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Autore: Ella Rogers    27/10/2023    0 recensioni
"Chi non muore si rivede, eh Rogers?"
Brock Rumlow era lì, con le braccia incrociate dietro la schiena e il portamento fiero. Il volto era sfregiato e deturpato, ma non abbastanza da renderlo irriconoscibile, perché lo sguardo affilato e il ghigno strafottente erano gli stessi, così come non erano affatto cambiati i lineamenti duri e spigolosi.
"Ti credevo sepolto sotto le macerie del Triskelion."
La risata tagliente di Rumlow riempì l'aria per alcuni interminabili secondi, poi si arrestò di colpo. L'uomo assunse un'espressione truce, che le cicatrici trasformarono in una maschera di folle sadismo.
E Steve si rese conto che, per la prima volta da quando l'aveva conosciuto, Brock Rumlow si mostrava a lui per quello che realmente era, privo di qualsiasi velo di finzione.
"Credevi male, Rogers. Credevi male."
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'The Road of the Hero'
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Losing Control
 
 
 
 
 
The true soldier fights
Not because he hates what is in front of him
But because he loves what is behind him.
 
G.K. Chesterton
 
 
 
 
 
Era in ginocchio, prosciugato di ogni singola stilla di energia. Il corpo stava cedendo, le fibre muscolari non rispondevano agli stimoli con prontezza e, fra un picco di adrenalina e il successivo, dolori lancinanti lo aggredivano alla stregua di un branco di bestie feroci che affondavano i denti affilati nella carne. Gli sfuggì un rauco lamento, poi un altro – più lungo e greve – e si piegò in avanti, circondando l’addome in fiamme con le braccia. La fronte madida di sudore si appoggiò sull’asfalto e la mandibola si contrasse con un guizzo quando serrò i denti e le palpebre. Avrebbe mentito se avesse detto di non essere sul punto di piangere, anche se avrebbe faticato a identificarne l’effettiva causa scatenante. Forse era il dolore, o forse la frustrazione, oppure – più concretamente – i pesanti passi di Abominio che si avvicinava con ponderata calma, nella consapevolezza di aver vinto.
Aveva già tentato di costringersi a tornare in piedi. Ci aveva provato. Ci aveva provato davvero. Tuttavia, la forza di gravità l’aveva tenuto ancorato a terra. Aveva bisogno di riprendere fiato. Aveva bisogno di una pausa. Raddrizzò la schiena in maniera decisamente patetica, sollevando la fronte dalla strada. La mano di Abominio si poggiò sulla sua testa e il peso lo portò a credere che le vertebre del collo si sarebbero accartocciate le une sulle altre come il mantice di una fisarmonica – con la sottile differenza che il suono emesso dalle vertebre sarebbe stato raccapricciante.
 
“Una sconfitta dignitosa, Capitano. È stato divertente.”
 
Eppure, non c’era niente di dignitoso nel doversi prostrare dinanzi ad un nemico, con la certezza che quella sconfitta avrebbe finito per portare a fondo molteplici vite oltre la propria.
Rumlow era a pochi passi di distanza, seduto a terra, con la schiena che poggiava contro i resti di un’auto mezza distrutta e il capo riversato mollemente in avanti. Erano arrivati al capolinea e Steve non riusciva proprio ad accettarlo, non riusciva a concepire l’idea di fermarsi proprio adesso, non dopo tutto ciò che aveva fatto, non dopo tutti i compromessi accettati. E non quando lei stava combattendo poco lontana, senza alcuna difesa che potesse proteggerla dal mostro in cui Adam Lewis si era trasformato – fisicamente parlando, perché un mostro lo era sempre stato, ancora prima di assumerne le sembianze.
C’erano anche tutti gli innocenti che avevano coinvolto in quell’infernoNo, non poteva proprio fermarsi adesso. Anche se la forza continuava a scivolargli addosso, inafferrabile, e anche se la frustrazione gli graffiava lo stomaco, era suo dovere trovare un modo per andare avanti ancora un altro po’, almeno finché non si fosse aperto uno spiraglio per vincere la battaglia – dovevano vincerla ad ogni costo.
Probabilmente il destino dovette provare pena per lui, perché fece soffiare una lieve brezza in suo favore. Un rumore poco identificabile attirò l’attenzione di Abominio, che puntò gli occhi su un punto indefinito in lontananza. Anche Steve sollevò gli occhi e intravide qualcosa muoversi nella nebbia. Le ombre stavano avanzando in massa, tutte nella medesima direzione. Non sembrava affatto un segnale positivo, ma fu sufficiente a distrarre Abominio.
Il super soldato prese un respiro profondo, ignorando le grida del costato, e strinse i denti con una forza tale da indolenzire la mandibola contratta. Doveva muoversi. Doveva muoversi adesso. Dopotutto, non era ancora morto. Sfruttò la provvidenziale distrazione di Abominio e si sottrasse alla presa gettandosi in avanti. Eseguì una capriola che lo riportò in piedi e si infilò nel mezzo della massa di ombre vibranti. Stavolta, Steve ebbe l’impressione di avvertire il tocco di alcune di esse, come se fossero vere e proprie presenze fisiche, ma non ebbe tempo per elaborare tale cambiamento. Raggiunse Brock e se lo caricò sulla spalla destra. Un gemito roco gli diede conferma che l’ancora temporaneo alleato era vivo. A quel punto, contando sull’ennesimo picco di adrenalina, Steve tentò di mettere quanto più spazio possibile fra loro e il nemico. Aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio, perciò corse e basta. Tuttavia, presto si rese conto che anche la foschia si stava muovendo nella stessa direzione delle ombre e di colpo la luce tenue del mattino gli ferì gli occhi.
Steve si fermò e si girò indietro. Osservò incredulo la foschia che veniva risucchiata verso il centro commerciale e la luce tiepida che prendeva gradualmente il posto del gelido grigiore.
 
Anthea. Doveva essere opera sua.
 
Sul campo di battaglia stava venendo ripristinata la visibilità, evento che permise a Steve di avere una visione più chiara della situazione ingestibile. I mostruosi potenziati erano più numerosi di quanto avesse immaginato, i soldati d’inverno non erano lontani e il problema più grosso – insormontabile – restava Abominio. Però i nemici erano adesso concentrati sullo strano fenomeno in divenire e sembravano tentati di raggiungere il centro commerciale, attorno al quale si stava concentrando la gelida foschia. Forse avevano l’ordine di tornare da Lewis in caso lui si fosse trovato in pericolo. In tal caso, questo movimento avrebbe potuto essere positivo, anche se non cambiava lo scomodo fatto che Anthea era lì ed era sola.
Un’auto spuntò fuori dalla nebbia in fase di ritirata. Gli si piantò davanti sgommando, rischiando quasi di investirlo, e Batroc si affacciò dal finestrino abbassato.
 
“Andiamo. Muovi il culo e sali.”
 
Rogers obbedì senza replicare, dato che al momento gli era difficile persino formulare pensieri che fossero coerenti e forse era panico quello che gli stava pizzicando lo stomaco. Abbandonò Rumlow sui sedili posteriori e prese posto davanti. Tornare da Anthea senza i rinforzi sarebbe stato un suicidio, ma lei era sola e forse senza le giuste difese per contrastare un attacco così massiccio. Batroc intanto aveva premuto il piede sull’acceleratore e stava puntando nella direzione opposta rispetto quella che lì avrebbe ricondotti nell’occhio del ciclone.
 
“La tua compagna forse ce l’ha fatta” convenne il mercenario.
 
“Finalmente una fottuta buona notizia” si intromise Rumlow, con voce rauca, mentre si metteva seduto al centro dei sedili posteriori.
 
“Sei ancora vivo allora” gli rispose Rogers e si voltò indietro, sporgendosi oltre lo schienale del sedile.
 
“Lo sono…” Rumlow si fermò, decidendo di non aggiungere altro. Rivolse a Rogers un’occhiata diversa da quelle assassine, o taglienti, o sarcastiche, di cui si serviva praticamente sempre. “Qual è il piano?” chiese e spostò lo sguardo sul mercenario.
 
“Non guardare me” Batroc sterzò bruscamente per evitare un’auto abbandonata “So solo che arrivato a questo punto non mi va proprio di crepare ed ero stanco di correre. Non so voi, ma inizio a sentirmi fiacco.”
 
“Devo tornare indietro” asserì Steve e si beccò un paio di occhiatacce fulminanti.
 
“Faresti prima a gettarti sotto l’auto in corsa. Sarebbe un suicidio meno doloroso” gli assicurò Batroc.
 
“Concordo” Rumlow si sporse fra i due sedili anteriori. “E poi la ragazza avrà recuperato i suoi poteri dato che la nebbia si è ritirata. Le saresti solo d’intralcio mentre fa a pezzi Lewis e tutti i suoi tirapiedi.”
 
“Ferma l’auto” ordinò il Capitano, facendo intendere di non aver prestato molta attenzione alle parole di Brock. O meglio, non la pensava allo stesso modo e non aveva intenzione di scommettere sulla vita di Anthea.
 
“Ascolta, Rogers…” fu l’approccio cauto a cui Rumlow cercò di ricorrere, con l’intenzione di far ragionare il super soldato.
 
“Fermati, Batroc. Ora.” Peccato che Steve non ne volle sapere.
 
Suo malgrado e senza capire nemmeno bene il perché, Batroc eseguì e fermò l’auto, mentre osservava il viso pallido di Rogers dallo specchietto retrovisore.
Steve aprì lo sportello e scese. I primi passi furono incerti, faticosi, eppure continuò a muoversi nella stessa direzione cui puntavano le ombre scure. Una stretta decisa attorno al braccio gli impedì di procedere e il successivo strattone lo fece ruotare su se stesso, finché non si ritrovò a fissare l’espressione dura ed esausta di Rumlow, che aveva il fiatone solo per aver percorso ad una velocità sostenuta pochi insignificanti metri.
 
“Fermati un attimo.”
 
“Non c’è tempo” Steve cercò di scrollarsi di dosso la presa di Brock, ma quest’ultimo resistette.
“Cosa vuoi adesso da me, Rumlow?” l’estenuazione era palpabile nella voce del biondo e negli occhi arrossati si era riaccesa una fioca scintilla dal chiaro sentore di minaccia, mescolato alla muta preghiera di farsi da parte senza troppe storie.
 
Le dita ruvide di Rumlow smisero di affondare nella carne e la stretta si trasformò in un contatto labile. L’uomo aprì la bocca e la richiuse, esitò sotto lo sguardo impaziente del super soldato. Infine, scosse il capo e gli occhi scuri fuggirono da quelli azzurri dinanzi a lui.
“La nostra collaborazione finisce qui” sentenziò e, solo dopo qualche attimo, si decise a guardare in faccia il dannato ragazzino che gli aveva rovinato i piani tutte le santissime volte che si erano incrociati.
 
Steve non esternò sorpresa, né tanto meno delusione. Annuì e fece un paio di passi indietro, spezzando il labile contatto rimasto con Brock. Dopotutto, erano affari dettati dal mero interesse e si estinguevano con esso. L’interesse che li aveva tenuti insieme era stato rivolto ad uccidere Adam Lewis, ma adesso si trattava di sopravvivere e, da questo punto di vista, le loro strade divergevano inesorabilmente. Nonostante ogni garanzia fosse appena stata stroncata dalla sentenza di chiusura di Rumlow, Rogers si arrischiò comunque a dargli le spalle, per rivolgersi al fatiscente centro commerciale.
 
“Ci vediamo all’inferno, ragazzo. Buona morte.”
 
Steve sollevò una mano e la mosse in segno di saluto, senza neppure voltarsi. Non era il momento di pensare ai risvolti. Non era il momento di soppesare rischi e benefici delle decisioni, né tanto meno di contemplare scenari futuri. C’era solo il presente, il qui ed ora. Era come viaggiare su una barca con una falla irreparabile, in mare aperto. Sai che affonderai, sai che il mare ti inghiottirà senza lasciarti scampo, eppure fai di tutto per rimanere a galla il più a lungo possibile. Rimanere a galla era l’unica cosa che contava. Finché rimaneva vivo, aveva ancora la possibilità di fare qualcosa.
 
 
“Apri, cazzo! Sposta quel fottuto coso!”
 
“Ci sto provando!”
 
 
Il super soldato bloccò il passo e tese le orecchie. Nonostante lo scenario apocalittico che si sciorinava dinanzi a lui, c’era silenzio, un silenzio quasi surreale, interrotto a tratti da ronzii che avevano le sembianze di sussurri distanti, o di echi che rimbalzavano sulle pareti della barriera.
 
 
“È bloccato! Non si muove!”
 
 
Rogers si girò indietro e cercò lo sguardo di Rumlow, che nel frattempo non si era mosso. Brock gli restituì un’occhiata di conferma che non ebbe bisogno di essere accompagnata da parole. Aveva sentito anche lui. Entrambi si mossero verso l’ingresso alle fogne poco distante, da cui provenivano grida dalle sfumature più diverse, insulti, proteste poco eleganti rivolte a santi più o meno famosi e colpi contro il pesante cerchio metallico che sigillava l’accesso.
Batroc, che era rimasto in attesa dal momento in cui Brock aveva abbandonato l’auto, spense il motore e rimase a guardare.
Rogers e Rumlow si piazzarono sui lati opposti dell’ingresso fognario, incastrarono le dita in modo da avere un appiglio decente con il cerchio metallico e tirarono, facendo leva sia sulle gambe sia sulle braccia. Il tappo venne su con uno schiocco secco e lo gettarono di lato, mentre dal buco scuro spuntava la testa di uno degli uomini di Rumlow – per essere più precisi, era l’uomo che sfoggiava la cicatrice lungo la clavicola. Dietro di lui erano visibili altre teste e movimenti concitati animavano l’oscurità sul fondo del canale.
 
“Sono entrati! Stanno arrivando!” gridò l’uomo, nel momento stesso in cui Rumlow lo tirò fuori dalle fogne.
 
Chi sta arrivando?” gli domandò Brock, confuso.
 
“I mostri di Lewis! Siamo riusciti a guadagnare tempo per scortare i civili, ma quei bastardi non mollano la presa!” spiegò l’uomo, indicando in basso.
 
I civili che avevano radunato con estrema fatica era tutti lì ed esitavano a tornare in superficie, nonostante non fossero più al sicuro lì sotto.
Steve si sentì totalmente perso. In un modo o nell’altro, aveva sempre reagito di fronte ad una situazione – anche dinanzi le situazioni più disperate –, aveva sempre preso una decisione sul cosa fare. Tuttavia, ora sentiva solo un vuoto, un dilagante vuoto che si allargava nel petto. Spinse lo sguardo verso il centro commerciale e poi lo spostò di nuovo sull’ingresso fognario. Incrociò lo sguardo terrorizzato di diversi civili – i civili prima di tutto, giusto? – e il vuoto non fece che crescere, scatenando un diffuso senso di nausea – i civili prima di tutto, giusto?
E così Rogers si ritrovò a riportare in superfice i civili, uno dopo l’altro, tendendo la mano e ritraendola una volta assicurata la presa sulle mani tremanti di persone che avevano bisogno di lui. Rumlow, piazzatosi sul lato opposto del tombino, aiutò il biondo senza lamentarsi durante l’intero, lento e faticoso processo di soccorso. Batroc invece era sceso dall’auto e si era avvicinato a loro, ma si stava limitando ad osservare, assorto, forse ancora impegnato a ponderare la possibilità di filarsela e pensare unicamente alla propria sopravvivenza. Il mercenario però continuò a non muoversi, segno che per qualche motivo aveva deciso di restare e di mettere da parte l’egoistico istinto di voltare loro le spalle in un momento cruciale.
Bambini, anziani, donne e uomini, civili, soldati e mercenari, furono riportati in superficie, senza fare alcuna distinzione. Tanti si commossero nel percepire il tenue calore del sole sulla pelle fredda e mai come in quel momento apprezzarono la luce del giorno, che aveva preso il posto della grigia penombra.
 
“C’è ancora qualcuno là sotto?” Steve non si rivolse a nessuno in particolare e la risposta risalì direttamente dalla fognatura.
 
“Sono vicini!” gridò una donna dell’Hydra, mentre si inerpicava su per i gradini metallici che l’avrebbero portata fuori dal condotto. Trovò ad attenderla la mano del super soldato, che la issò cercando di nascondere la stanchezza dietro una espressione neutra.
 
Altri quattro soldati seguirono la donna e, dopo essersi occupato di loro aiutato da Rumlow, Rogers si sporse ancora una volta verso il vano circolare.
Il biondo si ritrovò ad afferrare una mano sbucata di colpo dal buio, seguita da una concitato “Tirami su”, più rassomigliante ad una preghiera dai toni disperati. Il super soldato rischiò di far scivolare via la presa quando la faccia impolverata e sudata di Daniel Collins sbucò dall’oscurità del condotto fognario.
 
Il “Sei vivo!” con cui Dan lo salutò fu una specie di gridolino di sorpresa e gli occhi chiari del ragazzo divennero istantaneamente più liquidi. Riuscire a commuoversi anche in un momento simile era un talento.
 
“Tu… cosa…” Steve trovò difficoltà a districare il groviglio di pensieri che gli riempì la testa e tradurlo in parole gli risultò un’impresa impossibile.
 
“Posso spiegare” gli venne allora incontro il giovane soldato, mentre si lasciava tirare su.
 
Daniel era quasi fuori dalla fogna, la punta dello stivale sinistro era intenta a superare il bordo del vano circolare, quando lunghe dita grigiastre gli avvolsero la caviglia e lo strattonarono verso il basso con una forza disumana.
Rogers non allentò la presa sulla mano di Collins, ma la violenta azione gli sottrasse l’equilibrio, trascinandolo a terra, con i fianchi del bacino premuti contro il bordo asfaltato dell’accesso alle fognature. La stilettata di dolore che gli attraversò la spalla sinistra gli oscurò la vista per qualche istante. Venne trascinato in avanti e il bacino superò il bordo. La rovinosa caduta a picco giù per il condotto fu impedita dalla stretta decisa che si serrò attorno alle caviglie del biondo. Steve allora gettò un’occhiata alle proprie spalle e intercettò Brock subito dietro di lui.
 
“L’esplosivo è attivo! Dobbiamo allontanarci!” avvertì la donna dell’Hydra che il Capitano aveva ripescato dalle fogne solo poco prima.
 
“Quale fottuto esplosivo?!” ringhiò Rumlow, fra i denti, mentre si sforzava di rimanere in piedi e di opporsi alla forza che cercava di trascinarlo nelle condotto fognario.
 
“Tutto quello che era rimasto!” era stato l’uomo dalla clavicola sfregiata a parlare stavolta.
 
“Cazzo!” fu l’accesa risposta di Brock, ma non fu chiaro se fosse rivolta al fatto che presto parte del condotto fognario sarebbe saltato in aria, o se fosse stata causata dalla caduta repentina che lo portò disteso prono sulla strada.
 
Il cedimento di Rumlow fece finire Rogers a testa in giù nel condotto, trattenuto per le caviglie dal suo non più socio e stirato per il braccio sinistro dalla presa di Collins, il quale stava scalciando con tutte le sue forze nel tentativo di liberarsi dalla stretta dolorosa di uno dei potenziati grigiastri di Lewis. Come se ciò non bastasse, altri potenziati si stavano avvicinando a gran velocità, come un branco di zombie affamati, ed era udibile il ticchettio degli ordigni piazzati affinché il tratto di fogna divenisse la tomba di quegli stessi esseri mostruosi.
L’intervento di Batroc fu propizio e impedì a Rumlow di essere risucchiato anche lui nel tombino. L’uomo dalla clavicola sfregiata si unì all’azione, circondando i fianchi del mercenario con entrambe le braccia e impedendogli di cadere faccia avanti. Ci riuscì perché qualcun altro lo aveva afferrato a sua volta nel medesimo modo e altri si unirono all’improvvisata e decisamente disperata catena di salvataggio. Solo che le cose non migliorarono. Affatto.
Steve ebbe la forza di tirare più vicino a sé Dan e offrì il proprio braccio destro al mostro per liberare una delle gambe del ragazzo, che di risposta si aggrappò al braccio sinistro del super soldato con entrambe le mani. Nel frattempo, altri quattro potenziati erano giunti fino a loro e fecero qualcosa che li prese in contropiede.
 
“Ci imitano.” Rogers era incredulo.
 
I potenziati avevano formato a loro volta una catena e, nel momento in cui iniziarono a tirare, anche Rumlow si ritrovò testa sotto, mentre Batroc venne risucchiato per metà all’interno del condotto verticale. Diverse persone dietro il mercenario persero l’equilibrio e caddero in avanti o sulle ginocchia, ma nessuno mollò la presa. Anzi, altri si fecero avanti per supportare gli anelli della catena umana, persino civili in preda a picchi di adrenalina miscelata a quella parte di coscienza che spinge a mettere in gioco la sopravvivenza personale in favore della sopravvivenza di altri.
E forse, alla fine dei conti, la sottospecie di cameratismo che si era venuto a creare nei giorni addietro non era stato solo una mera illusione. Gli stessi nemici che avrebbero fatto di tutto per affondarti, ora stavano facendo di tutto per tenerti a galla, rischiando addirittura di affondare tutti assieme. La vita – bella stronza – sapeva essere fottutamente ironica. Almeno nella morte c’era certezza. Tuttavia, nella vita c’era un largo margine di manovra per rispondere alle giocate che lei ti piazzava di fronte – da morti non si poteva fare più niente.
 
“Abbiamo poco tempo prima che salti in aria tutto” fu l’annuncio che sovrastò la confusione.
 
Steve allungò il braccio sinistro in direzione della cinta di Daniel e riuscì ad afferrare il pugnale che spuntava da una delle tasche. Lo piantò nella mostruosa mano che teneva stretta l’altra gamba del ragazzo e non appena la presa cedette, il super soldato liberò Dan e lo lanciò verso l’alto usando un singolo braccio. A causa di tale sforzo, la spalla sinistra di Rogers emise un rumore raccapricciante, ma Collins riuscì ad arrivare fino a Batroc, il quale lasciò andare una caviglia di Rumlow per poter afferrare al volo il ragazzo. Quest’ultima mossa azzardata – parecchio azzardata – ruppe il già labile equilibrio e anche Batroc finì a penzoloni. Daniel però fu abbastanza rapido da afferrare la stessa caviglia di Rumlow che il mercenario aveva dovuto mollare.
 
“Togliti di dosso quel fottuto mostro, Rogers! Non c’è più tempo!” gridò Brock, ormai allo stremo “E voi tirateci su, dannazione!”
 
“Come se fosse semplice! Perché non ci provi tu?” ribatté Batroc, in preda alla frustrazione, alla stanchezza e al panico.
 
“Perché sono qui a dondolare a testa in giù, pezzo di idiota!” replicò allora Rumlow.
 
“Sono nella tua stessa fottuta situazione, ma sono io a tenere su il tuo fottuto culo quindi attento a quello che dici!” lo avvisò il mercenario.
 
“Prova a mollarmi e giuro che ti ammazzo!”
 
“Prima o dopo che quei mostri ti avranno fatto la festa e le cariche esplosive ridotto ad un cumulo di carne carbonizzata?”
 
“Fottiti!”
 
“Fottiti tu!”
 
“Potete piantarla e dare una mano qui?”
 
“Fottiti, Rogers!” risposero in coro i due richiamati all’ordine.
 
Nessuno lasciò la presa. Nemmeno quando le prime esplosioni in fondo al tunnel fecero tremare il terreno.
 
“Tirateci su, danna… cosa cazzo fai, ragazzino?” Rumlow scostò appena il capo per evitare che gli stivali di Collins gli arrivassero dritti in faccia. Il ragazzino si era aggrappato a lui ed era sceso più in basso, usandolo come corda, e gli sfilò senza troppi complimenti la pistola dalla fondina attorno alla coscia.
 
“Steve! A sinistra!” avvisò Dan e il  Capitano si scostò nella direzione indicata.
 
Lo sparo partì e la pallottola si piantò nella fronte del mostro con una precisione ammirevole, considerando le condizioni assolutamente sfavorevoli.
 
“Tirate ora!” fu l’ordine di Brock e fu eseguito senza esitazione.
 
Steve si ritrovò a osservare l’esplosione infuocata che percorreva il tunnel ad altissima velocità. Le fiamme ruggivano feroci, divorando l’oscurità, e il calore che le precedeva divenne sempre più intenso e soffocante.
 
“Non ancora” fu il fievole sussurro che scivolò fra le labbra secche del super soldato. Non era ancora arrivato il momento per morire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Anni prima
 
 
Le grida sono strazianti e non cessano. Non cessano da ore e il dolore ne irradia ogni singola e percettibile nota. Ognuna di quelle note fa eco nella sua testa, è una coltellata allo stomaco seguita da una fitta nel petto. E non può fare niente affinché cessino, anche se vorrebbe, lo vorrebbe davvero.
Anthea dovrebbe essere sollevata che le grida non siano le sue – giusto? –, dovrebbe essere grata che non sia lei a soffrire adesso, che il suo carnefice sia impegnato a torturare un’altra sfortunata anima.
La sente vibrare quell’anima, la sente fratturarsi e morire, un pezzo alla volta. E lei non può fare niente, perché è immobilizzata sulla gelida superficie di un lettino metallico. Strattona i polsi stretti in morse ferree e quelli finiscono per sanguinare. Non ha paura di tranciare di netto le vene, ci ha già provato, ma il processo di guarigione agisce sempre troppo in fretta e lei non riesce ad interromperlo – non riesce a morire.
 
“Ti prego.”
 
Le preghiere non funzioneranno. Anthea lo sa, lo sa bene. Nessuno verrà a salvarli e, in ogni caso, la sfortunata anima non può più essere salvata, perché ormai si è rotta in modo irreparabile. Eppure, lei è così vicina, potrebbe raggiungere la povera anima, forse lei potrebbe persino aggiustarla. Invece, si sente impotente e la ascolta gridare, la ascolta morire.
Anthea si sforza di ruotare la tesa e l’anello che le stringe il collo le taglia la pelle, disegnando due sottili linee parallele che percorrono la gola. Spinge lo sguardo alla sua destra, finché non ha l’impressione che gli occhi stiano per schizzarle fuori dalle orbite. Ma gli occhi non schizzano fuori e, dopo pochi secondi, vorrebbe che lo facessero, perché lo sguardo finisce incastrato con quello dell’anima morente. E fa male.
La disperazione più pura e fredda che opacizza gli occhi scuri della vittima le si appiccica addosso, si insinua sotto la pelle e permea l’anima. Non riesce a distogliere lo sguardo, mentre la sofferenza della vittima la stordisce. Anthea prega – le preghiere non funzionano, ricordi? – che tutto finisca, prega che tutto diventi buio. Desidera morire e quel desiderio è forte e lo diventa sempre di più, ogni giorno – ora, minuto, secondo – che passa. Basta, fa che tutto finisca. Basta.
 
‘Non voglio morire’.
 
Tre singole parole ammutoliscono la voce soave del desiderio di morte. Anthea sa che quelle parole non le appartengono, non riconosce neppure la voce che le ha pronunciate. Vede una scintilla accendersi nelle iridi scure della vittima, che la fissa con una intensità tale da soffocarla. Trascorre qualche attimo, prima che riesca a capire che le labbra secche e spaccate della stessa vittima – l’ennesima cavia di Adam Lewis – si stanno muovendo e un sottile e tremulo filo di voce sta scivolando fra di esse.
 
“Non. Voglio. Morire”.
 
Eppure, sarebbe la soluzione più semplice. Perché non si lascia andare, nonostante tutto il dolore che sta provando? Perché si attacca così testardamente alla vita? Perché non si arrende?
 
“Non voglio morire” ripete la vittima, come se il solo volerlo possa in qualche modo strapparla dalle grinfie della morte, che ormai la tiene stretta e le soffia addosso alito freddo che spegne lentamente il calore del corpo.
 
“Non voglio morire.”
 
Quella ingenua volontà assume la forma di un mantra e diventa poi un disco rotto. Anthea inizia a trovarlo fastidioso e le monta dentro una rabbia bruciante. “Smettila” vorrebbe gridare all’anonima vittima. “Smettila di resistere, è inutile” vorrebbe dirle.
I loro sguardi sono ancora incollati l’uno all’altro, attratti da uno strano magnetismo, ed è come se riescano a comunicare emozioni senza che ci sia bisogno di parole che le esprimano. Di colpo la cantilena cambia, il disco si sblocca e riprende a girare, ma solo per piantarsi una seconda volta – forse l’ultima.
 
“Aiutami.”
 
È una richiesta, acqua fredda che spegne il fuoco della rabbia e della frustrazione, lasciandosi dietro solo fumo denso e grigio. Anthea ha sperato così tante volte che qualcuno potesse rispondere alla sua richiesta di aiuto, ci ha sperato in modo così viscerale da finire dilaniata dalla straziante delusione che ne è derivata, quando ha finito per schiantarsi contro un muro di silenzio, un silenzio freddo e spaventoso.
Sente un click che fa eco da qualche parte nel suo animo e, senza riflettere, si ritrova ad accogliere la richiesta di aiuto, affinché non rimanga inudita, inghiottita dal terrificante silenzio. Se Anthea ignorasse quella richiesta adesso, come potrebbe sperare che la sua venga udita un giorno? Come potrebbe meritare aiuto, se lei stessa si rifiutasse di prestarlo?
 
“Aiutami.”
 
Le luci al neon della sterile stanza bianca lampeggiano e il branco di carnefici si ferma. Il buio inghiotte la stanza e movimenti concitati la riempiono, accompagnati da parole effimere. Nonostante l’oscurità, Anthea riesce a vedere chiaramente la sfortunata anima che giace immobile, a pochi passi di distanza. La tocca senza toccarla davvero e la riscalda. Sono pochi fuggevoli attimi, poi la luce torna e tutto è come prima.
 
 
“Grazie…”
 
 
“È deceduto” annuncia qualcuno. “Un altro fallimento.”
 
Anthea osserva il lieve sorriso che ammorbidisce i tratti del volto esamine dell’ennesima vittima mietuta da Adam Lewis – l’ennesimo fallimento. Le palpebre sono abbassate e sembra che dorma – sembra in pace. Distoglie lo sguardo e chiude gli occhi anche lei, pensando che forse può aggrapparsi alla vita un giorno in più e lottare, in attesa che qualcuno, alla fine, risponda alla sua richiesta di aiuto. Così sotterra il desiderio di morte da qualche parte, nella profondità della sua anima.
Solleva le palpebre ed è allora che la vede. Un’ombra sbiadita che si staglia contro il soffitto e sembra viva, anche se non in quella dimensione. Poi scompare, senza lasciare traccia. Anthea si rende conto di aver trattenuto il respiro e quando separa le labbra, rimane colpita nell’osservare il fiato condensato che scivola fuori.
 
Fa freddo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
“Ti detesto” Brock ebbe bisogno di una pausa per riprendere fiato “Oh quanto ti detesto, Rogers.”
 
Fumo scuro fuoriusciva dall’accesso alle fognature, formando un’alta colonna che spiraleggiava verso la sommità della barriera. Rumlow e Rogers erano ancora sdraiati a terra, sopra le crepe che l’esplosione aveva intessuto lungo la strada asfaltata. Il Capitano aveva diverse bruciature lungo le braccia e la maglia era stata mangiucchiata dalle fiamme in diversi punti, lasciando scoperta la pelle arrossata. Brock non se l’era cavata meglio e stava esprimendo il suo disappunto da quando aveva smesso di penzolare a testa in giù.
Rogers si mise seduto e, dopo aver lanciato un’occhiata al suo non più alleato, spostò lo sguardo sulle lunghe e deformi dita grigiastre che gli stringevano il braccio destro. Sospirò.
 
“Lascia che ti aiuti.”
 
Daniel si inginocchiò al fianco del super soldato e studiò per qualche istante l’arto amputato che era stato strappato via dal potenziato, poco prima che la deflagrazione li raggiungesse.
 
“Hai detto che potevi spiegare” gli ricordò Steve “Spigati, sono tutto orecchi.”
 
Nonostante le parole assomigliassero all’esordio di una ramanzina, il tono del biondo era molto lontano dall’esprimere rabbia o anche solo disappunto. Dan forzò il mignolo dell’arto amputato a sollevarsi e il dito venne su senza troppe complicazioni, così passò all’anulare.
 
“Sono tutti qui fuori. Avengers, SHIELD, esercito. Ma nessuno ha avuto la meglio sulla barriera.”
 
Finalmente l’anulare si staccò dal braccio di Steve e Daniel si dedicò subito al dito medio, evitando di sollevare lo sguardo ed incontrare quello del Capitano.
 
“Un gruppo dello SHIELD, me compreso, è sceso nelle fogne sotto indicazione di Kristen Mayers e…”
 
“La Mayers è fuori?” intervenne Rumlow, rimessosi anche lui seduto.
 
Dan annuì. “Al momento è con gli Avengers. Sta bene.”
 
“E tu come sei entrato? Chi diavolo sei tu?” lo incalzò Brock, con l’intento di distogliere l’attenzione dalla rassicurazione che aveva appena ricevuto dal ragazzo.
 
“Daniel Collins, ex agente dello SHIELD che per un po’ ti ha ammirato, ex leader della STRIKE. Comunque, la barriera ha ceduto. È stato un attimo, ma ha ceduto e io ero nel posto giusto al momento giusto” spiegò Collins e le ultime parole gli uscirono fuori distorte dallo sforzo che gli servì per staccare definitivamente l’anulare dal braccio di Steve.
 
“Avrei detto nel posto sbagliato al momento sbagliato” lo corresse Batroc, che era in piedi di fronte a loro, con le braccia incrociate al petto. I pantaloni erano strappati all’altezza delle ginocchia scorticate, le quali stavano ancora sanguinando.
 
“È stato lui a guidare la fuga. È riuscito a guadagnare tempo contro quei mostri.” Era stata una donna dell’Hydra a prendere la parola. “Ci ha fatto comodo averlo all’interno” aggiunse alla fine e scambiò con Collins un cenno del capo.
 
Dan era riuscito a tirare via anche l’indice dell’arto amputato e stirò il pollice grigio con tanta forza da spezzarlo. Steve si lasciò sfuggire un gemito sommesso e coprì con la mano sinistra i segni violacei che il potenziato gli aveva tatuato addosso.
 
“Sai se qualcun altro è riuscito a passare?” chiese il Capitano e si accese un barlume di speranza nelle iridi cerulee, che finalmente Dan ebbe la forza di guardare.
 
“Quando sono passato di qua, le comunicazioni si sono interrotte e poi ho perso la ricetrasmittente nelle fogne. Mi dispiace.”
 
Collins tornò in piedi e sia Rogers che Rumlow lo imitarono, non senza mostrare fatica in ogni singolo movimento.
Da quanto tempo stavano combattendo? Da quanto tempo non dormivano? Da quanto non mangiavano o anche solo bevevano?
La polvere, la sporcizia e il sangue coprivano i segni di corpi fortemente provati. I muscoli dovevano essere in uno stato di profonda sofferenza arrivati a quel punto. Persino i civili, i quali non avevano preso parte agli scontri in modo diretto, avevano le labbra secche e spaccate a causa della disidratazione. Qualche bambino si era lamentato per i crampi allo stomaco vuoto. Con il ritrarsi della foschia, almeno adesso faceva meno freddo, ma il gelo aveva già lasciato il segno sulla maggior parte delle persone coinvolte, spaccando la pelle e indebolendo l’organismo. I civili non sarebbero stati in grado di tirare avanti ancora per molto e tanti erano già al limite. Lo stesso valeva per soldati e mercenari – anche loro erano umani. Nemmeno i due super soldati del gruppo erano esenti da tale condizione.
 
“I civili vanno scortati verso la barriera.” Rogers si calò nuovamente nella parte del soldato instancabile che doveva emanare sicurezza. “Se si indebolisce di nuovo, avranno la possibilità di attraversarla e saranno più vicini a chi saprà proteggerli” il biondo si concentrò su Dan “Riusciresti a guidarli verso gli Avengers o lo SHIELD?”
 
“Io… io credo di sì… devo solo orientarmi per capire in che posizione mi trovo adesso e…” balbettò il ragazzo, colto da un’ondata di insicurezza.
 
“Oh mio Dio… ma che…” Batroc si fece portavoce dello sgomento generale che fece passare in secondo piano tutto il resto e Steve seguì lo sguardo del mercenario.
 
La foschia ritiratasi attorno al centro commerciale era diventata scura e densa, pulsava come se fosse viva. I potenziati la stavano raggiungendo in massa e il loro numero superava la trentina.
 
“Da dove sono usciti fuori tutti quelli?” fu la lecita domanda di Rumlow, che non riusciva a spiegarsi come Lewis fosse stato in grado di portare con sé tanti potenziati di quel genere senza dare nell’occhio. Qualcosa non tornava.
 
Steve si avvicinò a Daniel e gli posò entrambe le mani sulle spalle. “Guidali tu. Mi fido di te e so per certo che ce la farai” gli disse e gli rivolse un breve sorriso sincero, prima di tirarsi indietro e concentrarsi sul centro commerciale.
 
“Steve” lo richiamò Dan e ottenne la sua attenzione. Il ragazzo non fece domande, né protestò in qualche modo. Ridusse la distanza che li separava e strinse il biondo in un abbraccio, circondandogli il collo con le braccia e aggrappandosi al retro della sua maglia. “Farò tutto il necessario” promise “Non perderò di nuovo.”
 
Steve ricambiò l’abbraccio. “Sta’ attento” sussurrò con tono morbido – ed era preoccupato – mentre rompeva il contatto sentito.
 
Nessuno aveva osato rovinare quel momento, nonostante l’urgenza della situazione. Erano rimasti tutti in silenzio e i civili si erano stretti ai loro cari. Non erano trascorsi che pochi minuti da quando erano usciti dalle fogne, eppure il tempo continuava a scorrere con regole tutte sue all’interno della barriera – tempo e spazio sono distorti, aveva detto Anthea.
 
“Vai adesso” fu l’esortazione che Rogers rivolse a Collins.
 
“Ti aspetto dall’altra parte” gli rispose il ragazzo, mentre indicava la barriera e muoveva qualche passo all’indietro. Un ultimo sguardo e gli diede le spalle, in modo da poter raggiungere i civili.
 
“I tuoi amici aiuteranno anche noi altri?” il noi altri era facilmente traducibile con nemici e Batroc lasciò a Rogers il compito di intendere.
 
“Aiuteranno ognuno di voi, in maniera indiscriminata” assicurò il Capitano. “Ma fate qualsiasi cosa che possa mettere in pericolo queste persone e ve ne pentirete” ci tenne a precisare.
 
Batroc scosse il capo. “Nessuno farà niente del genere, hai la mia parola.”
 
Era la parola di un mercenario, un uomo senza bandiera, guidato solamente dalla migliore prospettiva di guadagno. Eppure, Steve non ebbe alcun dubbio sulla sincerità di tale parola e non si chiese nemmeno il perché del cambio di rotta. Dopotutto, Batroc sarebbe potuto rimanere su quell’auto e usarla per allontanarsi da lì, in modo da garantirsi una maggiore probabilità di sopravvivenza. Oppure, alla fine dei conti, ottenere l’aiuto degli Avengers gli era parsa la soluzione migliore. Qualunque fosse la motivazione, aveva comunque scelto di restare e tendere una mano.
 
“Muoversi! Non abbiamo tempo da perdere” incitò Batroc e, assieme ai suoi mercenari e alcuni soldati dell’Hydra, si posizionò in coda al gruppo, mentre Daniel li guidava dalla testa.
 
Rogers allora rivolse tutta la sua attenzione sul punto in cui stanziava l’ormai spettrale centro commerciale e costrinse le gambe a muoversi con rapidità crescente, fino a rompere il passo in una corsa poco fluida. Tuttavia, non andò lontano. La strada gli fu sbarrata e fu costretto a fermarsi.
 
“Sali” gli ordinò Rumlow, in sella ad una moto nera un po’ ammaccata ma funzionante. “Non abbiamo tutto il giorno” rimarcò l’uomo, dinanzi la mancanza di reazione da parte del super soldato.
 
“Avevi detto che…”
 
“Sali” ripeté Brock “Prima che cambi idea.”
 
Di nuovo, Steve non chiese “Perché?”. Salì sulla moto e lasciò che Brock li guidasse nell’occhio del ciclone. Fu sufficiente qualche scarso minuto per giungere in prossimità del muro di foschia che circondava il centro commerciale.
 
“Ci hanno notato” attestò Rumlow, riferendosi ai nemici, che avanzavano rapidi nella loro stessa direzione.
 
“Ma non sembrano voler intervenire” fece notare Steve “Lewis li sta richiamando. Ha bisogno di loro.”
Era l’unica spiegazione logica. Adam stava richiedendo un intervento di massa, perché probabilmente non se la stava passando bene. Forse Anthea era riuscita a sopraffarlo e Lewis aveva bisogno del suo esercito per contrastarla. E se le cose stavano davvero così, Steve doveva arrivare prima degli altri, a qualunque costo.
 
“Non rallentare, Rumlow.”
 
Brock non rallentò, anzi diede gas e superò diversi potenziati in corsa. Nel momento in cui attraversarono il muro di nebbia, il freddo pungente si sostituì al tenue calore del sole. Udirono risuonare grida graffianti e, proprio dinanzi ai loro occhi, una processione di ombre scure avanzava in modo scomposto verso una sola direzione.
 
“Non può essere reale” si lasciò sfuggire Brock.
 
“Non rallentare” gli ricordò Steve e, senza pensarci, calcò le dita della mano destra sulla spalla del suo ex collega, alla quale si stava tendendo per evitare di perdere l’equilibrio. Fu una muta richiesta di ‘non tirarti indietro proprio adesso’.
 
“Se usciremo da qui, mi dovrai un grosso favore, Rogers. Un grosso favore.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi arrendo.
 
 
Il battito cardiaco era regolare, un tamburo dal tono grave e persistente.
 
Tum. Tum.
 
Ogni singolo battito le faceva tremare le ossa, persino quelle spazzate del braccio sinistro, che ciondolava inerme contro il suo fianco.
 
Tum. Tum.
 
Una sera, fra le mura dell’appartamento di Washington, Sam le aveva parlato delle cinque fasi che accompagnano un trauma. Anthea non ricordava come l’argomento fosse venuto fuori, ma ricordava la voce calma e calda di Sam, i suoi sguardi intensi e rassicuranti, la sua vicinanza. Non era mai stata propensa ad ascoltare certi argomenti, aveva sempre trovato il modo di evitarli, però Sam aveva fatto o detto qualcosa che l’aveva convinta a restare – ad ascoltare. Quel qualcosa le sfuggiva, ma non era importante.
Negazione. La negazione è la prima fase. Convincersi che no, non è accaduto davvero – non è mai accaduto,  non a me, non sono io. La rabbia è la seconda fase, una rabbia atta a risvegliare la consapevolezza di ciò che è stato, ma che potrebbe diventare pericolosamente distruttiva e autodistruttiva. La fase successiva è la contrattazione, la ricerca di un compromesso che permetta di sopravvivere e di mediare con il trauma e i suoi effetti devastanti. La depressione è la quarta fase, un buco oscuro nel quale si potrebbe rimanere intrappolati, ma necessaria per poter arrivare ad una consapevolezza più profonda seppur schifosamente dolorosa. L’ultima fase è quella dell’accettazione – lontana anni luce dall’essere la fine di ogni sofferenza – che rappresenta una equilibrata convivenza con lo stesso trauma che si vorrebbe estirpare fino all’ultima minuscola e secca radice, ma è impossibile farlo.
Sam le aveva detto che l’elaborazione di un trauma passava da queste cinque fasi, necessarie per poter andare avanti – tornare a vivereconsapevoli. Non era possibile cancellare ciò che era stato, così come non era possibile stabilire ciò che sarebbe stato. Si aveva il controllo solo su ciò che era, in quell’esatto momento. Anthea lo sapeva, lo sapeva bene, anche se continuava a far finta di dimenticarlo. Si era ritrovata spesso a riflettere sulle parole di Sam e aveva finito per realizzare che lei quelle cinque fasi le attraversava ciclicamente, quasi ogni giorno e, se doveva dirla tutta, le era capitato di attraversarle anche in un lasso di tempo più ristretto. Lei sapeva come stavano le cose, era entrata in possesso delle risposte tempo addietro e poi aveva preso quelle risposte e le aveva sotterrate così bene da impedire a se stessa di ritrovarle. Certe volte, non sapere rendeva le cose meno complicate ed ignorare appariva la soluzione meno dolorosa. Tuttavia, si finiva per rimanere bloccati in uno stato scomodo, fatto di ronzii di sottofondo che si trasformavano in voci graffianti se c’era troppo silenzio. E poi c’era quel cappio attorno al collo, che non era abbastanza stretto da soffocarti, ma lo era abbastanza per renderti più difficile respirare e il cuore tendeva a battere con più frenesia del necessario. Si finiva per ristagnare in un perenne stato di allerta, i nervi sempre tesi e la testa piena di rumori e stimoli che si confondevano con quelli reali.
 
Come poteva essere definita vita questa? Quanto tempo le restava prima di crollare, schiacciata da ciò che si portava dentro?
 
Anche se aveva seppellito le risposte che le erano necessarie tanto tempo prima, Anthea non aveva bisogno di dissotterrarle per riappropriarsene. Non le aveva mai dimenticate davvero.
La frenesia di scovare Lewis era stata l’emozione predominante negli ultimi lunghissimi mesi. Tuttavia, esisteva una parte di lei che avrebbe fatto di tutto per evitare di ritrovarsi faccia a faccia con il bastardo manipolatore ancora una volta. Adesso che ce lo aveva davanti, il mostro, Anthea stava vivendo uno dei suoi peggiori incubi e svegliarsi non l’avrebbe tirata fuori, perché era già sveglia, forse come non lo era mai stata prima.
 
“Ho sempre odiato i tuoi capricci.”
 
Tum. Tum.
 
La giovane sollevò il capo e raddrizzò appena le spalle. Le ginocchia inchiodate sul pavimento le facevano male e non osò muoverle. Lewis la guardava dall’alto con quei suoi occhi rossi, rossi come il sangue che spargeva senza alcun rimorso.
Intorno a loro, le ombre erano disposte in cerchio, immobili. I volti avevano assunto tratti definiti, tratti umani appartenenti a persone che non erano più in vita. Anthea li ricordava tutti. Dal petto dell’oneiriana, in corrispondenza del cuore, avevano preso forma filamenti luminosi che affondavano nel petto di ogni singola ombra. Un groviglio di fili intangibili aveva invaso lo spazio che li circondava e solo lei poteva vederli e sentire il loro peso.
Adam invece continuava a trapassare Anthea con lo sguardo, sorridendo ad ogni espressione di dolore che la giovane mostrava.
 
“Le mie punizioni non sono mai state sufficienti per educarti a dovere. Ma adesso non sei più tu a dettare le regole, bambina” il sorriso di Adam si allargò e i denti scintillarono nella penombra “Adesso sei tu ad avere paura di me.”
 
“Io ho sempre avuto paura di te” fu la verità a cui Anthea non diede voce. “Non importa che tu mi tema o meno. Però, se fossi in te, avrei paura di loro” disse invece la giovane e dedicò l’attenzione alle ombre ancora ferme.
 
“Te l’ho già detto. I tuoi trucchi non hanno più effetto su di me.”
 
La giovane scosse il capo. “Nessun trucco. Basta trucchi.” Solamente realtà. Realtà nuda e cruda. “Non ti ricordi di loro? Di nessuno di loro?”
 
Gli occhi di Anthea si fermarono su Lewis e sostennero il peso delle iridi insanguinate. Doveva distruggere il mostro che lei stessa aveva contribuito ad alimentare e, per riuscirci, avrebbe dovuto toccare il fondo e recuperare ciò che era rimasto sedimentato fino ad allora. Doveva smettere di insabbiare le sue emozioni, doveva smettere di fingere di poter andare avanti, dimenticando.
Adam si mostrò infastidito e si chinò verso di lei, mentre allungava un braccio. Le afferrò ciocche di capelli dietro la nuca e la costrinse a tornare in piedi con uno strattone secco, rubandole un gemito sofferente che lei tentò invano di smorzare fra i denti serrati. Anthea non reagì, pur possedendo ancora un braccio funzionante. Le gambe la sostenevano a malapena e i fili argentati sembravano volerle strappare il cuore dal petto.
 
Tum. Tum.
 
“Fai sparire tutto, bambina. Ora.” Era un ordine ed una minaccia. L’aveva in pugno dopotutto.
 
Uno dei fili scintillò di una luce rossastra. Anthea lo seguì con lo sguardo, fin dove andava a perdersi fra le ombre strette in cerchio, che lentamente si spostarono per aprire un varco.
 
“Mi hai portato via mio figlio.”
 
La voce parve provenire direttamente dall’oltretomba, ma l’ombra che aveva pronunciato quelle parole era lì, che avanzava attraverso il varco apertosi per permetterle di passare. Il volto era quello dell’uomo il cui corpo giaceva sul pavimento, accanto al corpicino freddo del figlio. Anthea poteva sentire sulla sua stessa pelle la rabbia, il profondo dolore e la tristezza di quell’anima grigia. Percepiva tali emozioni come se le appartenessero e questo perché le aveva fatte sue.
 
“Hai ucciso il mio bambino.”
 
La Morte non è un evento costituito da pochi attimi, ma è un processo che va oltre l’immobilità degli organi vitali, oltre l’interruzione di ogni comunicazione chimica ed elettrica. Ogni forma di vita custodisce in sé una forma di energia che vibra seguendo una composizione di frequenze tutta sua, diversa dalle altre, unica e che si evolve nel tempo. Ogni essere vivente è una melodia, che si compone di toni alti e di toni bassi, di note acute e note gravi. La melodia può suscitare gioia in alcuni momenti, tristezza in altri, può dare forza e può prosciugarla. Delle melodie sono familiari per alcuni, sconosciute per altri, affini per coloro che risuonano in modo simile. Melodie diverse possono ritrovarsi sulla stessa lunghezza d’onda, o non incontrarsi mai come rette parallele. Alcune melodie possono annullarsi a vicenda in una interferenza distruttiva, mentre altre si rafforzano in una interferenza costruttiva e rare volte esplodono in una risonanza dai risvolti imprevedibili.
Quando sopraggiunge la morte, l’energia che aveva animato il corpo sino a tale momento lo abbandona lentamente. Quella stessa energia è tutto ciò che siamo, tutto ciò che rendeva il corpo noi, e continua a suonare la propria melodia irripetibile. Quali siano il successivo viaggio e la meta della forma incorpora vibrante resta un mistero. C’è chi pensa che raggiunga un’altra dimensione, chi afferma che rimane in attesa di rinascere in una nuova forma corporea, chi pensa che si riunisca alle energie universali e chi, invece, spera che rimanga a vegliare sulle persone che ha amato, in attesa di riunirsi a loro. Nessuno conosce la verità.
Tuttavia, nel momento in cui tale energia inizia a lasciare il corpo, portandosi via persino il calore, non è completamente inafferrabile. Durante la transizione, esiste una forma che rappresenta una via di mezzo – un limbo – fra corpo e pura energia ed è su quella forma che alcune specie riescono ad agire. Gli oneiriani facevano parte di tali specie, anche se non tutti loro erano in grado di manipolare – o anche solo percepire – la forma di energia in transizione.
Era tale capacità che Aima aveva usato per salvare Steve durante la battaglia del Brooklyn Bridge. Con tale potere, Daskalos aveva dato vita al suo esercito di anime oscure. Lo stesso potere aveva permesso ad Azael di legare Aima alla spada e, in seguito, il re caduto aveva fatto sì che potesse rimanere confinato nel limbo, legato all’energia vibrante di sua figlia. E sempre il medesimo potere aveva legato ad Anthea le energie di coloro che lei aveva tentato di salvare da Lewis.
Anthea non lo aveva fatto in modo consapevole, ma era stata guidata dalle sensazioni scatenate nell’avvertire l’energia in transizione e dal desiderio di voler prestare loro aiuto. Aveva creduto che, non lasciandole andare, avrebbe permesso loro di continuare a vivere, in modo da poterle portare assieme a lei fuori dall’incubo in cui Adam le aveva trascinate. Però aveva finito per bloccarle nel limbo per tutto quel tempo, nella forma di ombre vibranti, le quali l’avevano seguita ovunque.
 
 
“C’è così tanto caos dentro di te, giovane guerriera. Devi lasciarli andare o ti consumeranno.”
 
Le parole dell’anziano morente avevano assunto significato solo molto tempo dopo e adesso Anthea capiva ciò che aveva voluto dirle. Solo che l’anziano si era sbagliato su una cosa. Non era riuscito a vedere fino in fondo, mentre lei l’aveva fatto – alla fine.
 
 
“Non ti ricordi nemmeno di lui? Non è trascorso molto da quando hai preso la sua vita” sussurrò la giovane ad un soffio dal viso di Lewis, che la teneva ancora stretta per i capelli.
 
L’ombra del padre straziato dal dolore giunse alle spalle di Anthea e solo allora Adam gli concesse attenzione, senza però mostrare alcuna preoccupazione. Dal suo punto di vista, erano forme incorporee, incapaci di poterlo raggiungere, e quindi perché avrebbe dovuto temerle?
 
“Si è creato un nodo fra noi, Adam” il manipolatore tornò a guardare Anthea “Ed è per questo che parte di loro erano qui prima del mio arrivo. Le hai trascinate con te.”
 
“Di cosa stai parlando, bambina?” Lewis la strattonò di nuovo con forza e fu un miracolo che il cuoio capelluto non le venne strappato via dal cranio. L’uomo – il mostro – stava perdendo la calma.
 
“Ora che sono qui, le ho riunite tutte e alla fine dei conti il nodo ha un lato positivo e sai quel è?” Anthea non attese una risposta “Posso usarlo affinché loro possano raggiungerti.”
 
Una stretta bruciante gli circondò il polso e lo sguardo di Lewis saettò sull’ombra del padre. Il bastardo manipolatore dovette scendere dal piedistallo costruito sulla presunzione di onnipotenza e si tirò indietro, per sottrarsi alla presa dell’ombra.
Anthea tornò libera e nascose dietro un sorriso tagliente il dolore che le attanagliò il petto. Riuscì a rimanere in piedi, nonostante tutto.
 
 
Tum. Tum.
 
 
“Paga il prezzo delle tue azioni, Adam” proferì la giovane oneiriana, mentre la mano destra premeva contro il petto in fiamme.
 
Le ombre ruppero la stasi e vibrarono con intensità crescente. Grida di rabbia e di dolore inondarono la stanza e diedero vita ad un’eco assordante. Si avvicinarono tutte assieme, ammassandosi le une sulle altre, le braccia tese in avanti per poter raggiungere colui che aveva rubato loro la vita.
Anthea non si mosse e lasciò che le ombre la inghiottissero nel groviglio di membra vibranti. Udì Lewis gridare e sorrise, mentre percepiva la foschia ritirarsi verso di loro e portare con sé tutte le ombre che la abitavano. Non sapeva cosa sarebbe successo da lì in avanti, stava percorrendo sentieri ancora sconosciuti, ma non era la prima volta per lei. Eppure, non si era mai sentita tanto sola come in quel momento.
 
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Stava assistendo agli eventi in corso allo stesso modo in cui si assiste ad una scena di un film, ovvero con la consapevolezza di non poter intervenire. Era costretto a fare da semplice e inutile spettatore e Tony odiava in modo viscerale rimanere fermo a guardare.
Quando la nebbia si era ritirata, aveva immediatamente chiesto a JARVIS di individuare qualsiasi forma di movimento all’interno della barriera e non aveva dovuto attendere molto prima di ottenere un feedback positivo, con tanto di immagini in tempo reale. Vederlo gli aveva fatto uno strano effetto, un sollievo misto ad ansia e rabbia e sei vivo, bastardo figlio di buona donna!
Sì, Rogers era vivo e stava tirando su persone da un ingresso fognario. Vicino a lui – troppo vicino – c’era niente meno che quel bastardo assassino di Brock Rumlow, intento ad aiutare – stava davvero aiutando di sua spontanea volontà? Ma che…?! – cosa alquanto disturbante da guardare e persino da credere e non dargli le spalle in quel modo, Cap!
Allora giunse – prevedibile – l’incipit di una emicrania pulsante e l’incipit si trasformò in una emicrania vera e propria nell’esatto momento in cui vide Steve sparire nel condotto fognario, trascinato in modo violento ed inaspettato. Ma che diavolo stava succedendo?
 
“Cazzo!” gridò senza tenere in considerazione di avere la linea aperta con gli altri Avengers, che aveva dimenticato di aggiornare negli ultimi minuti.
 
“Che succede? Hai visto qualcosa?” arrivò immediata la domanda di Barton e fu accompagnata da crepitii in sottofondo, segno che anche gli altri erano stati in procinto di chiedere, ma Clint li aveva battuti tutti sul tempo.
 
“Li ho individuati” comunicò Tony, mentre vedeva crescere il panico all’interno del gruppo oltre barriera. La cosa più assurda era che Rumlow si era mosso per aiutare Rogers e anche altri nemici lo avevano seguito. Persino alcuni civili stavano prendendo parte all’azione di soccorso.
 
“Dove? Cosa succede? Dannazione, Stark! Ti decidi a parlare?!”
 
L’ordine perentorio di Barnes costrinse Tony a prestare attenzione ai suoi esagitati compagni. Stark li trovò in attesa, con gli sguardi rivolti verso l’alto, nel punto dove era rimasto sospeso immobile per interi minuti, senza dire una sola parola. Cercò di spiegare loro cosa aveva visto, tornado nel frattempo a concentrarsi su ciò che stava accadendo dall’altra parte della barriera.
 
“Cosa succede adesso?” chiese Sam.
 
Tony non fu in grado di rispondere subito. Aveva appena visto Rumlow, Rogers e Collins – Collins?! Ma come diavolo ci era arrivato fino a lì? Era uno scherzo?! – venire trascinati fuori dall’ingresso fognario, seguiti da una colonna di fuoco e fumo scuro.
E adesso? Il gruppo di civili e nemici sembrava si stesse muovendo nella loro direzione ed era Collins a guidarli. Invece, Rogers stava procedendo nella direzione opposta e…
 
“Stark! Cosa diavolo sta succedendo?” lo richiamò Barton, stanco di rimanere in attesa di risposte.
 
“Niente di buono” proferì Tony e decise che era tempo di smettere di fare da mero spettatore. “Troviamo il modo di abbattere questa fottuta barriera.”
 
“Le abbiamo già tentate tutte” gli ricordò Barton, con una certa amarezza.
 
“Direi che non è un buon motivo per gettare la spugna” ribatté Tony e, per quanto gli riguardava, non esisteva motivo che fosse anche solo lontanamente valido per arrendersi, non quando, al di là di quella maledetta barriera, un compagno – un amico – stava mettendo in gioco tutto, pur di fermare la lunga serie di atrocità commesse da mostri privi di senno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Il sigillo finirà per rompersi. La perderò.”
 
“Teniamoci pronti per quando la barriera vacillerà.”
 
“Tu sapevi che sarebbe successo?”
 
Andras annuì dinanzi l’espressione incredula di Eivor.
 
“Allora non avresti dovuto permetterle di andare” la curatrice era arrabbiata e non capiva come il nuovo sovrano avesse potuto lasciare che Anthea corresse un rischio simile, sapendo già cosa sarebbe accaduto.
 
“Non sarei stato in grado di fermarla, non senza ricorrere alle maniere forti almeno” ammise Andras, che era rimasto calmo e all’apparenza distaccato dagli eventi in continua evoluzione.
 
“Si spinge sempre oltre i propri limiti, senza pensare alle conseguenze. È fatta così.” Hera stava sorridendo ma c’era tristezza nella curva delle morbide labbra rosee.
 
Loukas poggiò una mano sulla spalla della compagna. “Ce la farà. Ce la fa sempre. E noi la aiuteremo a venirne fuori. Siamo qui per questo.”
 
Eivor non era mai stata in prima linea. Non era una combattente, non ne aveva mai avuto l’indole. Il suo potere era di tutto rispetto, però si era evoluto verso una direzione precisa, quella dell’arte della guarigione. Era in grado di usare la telecinesi e aveva un buon controllo delle energie elementali, ma niente di così eccezionale. Uccidere per lei era fuori discussione. L’idea di tranciare una vita le causava male fisico, eppure sapeva che combattere talvolta era inevitabile, per potersi difendere, per sopravvivere e per fermare mostri che altrimenti avrebbero portato morte e distruzione. I guerrieri sceglievano di addossare sulle proprie spalle il peso di ogni vita che fallivano nel proteggere e di ogni vita che spezzavano. Avere in mano la vita di altri esseri viventi e deciderne le sorti era una responsabilità che pochi comprendevano davvero fino in fondo.
Eivor non era mai stata in prima linea. Aveva preso parte ad alcune battaglie, ma rimanendo nelle retrovie per poter soccorrere i feriti. Stavolta, tuttavia, la situazione critica aveva richiesto la sua presenza in prima linea, al fianco del nuovo sovrano e in aiuto del precedente. Andras emanava un senso di sicurezza che la faceva sentire protetta e forse era uno dei motivi per cui non aveva esitato a seguirlo, quando lui glielo aveva chiesto – non ordinato. Se però doveva essere sincera, il vero motivo per cui era lì era uno solo e aveva un nome. Anthea. Le doveva molto – tutti loro le dovevano molto – e aiutarla adesso che era in difficoltà era il minimo che potesse fare per lei. Eivor riteneva che Anthea comprendesse la responsabilità di avere fra le mani una vita e che se la portasse dietro alla stregua di un pesante fardello. Questo le aveva fatto apprezzare profondamente la giovane mezzosangue.
Quando Anthea, pochi giorni prima, era giunta ad Asgard in quella condizione disastrosa, Eivor aveva fatto ricorso a tutte le sue capacità per evitare che la giovane si disgregasse e aveva dovuto creare un sigillo capace di ingabbiare il suo potere che, andato completamente fuori fase, avrebbe finito per distruggerla altrimenti. Solo che qualsiasi cosa stesse accadendo all’interno della barriera stava intaccando il sigillo e, se il sigillo si fosse spezzato, niente avrebbe potuto trattenne il potere fuori fase. Non era la prima volta che Eivor vedeva Anthea perdere il controllo, ma stavolta la giovane si era spinta troppo oltre e ci sarebbe voluto tempo per aggiustare le cose, sempre se si fossero aggiustate. Sfortunatamente, di tempo non ne avevano avuto e il sigillo era una toppa provvisoria che stava già perdendo efficacia.
 
“La foschia si sta ritirando” annunciò Andras ed Eivor guardò in basso.
 
Erano sulla sommità della barriera, lontani dagli umani che l’avevano accerchiata e che invano avevano tentato di abbatterla. La foschia si stava radunando attorno una grossa struttura, che sembrava essere l’epicentro di tutto il caos. Non molto lontano da esso, fu possibile intercettare alcuni umani che stavano aiutando altri umani ad uscire da un buco scavato nella terra.
 
“È lui.” Andras indicò un punto oltre la barriera, con più precisione la testa bionda del noto umano al quale Anthea era legata.
 
“Non sono insieme… pensate che non si siano incontrati?” fu la lecita domanda di Hera.
 
Fino ad allora non avevano avuto la certezza della presenza di Steve Rogers all’interno, ma ci avevano sperato, perché lui avrebbe fatto qualunque cosa per aiutare Anthea. A quanto pareva, Steve Rogers era lì, ma non era con la giovane oneiriana, la quale doveva star passando un brutto momento considerando la rottura prossima del sigillo che la teneva insieme.
Eivor percepì agitazione e tremiti di rabbia provenire da Andras e notò le nocche dei pugni stretti sbiancare di colpo. Era certa che stesse per dire qualcosa, invece il sovrano rimase con la bocca mezza aperta e la rabbia gli scivolò di dosso.
La curatrice tornò a concentrarsi sul gruppo di umani e anche lei rimase interdetta nel vederli creare una sorta di catena che si prolungava fin dentro il buco nella terra. E Steve Rogers era sparito dalla loro vista. Dovettero attendere alcuni minuti prima di vederlo riemergere dal buco, seguito da una colonna di fuoco e fumo scuro e preceduto da un giovane ragazzo e da un uomo dai capelli scuri. Proprio quest’ultimo, poco dopo, si separò dal numeroso gruppo di umani assieme a Rogers ed entrambi si mossero in direzione della foschia.
 
“La sta raggiungendo.” Loukas lo disse senza alcuna ombra di incertezza.
 
Eivor voltò il capo verso Andras e catturò il sorriso appena accennato che gli aveva disteso i lineamenti del volto. Era palese che provasse ancora sentimenti contrastanti per il guerriero umano e, attualmente, era costretto ad accettare che fosse lui l’unico a poter aiutare Anthea.
 
“Teniamoci pronti per quando la barriera vacillerà” ripeté il sovrano, ma stavolta lo disse come se avesse la certezza che sarebbe accaduto di lì a poco.
 
Osservarono Steve Rogers sparire oltre il muro di foschia, ormai addensatasi in una zona ristretta, e attesero in silenzio di vederlo riemergere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Adam Lewis era preda della paura e Anthea sperò che quella paura fosse anche solo lontanamente simile al terrore che aveva inflitto alle sue innumerevoli vittime. Se avesse avuto i suoi poteri, farlo a pezzi non sarebbe comunque stato abbastanza. Adam doveva soffrire come avevano sofferto tutti gli innocenti su cui aveva messo le sue sporche mani. Adam doveva capire cosa fosse la disperazione, doveva sentirsi impotente, un pupazzo in balia di un dolore fisico e psicologico da cui non vi era via di fuga.
Per Adam Lewis la morte sarebbe stata un privilegio che non meritava. Doveva pagare, pagare a caro prezzo. Così come un giorno sarebbe toccato a lei pagare.
Anthea poteva vedere il manipolatore contorcersi nel tentativo di liberarsi dalla ferrea presa di tutte le ombre che erano riuscite ad afferrarlo. Il contatto con le anime gli spaccava la pelle e la faceva sanguinare. La loro rabbia, la loro sofferenza e la loro disperazione si erano tramutate in spilli appuntiti in grado di perforare persino le ossa. Lo avrebbero soffocato, schiacciato e spezzato nel corpo e nella mente. Lo avrebbero annichilito e Anthea lo avrebbe guardato accadere, esente da ogni forma di compassione.
 
Tum. Tum.
 
La giovane premette con più forza la mano destra contro il petto e serrò le palpebre, mentre le ginocchia si schiantavano contro il duro pavimento. Il battito del suo cuore non era aumentato, né aveva rallentato. Il muscolo cardiaco continuava a contrarsi con regolarità. Eppure, ogni contrazione diventava sempre più dolorosa e le toglieva il fiato.
I fili argentati che le uscivano dal petto erano tesi sino allo spasimo e presto avrebbero iniziato a spezzarsi, liberando le anime dal limbo e permettendo loro di trovare – forse – la pace che in vita era stata loro sottratta – li avrebbe lasciati andare.
 
Una volta che l’ultima filo avesse ceduto, tutto sarebbe precipitato.
 
Un familiare tintinnio le fece sollevare le palpebre e catene invisibili la trascinarono con violenza in avanti, verso le braccia tese di Adam, che cercava di contrastare le ombre per potersi protendere verso di lei. Anthea tentò di trovare invano un appiglio. Le ombre crearono un muro dinanzi a lei e le catene si dissolsero. Molteplici fili argentei si spezzarono tutti in una volta e la giovane ebbe l’impressione che il cuore avesse iniziato a sanguinare.
Le grida di Lewis si fecero più disperate e arrabbiate, mentre le ombre continuavano ad ammassarsi su di lui, stritolandolo in un freddo abbraccio mortale. Altri fili si spezzarono e le ombre liberate iniziarono a perdere gradualmente consistenza.
L’oneiriana si rialzò in piedi a fatica e fece un primo passo indietro. Il braccio sinistro di Lewis si creò un varco nel muro di ombre e la raggiunse prima che riuscisse a fare un secondo passo. Le lunghe dita penetrarono nel braccio rotto come le punte di un forcone, strappandole un grido di dolore che proprio non riuscì a soffocare. La vista divenne sfocata, offuscata dalla lacrime che ripresero a rigarle le guance pallide e che, cadendo a terra, andavano a mischiarsi con il sangue che stava colando dal braccio. Lewis affondò maggiormente le dita nella carne e la tirò verso di sé, all’interno dell’ammasso di ombre.
 
“Sono io il più forte adesso” le urlò contro Adam, mentre anche la sua faccia riemergeva dal muro di ombre, le quali cominciavano a perdere la presa su di lui.
 
Era davvero diventato tanto potente?
 
Altri fili si spezzarono e Anthea serrò di nuovo le palpebre, incapace di sostenere il peso delle iridi infuocate del suo carnefice. Tuttavia, l’urlo che Adam cacciò pochi attimi dopo la spinse a riaprire gli occhi.
La giovane assistette al netto spezzarsi del braccio, le cui dita erano ancora infilzate nella sua carne. La pelle dell’arto di Lewis fu la prima a strapparsi, seguita dai legamenti e dalle fibre muscolari. L’osso in prossimità del gomito venne tranciato di netto, alla stregua di un cioccio di legno tagliato dalla lama affilata di un’ascia. Successe tutto in un attimo e le ombre ne approfittarono per risucchiare fra le loro membra oscure un Adam violentemente mutilato.
Anthea rimase immobile, con gli occhi spalancati e fissi sul mezzo braccio che giaceva a terra, diviso di netto dal resto dell’arto. Sollevò lentamente lo sguardo dalle dita affilate che fino a poco prima erano piantate nel bicipite sinistro e dalle quali gocciolava ancora sangue fresco. Nonostante sentisse le gambe sul punto di cedere, si mosse comunque e, con il solo braccio ancora funzionante, circondò il collo di Steve. Affondò il viso nell’incavo del suo collo, dimentica del caos che la circondava. Si aggrappò a lui con tutta la forza che le cinque dita della mano sana conservavano e non si preoccupò del cedimento repentino delle gambe, perché c’era lui a sostenerla ora. E Steve la strinse a sé con una disperazione che quasi intaccò la regolarità imperturbabile con cui il cuore di Anthea continuava a battere.
 
“Non voglio combattere sola” sussurrò lei con voce tremante e si odiò per quell’ammissione di debolezza.
 
 
 
“Se tu fossi forte abbastanza da affrontare il nemico, sceglieresti di combatterlo da solo oppure insieme ai tuoi compagni?”
 
“Insieme.”
 
 
 
Adesso Anthea capiva davvero cosa significasse Insieme. Non era importante la forza che si possedeva. Non era importante il potere di cui si disponeva. Non c’entrava niente il coraggio o il voler dimostrare a sé stessi di potercela fare senza dover ricorrere all’aiuto di nessuno. E non c’entrava neppure il voler tenere lontano dal pericolo le persone che si amavano. Quel tipo di Insieme andava oltre tutto questo. Era esso stesso la forza, il potere, il coraggio e la resilienza, ma portati ad un livello a cui da soli sarebbe stato impossibile accedere.
 
“Non dovrai più farlo” le promise il compagno e si tirò indietro per poterla guardare negli occhi.
 
Steve era un vero casino. C’era sangue ovunque, rappreso e fresco, mischiato a sudore, polvere e Dio solo sapeva cos’altro. La maglia si era sfilata dai pantaloni, era strappata e bruciacchiata. C’era un’ampia chiazza di sangue fresco sul fianco sinistro. In alcuni punti, la pelle era ustionata e spiccava l’impronta violacea di lunga dita attorno al braccio destro. Ed era pallido. Il fumo delle esplosioni – assieme al sangue – gli aveva scurito i capelli. Nonostante tutto, era lì, era vivo e lei aveva disperatamente ed egoisticamente bisogno di lui.
 
“Tu. Bastardo ragazzino insolente. Hai appena firmato la tua dolorosa condanna a morte definitiva” ringhiò la voce cavernosa di Adam, proveniente dall’ammasso di ombre che lo aveva inglobato. “Non ho più bisogno di nessuno di voi. Sono io il più forte.”
 
Gli ennesimi fili argentei furono recisi con uno strappo secco. Anthea premette la fronte contro il petto di Steve e soffocò gemiti sofferenti fra i denti.
 
“Anthea” il super soldato la chiamò allarmato. Lewis avrebbe potuto farlo a pezzi in pochi attimi se le ombre avessero ceduto, ma lui non sembrava preoccuparsene. Era concentrato su di lei, solamente su di lei.
 
“Via… via da qui… dobbiamo allontanarci” balbettò la giovane. Si era resa conto di aver sottovalutato il potere acquisito da Lewis. Forse, le ombre non sarebbero riuscite a fermarlo come lei aveva sperato.
 
“Ti porto via.”
Steve strappò la manica destra della maglia con un gesto secco e legò il pezzo di tessuto sugli squarci che le dita di Lewis avevano lasciato sul braccio della compagna, nel tentativo di rallentare la fuoriuscita del sangue.
“Andrà tutto bene. Resisti” le disse e la fece salire sulla propria schiena, sorreggendole le gambe con le mani. Lei gli circondò il collo con il braccio destro e si strinse a lui. Allora, il super soldato non esitò a muoversi per mettere quanta più distanza possibile fra loro e Lewis.
 
“Non uscirete vivi da qui” minacciò Adam, impegnato a districarsi dalla rete sempre meno fitta delle ombre.
 
Né Anthea né Steve guardarono indietro.
 
“Questa è la seconda volta” la voce dell’oneiriana era debole, ridotta ad un filo tremulo che il super soldato captò solo grazie all’udito fine.
 
“Di cosa parli?” le chiese lui, mentre raggiungeva la tromba dell’ascensore da cui era salito solo pochi minuti prima.
 
“È la seconda volta che… mi strappi dalle mani di Lewis.”
 
In un battito di ciglia, i ricordi della prima fuga dalla base in Canada riacquistarono spaventosa nitidezza.
 
“E sarà l’ultima” le assicurò Steve “Tieniti forte” le disse poi e, non appena lei gli ebbe allacciato le gambe attorno ai fianchi con maggiore forza, il super soldato poté usare le mani per aggrapparsi ai cavi dell’ascensore e iniziare la discesa.
 
Le grida graffianti e furiose di Lewis li seguirono fino al pianoterra, che trovarono disseminato di macerie e di nemici.
 
“Questo non va bene.” Steve si irrigidì.
 
Erano in trappola e da soli non avevano possibilità di uscirne vivi. Era questa la verità e Anthea si sentì morire, perché Lewis avrebbe vinto. Tuttavia, il suo compagno non era dello stesso avviso e la sorprese risalendo di nuovo i cavi, fino in cima, senza mai rallentare.
 
“Cosa vuoi fare? Steve…”
 
“Fidati di me.”
 
Il super soldato attraversò di corsa lo stanzone del secondo piano, ignorando la presenza di Lewis e delle ombre che ancora lo bloccavano. Aumentò il passo e puntò una precisa direzione. Anthea comprese.
 
“Aspetta! Non farlo ti prego! Steve!”
 
Il vetro di uno dei finestroni, i quali avevano il compito di rendere luminoso il centro commerciale, si frantumò nel momento in cui il corpo di Steve vi impattò contro, con le braccia incrociate di fronte al volto. Il biondo fece leva sul braccio di Anthea che gli circondava il collo, in modo da trascinarla davanti a sé. La strinse in un abbraccio protettivo, mentre rivolgeva la propria schiena verso il suolo.
L’oneiriana rimase immobile, incapace di reagire, totalmente spiazzata dall’azione improvvisa – ed improvvisata – del compagno. Attese l’impatto e, quando arrivò, non rappresentò il capolinea. Infatti, qualcosa rallentò la caduta e l’incontro con l’asfalto non fu orribilmente distruttivo. Sentì Steve emettere un solo gemito e la botta gli svuotò i polmoni, facendolo rimanere senza fiato per qualche istante.
Anthea fece forza sul braccio sano per scostarsi da lui e sistemarsi sulle ginocchia, al suo fianco. Prima che lei potesse parlare, Steve – ancora sdraiato a terra – indicò in alto e la giovane sollevò il capo, trovandosi a fissare lo squarcio apertosi sul tendone bianco sopra le loro teste. Erano circondati da magliette, bandiere, girandole, cappelli e tanta altra roba tutta rigorosamente a stelle e strisce. Erano finiti sul retro del centro commerciale, all’interno di uno stand di gadget.
 
“Ero certo che avresti usato il piano B.”
 
Anthea sussultò e si voltò di scatto, azione che le scatenò un dolore tale da offuscarle la vista.
 
“Non ti agitare, ragazzina. Faccio ancora parte degli alleati.”
 
Brock si avvicinò a loro e, senza troppi complimenti, afferrò il super soldato per un braccio e lo rimise in piedi. Lasciò poi che fosse Steve ad aiutare l’oneiriana a rialzarsi e il biondo la sostenne mettendole un braccio attorno la vita.
 
“Qual era il piano A?” volle sapere la giovane, che nel frattempo stava cercando di riprendere possesso delle proprie facoltà fisiche e mentali. Gli intangibili fili che la legavano alle anime continuavano a spezzarsi e, ogni qual volta accadeva, la sensazione di finire in pezzi diventava sempre più forte e concreta.
 
“Il piano A…”
 
“Rumlow, non è necessario…” tentò di fermarlo Steve, senza successo.
 
“Eri tu, strega, in caso fossi riuscita a recuperare i tuoi poteri, cosa che, a quanto pare, non è accaduta. Dov’è Lewis?”
 
“Al momento è… bloccato” provò a spiegare Steve e Brock parve accontentarsi, considerando che non aveva energie mentali per capire le assurdità ultraterrene che stavano avvenendo lì.
“Adam ha il tuo potere?” domandò il biondo subito dopo, rivolgendosi alla compagna.
 
“Anthea. Lewis non ha il tuo potere, vero?” era ciò che Steve le aveva chiesto quando ancora erano nelle fogne. E stavolta la risposta fu diversa.
 
“Sì. Una parte.”
 
Dall’espressione del super soldato, Anthea capì che avrebbe voluto farle altre domande, ad esempio ‘Come è potuto accadere? È reversibile? Cosa ti succederà? Che cosa sono quelle ombre scure? Come facciamo a fermalo? Cosa posso fare?’ Ma non c’era tempo e fu Rumlow a sottolineare tale vitale aspetto, non senza una certa urgenza.
 
“Togliamo le tende prima che Lewis si sblocchi e prima che il suo circo di mostri ci sia addosso di nuovo. Fuori dal muro di nebbia ho individuato un mezzo che sostituirà quello con cui siamo arrivati.”
 
“Che fine ha fatto l’altro mezzo?” si azzardò a chiedere Anthea.
 
“Una brutta fine” si limitò a rispondere Brock e scoccò un’occhiata accusatoria in direzione di Steve, che fece spallucce.
 
Prima di muoversi, il biondo le rivolse uno sguardo che Anthea interpretò senza fatica.
“Ce la faccio” gli assicurò lei, ma al tempo stesso gli prese la mano e rimase aggrappata ad essa, anche quando iniziarono a correre in direzione del mezzo di fortuna trovato da Rumlow.
 
No, era una bugia, Anthea era al limite e non avrebbe retto a lungo. Tuttavia, anche Steve era visibilmente al limite – era un miracolo che fosse ancora in grado di muoversi – e non voleva essere una zavorra per lui, almeno non finché le gambe non avessero smesso di funzionare del tutto.
Attraversarono il muro di foschia che circondava il centro commerciale e, nel momento in cui la luce le ferì gli occhi e il tenue calore del sole le carezzò la pelle gelida, Anthea riacquistò un barlume di speranza. Forse potevano farcela. Forse le ombre sarebbero riuscite a distruggere Lewis e a quel punto la barriera sarebbe crollata, permettendo agli Avengers di arrivare in loro soccorso.
 
“Ci siamo.”
 
La giovane vide Rumlow fermarsi al fianco di un’auto rossa e salire a bordo. Steve aprì uno degli sportelli posteriori e si infilò all’interno, trascinandola con sé. Brock non impiegò che pochi secondi a far partire il motore e partì a tavoletta, mentre lanciava occhiate tese allo specchietto retrovisore. Anche Steve si girò indietro, scrutando il muro di nebbia che si allontanava.
 
“Dove andiamo?” fu l’oneiriana a chiedere e, con sua grande sorpresa, la domanda spiazzò il suo compagno, prova del fatto che non aveva pianificato una strategia di fuga precisa.
 
“Verso la barriera. Se i vostri amici riescono a passare come il ragazzino, preferisco essere molto vicino a loro” confessò Brock, senza troppi giri di parole. Era comprensibile.
 
Tuttavia, Rogers ebbe da ridere. “Non possiamo avvicinarci ai civili o porteremo da loro anche tutti i nemici.”
 
“Sono disposto a correre il rischio.”
 
“Non possiamo farlo” il tono di Rogers subì una breve impennata per poi tornare più basso, stanco. “Rumlow, per favore.”
 
Brock sollevò gli occhi e incrociò lo sguardo di Steve nello specchietto retrovisore. Le dita dell’ex leader della STRIKE si serrarono con maggiore forza attorno al volante e impressero solchi profondi nel cuoio.
 
Anthea la vide arrivare, la resa di quello che era stato – e probabilmente era ancora – un nemico. Si chiese se anche per individui come Rumlow esistesse la possibilità di redenzione. Si chiese se fosse possibile cambiare a tal punto da rinnegare chi si era stati per poter diventare qualcun altro.
Riuscivano già ad intravedere un numeroso gruppo di persone in lontananza. I civili. Fu allora che Rumlow emise un ringhio vibrante e sterzò per tornare indietro.
Non fu una sterzata brusca, tuttavia l’oneiriana percepì la gravità cambiare direzione e il suo sedere perse contatto con il sedile. Non capì cosa accadde e, dopo alcuni lunghissimi secondi in cui fu scaraventata da una parete all’altra del veicolo, si ritrovò schiacciata contro il parabrezza. Ci mise un po’ a realizzare che le ruote dell’auto stavano adesso puntando il cielo e che il pezzo del parabrezza su cui era atterrata era il solo rimasto integro. Cosa diavolo li aveva colpiti?
 
“No. No. No.”
 
La giovane si trascinò fuori dall’ammasso di lamiera accartocciata in cui si era trasformato il loro mezzo di fortuna. Passò attraverso il grosso buco nel parabrezza, ignorando i pezzi di vetro che le graffiarono la pelle, e si portò dietro il braccio rotto alla stregua di una inutile appendice.
Steve era a terra, steso su un fianco, qualche metro più avanti. Poco lontano giaceva invece Brock, prono e immobile sull’asfalto macchiato di sangue.
Prima che Anthea riuscisse a raggiungerlo, il biondo iniziò a tirarsi su lentamente e lei lo aiutò a tornare in piedi. Rimase al suo fianco, sostenendolo, fin quando non arrivarono a Rumlow. A quel punto, l’oneiriana rimase a guardare, mentre il compagno rigirava Brock sulla schiena e si inginocchiava sulla strada deserta.
 
“Non c’è battito.” Steve si chinò in avanti, posizionò le mani sul petto di Brock, una sull’altra, e iniziò con il massaggio cardiaco.
Nell’eseguire quell’azione meccanica e ripetitiva, l’espressione del super soldato si fece tesa, sofferente, a tratti smarrita. “Andiamo, figlio di puttana. È davvero così che vuoi morire?” ci mise più forza, rischiando quasi di spezzare le costole.
 
Anthea poteva vederla, l’energia vitale di Rumlow abbandonare il corpo, un po’ alla volta. Eppure, non disse nulla. Rimase in silenzio dinanzi il disperato tentativo di Steve di riportarlo indietro – e pensare che Brock Rumlow aveva tentato di ammazzarlo così tante volte.
 
“Uno in meno.”
 
Sollevarono lo sguardo, ma Steve non interruppe il massaggio cardiaco, continuò imperterrito sotto lo sguardo assassino di un mostro colossale, che ora si stagliava in prossimità del veicolo distrutto. Ecco cosa li aveva colpiti.
Il mostro era già troppo vicino, affinché potessero sfuggirgli senza lottare. Per rincarare la dose, un’auto grigia giunse a tutta velocità e frenò bruscamente, lasciando lunghe strisciate nere sull’asfalto. Dal veicolo scesero i quattro soldati d’inverno ancora in vita.
L’oneiriana percepì distintamente l’influsso manipolativo di Adam Lewis che aleggiava su ognuno dei nemici. Non erano pienamente in loro, anche se non ne avevano la consapevolezza. Si sarebbero tramutati in burattini, burattini privi di volontà ignari di averla perduta.
 
“Abbiamo ricevuto un contrordine. A quanto pare, avete fatto incazzare parecchio Lewis” annunciò Markov “La vostra corsa finisce qui.”
 
In lontananza, si potevano scorgere le sagome dei mostruosi potenziati che invece – per loro fortuna – si stavano allontanando per raggiungere Lewis e prestargli aiuto, segno che le ombre stavano ancora resistendo. Intorno al centro commerciale, la foschia si era tinta di un rosso scarlatto.
Grida spaventate raggiunsero le loro orecchie e, solo allora, si resero conto di non essere riusciti ad allontanarsi abbastanza dai civili – non ne avevano avuto il tempo.
 
“Steve” Anthea inorridì nel sentire tremare la propria voce in modo così indignitoso. “Dobbiamo muoverci. Rumlow è andato…”
 
Ma Steve non desistette.
 
“Non sprecare energie per un morto che presto raggiungerai.” Abominio accorciò la distanza che lo separava da loro.
 
Anthea si mosse di riflesso e si frappose fra il compagno e il mostro. Non poteva essere un muro invalicabile. Non poteva neppure usare entrambe le braccia. Ma quel mostro avrebbero dovuto passare sopra il suo cadavere prima di arrivare a Steve.
 
“Finirai schiacciata, moscerino” la avvisò Abominio.
 
Fu come un leggero mormorio, un sussurro che si confonde con il sibilo del vento. L’oneiriana captò il cuore di Brock Rumlow ricominciare a battere. Pochi attimi dopo, una decisa stretta sulla spalla la tirò indietro e la schiena di Steve le coprì parte della visuale sul mostro colossale.
 
“Per lui sarebbe stato meglio se fosse rimasto morto” proferì la Smirnova, indicando Rumlow.
 
“Non ha tutti i torti” balbettò il diretto interessato, che si mise seduto in modo goffo. Era cadaverico ma vivo. Con evidente sforzo si alzò in piedi e sfregò il dorso della mano destra contro l’angolo della bocca, ripulendolo da un rivolo di sangue.
 
“Allontanatevi” ordinò Rogers e, sotto lo sguardo allarmato di Anthea, avanzò verso i nemici, la schiena tesa, le spalle dritte, la testa alta e l’espressione fredda. Avrebbe combattuto pur sapendo di non avere possibilità di vincere da solo e nelle condizioni in cui versava. Avrebbe dato la sua vita senza esitare.
 
“Non puoi farcela e noi non andremmo lontano” Rumlow lo disse senza nascondere una certa rassegnazione. Pur volendo, non avrebbe potuto sostenere un combattimento di tale portata – non avrebbe potuto sostenere alcun tipo di combattimento.
 
Anthea dedicò una fugace occhiata a Brock, prima di tornare a concentrarsi sul suo resiliente compagno. No. Steve non poteva farcela e lo sapeva benissimo anche lui. Tuttavia, non indietreggiava.
E lei? Cosa stava facendo? Stava permettendo al dolore e alla paura di controllarla e avrebbe portato tutti a fondo con lei, solo perché era incapace di reagire. Per troppo tempo aveva avuto paura, tanto che era diventata parte di lei senza che se ne rendesse conto. La spavalderia che spesso aveva mostrato era sempre stata una patetica copertura, la quale aveva finito per crollare come un castello di carte. Aveva smesso di combattere la paura, aveva lasciato che vincesse.
La persona che amava era lì, proprio dinanzi a lei, ed era certa che anche lui aveva paura in quel momento, però non lasciava che la maledetta paura lo intralciasse.
 
‘Smettila di comportarti da codarda. Non puoi davvero rimanere ferma a guardalo morire.’
 
Anthea spezzò tutti i fili argentei rimasti che la legavano alle ombre. Le lasciò andare tutte, lasciò che le loro energie uscissero dal limbo per seguire il naturale corso della morte. Chiuse gli occhi e le sentì vibrare un’ultima volta, ognuna di loro. Un vuoto le si aprì nel petto e, quando risollevò le palpebre, fissò lo sguardo sulla schiena di Steve e premette la mano destra all’altezza del proprio cuore.
 
Tum. Tum.
 
Eccolo. Poteva sentirlo tornare a galla, risalire il pozzo scuro in cui era stato relegato per anni e che le anime legate a lei avevano tenuto sigillato fino ad allora.
 
Tum. Tum.
 
Tornare indietro non sarebbe stato possibile. Anthea aveva appena oltrepassato il punto di non ritorno.
 
Tum. Tum.
 
 
 
“Ci sono ancora tante cose che voglio fare perciò non ho nessuna intenzione di mandare tutto in fumo.”
 
 
 
“Andate. Guadagnerò tempo” la voce di Steve riportò Anthea alla fredda e terrificante realtà.
 
“Non ti lascio solo” protestò l’oneiriana.
 
“Non preoccuparti, ragazzina. Nessuno andrà da nessuna parte” Markov si fece avanti, seguito dagli altri soldati d’inverno.
 
Anthea si trovò d’accordo. Non sarebbe andata proprio da nessuna parte, per quanto la cosa potesse apparire poco saggia. L’influsso di Lewis era appiccicato addosso ai loro nemici, li aveva permeati arrivando abbastanza in profondità da renderli schiavi. Il grigiore degli arti ne era una prova evidente. Quell’influsso permetteva a Lewis di avere il controllo, ma avrebbe permesso a lei di raggiungerli per mezzo dell’unica difesa che ancora possedeva.
Avrebbe chiesto alle ombre un ultimo favore, nonostante non avesse alcun diritto di farlo e nonostante ci fosse la possibilità che loro decidessero di non concederglielo.
 
“Ci siamo. Capolinea” fu Rumlow a pronunciare tale verdetto e non si prese nemmeno la briga di muoversi, consapevole che non avrebbe fatto alcuna differenza. Tuttavia, sussultò vistosamente nell’esatto momento in cui Abominio si fece avanti, segno che nel profondo non voleva che finisse così, senza neppure avere la possibilità di combattere e morire in modo dignitoso.
 
“Ti arrendi di già, Rumlow?”
 
“Mi prendi in giro, strega?”
 
Strega. Ancora quell’appellativo poco lusinghiero che Rumlow perseverava nel voler utilizzare con fin troppa leggerezza. Anthea però ci sarebbe passata sopra di nuovo. Magari se lo sarebbe giusto segnato per una occasione futura, perché aveva tutta l’intenzione di uscire da lì.
 
“No, affatto.”
 
“Allora devi aver sbattuto forte la testa per non renderti conto che siamo finiti.”
 
“Perché siete ancora qui?” si intromise Steve.
 
“Te l’ho già detto. Non ti lascio solo.” E a sostegno dell’affermazione, l’oneiriana affiancò il suo compagno.
 
“Io me ne sarei già andato se avessi avuto la forza di correre. Sfortunatamente, sono appena quasi morto” fece invece notare Brock.
 
“Basta parlare. Facciamola finita una volta per tutte.”
 
A quanto pareva, la brutta copia di Hulk stava perdendo la pazienza e non avrebbe più indugiato. Avrebbe sbarrato loro ogni scappatoia e li avrebbe annientati per soddisfare il volere di Lewis, la cui presenza era palpabile persino adesso. Fu quella stessa presenza ad innescare la reazione nella quale Anthea aveva risposto le sue stropicciate speranze.
Giunse la foschia e con essa arrivarono le ombre, le quali si aggrapparono ad Abominio e fermarono la sua avanzata, sfruttando la scia di potere che lo legava a Lewis. Le ombre non furono in grado di toccare i soldati d’inverno, perché l’influsso che Adam aveva usato per soggiogarli era troppo debole, non sufficiente ad aprire un passaggio. Tuttavia, i soldati non potevano sapere cosa erano in grado di fare le ombre e istintivamente si tennero a distanza da esse.
 
“È opera tua?” gli occhi chiari di Steve erano diventati più limpidi, perdendo ogni segno di freddezza. Era bastato così poco per donargli un po’ di speranza e Anthea dimenticò per qualche istante il vuoto che si allargava, inesorabile, nel petto.
 
“Ho chiesto un favore” si limitò a rispondergli l’oneiriana. “Ma non posso fare niente per loro” aggiunse, indicando con un cenno del capo i super soldati.
 
“Hai fatto abbastanza. Ora lascia fare a me e mettiti al sicuro.”
 
Steve non le diede il tempo di ribattere, perché si mosse rapido per sfruttare al massimo l’opportunità che Anthea era riuscita a creare.
La giovane fece per andargli dietro, ma un paio di braccia le circondarono la vita e la sollevarono da terra, impedendole di avanzare. Al contrario, fu trascinata indietro, sempre più distante dal suo compagno. Colpì con la mano sana le braccia che la tenevano stretta, ma invano.
 
“Lasciami” gridò in preda alla frustrazione.
 
“Calma, strega. Gli saresti solo d’intralcio” non c’era alcuna vena di sarcasmo nel tono che Rumlow aveva appena usato per sbatterle in faccia la dura verità.
 
“E quindi vuoi scappare? È questo che vuoi fare?” lei non voleva rassegnarsi, non ci riusciva. “Lui ti ha salvato la vita e tu…”
 
“Non gli ho chiesto io di salvarmi.” Rumlow se la caricò di forza su una spalla e continuò a mettere quanta più distanza possibile fra loro e i nemici.
 
La Smirnova e Jian corsero loro dietro, decisi a non lasciarseli scappare. Lo sportello dilaniato dell’auto distrutta investì la donna, gettandola a terra. Jian si girò indietro e si ritrovò ad un passo da Rogers, che gli infilò una ginocchiata nello stomaco talmente forte da fargli sputare sangue. Mezza rotazione fu sufficiente al Capitano per caricare un calcio dritto al volto di Markov, che era stato sul punto di aggredirlo alle spalle. Il biondo seguitò con un calcio frontale che spinse Josef contro Abell, fermando così anche l’avanzata di quest’ultimo.
 
“Gran bel lavoro, Rogers” si lasciò sfuggire Rumlow, con una chiara nota di soddisfazione, e procedette con il piano di lasciare al super soldato l’onere di occuparsi dei nemici.
 
“Ti prego, Rumlow. Non possiamo lasciarlo” lo supplicò Anthea. “Se si concentreranno solo su di lui…”
 
“Batroc e i miei uomini sono vicini. Se arriviamo a loro, possiamo chiedere supporto.”
 
Brock voleva aiutare Steve. Voleva davvero aiutarlo, non stava fuggendo per salvarsi la pelle. Al contrario di quanto stesse facendo lei, Brock stava pensando in modo lucido e razionale.
 
“Okay, va bene, ma mettimi giù. Posso camminare sulle mie gambe.”
 
Rumlow esitò ma, essendo parecchio malconcio, finì per cedere alla richiesta dell’oneiriana e la riportò con i piedi per terra.
Anthea rivolse a Steve un ultimo sguardo. Il suo compagno stava lottando con i quattro soldati d’inverno, nonostante avesse oltrepassato i suoi limiti da un pezzo. Inoltre, la giovane non sapeva per quanto tempo le ombre sarebbero state in grado di trattenere Abomino. E poi c’era Lewis…
 
“Devo abbattere la barriera.”
 
“Puoi farlo davvero, strega?”
 
“Troverò il modo. È pur sempre fatta del mio maledetto potere.” Il suo maledettissimo potere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Due anni prima
Asgard

 
 
“Dei mutaforma non è rimasta che cenere.”
 
Andras osservò la polvere che si sollevava ad ogni suo passo, mentre avanzava su un terreno diventato arido e nero come la pece.
 
“Non ho mai visto niente del genere.”
 
Damastis sembrava sinceramente turbato ed era un chiaro segno della gravità della situazione.
 
“Nemmeno suo padre poteva farlo?” gli chiese Andras. Dopotutto, Azael era colui che aveva avuto accesso a capacità che erano andate oltre l’ordinario.
 
“No. O almeno, non che io sappia. Ogni traccia di vita è stata annichilita. Non credo che questo terreno potrà essere risanato.”
 
“All’apparenza sembravano fiamme, ma non potevano essere semplici fiamme, giusto? Non era manipolazione di energia elementale.”
 
“No, non lo era figliolo. Credo che la giovane sia stata profondamente segnata da ciò che ha vissuto e che il suo potere abbia finito per assumere forme a noi incomprensibili.”
 
“Cosa dovremmo fare?”
 
Damastis scosse il capo, ma non disse niente. L’anziano posò lo sguardo sulla cenere nera che ricopriva il terreno. Aveva un’espressione greve e preoccupata, incrinata dall’incertezza. Nemmeno lui sapeva come affrontare una situazione tanto delicata.
 
“Gli anziani del Consiglio vogliono delle risposte e le sono già addosso” gli ricordò Andras.
 
“La temono. Così come temevano suo padre Azael.”
 
“E tu la temi, Damastis?”
 
“No, non la temo. Per lei provo rispetto, affetto persino. Ma più di tutto, una profonda tristezza.”
L’espressione di Damastis si ammorbidì e si dipinse di quella tenerezza che solo un volto segnato dal tempo è capace di esprimere.
 
“Lei ti ha detto qualcosa su… quello che è successo?” domandò il guerriero oneiriano, sperando che Anthea si fosse aperta almeno con l’anziano.
 
“Non una parola. Credo che nemmeno lei abbia coscienza della natura del proprio potere.”
 
“E tu puoi aiutarla?”
 
“Posso guidarla mettendo a sua disposizione ogni mia conoscenza. Ma solo lei ha la facoltà di decidere chi vuole essere e cosa fare di ciò che ha dentro.”
 
“Potrebbe trasformare tutto in cenere. Sei davvero certo che concederle il beneficio del dubbio sia la cosa giusta da fare?”
 
“Lei merita il nostro beneficio del dubbio, non credi?”
 
Andras non rispose alla domanda. Soppesò ogni parola pronunciata da Damastis e i pensieri fluirono verso il tempo passato al fianco della giovane oneiriana.
 
“Le fiamme di Anthea sono potenti e questo è un buon punto per far passare la strada principale, che finirà per coprire tutto.” Andras sollevò un angolo della bocca e scambiò uno sguardo di intesa con l’anziano Damastis.
 
Andras le avrebbe concesso il beneficio del dubbio. Dopotutto, Anthea li aveva protetti senza chiedere niente in cambio. Tuttavia, se ci fosse stata la concreta possibilità che la giovane riducesse in cenere ogni cosa, allora l’avrebbe fermata con qualsiasi mezzo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Presente
 
 
Era l’ultima frontiera, l’ultima linea di difesa e lo sarebbe rimasto finché la barriera non fosse crollata.
Mai come in quel momento, aveva sentito la mancanza degli sproloqui di Tony che monopolizzavano le comunicazioni, delle frecciatine di Barton che allentavano la tensione, della rassicurante ombra alata di Sam che si stagliava e correva sul terreno e persino delle manie distruttive di Hulk e Thor. Quanto avrebbe voluto sorbirsi una di quelle lavate di capo che solo Bucky era in grado di rifilargli. La realtà però era che loro non c’erano, non ancora. Aveva l’impressione – con molta probabilità dettata dalla stanchezza che gli annebbiava la mente – di percepire la loro smania di volerlo raggiungere e riusciva ad immaginare con irrisoria facilità tutti i loro sforzi atti a demolire l’unico ostacolo che li separava, nonostante fossero così vicini. Loro non si sarebbero arresi e nemmeno lui lo avrebbe fatto. Ormai era poco saggio pensare alle scelte che li avevano condotti lì. C’erano poche cose davvero importanti adesso. Salvare quante più vite possibili e fermare Adam Lewis in modo definitivo, affinché l’incubo da lui alimentato e cresciuto a dismisura sfumasse per sempre.
E forse Anthea sarebbe stata finalmente libera di vivere la sua vita. Forse avrebbe potuto regalarle un po’ di quella serenità che lei, senza neppure accorgersene, gli aveva donato da quando si era stabilita sulla Terra. Steve non le aveva mai detto che era solo merito suo se la notte – o in quelle poche ore di sonno concesse – era stato in grado di tornare a dormire, senza che gli incubi venissero a fargli visita. Lei emanava una luce ed un calore di cui non era consapevole. Però Steve sapeva – lo sentiva – che c’era qualcosa dentro di lei, qualcosa che cercava di affievolire quella luce e di soffocare quel calore.
Anthea si sforzava di essere forte, voleva convincersi di aver superato un passato intessuto di dolore, solitudine e paura, ma come avrebbe potuto? Quel passato la stava ancora perseguitando, eppure lei si era concentrata solamente sul come poter aiutare loro – e lui – a rimettere insieme i pezzi. Anthea aveva curato le ferite di altri con ogni mezzo a sua disposizione e, invece, si era accontentata di rattoppare le proprie ferite con qualche cerotto stropicciato, incurante del fatto che continuassero a sanguinare.
Quindi, sì. La battaglia che Steve stava combattendo era anche personale e non perché Lewis aveva cercato di fargli il lavaggio del cervello. Era personale perché Adam Lewis era il mostro che aveva torturato la fragile bambina che aveva visto vagare nella foschia, sola e terrorizzata, nella disperata ricerca di qualcuno che le tendesse una mano e la rassicurasse. Steve aveva cercato di non pensarci, aveva cercato di concentrarsi sulla battaglia. Tuttavia, continuare a sfiorare la morte aveva fatto riemergere emozioni scottanti, le quali stavano sciogliendo la maschera di gelida concentrazione che si era cucito addosso con l’intento di mantenere una parvenza di controllo.
Se ne fosse uscito vivo… no, se ne fossero usciti vivi, Steve avrebbe riempito le mancanze che avevano pesato sulle spalle delle persone che gli erano rimaste accanto nonostante tutto. Tuttavia, la situazione non era delle migliori attualmente.
 
“Sei duro a morire, biondino” gli concesse la Smirnova, mentre lo approcciava di nuovo.
 
Steve sollevò un angolo della bocca e questa si piegò in un sorriso affilato. Ai suoi piedi giaceva Jian, con i denti rossi di sangue e un braccio che aveva assunto una posizione innaturale.
No, non era duro a morire. Steve si stava disperatamente, irrimediabilmente, testardamente aggrappando a tutto ciò che gli era rimasto, alle ultime forze che muovevano il corpo, ai brandelli di resistenza che il siero ancora gli concedeva.
 
“La disperazione ha un potere da non sottovalutare” riecheggiarono le parole di Lewis.
 
Markov si stava avvicinando alle sue spalle, mentre Abell stava arrivando da destra. Darya invece era faccia a faccia con lui e lo stava studiando, in cerca di falle che le avrebbero permesso di affondare il colpo.
Steve inspirò dal naso ed espirò lentamente, facendo scivolare fuori l’aria fra le labbra schiuse. Quando i tre soldati d’inverno lo attaccarono in modo quasi simultaneo, non si mosse subito. Attese. Attese che fossero abbastanza vicini e solo allora caricò il peso del corpo sul piede destro. Si spinse verso sinistra, continuando però a dare le spalle a Markov e mantenendo la guardia alta, a proteggere il viso e i punti sensibili della mandibola. Piegò le ginocchia, quel tanto che bastò per avere una posizione più stabile, e fece partire il calcio sinistro, compiendo tre quarti di una rotazione completa sulla punta dello stivale destro. La tibia si scontrò con l’avambraccio di Markov, che riuscì a proteggere la faccia in extremis, ma fu comunque spinto via dalla forza impressa nel calcio.
Rogers utilizzò lo slancio per compiere l’ultimo quarto di rotazione e il gomito destro si schiantò sullo zigomo della Smirnova, un attimo prima che lei riuscisse ad arrivare a lui. Il colpo la stordì e la fece spostare sulla traiettoria di Abell, il quale fu costretto a scansarla e si ritrovò così sulla traiettoria di un calcio frontale del Capitano.
Steve percepì lo sterno di Abell flettersi sotto la suola dello stivale e si preparò a scattare in avanti per neutralizzarlo. Tuttavia, un calcio piazzato sulla ferita aperta del fianco sinistro – l’ultimo ricordo che gli aveva lasciato Benson prima che Rumlow lo ammazzasse – lo fece pigiare in avanti ed annaspare come un pesciolino fuori dall’acqua. Markov era stato dannatamente rapido e Rogers non l’aveva visto arrivare.
Josef si fece avanti ancora una volta e Steve tentò di ripristinare la distanza di sicurezza per riprendere fiato, ma non fu abbastanza veloce da evitare che le dita del nemico gli si allacciassero dietro il collo. Il Capitano si aggrappò agli incavi dei gomiti del soldato d’inverno, intenzionato a staccarselo di dosso. Markov ghignò e gli rifilò una ginocchiata dritta sulla ferita al fianco – di nuovo. Ripeté l’azione una seconda e una terza volta. Steve vide nero e Josef ne approfittò per caricarselo su una spalla, solo per poterlo sbattere con violenza sopra il cofano di un’auto. La lamiera grigia si stropicciò alla stregua di carta pesta e una ragnatela di crepe si disegnò sul parabrezza, nel punto di impatto con la nuca del Capitano.
Incastrato fra l’auto e il corpo massiccio di Markov, Rogers bloccò entrambi i pugni con cui il soldato d’inverno cercò di spaccargli la faccia senza troppi complimenti. Le dita dei due super soldati si intrecciarono ed entrambi fecero forza sulle braccia. Mentre il Capitano tentava di spingere via il nemico, quest’ultimo faceva di tutto per tenerlo giù, contro la lamiera sempre più infossata e scricchiolante.
 
“Sono io il più forte” gli soffiò in faccia Markov e si sospinse in avanti per piantare il ginocchio destro nel fianco leso del Capitano, i cui denti si serrarono con violenza, in risposta al dolore che gli provocò.
 
Nonostante la vista annebbiata, Steve vide la Smirnova e Jackson avvicinarsi alle spalle di Markov e si scontrò duramente con l’inesorabile realtà che neppure la disperazione – per quanto grande fosse e lo era, lo era davvero – avrebbe potuto concedergli il potere necessario a prevalere. Era solo un uomo, dopotutto.
 
“No, di lui mi occupo io. Voi fate fuori gli altri due. Non saranno andati lontano in quelle condizioni” ordinò Josef, senza distogliere lo sguardo dal viso contratto del biondo.
 
Adrenalina, disperazione, persino il panico, niente fu abbastanza affinché Rogers fosse in grado di sopraffare Markov in quel momento.
Steve stava crollando e con lui sarebbe crollata l’ultima linea di difesa. Josef torreggiava su di lui, ciuffi di capelli neri gli erano ricaduti sulla fronte e gli adombravano lo sguardo duro, penetrante e dal luccichio sadico. Più il Capitano affondava e più le sue braccia tremavano nello sforzo di resistergli, più il soldato d’inverno snudava i denti in un sorriso vittorioso da perfetto psicopatico. Steve avrebbe tanto voluto avere la forza di cancellargli dalla faccia quel dannato sorriso. No, non fu in grado di cancellarlo. Tuttavia, il sorriso sparì assieme a Markov stesso e il Capitano si ritrovò a fissare il cielo sopra di lui, libero dell’ingente peso che lo aveva tenuto bloccato.
 
“Ancora tu, maledetto moccioso.”
 
Steve rotolò giù dal cofano dell’auto e poi si appoggiò ad esso per tornare in piedi. Proprio davanti ai suoi occhi, trovò la schiena ritta e tesa di Daniel, che adesso si frapponeva fra lui e Markov.
 
“Non ti è bastata la lezione dell’ultima volta?” lo derise il soldato d’inverno. “Porti ancora i segni addosso.”
 
Daniel non si scompose, né parve minimamente toccato dalle parole del nemico che, durante il loro primo scontro, lo aveva quasi ammazzato. Il moretto aveva ancora un occhio iniettato di sangue e lividi sparsi sul viso – oltre che ematomi su tutto il corpo, coperti dai vestiti.
Steve stentò a riconoscere il ragazzo con cui aveva condiviso gli ultimi mesi e che aveva dimostrato di essere degno di fiducia e rispetto. Non c’entravano niente i lividi, ma si trattava dell’aria che emanava, della postura, dell’espressione che conferiva maturità al viso giovane. Daniel Collins era maturato, era cresciuto sia a livello fisico che mentale. Era un diamante grezzo che custodiva in sé la potenzialità di brillare come pochi e sapeva mostrare alle persone che gli erano vicino le sfumature di colore che si potevano nascondere in un singolo raggio di luce, anche il più pallido e sottile. Steve aveva visto il potenziale celato dietro la figura di un ragazzo all’apparenza normale, su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo.
Eppure, adesso, quello stesso ragazzo normale era in piedi di fronte a lui, pronto ad affrontare nemici fuori dalla sua portata e pronto a rischiare la sua stessa vita pur salvarne altre. Ed era la sferzata di speranza di cui Steve aveva bisogno.
 
“Devi fermare loro. Ci penso io qui.”
La voce di Dan era ferma, decisa, ma le iridi cerulee erano calde e rassicuranti, segno che la sua anima non era stata ancora corrotta da tutto lo schifo in cui erano affondati fino al collo.
“Avanti, Cap. Muoviti” fu la successiva esortazione di Collins, accompagnata da uno sguardo penetrante e che chiedeva fiducia.
 
“Grazie” fu l’unica cosa che Steve riuscì a dire, mentre si muoveva nella stessa direzione dei due soldati d’inverno che erano partiti all’inseguimento di Brock e Anthea.
 
“Tu non andrai da nessuna parte.” Markov si mosse a sua volta, intenzionato a finire ciò che aveva iniziato con Rogers.
 
Tuttavia, Dan mantenne la propria posizione, sbarrandogli la strada.
 
“Se vuoi lui, prima dovrai vedertela con me.”
 
“Ti farò a pezzi, moscerino.”
 
“Accomodati.”
 
Steve si girò indietro un’ultima volta e vide Daniel prepararsi a ricevere l’offensiva di Markov. Il ragazzo fissava il nemico a testa alta, senza mostrare alcun segno di paura o esitazione. Era nello Stato di Grazia che ogni combattente anelava, uno stato di pura e infrangibile concentrazione, dove sensi, percezioni, istinto e automatismi acquisiti raggiungevano la loro massima espressione.
Steve sperò con tutto se stesso che fosse sufficiente affinché Dan potesse rallentare per un po’ Markov. Il ragazzo doveva tenere duro solo per un po’, il tempo che gli era necessario per mettere fuori gioco gli altri due soldati d’inverno. Poi, Steve sarebbe tornato da lui.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il muscolo della gamba destra si lacerò nel momento in cui la lama affilata del pugnale si conficcò nella carne e lei andò giù senza riuscire ad opporre resistenza. Non ebbe neppure il tempo di gridare, ma riuscì a frapporre le mani fra la faccia e il duro asfalto.
 
 
Fa male… voglio…
 
Tum. Tum.
 
 
“Dannazione! Ci hanno raggiunti!” Rumlow la afferrò per un braccio e la tirò su di forza, fra una imprecazione e l’altra. “Ma che…” l’uomo rimase senza parole, l’espressione congelata in una maschera di incredulità e paura. D’istinto, si ritrasse e ruppe il contatto, allontanandosi da lei.
 
Anthea all’inizio fu confusa dalla reazione e rimase immobile, con il peso del corpo a gravare sulla gamba sana, mentre il sangue scivolava dal retro della coscia, nel punto in cui era conficcato il pugnale. Poi, la giovane voltò il capo alla sua destra e osservò il proprio riflesso sul finestrino di un’auto.
 
 
Tum. Tum.
 
 
“Avevo mirato più in alto.”
 
La Smirnova richiamò l’attenzione di Anthea, che continuò a darle le spalle, incurante del pericolo.
 
“La lascio a te. Io penso a lui” asserì la voce di Abell e l’oneiriana registrò a malapena la presenza dell’uomo, il quale le passò di fianco per arrivare a Rumlow.
 
“La paura ti ha immobilizzata?”
Le parole della Smirnova parvero provenire da una dimensione lontana.
 
Paura? No. Era puro terrore quello che le aveva congelato le membra. E non era la donna dagli occhi di ghiaccio la fonte di tale graffiante e annichilente sentimento.
 
Anthea percepiva la presenza di Darya sempre più vicina, pressante, eppure lo sguardo non voleva saperne di staccarsi dal riflesso distorto che la fissava dal finestrino dell’auto. Suo malgrado, sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo, una volta tagliati tutti i legami con le anime. Tuttavia, saperlo non era servito a prepararla per ciò che sarebbe accaduto.
 
 
Tum. Tum.
 
 
“Sta’ lontano da lei.”
 
Steve.
 
Anthea si riscosse dallo stato di apatia e fronteggiò Darya, il cui sguardo glaciale era adesso rivolto a Steve.
Il super soldato le rivolse una rapida occhiata, forse per sincerarsi che stesse bene, e all’oneiriana non sfuggì il singulto della mascella, né l’irrigidirsi delle spalle. “Non guardarmi così, va tutto bene” avrebbe voluto dirgli Anthea, ma sarebbe stata una sporca menzogna.
 
“Che scherzo è questo? Cosa…”
 
Anche la Smirnova aveva spostato l’attenzione sull’oneiriana  e, allo stesso modo di Rumlow, si ritrasse, allontanandosi. Allora Anthea sorrise mesta, mentre Steve approfittava di quella distrazione per mettere fuori gioco la donna dagli occhi si ghiaccio.
La Smirnova crollò a terra, priva di coscienza, e l’attimo dopo Steve era in ginocchio di fronte alla sua compagna, intento a sfilarle il pugnale dal retro della coscia con delicata fermezza.
Anthea fu comunque aggredita da un dolore lancinante, l’acre odore del sangue le riempì il naso con prepotenza e tutto divenne grigio e freddo.
 
 
Tum. Tum.
 
Fa male… voglio che tutto finisca…
 
 
“Anthea, guardami. Andrà tutto bene.”
 
Una sferzata di azzurro infranse il denso grigiore e portò con sé un familiare calore. Le mani di Steve erano ai lati del suo viso – lui non si ritraeva, lui non fuggiva – e le stava parlando.
 
“Mi avevi detto che ci sono ancora tante cose che vuoi fare e che non volevi mandare tutto in fumo. Perciò non arrenderti adesso, ti prego.”
 
“Fa male.”
 
“Lo so, ma ti prometto che non farà male per sempre.”
 
“Fa così male… io…”
 
“Puoi farcela. Sono qui e ti aiuterò a…”
 
 
Il fischio acuto nelle orecchie, simile a grida agghiaccianti, sopraggiunse all’impatto della testa contro l’asfalto. Non si mosse, rimase immobile, sul fianco destro, con il braccio sinistro adagiato dinanzi a lei in una posizione innaturale. La chiazza di sangue che si allargava sotto la tempia era calda, densa e dall’odore pungente. Gli occhi rimasero aperti, sbarrati quasi, e gridavano per lei, in silenzio.
Riusciva a vedere Steve, alcuni metri più avanti, la schiena pressata a terra dal piede mostruoso di Abominio, che gli stava schiacciando l’addome mentre ringhiava mostrando i denti. Il biondo cercava di spostare la gamba del mostro, spingendo con le braccia e facendo leva sulle gambe piegate. Tuttavia, i suoi sforzi non sortirono alcun effetto.
Nonostante il fischio costante nelle orecchie, Anthea riusciva a sentirle lo stesso, le grida strazianti del suo compagno, le sentiva vibrare sin dentro le ossa. E non poteva fare niente affinché cessassero, anche se lo avrebbe voluto, lo avrebbe voluto davvero.
 
 
“Fa male, vero? Non sarebbe meglio che tutto finisca? Perché non ti arrendi?”
 
 
Nonostante quelle domande fossero solo un eco nella testa, Anthea ebbe l’impressione che Steve le avesse udite, perché lui voltò il capo nella sua direzione, l’espressione contratta dal dolore e dalla disperazione, e scosse il capo in modo quasi impercettibile.
Improvvisamente, giunsero fino a loro vibrazioni violente del terreno e, con esse, una smisurata e familiare figura entrò nel campo visivo dell’oneiriana. Hulk stava avanzando verso Abominio, ogni passo faceva vibrare la terra. Aveva i muscoli gonfi, la mandibola tesa, i denti scoperti, lo sguardo tagliente e le vene del collo pulsavano. Tutto gridava una rabbia incontenibile. In battito di ciglia, Hulk trascinò via Abominio con la stessa violenza del risucchio che segue una gigantesca onda anomala.
 
 
Andrà tutto bene.
 
 
Anthea si tirò su, sulle ginocchia. Il sangue continuava a colarle dalla tempia e metà del viso ne era imbrattata. Con la mano destra, il cui palmo finì nella pozza vermiglia sulla strada, si diede la spinta per tornare in piedi.
Un passo alla volta finì per raggiungere Steve, ancora disteso a terra. Si lasciò cadere in ginocchio al suo fianco e gli prese una mano, per poterla stringere al petto. Curvò la schiena e le loro fronti entrarono in contatto. Steve aveva il respiro accelerato e non riusciva ad articolare neppure una singola sillaba.
 
“Andrà tutto bene” gli sussurrò dolcemente. “Andrà tutto bene.”
 
Le loro fronti si separano e Anthea fece per tornare in piedi, ma Steve non le lasciò andare la mano, la strinse fra le sue dita con la poca forza a disposizione e una muta preghiera rese liquide le iridi cerulee. Allora la giovane lo vide di nuovo, il suo stesso riflesso che si stagliava in quelle iridi così limpide e vide in esso l’ombra della morte. La metà sinistra del volto era nera come il carbone, percorsa da sottili crepe incandescenti, e quel cancro visibile si stava allargando, le mangiava la pelle e la spaccava senza farla sanguinare.
 
A volte, per distruggere un mostro era necessario un altro mostro.
 
“Andrà tutto bene” ripeté lei e sfilò la mano dalla presa poco salda del compagno.
Fece un primo passo incerto per allontanarsi da lui e, prima che potesse muovere un secondo e più deciso passo, le dita fredde di Steve le circondarono la caviglia e si aggrapparono ad essa.
 
“A…aspe…aspetta” fu il sussurro spezzato che il suo compagno trovò la forza di tirare fuori e lo sforzo fu tale da sottrargli il respiro.
 
Anthea portò a compimento il secondo passo, vincendo senza alcuna fatica la debole resistenza impressa nelle dita che tentavano disperatamente di trattenerla.
E senza più alcuna esitazione, la giovane oneiriana si trascinò verso il muro vermiglio di foschia. Un gruppo di ombre sbiadite la raggiunse e i loro corpi fumosi la circondarono, la sostennero e la spinsero in avanti, allo stesso modo di un vento provvidenziale che gonfia le vele di una barca, permettendole di uscire dalla bonaccia.
 
 
 
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
Tum. Tum.
 
 
 
Fa male. Voglio che tutto finisca.
 
 
 
 
 
 
I feel a change in the atmosphere
I never thought I’d end up back here
Divided, alone, afraid
In a breath my chains reappear
And I build it all up just to watch it fall down
And I’m digging all up what I’ve buried underground
I’m losing, I’m losing control
I’m losing control
I’m losing control
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Sono tornata e, come sempre, ringrazio tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo nuovo capitolo e un grazie speciale ai coraggiosi che continuano a seguirmi! Spero di essere riuscita ad intrattenervi almeno un po’ 😊
I versi finali in inglese sono tratti dal testo della canzone “Losing Control” dei Red.
Spero di non sparire troppo a lungo! Siamo alle battute finali! 😉
 
Un caloroso abbraccio ❤️
 
Ella
   
 
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