ansimò tre volte, prima di sforzarsi di tornare ad una voce normale, ferma, sebbene fosse attanagliato dalla paura.

Marta rimase statica, apparentemente indifferente.

E’ facile riempirsi la bocca con parole quali la libertà individuale, se poi calpesti e ripudi quella degli altri! Non so chi tu sia, non so chi ti abbia concesso la presunzione di elevarti sopra gli altri, ma sono piuttosto sicuro che anche tu, come gli altri che tanto disprezzi, credi fermamente di essere superiore a qualsiasi altra fede. Quindi, io ti chiedo, chi pensi di essere?! Un essere umano… o un dio?!

Tacquero entrambi, immobili. Le gambe di Camus tremavano ma, ostinato, teneva alzata la testa per puntare lo sguardo verso quella figura che usurpava impunemente la coscienza di Marta. Era furioso, digrignò i denti nella sua direzione, convinto di non poter essere facilmente intercettato.

In quel lungo istante cristallizzato, un nuovo sbuffo si elevò nella stanza, oltre l’espressione incredula del nonno, oltre la luce fuori che si era oscurata del tutto, oltre il tempo che inspiegabilmente si era bloccato. Anzi, annullato.

“Uhmpf, non ti vedo e non ti sento, è vero, sei ombra ai miei occhi e non so perché, giacché il mio sguardo onniveggente dovrebbe coprire il mondo nella sua interezza. Tuttavia ti percepisco.”

A Camus mancò il respiro e così il battito, mentre la cosa nella sua pancia diete un colpo forte, quasi stesse scalciando e volesse urlare. Non c’era alcun dubbio: quell’essere si stava rivolgendo proprio a lui!

“Sono piuttosto sicuro tu sia un uomo di alta statura, fisico asciutto, ben proporzionato, tono di voce discreto e tranquillo… in apparenza! - sciolinò la ‘bambina’, con un sorriso divertito, mentre richiudeva la mano a pugno, bloccando così i cristalli di morte, per poi girarsi esattamente nella sua direzione – Non è forse così, contenitore di Tiamat?!”

La cosa dentro la pancia di Camus, preda della paura, produsse una contrazione ancora più forte quasi da fargli rivoltare le budella. Il contraccolpo fu tale che lo fece capitombolare bocconi per terra con il respiro mozzo e gli occhi sgranati.

“Sento l’odore della paura e dell’impotenza, anche senza il bisogno di distinguerti. Così è facile localizzarti...”

Marta si voltò interamente verso di lui, compì qualche passo nella sua direzione. Camus udì l’incedere dei suoi passi, tremò più forte, preda del terrore. Aveva asserito che non lo poteva vedere, eppure erano altri elementi ad indirizzarlo nella direzione corretta. Ne provò un’intensa sensazione di pericolo.

“Chi sei tu, anf?” rantolò comunque, indurendo lo sguardo.

“Sono io a chiederlo a te, umano. Per interagire con me su larga scala, non essendo tu fisicamente qui, devi essere in qualche modo collegato a questa bambina che mi ospita.”

“...”

“Sei suo padre? O un fratello? O un discendente? O ancora un affine?”

“...”

“Non mi vuoi rispondere, poco importa. Ti posso lo stesso percepire, anche se non con la vista, so che sei lì per terra, esausto, perché la dea dentro di te vuole accopparmi e tu glielo impedisci. - e indicò la zona esatta dove giaceva lui, con un ghigno ancora più sinistro – Te ne ringrazio. Effettivamente Tiamat brama la mia distruzione sopra ogni cosa, immagino tu ti sia accorto che non sia una tipetta facile da gestire...”

“C-chi diavolo sei, anf? Chi ti ha dato il permesso di essere lì dentro?!”

“Non lo so. Mi ci sono trovato.”

“LASCIALA! - ruggì Camus, facendosi coraggio, sempre più furioso - Quella bimba non è cosa per te, non ti devi permettere d-di… violarla!”

“Capisco, devi essere un parente a lei molto vicino per reagire così nei suoi confronti. - arrivò alla conclusione l’altro, soddisfatto, prima di raddrizzare la testa e guardare un punto, molto vicino al volto di Camus, dall’alto al basso – Non posso eseguire la tua richiesta, spiacente!”

“Ti ci strapperò… a forza!” ringhiò ancora Camus, sforzandosi di guardarlo torvamente negli occhi rossi. Che anche se non lo potesse distinguere, che ne avvertisse tutto l’immane peso, almeno!

“Provaci se riesci, ma non garantisco per l’integrità della pargola in caso di esito favorevole. Non siamo più due esistente slegate ma… un sistema che coesiste!”

“N-no, cosa stai farneticando?!”

“Sta a te accettarlo o meno. - rise soddisfatto, alzando poi il pugno della mano libera sopra di sé con l’intento di attaccarlo – Non ti darò comunque il tempo di rifletterci ulteriormente, recipiente di Tiamat, debellando te interromperò anche il ciclo di incarnazioni di quella sciocca dea… MUORI!”

Camus, così attanagliato dal terrore, non ebbe il tempo di reagire, semplicemente chiuse di scatto gli occhi, irrigidendosi di conseguenza nel prepararsi all’impatto di quell’immenso potere del tutto fuori controllo.

Ma il dolore, così come il colpo, non lo raggiunse. Al suo posto il riecheggio di un singhiozzo.

C’era qualcosa di caldo, in quel malessere, un qualcosa che per quanto effimero e temporaneo, era riuscito a nutrirle il cuore. Quel qualcosa era ancora tenuto in mano, vicino al petto, ancora tiepido nonostante la morte. Il ricordo di quel qualcosa sarebbe anche potuto durare in eterno.

C’erano lei e Stevin che lo raccoglievano, lei che lo mostrava orgogliosa alla nonna, promettendole di prendersene cura con tutta sé stessa; c’era la gioia della prima imbeccata, con tanto di pinza e lombrico, c’era il suo beccuccio che si apriva alla ricerca del cibo, il suo cinguettio che li aveva allietati e che, ancora in quel momento, era ben saldo alla sua mente. C’era il calore di una casa e una famiglia.

E, infine, davanti a lui, c’era la piccola Marta che, finita a terra come lui, stringeva ancora l’uccellino. ora con entrambe le mani, piangendo lacrime amare proprio perché la forza di quei pensieri era talmente immensa da lasciarla senza fiato.

“Non avrei voluto… d-danneggiare nessuno! I-io volevo solo salvarlo!” biascicò, tutta singhiozzante, strofinando appena il nasino sul corpicino dell’esserino.

Camus sorrise amaramente, alcune lacrime bagnarono anche il suo volto. Si sforzò di alzare un braccio nella sua direzione per toccarla.

Lo so. Non è colpa di nessuno, questo. La vita sa essere spietata a volte, ma la forza per continuarla a vivere, nonostante tutto, la devi comunque trovare da te.

“Ho sbagliato… a soccorrerlo? - gli chiese, aprendo gli occhioni ora completamente blu e riconoscibili – E’ morto per causa mia?”

No, Marta, tu lo hai comunque salvato, gli hai dato qualcosa che nessun altro poteva dargli!

Le disse, quasi commosso, accarezzandole teneramente i capelli e il volto con le dita.

“Che… cosa?”

Il calore.

“E a cosa è servito?”

A rendere il mondo un posto migliore, più accogliente.

Marta rimase a bocca aperta, scombussolata ancora dagli ultimi avvenimenti. Lo guardò. Si guardarono. Intensamente.

“E a me cosa è servito, se ora sto così male per non essere riuscito a salvarlo?”

A costruire un ricordo, per quanto agrodolce sia, ad imparare da questa esperienza, come dice il nonno.

“Non capisco...”

Lo capirai crescendo, piccola mia, e sarai proprio tu a insegnarlo a me.

Marta non rispose. Con gli occhi ancora lucidi di pianto, piegò un poco la testa di lato, verso la mano di Camus che la stava vezzeggiando, rimanendo un po’ lì, bisognosa di coccole, come era stato quando, dopo la ferita al petto, lui si era risvegliato dal coma.

So quanto dolore tu stia provando, lo sento distintamente dentro di me, ma so anche che non demorderai, che non sarà quest’ennesima esperienza a non farti più amare questa vita. Lo so, e ti ringrazio di non esserti mai arresa… Marta!

Le disse ancora il fratello, prima che il contatto venne irrimediabilmente spezzato e il tempo tornò a muoversi.

Ne susseguì un rombo in avvicinamento, poi un tremore sempre più forte. Sussultò, sussultarono entrambi, anche il nonno, come rianimato.

Quella che sembrava muoversi sotto i loro piedi era quanto di più rassomigliante ad una scossa tellurica che durò ancora una manciata di secondi, prima di passare.

Silenzio. Il tempo parve nuovamente cristallizzarsi. Perfino il cinguettare fuori dalla casa, appena ripartito, si ammutolì di colpo.

Camus rabboccò energie per sollevarsi da terra; Marta, vicina a lui, ancora intenta a piangere e a stringere l’uccellino a sé, si chiuse in una postura rigida. Il Cavaliere guardò d’istinto il lampadario smettere di dondolare, poi abbassò lo sguardo, incrociandolo involontariamente con quello del nonno che lo fissava sbalordito. La consapevolezza che i loro occhi si stessero sorreggendo reciprocamente, accelerò il cuore di Camus. Furono quasi sul punto di parlare, ma l’entrata a capofitto della nonna spezzò una volta per tutte il fragile equilibrio su cui poggiavano.

“DANTE!!! - lo chiamò la Signora Inés, in apprensione – C’è stato un terremoto! Voi state bene?! I bambini di là si sono spaventati ma ora stanno bene e Marta… MARTA!”

La piccola aveva colto l’occasione per dirottarsi fuori da lì e lasciare così i due nonni, ancora sconvolti per due ragioni distinte, da soli nella stanza.

“Dante, cosa è successo? Sei pallido!”

“Nien… niente!” farfugliò lui, discostando l’attenzione da Camus per poi girarsi verso la finestra e rimanere in silenzio.

“Oh, caro, non avrai detto qualcos’altro a Marta, spero! La piccola è già sconvolta di per sé, non mi sembra il caso di...”

“Ascolta, Inés, qualcuno la deve pur educare, no? Insegnarle cosa significa vivere...” si voltò burbero verso la moglie, nonostante la lieve vena di senso di colpa presente sul suo viso spigoloso.

“Sì, ma non così, non con dei metodi così… barbari! - la consorte, pur nella sua mansuetudine, non celò il suo biasimo – Voglio dire, a volte sembra quasi che ci trovi gusto a farla...”

“Ma non dire baggianate! - si sdegnò Dante, voltandosi brusco dalla parte opposta per non farsi vedere dalla moglie – Non volevo farla soffrire così, ma deve crescere e farlo in fretta, altrimenti il mondo la seppellirà.”

Camus non disse niente, si limitò a mordersi il labbro in una stilettata di consapevolezza. Erano in tutto e per tutto così simili...

“Non devi chiedere così tanto a te stesso… - si sentì di dire la nonna, con voce dolce, posando una mano sulla spalla del marito – né precluderti di mostrare quanto in realtà tu le voglia bene.”

“...”

“Perché io so che le vuoi tanto bene, Dante, so che lo stai facendo per il suo bene, ma così la stai perdendo. Lei non capisce, soffre, e rischia di allontanarsi da te...”

...come Hyoga con me...

“Vedrò… vedrò di fare quello che posso ma non è facile. - acconsentì Nonno Dante, un poco rammaricato – Pensavo di aver esaurito il mio ruolo di padre con Antoinette, non mi aspettavo… anche questo.”

“Lo so, lo so… Stai facendo davvero un ottimo lavoro, caro, solo… ricordati anche la dolcezza, è indispensabile.” gli consigliò ancora la moglie, sospirando nel comprendere il suo dolore.

“Non sono bravo per queste cose...”

“Oh, lo sei, lo sei… è che non te ne rendi conto ma, prima o poi, lo capirai anche tu!”

A Camus pizzicavano gli occhi e le guance, si sentì come se la nonna stesse parlando anche un po’ a lui, ed era tremendamente doloroso, pertanto, pur con il cuore gonfio di sensi di colpa, si voltò indietro per seguire la sorellina, conscio di aver esaurito il suo ruolo lì.

I bambini decisero di seppellire il corpicino piumato dello sfortunato uccellino sotto una grande quercia, l’unica di quel versante del monte colonizzato per lo più dai castagni, posta appena sopra il nucleo abbandonato di Gherfo che vegliava tacitamente su Carsi come un vecchio sul proprio pascolo. Si diceva che, in un tempo lontano, il paese fosse abitato da una ricca famiglia latifondista, i Navone, poi caduti in disgrazia. Di quell’antico borgo non ne rimaneva che una manciata di ruderi, pur tenuti in ordine e, per quanto possibile, curati dagli abitanti di Carsi che si sforzavano di tenere in vita quel ricordo.

Si avviarono in processione, prima Marta, poi Stevin, poi ancora Francesca e dietro Michela, che non aveva smesso di piangere alla visione del codirosso morto. Camus li seguiva a capo chino, perso nei suoi pensieri, ancora sconvolto nel essersi riconosciuto spietato come suo nonno nei confronti del suo Hyoga.

Arrivarono nel luogo prestabilito senza fiatare, individuando subito, sotto il nodo ramificato di un crocevia di radici, un luogo ideale per costruire una piccola buca. Iniziarono a scavare. Poco dopo, ripresa parzialmente dalle lacrime, anche Michela si impegnò ad aiutare gli amici Marta e Stefano a fare una buca a mani nude nella nuda e fredda terra, là dove il corpicino di Bibo sarebbe potuto tornare al Tutto. Francesca -non sfuggì a Camus!- li osservava dubbiosa, un po’ sulle sue, ma poco dopo, vincendo la riluttanza sul senso logico di fare ciò, si mise a cercare a sua volta una roccia particolare che potesse essere utilizzata come lapide.

Terminati gli scavi, Marta riprese il corpicino dell’uccellino, precedentemente posato a terra, tra le mani. Se lo strinse al petto, come a dargli -o darle? Non aveva avuto nemmeno l’occasione di capire se sarebbe stato femmina o maschio!- l’ultimo conforto, prima di singhiozzare una sola volta e tirare su con il naso.

“E’ il momento, la buca è sufficientemente profonda.” disse Stefano, posano una mano sulla spalla dell’amica, la quale, consapevole, annuì.

“S-sì.”

“Starà bene, diventerà parte dell’albero e continuerà a vivere tramite quello!” la provò a rassicurare Stevin, non sapendo bene come comportarsi.

“Sarebbe stato meglio nel cielo, che è il suo elemento, sarebbe stato meglio vivo. Ora non sente più niente.” affermò monocorde Marta, osservando per l’ultima volta le piume arruffate e il beccuccio semi-aperto.

“E’ un bel posto però, non trovate? Sniff, anche io… anche io vorrei riposare qui.” biascicò Michela, asciugandosi gli occhi.

Marta annuì, laconica, prima di posare il corpicino al centro della buca.

“E ora?” chiese Michela, pur temendo la risposta.

“Lo si ricopre. - asserì Stevin, dolente – E’ così che il nonno ed io facciamo quando ci muore una gallina che ci ha sempre dato delle buone uova. Non la mangiamo per rispetto nei suoi confronti, la ridistribuiamo semplicemente nel circolo.”

I bambini osservarono insistentemente il corpicino. Sebbene sapessero cosa fare, esitavano, forse nella speranza, dura a morire, che potesse veramente riprendersi e rialzarsi in piedi, pigolando per il cibo come aveva fatto per tutti quei giorni passati. Infine, con un sospiro prolungato, Marta per prima accennò il movimento di ricoprirlo.

“Aspetta. - la fermò tuttavia Francesca, trattenendole una mano, prima di conficcare una roccia rettangolare, rassomigliante ad una mattonella, nel terreno in modo da incastrarla – Ecco, così è più decoroso, pensavo inoltre che potremmo pure ornare il giaciglio con sassolini, foglie, muschio e simili.” propose, l’espressione ancora un poco distante, ma più presente.

Era una buona idea, i bambini sorrisero mestamente, prima ad accingersi a svolgere l’ingrato compito. Nessuno parlò durante le operazioni, il compito venne svolto con il massimo del rispetto e della solennità. Mezz’ora dopo, il simulacro era pronto, abbellito con ramoscelli, pietruzze, foglie e muschio. Michela, con i lacrimoni agli occhi, si mise a pregare, Francesca la seguì, più per farle compagnia che non per altro; Stefano guardò Marta di profilo, la quale, silente, avvolta come sempre nel suo malessere, rimaneva insistentemente ad osservare la lapide preda di pensieri che solo minimamente lasciava trasparire agli altri.

“Non ha senso alcuno.” rimuginò infine tra sé e sé, aspra, dando voce a quello che doveva essere solo un pensiero. Quando se ne accorse si morse la lingua.

“Marta, che cosa non ha senso?” chiese Francesca, pur intuendo già la risposta.

“La sua esistenza così. - fu infatti la tassativa risposta della bambina, mentre le mani le si stringevano a pugno – Non ha senso alcuno essere nato per poi essere morto prima ancora di sapere cosa fosse la vita. Poteva allora non nascere direttamente? Essere predato prima di essere senziente?! NON HA SENSO!”

“Non deve… avere senso per forza!” sospirò Francesca, sapendo di star varcando un confine pericolosissimo con l’amica.

“Oh, lo so! - fu la subitanea risposta, perfino più aspra e disperata di prima – Ma non lo accetto, non lo posso accettare!”

“Che tu lo accetti o meno non fa differenza per il grande piano delle cose.”

“Non m’importa del gran piano delle cose, se la vita del singolo è priva di significato!”

“Ma è così, non ci puoi fare nulla. - insistette l’amica, alzando un poco il tono – Lo hai ben visto da te in questi anni che hai passato in mezzo alla Natura, a lei...”

“HO DETTO CHE NON LO ACCETTO!!!” Marta quasi urlò preda alla rabbia e, per un momento, uno solo, Camus temette che le potessero tornare nuovamente gli occhi scarlatti come era stato durante lo scontro verbale con il nonno.

Il Cavaliere dell’Acquario si strinse nuovamente la pancia con una mano, ora nuovamente tesa e dolente, avvertendo forte e chiara in sé quella cosa scalpitare dentro di lui.

Devi fartene una ragione, piccola, le parole di Francesca, per quanto dure, corrispondono alla verità.

Le sussurrò, fievole, e la bambina, pur riprendendo tacitamente a piangere, sembrò tranquillizzarsi un poco.

“Per quanto può essere ingiusto e intollerabile per il singolo, e lo capisco, questa è la legge che regola l’universo. E’ sempre stato così e così sarà per sempre.” spiegò pacatamente Francesca, in quella che pareva tanto una condanna; la condanna del venire al mondo.

“Bello schifo!” esalò Marta, con disprezzo, osservando ottusamente verso il basso, nella speranza, sempre più vana, che l’uccellino potesse emergere dal terreno e dimostrarsi vivo.

“Per quanto sia dura da accettare, dovrete imparare a conviverci. In natura deve trionfare l’accrescersi. Quello è il fine ultimo, quello è lo scopo di ogni essere vivente. La vita esige altra vita, richiede il moltiplicarsi. Voi umani non fate differenza, anche per voi è così, anche se, a dispetto di altre creature, effettivamente qualcosa in più avete: la scintilla dell’intelletto e la capacità di scegliere.”

A quelle parole Stefano si accigliò. Guardò stranito l’amica, che tuttavia non osservava lui, ma Marta, ancora in piedi a capo chino con le mani strette a pugno. C’era qualcosa di insolito nel suo, seppur vero, discorso.

“Voi umani? - ripeté interrogativamente, notando che Francesca, alla sua domanda, si era palesemente irrigidita – Che significa? Tu non sei… come noi?”

Stefano non lo sapeva con distinzione, non in quel momento e probabilmente non aveva fatto in tempo a scoprirlo, ma la sua attenzione ai dettagli lo aveva già indirizzato bene.

“Scusate, mi sono fatta prendere la mano e ho usato il voi… - si scusò Francesca, scrollando il capo, prima di sforzarsi di tornare sull’argomento principale – La sostanza però non cambia, purtroppo, il fine ultimo è riprodurre i propri geni per superare le barriere del tempo.”

“No, non può essere.” continuò ostinata Marta, ormai sorda.

“Ascolta, è difficile, lo so, ma gli essere umani si discostano un po’ da questo schema precostituito. Questo non vuole essere una consolazione, certo, ma tu pensa che, proprio solo come uomini, noi ci poniamo domande, vogliamo scoprire il mistero della vita, ci diamo risposte, abbiamo una fede, ecc… non siamo suscettibili solo alla crudeltà della natura, no, siamo forse una delle poche specie che si preoccupa di prendersi cura di quelli meno fortunati di noi, vedi anche l’uccellino che hai tentato di salvare.”

“...”

“La mamma lo aveva abbandonato lì, aveva scelto per lui, e invece tu ci hai provato, Marta, hai provato a salvarlo.”

“Sì, e poi come ha detto nonno è morto comunque, perché la Natura aveva decretato già suo destino, a cosa è servito, quindi?”

“Al… - Francesca si fermò, non sapeva bene cosa dire, quelle domande incalzanti la mettevano in difficoltà – A dargli una seconda chance.”

Ma Marta era sorda a quella consolazione, così chiusa nel suo dolore: “E a cosa è servito? L’ho effettivamente salvato?”

“Erk… no.” fu costretta ad ammettere Francesca con un sospiro.

“Bene. E allora risparmia le parole, non mi fai sentire meglio!” tranciò di netto ogni tentativo di avvicinamento.

“Marta! - Stefano aveva assunto un tono severo, non suo, ma non poteva evitarlo, non quella volta – Francesca ha solo tentato di...”

“So cosa ha tentato, e la ringrazio per questo, ma non serve.” disse ancora lei, dando loro le spalle per poi voltarsi dall’altra parte, iniziare a scendere e fermarsi poco dopo, lo sguardo liquido in direzione del paese di Carsi.

“Marta...” la richiamò Francesca, non sapendo più come raggiungerla.

“Ribadisco quello che ho detto prima: non lo accetto e non lo accetterò mai, non POSSO accettarlo!” stabilì ancora lei, dando un’ultima occhiata agli amici.

“A-anche se dici così, tu, da sola, non...”

“NO! C’è dell’altro, DEVE esserci dell’altro! - esclamò ancora la bambina, prima di voltarsi e incamminarsi, in solitudine, verso casa. La sua voce divenne un sussurro nello scandire le ultime, frenetiche, parole, più per convincere sé stessa che gli altri – Ed io troverò questo altro che da un senso all’esistere, lo giuro!”

 

 

* * *

 

 

Agosto 2004

 

 

Dopo la faccenda dei germani e del codirosso, la piccola si era sforzata di riaprirsi al mondo alla ricerca della sua personalissima risposta al senso della vita. Ben presto, però, il percorso si era rivelato tutto meno che facile, poiché ne era rimasta inevitabilmente scottata e la piaga non guariva mai del tutto, limitandosi soltanto a dolere meno in taluni momenti. Così la piccola continuava ad osservare la realtà con dolente distacco, chiedendosi insistentemente come ci fosse finita lì, in un mondo che sembrava splendido, luminoso, confortevole e che invece si dimostrava selvaggio, spietato e crudele. Era come se la gioia e la spensieratezza tipici dell’età infantile avessero lasciato troppo presto il posto ad un male di vivere sempre più opprimente. E faceva male, quello. Soprattutto perché qualcosa di simile aveva passato anche Camus nella sua infanzia, ma lei no, non avrebbe dovuto. Non avrebbe dovuto avere quell’espressione mogia, quel velo ombroso a coprire i suoi occhietti tendenzialmente luminosi e pieni di vita, perché la sua Marta -l’Acquario lo aveva sempre percepito fin dall’inizio- di vita ne era gremita, al punto da traboccare.

Il Cavaliere si osservò ancora una volta la mano destra, ricordando la prima volta che aveva percepito le dita della piccolina stringersi alla sua, e poi ancora dopo, molto dopo, -anni, per l’esattezza!- quando, dopo le ferite infertogli dal nemico, caduto nelle tenebre dell’incoscienza, oltre al tocco e alla stretta del suo amico Milo, vi era stata solo la sua mano a poterlo sorreggere, spingendolo a reagire proprio in virtù di quella vita che tanto amava.

Sorrise, gli occhi lucidi nel ricordare l’emozione di quei momenti, il calore invincibile di quelle parole. Provò ad accarezzare il fagotto di coperte che era la sua sorellina, tuttavia non lo raggiunse. Sospirò. Di nuovo non aveva il pieno controllo di quell’attitudine che sembrava andare e venire a piacere di qualcun altro. Si massaggiò la pancia, percependola nuovamente inerte, quasi… svuotata!

Marta...

Quella sera la bimba stava male, era piuttosto evidente. L’atroce consapevolezza che il mondo non fosse affatto un paradiso, come aveva pensato all’inizio, ma una piazza caotica dove il più forte uccideva il più debole, si era fatta più forte quel giorno, privandola di ogni energia per lasciarla debole e indifesa a letto per tutta la durata del dì. Impossibile da riscuotere, ci avevano comunque provato i nonni, entrambi, poi la mamma, da poco giunta nella casa in campagna dove sarebbe rimasta per le due settimane di ferie estive. Tutto inutile! Marta non aveva voglia di comunicare, a tratti neanche di respirare, tanto aveva interiorizzato il dolore. Riusciva a stare solo lì, rannicchiata sotto le coperte, a rabbrividire per un freddo che nulla aveva a che fare con la temperatura esterna. Foxy, il suo peluche preferito a forma di volpe, era tenuto tra le braccine, unico conforto palpabile nel buio che l’aveva avvolta.

Forza, devi reagire, piccolina… -le disse ancora Camus, chinandosi su di lei nella pallida speranza di comunicare ancora- Dove è finita la tua voglia di vivere, il tuo elogio alla vita? Tu… sei stata tu a risvegliarmi dalle tenebre più di una volta, è al tuo inno alla vita che mi sono aggrappato per non cedere. So che puoi trovare la tua risposta, Marta, l’hai data perfino a me quando ero in coma!

Tutto inutile, non lo sentiva e neanche lo percepiva. La bimba si girò dall’altra porte, portandosi dietro Foxy per poi rannicchiarsi ancora di più, avviluppandosi tra le coperte, chiusa al mondo che tanto la addolorava.

Non era da Camus arrendersi, non lo era mai stato, men che meno con lei. Per cui, svoltando il letto, cambiò lato, lo stesso della sorellina, per apprestarsi ad agire in qualche modo. Di nuovo provò a toccarla, a riscuoterla, ma non la raggiunse. Era indeciso sul da farsi quando, all’improvviso, la porta della camera si aprì, rivelando la figura di un signore anziano dallo sguardo severo, gli occhiali tondi e spessi, le labbra allineate in una leggerissima espressione di disapprovazione che, in verità, celava molto altro.

Nonno!

Lo chiamò immediatamente Camus, quasi sussultando sul posto. Indietreggiò di un passo esattamente come quando accadeva da piccolo. D’altronde, gli aveva sempre dato una sorta di timore referenziale miscelato all’affetto, perché era sempre stato una persona intrinsecamente buona, era vero, ma intransigente al limite della spietatezza, come aveva dimostrato quella stessa estate. Ciò che diceva lui, del resto, era il Verbo, sempre così convinto di aver ragione su tutto e tutti, sempre pronto a giudicare gli ideali degli altri come puerilità.

Il ragazzo si morse il labbro a quell’ennesimo pensiero, rendendosi maggiormente conto di quanto ci fosse stato affine, al suo carattere, sebbene da piccolo si fosse ripetuto più volte di non diventare come lui. Giammai.

E invece…

Si strinse la mano a pugno, tremando, ripensando nuovamente a Hyoga e a tutto il dolore che, mascherato da lezione, gli aveva impartito. Costrinse la sua mente ad andare oltre. Non era ancora capace di accettare il suo fallimento con lui. Non ancora.

Nonno, Marta sta male! Ascolta quello che ti ha detto la nonna e, almeno tu, fai qualcosa per…

“Bi, bi, bi, bi, bi… BI!”

Anche Marta aveva percepito il suo ingresso e, come spesso accadeva dopo la faccenda del codirosso, aveva preso ad agitarsi, sproloquiando parole brevi e inesistenti allo scopo di non dover comunicare con lui.

Camus osservò la piccola rifugiarsi ancora di più sotto le coperte, ne riconobbe il sopraggiungere di una crisi; guardò quindi il nonno, quasi implorante, vide la sua espressione gremita di sdegno.

Nonno, per favore…

“Biro, biro, biro! Biiiiro, biro, biro!!!”

Non ci fu altro, la porta si richiuse, lasciando la piccola da sola di nuovo sul letto, quando avrebbe avuto solo bisogno di affetto e calore. Nella stanza riecheggiò un singhiozzo e poi un altro ancora.

Vecchio ottuso che non sei altro! Perché continui a non capire?!

Lo sguardo di Camus divenne sussiegoso. Venne colto dalla collera, maledicendo il nonno per la sua incapacità di comunicazione che lui stesso aveva malauguratamente ereditato. Non pensò, non ragionò oltre. Non potendo interagire con la piccola perché quel dannato potere funzionava a spizzichi e bocconi, si diresse immediatamente verso la porta appena chiusa, la colpì con un pugno, aprendola di slancio per poi farla sbattere contro il muro senza curarsi di poter essere sentito. Percorse quindi il corridoio del piano fino a scendere le scale dove aveva capito trovarsi il salotto.

Il nonno aveva messo le ali ai piedi e già non c’era più, caricando a spron battuto certo delle sue convinzioni, ma la sua voce lo accolse comunque subito all’ingresso della sala in questione.

“Anto, dobbiamo parlare...”

Camus entrò nel salotto, i battiti cardiaci più rapidi a causa della rabbia si placarono solo nel distinguere l’espressione sorpresa della madre, seduta su una delle comode poltrone. Dopo l’iniziale sbigottimento, la vide tendersi per poi portare anche i muscoli e le spalle esili ad irrigidirsi. Con ogni probabilità, aveva già presagito dal tono di voce che doveva trattarsi di un argomento piuttosto spinoso.

“Papà… - sussurrò in un fremito, alzandosi istintivamente in piedi – Di cosa?

“Di Marta. - disse l’altro, sbrigativo, rivolgendosi alla figlia con la voce che, nonostante la vecchiaia, possedeva comunque un timbro estremamente virile – Non sta andando bene in questo periodo, involve, invece di crescere!” affermò, senza un minimo di esitazione.

Parole dure, professate con un timbro severo. A Camus bastarono per affinare lo sguardo, cancellare la pallida calma che gli aveva infuso la sola vista della madre e irrigidirsi a sua volta.

Dovresti essere fiero, di lei… -sibilò tra sé e sé, furente- E invece… invece!!!

“Che cosa… intendi?” la voce di Antoinette si era fatta inaspettatamente fredda.

“C’è bisogno che te lo spieghi? Certo, tu non sei sempre qui, mio usignolo, perché sei dedita al lavoro e in carriera. – la chiamò con il nome che le dava da piccola, forse sperando di rabbonirla, forse avendone semplicemente bisogno – Non sai, non immagini, che cosa abbia vissuto, ma...”

“Veramente lo so, perché lei me ne parla. - Antoinette affinò lo sguardo nella sua direzione in maniera non dissimile da come aveva fatto inconsapevolmente il figlio – So della germanotta, so del codirosso e, se vuoi la mia opinione, papà, quello potevi risparmiartelo, potevi risparmiarle di farle vedere il corpicino!”

“Ho… ecceduto in quella circostanza.”

“Certo, come accade di frequente quando bevi troppo vino rosso. Dovresti smetterla!”

“Ho sbagliato i modi, d’accordo, ma il messaggio che le volevo dare lo condivido anche adesso: Marta deve rendersi conto di cosa comporti il peso dell’esistenza! Prima lo farà, meglio sarà, soprattutto per lei, perché diventerà più forte di chiunque, dura abbastanza per resistere alle intemperie della vita.”

“Soprassediamo, va’! - buttò fuori aria Antoinette, aspra, trattenendo a forza la rabbia – Il punto è che, anche se lavoro a tempo pieno e la vita che mi sono scelta mi occupa gran parte del tempo, ho un ottimo rapporto con mia figlia, quindi non ti azzardare a dire che io non so, che non immagino, che non...”

“Mi dispiace, non volevo dire questo. - ritrattò il nonno, con un sospiro, sedendosi lui sulla poltrona e appoggiando stancamente le braccia sui braccioli – Ma se lo sai, a maggior ragione, dovresti essere allarmata quanto me.”

“E perché?”

“Perché?! - ripeté lui, recuperando un po’ di baldanza – Non lo so, Anto, dimmelo tu, visto che dici di saperlo. Fa cose STRANE, come guardare i caprioli decomporsi! Quale bambino sano di mente fa ciò?! Poi, d’accordo, io forse non avrei dovuto farle vedere Bilbo morto, avrei semplicemente dovuto reggere il gioco della Inés e dirle che era volato via da solo, ma voi donne della casa l’avete fatta crescere troppo nella bambagia, e comincia ad essere troppo grande per credere alle storielle!”

“Quindi, per questo ideale, l’hai messa in faccia alla morte, sebbene ci si fosse già trovata, e ora non va bene che abbia reagito così...”

“Io… certo che no, non è per quello. - tentò di riparare lui, nuovamente preso in contropiede – E’ che… uff!”

“Papà, Marta sta attraversando una delicatissima fase della sua crescita. E’ intelligente e si pone un sacco di domande, alcune delle quali non trovano risposta. Prima aveva un concetto di morte molto più indulgente, ora… - sospirò ancora, più profondamente, sentendosi improvvisamente stanca e decidendo all’ultimo di lasciare in sospeso la frase – Semplicemente non lo accetta, non ci vuole credere, perché AMA la vita.”

“Ama la vita e va a vedersi i caprioli decomporsi...” inarcò un sopracciglio il nonno, affatto convinto.

“Voleva capire bene il processo, e poi… voleva accompagnarlo.”

“Per dove?”

“Per… lascia perdere, non capiresti. - scosse la testa, prima di fare comunque un tentativo - Come reagiresti se ti dicessi che lo ha sentito chiedere aiuto? Che insieme a Stevin hanno provato ad aiutarlo, ma che non ci sono riusciti perché sono arrivati tardi?”

“Se non fosse mia nipote, penserei che si fosse ammattita!”

“Ecco, come volevasi dimostrare! Sei sordo e cieco al credo degli altri!”

Dante incassò il colpo ma non si scompose. Non era importante, del resto, affatto pertinente alla ragione del suo dialogo.

“Antoinette, non è comunque normale questa cosa...”

“E cosa dovrei fare, quindi, pà?”

“Portarla da un qualche specialista per...”

“Non mi starai dicendo di portarla a curare, vero?! Marta non ha nulla che non vada!”

Secca, inamovibile e diretta quando si trattava di proteggere i suoi figli. Sempre.

Testarda, scostante e sorda appariva agli occhi di suo padre, che rabboccò aria nella necessità di farla ragionare, dato che, in determinati casi, pareva un mulo cocciuto, più che un usignolo. Non demordette, l’argomento era della massima importanza e urgenza.

“Ascoltami, Anto...”

“Tra poco metto su il caffè, ho anche fatto dei biscotti per la piccina, per invogliarla a venire, visto che è un periodo che sembra nuovamente tanto giù.”

Dalla porta che dava sulla cucina emerse la nonna con un grembiule rosso indosso e la caffettiera tra le mani. A Camus si aprì di nuovo il cuore nel vederla. Guardò, riguardò la sua famiglia unita in quel salotto, sentendosi per l’ennesima volta spezzato, scardinato dalle sue stesse radici. Trattenne un lamento dentro di sé, mentre l’anziana signora, come persa nel vuoto, sostò a lungo su di lui senza tuttavia saperlo veramente. Si riscosse solo qualche secondo dopo nel posare un’occhiata tra i due contendenti, posti uno dirimpetto all’altra, a dimostrazione tangibile dell’alterco che stavano vivendo in prima persona.

“Oh, non starete ancora litigando per..?”

“Inés, torna in cucina e non mettere ancora nulla sul fuoco! Il dialogo è ancora piuttosto lungo.”

“Ma...”

“E’ un discorso tra me e Antoinette, vai!”

Con un sospiro profondo, la nonna, sempre accondiscendente nei confronti del consorte, tornò nel luogo che, si diceva, le spettasse più di ogni altro.

Puoi anche morderti la lingua ed evitare quel tono con lei, Nonno! -ringhiò Camus incapace di trattenersi- Siamo nel XXI secolo, ormai!

“Pà, questa patina di patriarcato puoi anche tenertela, non siamo più… ai tuoi tempi!” gli sibilò a sua volta Antoinette, ricalcando inconsapevolmente le orme del figlio.

Camus si meravigliò nell’udirla, oltre a stimarla sinceramente ancora di più. La guardò con occhi profondi senza tuttavia poter essere visto.

Quell’espressione… era la stessa, identica, che assumeva Marta quando qualcosa non la aggradava o provava l’istinto di proteggere le persone che amava. La conosceva bene. Se ne sentì incommensurabilmente riscaldato.

“Non volevo essere così brusco, ma è necessario chiarire questo punto e ho il bisogno di darti dei consigli… - il nonno prese una pausa nell’andarsi a sedere sulla poltrona prima di proseguire – ...Visto che sono rimasto l’unico uomo della famiglia!”

Antoinette accusò il colpo, piegò innaturalmente le labbra in un fremito di disapprovazione: “Come ti dicevo, del tuo patriarcato, puoi...”

“Non è il discorso del patriarcato, figlia mia, è la pura e semplice verità: io sono rimasto da solo, è mio compito aiutarvi, consigliarvi e proteggervi. Ho delle responsabilità nei vostri confronti, è il mio ruolo!”

“Dimmi, allora, visto che ci tieni così tanto.”

Era fredda come il ghiaccio nel nascondere dentro di sé quella scintilla di sofferenza mai del tutto assopita che si faceva più viva che mai proprio in quei momenti. Si costrinse a farsi forza e a mascherarla, ma era perfettamente percepibile dai suoi occhi quasi lucidi.

A Camus doleva il cuore a vederli così, a vedere che, nonostante gli anni passati, non si fossero mai dimenticati di lui -sarebbe stato forse meglio!- e che ancora la sua separazione procurava loro un dolore difficilmente calcolabile.

“Non l’ho detto fin’ora, perché pensavo che, almeno lei, fosse… normale… - il nonno abbassò lo sguardo nel ricercare le parole giuste da adoperare – Ma, allo stato attuale, con gli ultimi accadimenti, bisognerebbe valutare di fare dei controlli anche alla piccina.”

“Perché?!”

La freddezza di sua madre aveva lasciato il posto ad una nuova punta di ostilità non del tutto trattenuta. I suoi occhi fiammeggiarono, forse cominciando ad intuire dove sarebbe stato condotto il discorso. Dante sospirò, guardò altrove, non del tutto capace di far valere le sue posizioni con la figlia adorata.

“Perché, sai, è una sicurezza in più, non vorrei che… che avesse gli stessi problemi di… di... - si trattenne, visibilmente nervoso, per non dire angosciato. Sapeva di star sfondando una porta aperta e ne aveva timore, sebbene si fosse da sempre considerato un uomo forte e risoluto – di lui.”

“Di Camus, intendi?! - Antoinette pronunciò il nome del figlio con un sibilo prolungato, faceva accapponare la pelle. Il diretto interessato sussultò, mentre il discorso andava a prendere una piega sempre più turbolenta - Santo cielo, papà, cos’è?! Non riesci più neanche a chiamare per nome tuo nipote più grande?!”

Dante sembrò accusare nuovamente il colpo, strinse i braccioli della poltrona, si fece scuro in volto per poi chiudersi in un mutismo pesantissimo. Aveva riposto grande fiducia nel nipote maschio, in lui aveva visto una speranza, un barlume per il futuro, un aiuto concreto per la gestione della famiglia. Ma era nato sotto una sorte infausta e portato via lontano da loro. Per sempre.

“Tu hai permesso a quell’uomo di condurlo via! Io ero contrario!” esclamò di un tratto, guardandola torvo.

Si riferiva a Shion. Era lampante.

“Non avevo alternative.”

“Lo hai allontanato da noi e ora… ora rinfacci a me il fatto di non riuscire neanche a nominarlo?!”

“Non sai bene le dinamiche...”

“Neanche mi importa di saperle: tu hai permesso a Camus di essere condotto lontano da qui, lo hai fatto andare con quel santone che farneticava di cosmo e stupidaggini varie! Tu ti sei fatta convincere da lui!”

“N-non c’era stato bisogno di nulla per convincermi. I... i fatti hanno parlato da soli, e poi... è stata una scelta di Camus.”

Cosa?! E’ stata una MIA scelta?!

No, qualcosa non tornava. Non era stato forse obbligato da Shion a seguirlo perché predestinato?! Ora saltava fuori che lo aveva scelto lui stesso?!

“CERTO! Una scelta di Camus che aveva appena 5 anni, come no!”

“Camus era speciale, lo è sempre stato! Sei tu a non essertene mai reso conto! - lo biasimò, senza mezzi termini, difendendo con le unghie e con i denti il figlioletto più grande - Sei un ottuso, non vedi oltre il tuo naso, ma non mi meraviglia!” alzò ulteriormente il tono Antoinette, rossa in viso, perdendo la pazienza come raramente succedeva.

“SARO’ ANCHE UN OTTUSO, MA IO NON ABBANDONO LA MIA FAMIGLIA, NON SONO QUELLA SCHIENA DRITTA CHE TI SEI SCELTA COME MARITO!!!” sbraitò Dante, furente, alzandosi in piedi di scatto.

Parlava di Efesto in quel momento, e la rabbia trapelò fuori, di getto.

Antoinette si ritrasse d’istinto, gli occhi gonfi di lacrime. Nel soggiorno ricadde un pesante silenzio. Quella volta toccò a lei subire malamente il colpo senza la minima difesa. Si girò di scatto, trattenendo il pianto, portandosi una mano alla bocca per non far trapelare i singhiozzi.

Nonno, perché?! Non c’è bisogno di trattarla così! Perché sei così, perché non la ascolti?! Perché non ascolti nessuno oltre che te stesso?!?

Gli chiese più volte Camus, agitato nel vedere la propria madre reagire così. Si sentì ferito nel profondo, rammaricato, inutile. Stavano litigando a causa sua e non poteva farci nulla.

Già, perché il nonno non ascoltava mai nessuno? La risposta, invero, gli giunse come una doccia fredda di consapevolezza, mentre, sgranando gli occhi perché, per qualche istante, la vista si era annebbiata, arrivava alla dolorosa evidenza: e lui aveva mai ascoltato qualcuno? Aveva ascoltato il suo migliore amico Milo, dopo la morte di Isaac, che gli consigliava di mantenere moderazione con l’allievo rimasto? Aveva anche solo udito i suoi consigli di trovare in Hyoga un sostegno al suo dolore e non un estraneo, un qualcuno da far crescere a forza, anche con l’ausilio della spietatezza?

No…

Lui aveva agito con Hyoga esattamente come il nonno nei confronti di Marta. Per un fine reputato superiore che però aveva causato l’effetto opposto.

Lui era la fotocopia del nonno. Né più né meno. Si sentì mancare il respiro.

Perdonami, piccolo mio… -si disse, rivolto all’allievo amato, massaggiandosi la fronte con le dita- volevo aiutarti a diventare più forte, invece sono riuscito solo a farti soffrire di più!

“Io... ti chiedo scusa, usignolo mio, non volevo rimarcare quel tasto dolente, ho esagerato.” chiese a sua volta perdono Dante, tornando a sedersi sulla poltrona con rassegnazione, le dita di nuovo strette sui poggia-braccia.

Nonno e nipote, senza che il più vecchio potesse saperlo in qualche modo data l’invisibilità dell’altro, impastarono con la bocca allo stesso modo, consapevoli di aver esagerato. Entrambi sapevano di aver sbagliato; entrambi erano perfettamente consci che le parole lanciate non sarebbero più tornare indietro prive di conseguenze, e, quelle stesse parole, avevano appena straziato chi non avrebbero MAI dovuto straziare.

“So che non capirai mai il motivo della mia accondiscendenza verso il Nobile Shion, perché è così che si chiama, pà, te lo avrò detto un milione di volte...”

“Non mi interessa sapere il nome di chi ha distrutto la nostra famiglia.”

“Non importa. L’ho fatto per un motivo specifico, perché là dove si trova ora è di certo più al sicuro che qua.”

“Lo avrei protetto io, lo sai...”

A Camus si strinse il cuore nell’udire le brevi parole del nonno pronunciate con slancio. Dovette trattenere un singhiozzo. La fortezza cui si era riparato per continuare il viaggio nei ricordi della sorellina stava cominciando a sgretolarsi e lui ne veniva sballottato con difese sempre più labili.

“Non sarebbe bastato.” scrollò la testa amaramente Antoinette, soffiando fuori dalle sue labbra sottili tutto il peso di quella scelta.

Ma cosa significava che non sarebbe bastato? Cosa intendeva, nello specifico? Non era stato portato via dalla sua famiglia di origine solo per diventare Cavaliere d’Oro di Aquarius? O… c’era dell’altro?

A Camus passò un brivido lungo la schiena nel rendersi conto che sua madre aveva un’espressione addolorata proprio davanti a lui. Nulla sembrava poterle risollevare il morale, e ancora, una volta in più, faceva male al solo vedersi.

“Non era comunque di questo che volevo trattare. - il nonno parve fare retromarcia, forse intuendo lo stato d’animo della figlia – Camus non c’è più, non è più con noi.”

“No, c’è sempre Pà, sarà sempre con noi, anche se fisicamente lontano...” lo corresse Antoinette, compiendo qualche passo in avanti, passando sempre inconsapevolmente al fianco del figlio per poi appoggiarsi stancamente al muro perimetrale.

“In ogni caso, è di Marta che vorrei parlare. – disse burbero l’altro, affrettandosi a ripiegare sulla nipote più piccola – Non va bene, sembra essersi chiusa al mondo!”

“Pà... - sospirò affranta Antoinette dal non riuscire a farsi capire – ne abbiamo già parlato, non c’è nulla che non vada in lei!”

“Non è così e in fondo lo sai, lo vedi bene anche da te, non puoi negarlo. Ultimamente è anche peggiorata...”

“...”

“Si sta chiudendo al mondo. E’ riottosa, sfuggente, perennemente triste. Tende ad isolarsi e non è normale per una bambina della sua età.”

“Ha sempre avuto di questi problemi con le persone esterne al suo nucleo famigliare, non te ne eri mai accorto?”

“Ma con Michela e Francesca...”

“Le considera parte della sua famiglia, essendo oltretutto che io sono amica di lunga data delle loro rispettive madri.”

“E Stevin, allora?”

Antoinette si ritrovò a sorridere, raddrizzandosi prima di girarsi e osservare gli occhi scuri di suo padre.

“Lui è stato il suo primo vero amico trovato con le sue sole forze, in effetti. Una benedizione! Ancora ringrazio l’estate del 1999 per averle concesso questa possibilità e… voi, per aver scelto di andare a vivere in campagna e concederle così, anche se non potevate saperlo a priori, questa possibilità!” ammorbidì il tono, forse sperando di abbonirlo o comunque deviare argomento.

“Ne sono lieto anche io, di questo, ma… ora si sta nuovamente involvendo, non ti pare?”

“Io… di cosa avrei dovuto accorgermi, Pà?”

“Del suo stato, del suo malessere, della sua insofferenza alla vita… è come se si stesse spegnendo!”

Qualcosa negli occhi di sua madre portò Camus a capire che anche lei aveva ben presente, che se ne era resa conto, ma vi era comunque qualcosa di diverso, una consapevolezza quasi opposta.

“Lo era anche da molto piccola, prima che conoscesse Stevin. Era sola all’asilo, è stata presa in giro ripetutamente e presa di mira dalle compagne. Ha sperimentato la solitudine troppo presto e, qualche volta, ci ricade. La vita è così, si inciampa, ma si va avanti… ed io sono fiera di lei!” esclamò con forza, affatto arrendevole.

“Siamo d’accordo, su questo, ma ciò non toglie che potrebbe essere… - anche stavolta nonno Dante si fermò, non sapendo bene se raddrizzare il tiro o andare avanti fino a sfondare la porta come aveva sempre fatto in tutti quegli anni. Decise per quest’ultima opzione. - ...come il fratello!” ultimò la frase con disappunto malcelato, anche se non del tutto voluto.

Antoinette ridusse immediatamente gli occhi a due fessure, l’aria attorno a lei parve vibrare.

“Non vi era nulla che non andasse in Camus!” lo freddò seduta stante, scattando come belva desiderosa di proteggere la propria prole.

“Non lo sappiamo con certezza. Non possiamo escludere che fosse... autistico!”

Io non sono..! Ma anche se lo fossi, cosa ti importa?!

“Ancora con questa storia?! Abbiamo fatto tutte le visite necessarie per escluderlo PER TUA INIZIATIVA! Lo abbiamo girato e rigirato peggio di un calzino, gli abbiamo fatto venire i traumi di essere continuamente maneggiato, e tu...”

“La scienza ha fatto passi avanti!” le fece notare lui, inarcando un sopracciglio.

“Sì, e tu sei retrogrado anche in questo! Non è più considerata una malattia, solo una diversa forma mentale! Anche se lo fossero… che male ci sarebbe?! Non intendo far subire a Marta lo stesso iter di controlli a cui hai sottoposto Camus, NON PIU’!”

“Vedo che parlarne è inutile...”

“Non è una malattia da cui guarire! Se lo fossero, se dovessero avere dei lievi disturbi dello spettro autistico, perché così si chiama adesso, Pà, sarebbe il caso tu ti informassi, sarebbe solo il loro modo di vedere le cose, di gestirle!”

“Constato, con rammarico, che, accadeva già prima, ma da quando quell’omuncolo che ti sei scelta come marito ti ha dato la seconda figlia, tu hai smesso di ascoltare tuo padre! - sospirò, visibilmente affranto ma non meno ardimentoso nell’esposizione – Da piccola, mia adoravi, e adesso...”

“Nessuno può toccare i MIEI figli! - la schiettezza con la quale uscì l’affermazione scosse nonno Dante quanto Camus, che la osservava sbalordito – NESSUNO! Neanche tu!”

Ricadde il silenzio, più pesante di prima. Antoinette non guardava altri che il padre, Dante non guardava altri che sua figlia. Alla fine fu lui a cedere per primo, abbassando lo sguardo, più o meno nello stesso attimo in cui si udì il cigolare di una porta e una vocetta infantile esordire con un:

“Mami...”

Nonno, madre e fratello sussultarono e inorridirono nella paura che la piccola Marta, adesso in piedi dall’entrata del soggiorno, fosse sbucata come dal nulla per chiedere delucidazioni in proprosito. Poteva aver udito il dialogo, in qualche modo?

Ma la piccina sembrava parecchio assonnata, si sfregava gli occhi, sbadigliando di tanto in tanto, pareva aver confusamente sentito solo il vociare alto dei due senza però afferrare il discorso cardine.

“Ma-Marta! Pensavamo che stessi dormendo, n-noi...” Antoinette esitò, approcciandosi così alla figlia più piccola.

“Ci provavo, sì, ma poi ho avuto un incubo!”

“Su cosa, gabbianella?”

“Su… sulle tenebre, sulla… morte! – le sfuggì un singulto nell’esprimerlo, aprì gli occhi grandi e profondamente blu. Camus dalla sua posizione ne percepì la paura viscerale – Mi afferrerà prima o poi!”

“Ma tu non devi pensare a questo, chi..? Marta, ci sono tante cose belle nella vita, e tu lo sai, perché ora non le vedi più?”

“Perché tanto prima o poi accadrà, no? La morte verrà a prendermi, come verrà a prendere ognuno di noi. Quale è quindi il senso? Essere felice, respirare, tenere tra le dita un piccolo uccellino palpitante, se tanto tutto avrà fine? - chiese, perfettamente razionale, mentre veniva abbracciata di riflesso dalla madre e il nonno, pur da lontano, le dava un’occhiata profondamente triste – Mamma, ho pensato anche una cosa...”

“Che cosa, gabbianella?”

“Il fratello maggiore, forse… - si ritrovarono a sussultare tutti insieme, ancora una volta, nel terrore che li avesse uditi – Non lo voglio più!” borbottò, improvvisamente laconica, alzando le braccia per chiedere di essere presa in braccio.

“Perché ora anche questo? Lo hai sempre voluto...” osservò la madre, prendendola in braccio per guardarle attentamente il visetto nel cercare di capirla.

“Perché non voglio che muoia anche lui. Perché se nasci poi muori, no? Non voglio! - la piccina scrollò con forza il capo, appendendosi al collo della madre mentre i lacrimoni le uscivano dalle palpebre serrate – E poi… non voglio moriate anche voi, NON VOGLIO! C-come l’anatra, come il capriolo che Stevin ed io non siamo riusciti a salvare, c-come il codirosso...”

“Marta...”

“C’è un modo per evitarlo? Per salvarvi? Anche nonno Mario dice che è naturale, che è nell’ordine naturale delle cose e che col tempo lo si impara ad accettare, ma io… NON VOGLIO! Buuuuu, non voglio che vi accada qualcosa di così terribile! Io voglio vivere per sempre con voi, perché la vita è bella, è calda, e non posso sopportare che, di colpo, possa cessare!” disse ancora, scoppiando poi irrimediabilmente a piangere alla ricerca di un conforto.

Antoinette se la coccolò un po’, calmò i suoi singhiozzi, carezzandole i capelli un poco spettinati con gesto gentile della mano. Cercò poi lo sguardo del padre alla ricerca di un sostegno che riuscì a trovare.

“Devi affacciarti alla realtà, Marta, ci sono cose che noi umani non possiamo impedire.” disse alla nipote, sempre un poco burbero, sebbene il suo sguardo fosse caldo.

“L-lo so, nonno, sigh, m-ma...”

“Non si riduce tutto alla morte. Lo imparerai nel percorso della tua vita.”

“M-ma lei sarà ad aspettarci in fondo, no? N-non è come nullificare tutto?” chiese la piccina, gli occhioni lucidi.

“No, è piuttosto il contrario. Il senso del nostro esistere è convalidato proprio perché, prima o poi, ci sarà una fine.”

“N-non capisco, nonno, sigh! - singhiozzò lei, nascondendosi gli occhi con la radice del palmo – Non lo posso capire!”

“Ne capirai il senso, invece, nipote mia, lo capirai… e tutto si farà più chiaro in te. Imparerai ad accettare anche ciò che al momento ti sembra intollerabile.”

“E se non lo volessi accettare?!”

“Soffrirai di più nel non accettarlo. La vita è essenzialmente mutare e divenire. La resistenza al cambiamento è vana. Chi si ferma è perduto, bisogna muoversi fintanto che si ha fiato in corpo.”

“M-ma io non...”

“L’alternativa è essere nulla, non percepire il calore del sole, né il cinguettare degli uccelli, né il sapore degli alimenti, né qualsiasi altra cosa che ti fa amare questa vita. Preferiresti questo, Marta? - gli chiese, sospirando appena, guardando un attimo fuori – E’ vero, in questo caso non avresti neanche mai sofferto, non avresti conosciuto la morte e il freddo, ma… sarebbe davvero meglio per te?”

La bambina parve rifletterci un po’ su. Abbassò lo sguardo lucido, si strinse al petto della madre. Non aveva parole con cui comunicare.

“Non ti chiedo di darmi una risposta ora, so che sei combattuta e che probabilmente la tua non sarebbe una risposta univoca, ma hai tempo per riflettere, bimba mia… - sorrise appena, senza riuscire a mascherare una punta di dolore nel dire quella frase – Una vita intera!”

Silenzio. Camus guardò con spasimo la sorellina nel percepire il suo cuore da colibrì battere veloce, all’impazzata, vittima di un peso atroce che non era ancora in grado di gestire.

Marta, come lui in giovane età, anche se in circostanze diverse, essendo così incredibilmente percettiva, aveva capito quasi subito l’enorme peso dell’esistenza, ma era stata solo la sorte della famigliola di anatroccoli a mostrargliela nella sua crudezza. Osservare la natura, sentirla tangibile dentro di sé voleva anche dire affacciarsi inevitabilmente alla morte, rendersi conto che fosse ineluttabile. Questo le aveva instillato un forte attaccamento alla vita, una sorta di idealizzazione dell’esistenza cui ora si scontrava nel vedere quanto essa stessa potesse essere crudele e truculenta.

La osservò dolente. Avrebbe solo voluto aiutarla, abbracciarla, crescere con lei proprio per farle capire quanto fosse comunque bello vivere, quanto ne valesse la pena… ma Camus dell’Acquario non aveva potuto farlo, perché quel ruolo gli era stato strappato, così come la sua famiglia. Pregò che sua madre riuscisse in ciò che a lui era stato precluso.

Ad un certo punto Antoinette, diventando ancor più seria, le posò un bacio sulla fronte, osservandola poi negli occhi nell’asciugarle, con la punta delle dita, le guance fradice. La bambina tirò su con il naso. Non amava piangere in loro presenza, il nonno glielo vietava perché era da deboli, ma quella volta sembrava abbastanza comprensivo, ciò la portò a ributtare da sola indietro le lacrime per renderli fieri.

“Marta, torna in camera tua, per adesso, va bene? Io e nonno finiamo un discorso serio tra noi, poi sarò da te, intesi? Ti terrò stretta stretta fintanto che non ti riaddormenterai… perché non sei sola, piccina, non lo sarai mai, mi capisci?”

“Sì, mamma...”

“Vai, resisti ancora un po’ al buio. Sarò presto da te!”

Così la piccola, appena posata a terra, zampettò fuori, i passi ancora un poco disconnessi, sparendo così dalla loro vista. Camus non esitò che una manciata di secondi soltanto. Diede un’ultima occhiata intensa alla mamma e al nonno per poi dare loro le spalle e seguire la sorellina.

La mamma l’avrebbe raggiunta più tardi, così aveva detto e ne era assolutamente certo, ma non voleva lasciarla sola.

Era riuscito a seguirla facilmente fino in camera. Stava diventando abile a muoversi fra i sogni, anche se ciò gli provocava un grande dispendio di forze ed energie. La vide abbozzolarsi sotto le coperte e riprendere a piangere, al punto che ne emergeva solo la testolina e parte del braccio per tentare di nascondersi al mondo. Singhiozzava, frenetica, alla ricerca di risposte che non riusciva ancora a trovare e, nel frattempo, parlava tra sé e sé.

“N-non so che cosa preferirei t-tra non essere mai nata oppure… questo! Ma u-n fratello, di certo, non lo voglio più, a-anche se così mi ritrovo qui da sola. - si disse tra sé e sé, disperata – N-non lo voglio più, no, n-non voglio che... s-soffra, uh-uh!”

“Oh, piccola...” sussurrò Camus tra sé e sé, compiendo il giro del letto per poterla vedere frontalmente. Aveva il visetto bagnato di lacrime e le guance rossissime.

“N-non lo voglio più, sigh, sigh!” esclamò ancora, affondando la testa nel cuscino per convincersi.

“E invece ce l’hai, mia giovane cerbiatta. - le sussurrò lieve, chinandosi verso di lei – Ed è per me la cosa più bella, questa, essere tuo fratello maggiore!”

La bimba si rannicchiò ancora di più strizzando le palpebre e facendosi piccina piccina, quasi in atteggiamento di chiusura.

“Se avessi un fratello… soffrirebbe anche lui. Ed io non voglio!”

“Soffrirebbe… è vero, ma petite, ma la vita non è solo questo. Non è solo sofferenza e dolore, ma calore e luce.” si ritrovò ben presto a sussurrarle, desiderando stipulare un contatto.

Si distese accanto a lei nel grande letto, sdraiato su un fianco, per poi abbozzare il gesto di carezzarle i capelli. Esitò un attimo. Non sapeva ancora se ci sarebbe riuscito. Le informazioni, le stesse immagini giungevano a lui ovattate, come poco prima di addormentarsi, ma quando le sue dita, finalmente, le sfiorarono i ciuffi color castagna, il suo cuore diede un impulso più forte, trasmettendogli la sicurezza di riuscire nuovamente a toccarla.

“Fa tanto freddo, qui, in questo mondo. Fa male il cuore al solo pensarlo… la vita è davvero crudele!” si lamentò ad un certo punto lei, tirando su con il naso.

“Può essere fredda e spietata, sì, ma non solo… è anche bella, calda, e accogliente. Oltre alla morte c’è sempre la vita, e quella, vince su di essa, come, dopo un incendio, i fili d’erba riprendono lentamente a germogliare.” le raccontò, continuando a sfiorarle i capelli color castagna con le dita lunghe ed eleganti.

“Ma il capriolo morto, il codirosso, i germanotti...”

“E’ un ciclo. Facciamo tutti parte di un grande cerchio. Deriviamo dal Tutto e poi, dopo la nostra morte, torniamo al Tutto. Su questo ha ragione il nonno: cambiamo forma, ci trasformiamo, perdiamo le nostre fattezze e questo fa paura, sì, ma possiamo rinascere. Tu sei rinata, piccola mia, sotto un’altra forma, per continuare a rimanere al mio fianco!”

“...”

Ripensò brevemente a Hyoga alla sua versione infantile che gli chiedeva se credeva nella reincarnazione. Sorrise amaramente. Un tempo Camus avrebbe detto di no, nella maniera più assoluta, ma ora, in quel momento perso nei ricordi della sorellina, si disse finalmente cresciuto.

E poi… lui e Marta erano prova tangibile dell’esistenza della reincarnazione!

“Sono sicuro che qualsiasi essere vivente sia capace di farlo, pur perdendo i ricordi precedenti. Il capriolo mangia erba per poi tornare ad essere erba lui stesso. Gli atomi sono comunque eterni e l’anima; l’anima di tutte le creature, piccola mia, ha in sé questa innata capacità di rinascere. La morte è solo un passaggio, è inevitabile, ma non è la fine di tutto!”

Marta accennò con la testolina un movimento di assenso, poi si girò sul fianco opposto per appallottolarsi ulteriormente e aderire meglio al suo busto. Camus quasi sussultò nel sentire pienamente il suo corpicino caldo così vicino al suo.

“Fa meno paura questo mondo, se ci sei tu al mio fianco!”

Pareva davvero si stesse rivolgendo direttamente a lui, in qualche modo. Non era la prima volta che accadeva ma quella -realizzò il Cavaliere- era nettamente più forte delle precedenti, soprattutto avveniva senza l’interferenza di una delle due entità. Non era più tempo di incertezza.

Camus si raschiò la gola, permettendosi di cingerla con il braccio per farle percepire la propria vicinanza.

“Vale anche per me, Marta, la forza che mi dai, ogni giorno di più, è immensa! Io...” non riusciva però a proseguire, le emozioni lo soverchiavano, lui che, nella sua prima vita, aveva sempre cercato di bandire la propria sensibilità nella paura di rimanerne irrimediabilmente segnato.

Le passò l’altra mano tra i capelli per accarezzarle i ciuffi dalla fronte, soffiò delicatamente tra essi in vena di tenerezze, e subito lei si ritrovò a ridacchiare tra sé e sé, un poco più serena. Quel gesto, quella sensazione, la spinse a spostare le lenzuola di lato, permettendole di girarsi supinamente, stiracchiarsi, e mostrare così parte del pancino.

“Guarda che così prendi freddo, peste!” le disse il fratello, sollevato nel rivedere comunque di nuovo quella luce negli occhietti della sorellina, la quale sorrideva sorniona tra sé e sé.

“E’ agosto.” le fece notare lei, in una mezza pernacchia.

“Seconda metà, sì, e si sta facendo sera, in campagna, ad 800 metri sul livello del mare!”

“816.”

“Pignola!”

“Come te!”

“Io non sono… uff!” scrollò la testa, sconfitto, lasciando cadere il discorso.

Marta rise ancora, ormai completamente tranquillizzata, e lui con lei. Poi alzò le braccia, scoprendo ancora di più il ventre nel richiedere nuove, ulteriori, coccole. Camus ridacchiò tiepidamente tra sé e sé, prima di procedere.

Le pizzicò un poco il pancino in più punti con l’indice e il medio tramite delle specie di buffetti che non lasciavano segni sulla pelle. Vedendo che il gesto le aggradava, non provocandole alcun tipo disagio -contrariamente a come sarebbe stato per lui!- passò poi ad un vero e proprio massaggino in senso orario. Come Sciamano, pur non essendone propriamente portato, era stato addestrato da Fyodor a privilegiare quel tipo di contatto con i bambini malati di cui si era preso cura in Siberia, ma essendo una cosa totalmente fuori dai suoi schemi, aveva limitato quell’approccio solo ai casi indispensabili, come era stato per la sorellina di Jacob. Chiaramente non si era mai azzardato di provarlo a fare con Hyoga e Isaac, anche se, in quel momento, ne provava un doloroso rimorso. Marta, in quanto sua sorellina minore, era ovviamente l’eccezione.

Tornò a guardarla. La piccina sembrava ormai assopita, la bocca semi-aperta, le braccine piegate a formare un angolo retto e il pancino quasi interamente in mostra. Camus le fece ancora un paio di ghirigori, linee leggere e immaginarie sulla pelle, prima di tirarle giù la maglietta del pigiama come a volerla proteggere da tutto e tutti; solo alla fine, sfinito dalle proprie stesse emozioni, si concesse di stringerla in un forte abbraccio. Strizzò le palpebre, aveva il magone in gola mentre a fatica, perché l’emozione era tanta, sforzò le sue corde vocali a continuare il dialogo. Era difficile, perché era come avere un riccio piantato in gola e la faringe sembrava vibrare del tutto a vuoto. Tossicchiò nel forzare la voce.

“Shion mi ha separato da voi in tenera età, sono stato costretto a lasciarti indietro, non ti ho potuta vedere crescere e ciò fa male. Però ora… ora sono qui, accanto a te, non ti lascerò più!”

“Me lo… prometti?”

Camus sorrise nell’accorgersi che la sorella, oltre a non essersi addormentata, aveva utilizzato lo stesso tono strascicato e denso di timore di quando, vittoriosa, incurante dell’ingerenza del Mago, lo aveva strappato dalle sue mani spietate, dalle tenebre che lo stavano ghermendo e soffocando, dalla stessa violenza con la quale quel mostro lo aveva profanato. Tremò con forza al solo pensiero, dovette mordersi le labbra per impedirsi di gemere, prima di posizionarla meglio e tenerla stretta stretta.

“Ti prometto... che farò di tutto per provarci, per lottare contro la sua ingerenza, come tu mi hai mostrato.” disse, risoluto, prima di pizzicarle un poco il nasino con l’indice e il medio della mano sinistra.

Ancora una volta Marta parve poterlo ascoltare, buttò fuori aria, prima di rannicchiarsi vicino a lui e cedere del tutto al sonno, le lacrime ormai un lontano ricordo. Anche lei tramava un po’, come se il suo corpicino fosse una propaggine di quello del fratello, sebbene più formato e robusto del suo.

“Così, brava… sei bravissima!” la elogiò lui, prendendo a massaggiarle nuovamente i capelli con tutta la delicatezza di cui potesse disporre.

Così forte, eppure delicata come il petalo di un fiore, coraggiosa al punto da sfidare chiunque per proteggerlo, ma capace di piangere a dirotto nel vedere un anatroccolo morire.

“Così, lentamente… dormi!” la esortò ancora, prendendo a ripetere gli stessi movimenti di prima allo scopo di farla addormentare.

La piccola aveva ripreso a respirare tranquilla, ma la bocca era arricciata in una leggera smorfia e le palpebre fremevano ancora, tese. Camus adagiò meglio il suo volto sul cuscino, in modo da poterla carezzare senza ridestarla. Le percorse l’ovale del viso fino a fermarsi sul mento, poi proseguì sulla spalla, le distese il braccio destro per lungo, continuando a solcarle la pelle fino a giungere al palmo semi-aperto dove, sempre con le dita di piuma, si mise a tracciare dei motivi a circolo allo scopo di acquietarla del tutto.

“Non sei mai stata sola… la mamma ti vuole bene, sei la luce dei nonni e hai degli amici veri su cui contare. Non sei mai stata sola… ed ora anche io posso prendermi cura di te!” le disse ancora, emozionato, adagiandosi a sua volta sul cuscino.

I residui delle lacrime brillavano tanto sul volto della piccina quanto il suo. Avrebbe voluto scacciarle e mandare via tutta quella tristezza, avrebbe voluto esserci, giorno per giorno, confortarla quando ne aveva bisogno, o anche litigare come due semplici fratelli, chissà, per una bicicletta nuova o per non aver diviso correttamente a metà una barretta di cioccolato Kinder...

Quanto gli doleva la quotidianità che gli era stata strappata!

“Ti voglio bene...” le disse ancora, prima di chiudere gli occhi a sua volta, perché muoversi in quel viale dei ricordi, vivere le stesse emozioni di lei, era comunque tremendamente spossante.

Dormire con la sorellina al suo fianco era un momento delicato ed emozionante al tempo stesso. Percepire il suo corpicino caldo tra le sue braccia, il suo respiro perfettamente ritmico, lo confortava più di quanto lui riuscisse probabilmente a fare con lei, sebbene fosse il fratello maggiore.

Si stupì ancora una volta di quella sensazione. Non si era mai detto un tipo espansivo, né tanto meno bisognoso di coccole e tenerezze, eppure -si rese conto, pensando anche al suo passato- nei momenti di maggiori difficoltà aveva sempre avuto bisogno del contatto e del tocco delle persone che amava. Era stato sempre quello a salvarlo e a poterlo riscattare dall’oblio. Tremò un poco nel soffermarcisi. Forse, in fondo, semplicemente palesava di non aver bisogno di tutto quello per banale, stupido, amor proprio, o per orgoglio, oppure per dimostrarsi forte davanti agli altri e mostrarsi capace di proteggerli da tutto.

Lui proteggerli… pff -pensò aspramente fra sé e sé- non era stato nemmeno in grado di salvaguardare sé stesso, figurarsi!

Eppure dove non arrivo io ci siete sempre stati voi. Mi avete aiutato senza neanche che lo chiedessi, mi avete fatto sentire amato quando non lo meritavo. Ed io… cosa riesco a fare per voi? Riesco un minimo a contraccambiare tutto ciò che mi donate ogni singolo giorno?

Sospirò, nascondendo il viso nei capelli della sorellina, ormai addormentata, in un ansito. La risposta, invero, non la sapeva, il dubbio lo rodeva fin nei recessi dell’anima. Era davvero abbastanza per loro?

Si addormentò con quell’ultima, tremenda, domanda a dilaniarlo. Tutto si fece buio per quelli che parvero secondi, ma che probabilmente, da fuori, erano minuti di un tempo indefinito.

Fu svegliato dal cigolare della porta, riaprì le palpebre e strabuzzò gli occhi nel distinguere una figura longilinea con i capelli un po’ ribelli come aveva lui. Sussultò nel riconoscere la donna che, lentamente, senza tirare un fiato, si chiudeva la porta dietro di sé.

Ma-mamma!

La chiamò con forza nella mente, conscio di non poter essere udito, non da lei, non più, perché le energie erano di nuovo scese a zero. Si alzò di riflesso dal letto per rimettersi in piedi e allontanarsi di qualche passo, nonostante il capogiro, come a reputarsi un estraneo quando invece, almeno in teoria, non avrebbe dovuto sentirsi tale perché erano la sua famiglia.

La giovane donna si mise una mano sul petto nel distinguere la sagoma della figlia addormentata sul letto, si avvicinò lentamente a lei per scostarle appena i ciuffi dal visetto profumato.

“Oh, piccola gabbianella...”

Gabbianella… Camus inavvertitamente sorrise, pensando che quel nome con cui l’aveva già chiamata più volte le calzasse a pennello. In effetti era una giovane, quanto intrepida, gabbiana, come nel libro “Storia di una Gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” che le leggeva soventemente quando erano ancora insieme.

Rimase trepidamente ad osservarli, la sorellina e sua mamma, ciò che di più bello e commovente gli era stato strappato in giovane età. Se ne sentì trafitto e gli punzecchiarono gli occhi, ma non ci diede peso, rigettando per la milionesima volta indietro le lacrime. Era un uomo, ormai, e un Cavaliere, non poteva abbandonarsi al pianto come un infante.

“Se solo potessi dirtelo, tesoro... – parlava intanto la mamma alla figlioletta, accarezzandole a sua volta i capelli affini alla coda di uno scoiattolo rosso – che tu in verità un fratello maggiore ce lo hai per davvero!”

A Camus si strappò qualcosa dentro, inevitabilmente, sentendosi sempre più provato da quella visione delle persone che amava in un altro tempo e in un altro spazio, lontano da lui.

“Sarà un ometto, ormai, avrà 15 anni. Chissà come è diventato, quanto sarà… cresciuto! - continuò la donna, sorridendo malinconicamente – Marta, tu non lo puoi di certo sapere, piccina mia, ma gli somigli così tanto! Mi… manca da morire!”

Di nuovo, come nel ricordo del capriolo, lo ripeté, il tono, se possibile, ancora più tremante. Era un dolore cupo e profondo, lo stesso provato da Camus in tutti quegli anni di lontananza, ma tutt’altra cosa era vederlo tangibile davanti a sé, impresso, come l’immagine di uno specchio.

Non avrei mai voluto lasciarti una simile ferita, mamma! Nonno mi aveva fatto promettere di prendermi cura di voi perché sarei stato l’ometto di casa, e invece… invece mi hanno tolto questa possibilità!

“Non faccio che ripetermi che era giusto così, che è stato chiamato per un destino più grande. Chissà quanto bene avrà fatto, quanto ancora ne farà… - proseguì la donna sempre più a stento, non smettendo di accarezzare la figlia completamente assopita sul letto – ma la verità è che sono arrabbiata! Io avrei voluto crescervi entrambi, vedervi diventare sempre più forti giorno dopo giorno, proteggendovi a vicenda, e invece l’occasione mi è stata strappata, me l’hanno tolto, lo hanno portato via, ed io… io mi dico che non avevo scelta, visto come si erano messe le cose, visto che quell’uomo si era interessato a lui, e che là, al Santuario, è più al sicuro che qui, ma… avrei tanto voluto che tu avessi un complice, piccola mia...”

Di che uomo stai parlando?!

Si ritrovò a chiedersi Camus, il cuore perse un battito. Qualcosa non tornava nella sua affermazione…

La mamma si era fatta ulteriormente più cupa, fissava un punto a caso, all’inseguimento di un passato sempre più lontano. Si morse per istinto il labbro inferiore.

“Quel pazzo che, picchiandolo a sangue, me lo ha ridotto in fin di vita. - biascicò quasi meccanicamente, sempre più nervosa – Che cosa diavolo volesse da lui ancora non lo so, e forse non lo saprò mai, ma brucia… brucia ancora così tanto la mia impotenza!”

Un secondo, quale pazzo si era interessato a lui, riducendolo in fin di vita?! Perché non ne rammentava nulla?! Era forse...

Un brivido sempre più forte corse lungo tutta la schiena di Camus, che cominciò ad avvertire, chiare dentro di sé, le palpitazioni salire. Perché i suoi ricordi non tornavano con la visione? Perché gli sembrava di aver perso qualche pezzo?! Lui non si ricordava di alcun pazzo, quel giorno, c’era stata solo la mano di Shion che lo aveva strappato dalle braccia della madre, l’immagine di una neonata in fasce che gli sorrideva alla quale lui era stato costretto, a forza, ad allontanarsi, malgrado il dolore che ciò gli aveva procurato, ma ancora nessun…

Il sorriso di sbieco di Fei Oz Reed gli trapanò il cervello, procurandogli una scossa, mentre memorie sfumate di lui, cinquenne, del fagotto tenuto amorevolmente tra le sue braccia che era Marta, lo frastornavano ancora di più insieme ad un rumore di… di… ecco, sì, era uno sferragliare!

La testa gli pulsò violentemente, probabilmente la pressione era salita alle stelle in quell’esatto momento. Camus serrò e aprì gli occhi più volte nel tentativo di riprendersi, fu costretto ad appoggiarsi alla parete, il respiro mozzo, i battiti nel cuore nelle tempie da quanto sembrasse andare veloce.

N-no, calmati, ora calmati! -farfugliò, la mano stretta al petto, nel tentativo di calmarlo- N-non dargliela vin-ta, anf!

In quel frammento, in quella sola immagine che si era manifestata nella sua testa, lui aveva visto sé stesso ancora bambino, con la piccolina in braccio, su un treno a lunga percorrenza diretto chissà dove e… davanti a lui… il ghigno del Mago, che aveva un poco alzato lo sguardo dal giornale che stava leggendo per contemplare meglio i suoi obiettivi.

Il resto era paura, violenti calci che gli venivano inferti, fitte di dolore sempre più acute su tutto il corpo, prima dell’oblio completo.

“N-no… no! - si disse tra sé e sé, prendendo a picchiarsi violentemente la nuca sul muro retrostante nel rendersi conto che non riusciva a calmarsi. Avrebbe solo voluto estraniarsi dal suo stesso corpo, non tollerava più di essere lì, dentro, imprigionato di nuovo nelle sue spire – Perché lui, i-in questo ricordo, ora? I-io non… perché Shion mi portò via dalla mia famiglia? Era forse perché Fei Oz...”

...Li aveva già attaccati quando erano ancora infanti per sbarazzarsi di loro?! Era andata veramente così? Gli erano forse stati modificati i ricordi per salvaguardarlo?! Chi era stato?! Lo stesso Grande Sacerdote?!?

N-no… no!

Si sentì naufragare dentro, mentre stringeva le labbra per non produrre alcun suono che non fosse quello continuo e sempre più frenetico dello sbattere contro muro.

C’erano quindi loro due su un treno diretto chissà dove, e c’era Fei Oz, che li irrideva, sicuro che le cose sarebbero andate come nei suoi progetti. Marta… quell’essere abominevole voleva sbarazzarsene, sì, si era trovato lì per lei, aveva tentato di ucciderla, certo! Ma non rammentava altro, né come ci erano finiti, né gli avvenimenti posteriori. Solo un tassello prendeva sempre più forma nella sua mente, il più aberrante: lui e quel mostro si erano conosciuti già ben prima che il suo sicario, unghie sguainate, facesse penetrare il nero cosmo del Mago nelle sue carni tramite le tre lacerazioni al petto.

“Ca-Cammy, sei tu?”

La domanda smarrita di sua madre raggiunse le sue orecchie, portandolo a sbarrare gli occhi, forse più spaventato di prima. Tornò a concentrarsi su di lei, su di loro. La vide guardarsi spaesata intorno, le lacrime a fior di palpebre.

Che fosse riuscito a farsi percepire? Che lei avesse udito il suo sbattere contro il muro?! Forse, se avesse urlato...

“Sto impazzendo… - commentò Antoinette poco dopo, sorridendo nervosamente tra sé e sé, prima di tornare sulla più piccola e carezzarle la testolina – Sto davvero impazzendo, lui non può essere qui!

Anche a Camus venne il magone, mentre, parzialmente ripresosi, riportò finalmente la crisi sotto il suo controllo. Respirò più volte profondamente, in modo da percepire l’aria scendere nei polmoni e gonfiargli il torace. Era vivo, in quel momento, e tutto ciò che aveva subito, qualsiasi cosa fosse, era passato, non avrebbe potuto nuocergli senza il suo consenso. Riaprì gli occhi, trattenne per qualche secondo il fiato, prima di forzare la sua voce a parlare. Voleva… raggiungerla!

“I-invece sono davvero qui, mamma… vicino a te!”

L’espressione della donna si incrinò del tutto. Automaticamente si portò una mano alla bocca mentre calde lacrime le lambivano le gote rosee.

“O-oddio, tesoro, sei davvero tu!”

Il cuore di Camus pulsò ancora più velocemente, le sue labbra soffocarono un gemito. Trattenersi, rimanere composto anche per lei gli costava fatica e dolore. Avrebbe solo voluto abbracciarla, ma farlo sarebbe stato ancora più straziante per il genitore, che non per la piccina.

Perché mamma sapeva… pativa un’assenza che prima era stata presenza; Marta invece ne percepiva solo l’incommensurabile vuoto.

“Ti sento così vicino, delle volte, come se non te ne fossi mai andato...”

“Mamma...”

“Pfff… - inaspettatamente Antoinette sorrise, asciugandosi gli angoli degli occhi con i due mignoli – Sei un uomo adesso, vero? La tua voce è diventata salda e sicura, ma ha mantenuto la delicatezza di una nevicata notturna. Q-quanti anni, piccolo mio?”

“...”

Camus non sapeva se poteva rispondere a quella domanda, trattenne un altro ansito e strinse convulsamente le mani a pugno.

“Avverto spesso la tua presenza tra noi, Cammy, ci conforti, ci accarezzi, come ora, vero, figlio mio?”

“!”

“Fa parte del tuo potere, questo? Riesci... a muoverti ed intervenire nei ricordi di tua sorella, o sono io in errore ed il mio è solo il frutto dell’immaginazione di una madre che non sa accettare la mancanza del figlio?” chiese la giovane donna al vuoto, ricco di presenza, della stanza.

Come lo sai? Come hai fatto ad accorgertene e… uh?

Camus si osservò sbalordito la mano sinistra. Dalla punta delle dita si stavano diramando sul dorso una serie di flussi dorati che, ricalcando il percorso delle vene, si attorcigliavano sul polso per poi lentamente risalire lungo tutto il braccio. La sensazione di calore arrivò dritta al cuore, prima di proseguire più sotto, in direzione dell’addome. D’improvviso, si sentì bruciare, al punto da doversi trattenere il ventre con entrambe le mani come se fosse nuovamente preda delle coliche.

Lei… si stava risvegliando di nuovo? Proprio in un momento simile?!

“Sei sempre stato speciale. – sorrise ancora la madre, gli occhi gonfi, appoggiando a sua volta i palmi sul grembo, laddove, ormai sedici anni prima, da un mucchio di cellule indistinte dentro di lei, si era formato Camus – Non riuscivo bene a comprendere quanto, finché...”

“Ma-mamma, perché ora piangi?”

Era la voce di Marta, la quale, risvegliata dal suono della sua voce, aprendo prima un occhio e poi l’altro, fece per mettersi seduta, venendo tuttavia bloccata lì da un caldo abbraccio del genitore.

La mia… calda tenebra!

Si ritrovò a pensare Camus, ancora in affanno, accorgendosi con orrore che non era stato lui a produrre quel concetto.

Intanto Antoinette, dando un’occhiata dolcissima alla figlia, si coricò al suo fianco per poterla tenere meglio stretta al petto.

“Non è nulla, ma mouette, nulla… solo un attimo di debolezza. Fammi stare un po’ così a coccolarti, va bene?”

Marta, che aveva gli occhi lucidi ma voleva dimostrarsi forte, annuì, cercando di rilassarsi per provare così a riaddormentarsi. Tuttavia, ad un passo dal sonno, venne riscossa da un pensiero che desiderava esporre.

“Mamma, è tornato, lo sai?” disse la piccola, sorridendole teneramente nell’accarezzare il volto del genitore.

“Chi, tesoro?”

“Il mio amico immaginario.”

“Ah, certo, quello. - ridacchio lei, gli occhi brillanti, contraccambiando le carezze della figlia – Era da tanto che non si faceva vedere?”

“Non lo so bene. - ammise la piccola, un poco pensierosa – Ogni volta sembra che passi un secolo, forse anche di più, ma quando lo vedo è come se non mi avesse mai lasciato.”

“E’ proprio strano questo tuo amico...”

“Più strano di Stevin, sì!” confermò la bambina, allargando il suo sorriso.

“Ma dimmi… - si raschiò la voce Antoinette, alzandosi un attimo sul gomito per continuare a coccolare la figlioletta con l’altra mano – Non ti ho mai chiesto questo tuo amico come sia fatto.”

“Beh… - anche qui Marta sembrò in difficoltà nel rammentare le sembianze dell’amico immaginario. Sbuffò tiepidamente, prima di cominciare dalla parte di lui che si rammentava di più - Ha una voce calda e cristallina, mi… mi piace molto il suo timbro vocale mentre mi parla, sai? E’ come una presenza calda e rassicurante...”

“Non ne dubito, ma petite, non ne dubito!” ridacchiò ancora la madre, tornando a coricarsi nel letto pensando che il dialogo fosse finito.

Ma Marta perseverava a osservare un punto fisso sul soffitto, affinava lo sguardo come a concentrarsi, decisa più che mai a dare la descrizione dell’amico alla mamma. Era una questione importante!

“Uh, ecco...”

Dopo qualche minuto la vocetta della bambina riscosse Antoinette che pigramente aprì un occhio nel guardarla.

“Cosa, nanerottola?”

“Il mio amico immaginario, lui è… forte e delicato al tempo stesso. Alto, tonico, aggraziato nei modi, un po’ montagna e un po’ fiore, e a me piacciono tanto entrambe queste cose!”

“Uh, sembra tanto un tipo a posto questo tuo amico!”

“E… e poi ha questi capelli in testa, buffissimi, a cespuglietto come il tuo, ma di questo strambo colore blu, c-come gli occhi, sai? Ha gli occhi come i mie e… uh? Che succede, Mami?”

La piccola non aveva visto il cambio di sguardo del genitore, così presa a parlare del suo amico, ma aveva percepito distintamente il suo caldo abbraccio circondarle il corpicino con impeto e lì rimanere immobile, il viso nascosto nei suoi capelli, tra i singhiozzi e i sussurri.

Marta tacque, scombussolata dalla tipologia di quell’abbraccio. Era premuta contro il suo seno, non riusciva a vederla in faccia, ma avvertiva distintamente alcune lacrime bagnarle la testolina. Si preoccupò.

“Mamma, cosa succede, stai male? Non ti piace il mio amico?” le chiese, innocentemente, talmente tanto che, perfino Antoinette, nell’emotività che l’aveva sopraffatta, ridacchiò trepidamente.

“No, fiorellino, tutt’altro!”

“E allora perché reagisci così?”

Antoinette ci mise un po’ ad estrapolare le parole. Accarezzò la schiena di Marta, elargendo coccole e tenerezze varie, permettendosi di passarle la mano sotto la maglietta del pigiama per poterle infondere ancora più calore. Solo alla fine si discostò appena, baciandole la fronte prima di sistemarla meglio sul letto, vicino a lei.

“Perché il tuo amico è davvero un bravo ragazzo!” le disse solo, commossa, mentre un tiepido sorriso le si distendeva sul volto e una lacrima, l’ultima, veniva catturata dal solco delle sue labbra.

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

E dopo mesi di latitanza, 9 in tutto, credo, rieccomi finalmente qui. Non è stato un periodo né facile né particolarmente produttivo, l’idea per questi capitoli così autobiografici e sentiti ce l’ho da molto, metterli nero su un bianco, con tutte le loro difficoltà, non è stato affatto semplice. Sono mesi che mi hanno cambiato nel profondo, i delicati temi qui trattati ne sono la somma e posso dire di essere soddisfatta, anche se nella mia idea originale il salto di Camus nei ricordi della sorellina avrebbe dovuto essere diviso solo in due parti… non in tre, come invece sarà, ma mi sono accorta che avevo tanto da raccontare e che non avrei potuto dividere il tutto solo in due.

Quindi eccomi ^_^ pronta come sempre a spiegarvi le cose e aiutarvi negli intrecci.

Dunque, tanto cominciare una cosa strutturale: contrariamente al precedente, qui i vari salti sono contrassegnati da una data indicativa, per quanto generale. L’ho fatto per dare l’idea al lettore che Camus, questi salti, riesce a controllarli. Effettivamente il controllo di Camus sui salti e sullo spazio è pressoché totale. Sa dove andare, decide cosa vuole vedere, interagisce con l’ambiente, anche se non sempre se ne rende conto. Per essere immateriale, perché di fatto è in “astrale” è gran cosa. Ciò che è ancora difficile per lui è però comunicare a piacimento con le persone che vede. Non sempre ci riesce, anche se sia il nonno che la madre, che ovviamente Marta, sono riusciti a percepirlo, in qualche modo, chi per pochi istanti, chi ciclicamente.

Veniamo ora proprio al nonno. Qualcuno di voi, forse, se ne è già reso conto ma sto ri-ri-ri-riscrivendo la storia a partire dalla prima (che novità, ogni tot anni faccio aggiunte perché quelle di prima non mi soddisfano pienamente, e vabbé XD), in questa nuova versione che sto aggiornando, sto dando più spazio al nonno, anche se solo tramite ricordi di Marta. In questo capitolo, invece, appare per la prima volta nella sua completa caratterizzazione.

E il nonno non è altro che una versione più vecchia, più fredda, più disillusa e più spietata del Camus descritto nell’opera originaria.

Questo salto nei ricordi è occasione per il “mio” Camus (che per necessità e desiderio di farlo maturare come NON gli è stato possibile fare nel manga, si discosta dall’originale) di affacciarsi al sé stesso di un tempo, scoprire le proprie radici, mettersi in discussione e capire, una volta in più, gli errori commessi con Hyoga.

Perché Camus può anche oltraggiarsi con il nonno per il trattamento riservato a Marta nel forzarla a prendere contatto con la realtà e crescere, ma non può opporsi perché lui con l’allievo, a livello di spietatezza, non è stato certo meglio, anzi!

In più, aggiunta mia che personalmente ho adorato, l’ho anche reso tiepidamente mammone… non vi pare? Perché questa scelta che, forse, a qualcuno farà storcere il naso? Beh, a parte che del passato dei Cavalieri d’Oro non sappiamo niente e quindi ci si può sbizzarrire, avevo anche bisogno di qualcosa di più forte che allacciasse ulteriormente Camus a Hyoga; avevo bisogno di qualcosa in più per “giustificare” in parte il suo comportamento nei confronti del Cavaliere del Cigno, perché sì, anche se il mio personaggio preferito dell’intera opera non è scevro da critiche e sento il bisogno di renderlo comunque più coerente, sebbene il personaggio, da sé, sia una antitesi ambulante. Così ho messo la perdita di Isaac, le infiltrazioni del temperamento del nonno nel suo carattere, il rapporto profondissimo con la madre e la sorellina, l’allontanamento precoce dalla famiglia di origine, la sofferenza del distacco, l’innata sensibilità che lui, da un certo punto in avanti, ha cominciato a rigettare con tutto sé stesso…

Tutto questo ha portato Camus a diventare Aquarius e atteggiarsi di conseguenza, con l’ovvio risultato che lui ora è cambiato, si è accorto degli sbagli, ma Hyoga è lontano da lui, distante come mai prima di questo momento…

Tra l’altro, tengo molto al personaggio di Antoinette che purtroppo ho potuto sfruttare davvero poco fino a qui, spero che questo scorcio di lei faccia maggiormente rendere conto di quanto forte sia, come donna, del dolore che anche lei ha attraversato e dell’amore smisurato che priva per entrambi i suoi figli. Non so ancora come, ma conto di ritagliare un posticino di onore anche per lei con il proseguo delle storie. Mi piace davvero tanto descriverli come famigliola, soprattutto mi piace farci relazionare Camus. ^_^

Venendo agli intrecci veri e propri, alcune cose non le approfondisco qui, volendo lasciare libera interpretazione al lettore; una fra tutte però hanno bisogno di una spiegazione in più, ed è l’ultimo pezzo in cui Camus reagisce così male alle parole enigmatiche della madre. Ebbene questo accade perché, come spiegato nei capitoli “Creazione e Distruzione” (titolo non a caso!) della “Melodia della Neve” quelli che, per inciso, trattano degli avvenimenti antecedenti all’arrivo di Cam al Santuario, i ricordi del bambino sono stati manipolati da Shion, il quale ha fatto in modo di creare una struttura nella sua mente che gli rendesse più accettabile l’allontanamento dalla famiglia di origine. In tale struttura quindi, lui viene allontano dal Grande Sacerdote senza opporsi, tagliando fuori tutto lo scontro avuto con Fei Oz che invece li aveva intercettati sul treno per poter uccidere Marta e disfarsi così di loro. Va da sé che così non è stato e, come potete vedere da qui, la struttura, complice il viaggio nei ricordi, sta cominciando a sgretolarsi, non del tutto d’accordo, ma inizia a cedere e, se cede del tutto, Camus potrebbe ricordare anche che è stato lui a ferire gravemente Marta con il suo Potere della Creazione sebbene SEMBRI che la piccola non abbia avuto conseguenze tragiche… sembri…

Altri riferimenti alle altre storia sono sparsi qua e là nel capitolo, ma non così pertinenti come questo qua sopra, che tenevo a specificare. :)

Ah, un’altra cosa ancora! Il concetto di “calda tenebra” che sarà approfondito più avanti, è preso dall’anime di Made in Abyss che consiglio a tutti coloro che hanno lo stomaco abbastanza forte per vederlo (è un Seinen, le tematiche, le scene stesse, non sono delle più facili da digerire, mettiamola così!).

Direi che non ci sia altro. Al solito, ringrazio tutti coloro che stanno continuando a seguire questa storia, spero di non farvi aspettare ancora mesi e mesi prima di una nuova pubblicazione. Al livello di struttura, il capitolo nuovo è quasi pronto, dopodiché conto di riprendere in mano proprio la “Melodia della neve”. Per le altre storie, temo dovrete aspettare un poco di più. A presto! :)

 

 

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: MaikoxMilo